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Diritti di Cristello

Mi sembra che si parli molto poco, troppo poco, con quel silenzio cortese che si crea di solito per inzerbinarsi a qualche potente, della storia di Riccardo Cristello, che da 21 anni lavora all’ex Ilva di Taranto, che è stato operaio in magazzino e poi tecnico controllo costi dell’acciaieria, che ha aiutato anche in amministrazione per le fatture e che dopo una vita vissuta all’interno dell’azienda senza mai nemmeno una virgola fuori posto ora si ritrova disoccupato, licenziato per “giusta causa” solo che a guardarla da fuori la causa sembra tutt’altro che giusta.

La colpa di Cristello sarebbe quella di avere condiviso sul suo Facebook (e ci potete scommettere che Riccardo non sia propriamente un influencer capace di raggiungere milioni di persone) una lettera non sua, arrivata da un gruppo watshapp, in cui si invitava a seguire in televisione la fiction Svegliati amore mio (un programma con Sabrina Ferilli, eh, mica un pericoloso documentario di giornalismo di inchiesta) in cui si denunciano i danni che il siderurgico provoca in termini di salute pubblica. Sia chiaro: la serie televisiva non è sull’ex Ilva e non ha riferimenti su niente.

Seduto sul divano Riccardo Cristello e sua moglie devono avere pensato che valesse la pena sprecare una serata per un argomento così vicino alla loro vita e alla vita dei loro concittadini, in quella Taranto dove quasi tutti hanno un amico o un parente ucciso dalla gestione criminale dell’acciaieria, ben prima che arrivasse ArcelorMittal a gestirla.

«Dopo anni di rapporti umani vissuti nella fabbrica, mi hanno chiamato la domenica delle Palme dicendomi che c’era un problema di numero e che dovevo rimanere in cassa integrazione per una settimana. In verità mi stavano sospendendo per poi licenziarmi, senza nessun avvertimento, nessuna telefonata, se non la raccomandata col provvedimento», racconta in un’intervista a Repubblica Cristello. Licenziato così, su due piedi, per un post su Facebook che ha fatto rumore solo dopo il licenziamento. Una scelta di marketing tra l’altro che grida vendetta per stupidità e per cretineria.

Poi, volendo vedere, ci sarebbe anche quella vecchia questione dei diritti da rispettare, della politica che dovrebbe alzare la voce (almeno una parte) e di una violenza che ha distrutto la vita di una persona. «Ho l’impressione di essere il capro espiatorio. Lo spirito sembra sia quello di punirne uno per educarne cento. Non possiamo più parlare, non possiamo più commentare, dobbiamo stare zitti e basta», dice Cristello.

Viene da chiedersi se in questo periodo in cui alcuni vedono “dittatura” dappertutto non sia il caso di alzare la voce per una situazione del genere: c’è dentro il diritto al lavoro, il diritto alle proprie opinioni (che tra l’altro nulla c’entrano con l’azienda) e soprattutto c’è il diritto di dire forte che Taranto è stata devastata e sanguina ancora.

Aspettiamo con ansia.

Buon martedì.

Nella foto frame da una videointervista del Corriere della Sera

Un continente in movimento

TOPSHOT - Commuters walk on the Mombasa floating bridge connecting the mainland and the island as ferry services are paused in commuting hours, 5:00 to 8:30 and 15:00 to 19:00, to curb the spread of the Covid-19 in Mombasa, Kenya, on March 31, 2021. (Photo by Dihoff MUKOTO / AFP) (Photo by DIHOFF MUKOTO/AFP via Getty Images)

Sembra impossibile uscire dalla narrazione provinciale sull’immigrazione, stando all’opinione pubblica e al dibattito politico europeo. Ci si concentra sulle 8.162 persone sbarcate in Italia nel 2021 al 2 aprile e si perde di vista quanto accade nel continente africano, a cui si guarda con timore. Leggendo un rapporto dell’Africa center for strategic studies, dove viene segnalata una correlazione fra pandemia e spostamenti delle persone, si trova conferma che sia i numeri che l’intero contesto vadano radicalmente rivisti. Nel 2020, e l’anno in corso lo conferma, una parte enorme delle migrazioni intraregionali che interessano almeno l’80% degli spostamenti, ha subito cambiamenti tali da mettere in pericolo milioni di persone il cui sogno non è in Europa. I movimenti più numerosi avvengono dall’Africa sub sahariana verso i Paesi nordafricani e per ragioni di lavoro.

Ma all’esplodere della pandemia il Senegal ha preventivamente chiuso le proprie frontiere. E poiché si tratta di un Paese che ha per tanto tempo rappresentato un punto di stabilità in cui sostare prima di partire verso il…


L’articolo prosegue su Left del 9-15 aprile 2021

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Quante Malika ci sono in giro?

Sta facendo (per fortuna) molto rumore la storia di Malika, la ragazza di Castelfiorentino (Firenze) che nei giorni scorsi ha rilasciato la sua drammatica testimonianza a Fanpage.it in cui racconta di essere stata cacciata di casa, di essere stata umiliata e di essere minacciata di morte dalla sua famiglia dopo avere raccontato di essersi innamorata di una donna.

La storia ha tutti gli ingredienti della famosa “famiglia tradizionale” che si preoccupa molto più dell’orientamento sessuale dei propri figli che dei figli stessi. «Ti auguro un tumore», «Meglio una figlia drogata che lesbica», «Mi parli di altra gente? Son fortunati perché hanno figli normali, e solo noi s’ha uno schifo così», sono solo alcune delle frasi che la madre di Malika le ha rivolto con dei messaggi vocali. Il fratello da mesi – racconta Malika – la minaccia promettendole di tagliarle la gola. Lei è uscita con niente, solo quello che aveva addosso e da gennaio cerca di volta in volta una sistemazione di fortuna. Ha provato anche a ripresentarsi a casa della madre almeno per recuperare i suoi effetti personali ma la madre, di fronte agli agenti che accompagnavano la ragazza, l’ha addirittura disconosciuta.

Dopo l’uscita della notizia la mobilitazione è stata altissima: il sindaco della città si è subito attivato per aiutare la ragazza, molti cittadini si sono fatti avanti e Malika ha ricevuto anche qualche offerta di lavoro. Intanto la procura di Firenze, dopo 3 mesi e solo dopo l’enorme pubblicità che si è creata intorno all’evento, ha deciso di aprire un’inchiesta. La storia di Malika ha anche riacceso i fari sul Ddl Zan.

Insomma potrebbe sembrare una storia a lieto fine se non fosse che rimane addosso quella sensazione che c’è ogni volta che qualcosa si risolve dopo avere fatto rumore: quante Malika ci sono in giro? E la domanda giusta la pone proprio Malika intervistata da Fanpage quando dice: «Purtroppo ho dovuto sperimentare sulla mia pelle la lentezza della burocrazia italiana, che contribuisce a creare un clima di isolamento intorno a chi è vittima di odio omofobico, di bullismo, di stalking o di qualsiasi altro genere di violenza. Ho sporto denuncia contro i miei genitori il 18 gennaio 2021, ma fino a ieri l’altro non è stato fatto praticamente nulla di concreto. Ho dovuto ricorrere alla stampa per farmi sentire, sono felice che alla fine la mia richiesta di ascolto sia arrivata, ma mi chiedo: quante grida di aiuto si perdono nelle maglie della burocrazia italiana? Io ho dovuto urlare per vedere riconosciuto quello che è un mio diritto, se non l’avessi fatto sarei ancora invisibile».

Eccola, è questa la domanda.

Buon lunedì.

Nella foto un frame dell’intervista a Fanpage.it

Dad, quelle relazioni da salvare attraverso una videocamera

Foto Claudio Furlan - LaPresse 25 Novembre 2020 Milano (Italia) News Lezioni nel cortile del Liceo Bottoni per protestare la didattica a distanza Photo Claudio Furlan - LaPresse 25 November 2020 Milan ( Italy ) News Lessons in the courtyard of the Liceo Bottoni to protest distance learning

È possibile ricostruire il rapporto emotivo tra docente e allievo con gli strumenti tecnologici della didattica a distanza? E in che modo? Attorno a questi quesiti ruota la seconda puntata (di quattro) del dialogo fra un docente di scuola media e un docente universitario

Prof 2 …Però che strana sensazione parlare a una videocamera.
Prof 1 Infastidisce, certo, ma non ci dimentichiamo che stiamo parlando a dei ragazzi e a delle ragazze, a dei giovani per i quali è cambiato tutto. Molto più che per noi.
Prof 2 Che intendi?
Prof 1 Intendo che a questi ragazzi e ragazze sono state rubate stagioni preziose, stagioni che noi abbiamo già avuto e già vissuto. Per prima cosa dobbiamo entrare in questo loro disagio, prima ancora di voler insegnare qualcosa.

Prof 2 È anche vero che, almeno in teoria, questo della comunicazione a distanza, davanti a un video, a un telefonino, alla tecnologia, è molto più il loro mondo che il nostro.
Prof 1 E infatti, siamo noi docenti, ora, a dover rincorrere gli studenti in termini di medium, di modalità. Non possiamo più aspettarci che ci ascoltino soltanto perché noi siamo dall’altra parte della cathedra. Però, un qualche senso di vicinanza, per quanto sottile e sfumato, si riesce ad averlo. Dal punto di vista emotivo vedere, quando capita, anche solo per qualche istante all’inizio della lezione studentesse e studenti con una tazza di tè sulla scrivania, con i libri e i quaderni buttati sui piumoni, con i peluche e i poster attaccati alle pareti, conferisce al nostro mestiere, che è tra i più antichi al mondo, non ce lo dimentichiamo, una dimensione del tutto nuova, inattesa. È una dimensione di virtualità che un po’ mi spaventa, a dirti il vero.

Prof 2 Ti racconto quello che ho provato io. Nei primi giorni di chiusura delle scuole, l’anno passato, non riuscivo a capacitarmi di questa nuova situazione; ero stravolto, come un pugile suonato. Non poter entrare in classe tutti i giorni, non vedere i miei alunni, non poter parlare con loro ha rappresentato per me un vero shock. Mi sentivo perso, svuotato. Poi anch’io, dopo qualche difficoltà iniziale, mi sono organizzato, ho acceso la videocamera e sono riuscito a rivedere i ragazzi. Beh, entrare nelle loro case, spesso nelle loro stanze, è stata inizialmente un’esperienza curiosa, nuova, insolita. Non ho avuto mai la sensazione di violare la loro vita privata; semmai ho avuto subito la…                           (2-continua)

*-*

Gli autori: Pierluigi Barberio (Prof 2) è un professore di scuola secondaria di primo grado.
Enrico Terrinoni (Prof 1) è professore ordinario di Letteratura inglese all’Università di Perugia e traduttore.

La prima puntata di questo dialogo è stata pubblicata su Left del 19 marzo


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L’arte di tradurre non dipende dal colore della pelle

WASHINGTON, DC - JANUARY 20: National youth poet laureate Amanda Gorman arrives at the inauguration of U.S. President-elect Joe Biden on the West Front of the U.S. Capitol on January 20, 2021 in Washington, DC. During today's inauguration ceremony Joe Biden becomes the 46th president of the United States. (Photo by Win McNamee/Getty Images) | usage worldwide Photo by: Win McNamee/picture-alliance/dpa/AP Images

In questo ultimo mese si è sviluppata una polemica mondiale circa la traduzione della poesia iconica “The hill we climb” che la poetessa 22enne Amanda Gorman ha declamato in occasione della cerimonia di insediamento del neo presidente americano Biden.
I fatti riportano che in più di una circostanza dei traduttori europei sono stati licenziati o ritenuti non idonei a tradurre la poesia, in quanto il loro background non era in linea con il profilo dell’autrice. Sostanzialmente il problema principale è che fossero bianchi, anche se alcuni di loro erano anche uomini e di mezza età. Ora questo precedente ha scatenato non poche riflessioni in merito al razzismo o anche al razzismo al contrario. Fermo restando che per prima cosa bisognerebbe definire cosa sia questo benedetto “razzismo al contrario” – razzismo contro i bianchi? Oppure tendere a valutare pregiudizievolmente bene, contrariamente al valutare sempre male, qualunque persona nera solo per il fatto di essere nera? Non è però difficile immaginare che se le parti fossero state invertite le grida ad un atto razzista, quello vero e proprio, sarebbero state certe.

La riflessione però sorge spontanea: può davvero il colore della pelle, e quindi il background che ne deriva, inficiare le capacità di traduzione e adattamento di un testo di un individuo? Dopotutto non si tratta di rielaborare ex novo dei concetti che magari possono non appartenere all’esperienza di un individuo, ma di tradurre una poesia nella maniera più fedele possibile all’originale.
Posto quindi che ritengo che nel caso di una traduzione mi sembra esagerato che si facciano discriminazioni di tale sorta, sicuramente è interessante però andare ad indagare un po’ più approfonditamente la…

*-*

L’autore: Soumaila Diawara è poeta, scrittore e attivista politico maliano


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L’esigenza di fare domande, a partire dalla scuola

«C’era una volta un bambino che faceva tante domande e questo non è certo un male, anzi un bene. Ma alle domande di quel bambino era difficile dare risposta. Per esempio egli domandava: perché i cassetti hanno i tavoli? La gente lo guardava e magari rispondeva: i cassetti servono per metterci le posate. Lo so a che cosa servono i cassetti, ma non so perché i cassetti hanno i tavoli. La gente crollava il capo e tirava via. Un’altra volta lui domandava: perché le code hanno i pesci? … La gente crollava il capo e se ne andava per i fatti suoi. Il bambino, crescendo non cessava mai di fare domande». Gianni Rodari è uno straordinario osservatore dei caratteri dei più piccoli. Raccontati in Favole al telefono con serio umorismo. Ma nel caso del protagonista di “Tante domande” la morale non colpisce propriamente nel segno. Non è il bambino che non fa le domande giuste. Ma gli altri che, volendo fornire risposte convenzionali, si indispongono per quesiti inconsueti. Già, perché le domande sono necessarie. Sempre. A partire dalla scuola. Chiedere è un esercizio per allenare la propria curiosità. Per dare respiro alle idee. Farle crescere.

«Né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ‘l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore», racconta a Virgilio e Dante, nel XXVI canto dell’Inferno, Ulisse. Che nel proemio dell’Odissea è definito polutropon, cioè «colui che è capace di volgersi con la mente in varie direzioni». Perché anche questo produce la curiosità. Un’agilità mentale, altrimenti irraggiungibile. La capacità di non fermarsi. Mai. Alle parole ascoltate. Alle spiegazioni impartite. Alle notizie filtrate. La curiosità accende la fantasia. Provoca scintille che danno forma ad idee. Alimenta la complessità. Necessaria per…


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Lina Bo Bardi, creatrice di visioni collettive

Il 22 maggio, giorno dell’inaugurazione della Biennale di Architettura di Venezia 2021, il cui tema portante è il vivere insieme, vedremo attribuire a Lina Bo Bardi il Leone d’oro speciale alla memoria. Tra le motivazioni con cui il curatore della mostra Hashim Sarkis lo ha proposto ci piace qui menzionare innanzitutto quello di creatrice di visioni collettive, ma nel documento di presentazione lui ha raccontato Bo Bardi con una bellissima sintesi di cui riportiamo alcuni brani: «Se esiste un architetto che meglio di ogni altro rappresenta il tema della Biennale Architettura 2021 questa è Lina Bo Bardi. La sua carriera di progettista, editor, curatrice e attivista ci ricorda il ruolo dell’architetto come coordinatore (convener) nonché, aspetto importante, come creatore di visioni collettive. Lina Bo Bardi incarna inoltre la tenacia dell’architetto in tempi difficili, siano essi caratterizzati da guerre, conflitti politici o immigrazione, e la sua capacità di conservare creatività, generosità e ottimismo in ogni circostanza… Il Leone d’oro speciale alla memoria a Lina Bo Bardi rappresenta il riconoscimento, dovuto ormai da tempo, di una prestigiosa carriera sviluppata tra Italia e Brasile e di un contributo volto a riconsiderare il ruolo dell’architetto come facilitatore della socialità. Rappresenta infine il tributo a una donna che rappresenta semplicemente l’architetto nella sua migliore accezione».

Il nostro primo incontro con Lina Bo Bardi risale al 1994 quando a Firenze, durante la presentazione del catalogo che accompagnava nei suoi viaggi internazionali la mostra Il coraggio delle immagini, progetti realizzati da un gruppo di architetti italiani su idee e disegni di Massimo Fagioli lo storico dell’architettura Vittorio Savi colse alcune suggestive analogie tra questi lavori in mostra e l’esposizione dei lavori di Lina, entrambe si erano appena concluse a Barcellona: l’architettura come poesia nell’intreccio tra linea retta e linea curva, la poesia di una spiaggia creata nei fabbricati industriali e nelle periferie degradate, la poesia nelle finestre tutte diverse, colorate, strane. (El coratge de las imágenes 8-29 aprile 1994 e Lina Bo Bardi maggio – giugno 1994. Barcellona, Collegio d’Arquitectes de Catalunya). Da qui è sorta una forte simpatia che ha visto nel tempo crescere la nostra curiosità per alcuni aspetti della sua vita e delle sue opere che il richiamo di Sarkis ci spinge oggi a tentare a nostra volta di indagare.

Finestre come occhi: «Larghi occhi nei muri lasciano vedere ad intervalli i grigi ulivi, la roccia arida, il mare azzurrissimo». È la descrizione della “Casa sul mare di Sicilia” che si legge su Domus 152 dell’agosto 1940, numero interamente dedicato alla casa al mare. Il tema delle finestre come occhi accompagnerà Lina nel suo viaggio in Brasile dove rimarrà tutta la vita, i suoi occhi curiosi, avidi di sapere resteranno aperti sempre sul presente. Anche quando guarderà agli…


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Francesco Strazzari: La forza dell’Africa è nella sua complessità

TOPSHOT - Sahrawi women perform a dance following a military parade during celebrations marking the 45th anniversary of the declaration of the Sahrawi Arab Democratic Republic (SDAR), at a refugee camp on the outskirts of the southwestern Algerian city of Tindouf, on February 27, 2021. (Photo by RYAD KRAMDI / AFP) (Photo by RYAD KRAMDI/AFP via Getty Images)

«Nonostante la pandemia i conflitti in Africa sono aumentati. Assistiamo a una crescita esponenziale dei fenomeni legati alle formazioni islamiste che si innervano su tutta una serie di situazioni preesistenti e spesso svincolate da un’unica matrice», racconta Francesco Strazzari della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, docente di Scienze politiche e fra i massimi esperti di conflitti in Africa. «Ne è un esempio il conflitto etiope, che ha colto quasi tutti di sorpresa perché è divampato in un Paese che, almeno nominalmente, registrava dinamiche positive. Il conflitto nel Tigray – approfondisce Strazzari – è innestato su una questione islamica (perché il fronte di liberazione Oromo ambisce a rappresentare la maggioranza della popolazione etiope che è di religione musulmana) ma a ben vedere non c’entra nulla. L’oromia ha una matrice musulmana ma non è connessa al Jihādismo internazionale».

Il nostro sguardo sull’Africa tende ad appiattire la complessità?
C’è un po’ la tendenza a osservare l’Africa come fosse un unico Paese, in realtà sono più di 50 Stati. La popolazione e il prodotto lordo africano sono più o meno equivalenti a quelli dell’India e con dinamiche comparabili. Ma il punto è che stiamo parlando di 55 sistemi economici differenti che si riflettono nelle dinamiche di sviluppo, sugli investimenti in infrastrutture e su tutto ciò che serve per avvicinarsi agli obiettivi del millennio che l’Unione africana stessa ha sottoscritto. Anche, se diversamente dall’Unione europea, l’Unione africana è una organizzazione intergovernativa senza elementi sovranazionali, i fenomeni interessanti su larga scala internazionale si rifanno in larga parte a quella agenda di integrazione economica. I primi pourparler cominciarono del 2015 ma poi i passaggi decisivi si sono avuti nell’ultimo paio di anni e sono stati rallentati dalla pandemia che ha riportato l’Africa in recessione, dopo anni di crescita ininterrotta. Con costi enormi sul piano sociale perché il distanziamento fisico in economie che sono ampiamente informali ha gettato a terra varie fasce della popolazione.

Si è detto che il Covid-19 abbia fatto meno vittime in Africa per la bassa età media. Quali riscontri ha?
Sul coronavirus in Africa andrebbero dette molte cose. I media hanno parlato di un tasso di mortalità relativamente basso ma se per esempio guardiamo alle élite di governo vediamo che il Covid è molto presente e miete vittime eccellenti in diversi Paesi, anche per il fatto che chi governa ha un’età più ragguardevole. Questa idea che in Africa siano auto-vaccinati o che abbiamo sistemi immunitari più forti per via degli antimalarici e dell’idrossiclorochina sono ipotesi molto speculative. La verità è che si tratta di un continente giovanissimo ma anche che non abbiamo dati. Quando in Guinea hanno fatto delle autopsie all’obitorio hanno visto che 4 morti su 5 erano deceduti per Covid. Al momento abbiamo dati molto approssimativi sia per l’epidemiologia e che per l’economia in Africa.

L’inizio del 2021 ha visto il varo del trattato di libero scambio fra Paesi africani, segna un passaggio storico?

È un processo che nasce sul piano economico ma che potrebbe avere una spinta politica. Ma ci sono grandi sfide da affrontare. Purtroppo il continente africano ha subito l’estrattivismo e le esportazioni intra africane equivalgono al 16 per cento dei volumi prodotti. L’Africa è tutt’oggi saccheggiata ed ha flussi economici tutti in uscita, perché i soldi che vengono accumulati finiscono nelle banche europee, svizzere, ecc. Un’integrazione economica permetterebbe di cominciare a ragionare di potenziamento di investimenti intra-africani e a mettere in atto dinamiche positive. Ma ci sono aspetti critici: il primo è che i Paesi più grandi e più forti, a cominciare dalla Nigeria, vedono in una integrazione indifferenziata la perdita della propria capacità di egemonizzare questo mercato e quindi strascicano i piedi.

Una questione annosa…

È un classico nella scienza politica. È il dramma dell’azione collettiva: chi comanda quando ci si mette insieme? Ma c’è anche un altro punto critico: abolire nell’arco di una decina di anni in maniera progressiva i dazi sul 97% delle merci sul commercio intra africano significa privare gli Stati della gran parte delle loro entrate perché in Africa c’è un problema fiscale enorme che riguarda l’imposizione diretta. È difficile che in Paesi con una forte economia informale e uno spiccato problema di povertà il cittadino paghi le imposte sul reddito. La capacità fiscale dello Stato è molto bassa. Abolire i confini significa porre il problema della sostenibilità fiscale degli Stati in Africa e della loro capacità di dotarsi di strutture di ammodernamento. Non è facile far passare il principio che tutti debbono pagare le tasse sulla base impositiva proporzionale, invece che sussidiare l’economia con dei prezzi dopati e condonare gran parte dell’evasione fiscale. Introdurre dei meccanismi redistribuivi in Africa significa introdurre dei meccanismi fiscali e dare capacità allo Stato, significa produrre beni pubblici.

Come si esce da questo circolo vizioso?

Come se ne esca da questo paradosso è una sfida aperta. La domanda è: l’Africa può entrare nell’economia digitalizzata senza essere mai passata attraverso la rivoluzione industriale? Si possono saltare le tappe? Si può fare il delivery delle merci con i droni senza costruire le strade? Sì, ma fino a un certo punto. Perché si potrebbe arrivare al paradosso, per metafora, che tutti possiedono un cellulare ma nessuno ha la presa in casa per ricaricarlo. In sintesi: in Africa c’è un grande problema di elettricità e di acqua potabile. In particolare nella zona centrale larghe parti della popolazione sono off grid. La grande scommessa su scala continentale è portare elettricità, acqua potabile e infrastrutture. E quindi sviluppare la capacità fiscale dello Stato. Da questo punto di vista l’introduzione di una zona di libero scambio promette bene e al contempo rappresenta una grande sfida.

Come è andata fin qui nella parziale zona di libero scambio in atto nel West Africa?

Dove esiste già una zona di parziale libero scambio negli anni ci sono state enormi querelle doganali (se il riso potesse passare dal Togo, dal Niger, dalla zona anglofona ecc.) e sulla moneta. In quell’area la moneta tradizionale è il franco coloniale (Cfa)…la dice il lunga il fatto che sia ancora la moneta coloniale. I francesi hanno deciso di facilitare il passaggio a una nuova moneta che si chiama Eco. L’ipotesi sarebbe che l’area di libero scambio potesse avere una moneta unica, ma i ceti possidenti, piccoli ma potenti, frenano perché temono per la loro reveneu nel passaggio a una nuova valuta. È un po’ come il passaggio all’euro per l’Italia che ha creato problemi per fasce della popolazione ma anche all’industria che non riusciva più a esportare come prima. Insomma ci sono delle incognite anche dal punto di vista della valuta.


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L’inizio della fine di al-Sisi

In this photo released by Suez Canal Authority, the Ever Given, a Panama-flagged cargo ship is accompanied by Suez Canal tugboats as it moves in the Suez Canal, Egypt, Monday, March 29, 2021. Salvage teams on Monday set free a colossal container ship that has halted global trade through the Suez Canal, bringing an end to a crisis that for nearly a week had clogged one of the world's most vital maritime arteries. (Suez Canal Authority via AP)

Nella seconda metà del XIX secolo l’orizzonte che appariva alle navi in transito a Suez era piuttosto simile a quello che decine di portacontainer si sono trovate di fronte a fine marzo, quando i 400 metri di lunghezza e le 220mila tonnellate della Ever Given hanno bloccato il Canale per una settimana: lunghe attese per transitare. All’epoca quell’istmo di mare era minuscolo se paragonato all’oggi. Nei suoi primi anni di vita, dopo il 1869, passava una nave alla volta.

Il concetto di velocità dei trasporti e immediatezza delle consegne era di certo ben diverso. Navi più piccole, materiali non deperibili, lunghi viaggi da una parte all’altra del globo. All’epoca per attraversare l’intero Canale si impiegavano circa 40 ore. Ora ne bastano dieci.

A scorrerne la storia, se ne capisce la centralità: già quattromila anni fa, l’istmo venne scavato dagli egizi per collegarne i laghi naturali. L’idea di “aprirlo” ce l’ebbe per primo Alessandro Magno, poi i romani che lo allargarono per facilitare gli spostamenti dal delta del Nilo al Mar Rosso. L’idea di un’apertura vera e propria arriva con l’occupazione francese di Bonaparte. Sarà realizzata mezzo secolo dopo dal diplomatico De Lesseps su concessione del reggente egiziano Sa’id Pascià: il 17 febbraio 1867 passa la prima nave. Il 44% è di proprietà egiziana (pochi anni dopo passa ai britannici, Il Cairo era sommerso di debiti), il resto francese.

Da allora il Canale di Suez ha trasformato il…


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Luanda, le mille contraddizioni della metropoli Eldorado

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Luanda, capitale e porto principale dell’Angola, con oltre otto milioni di abitanti, è una delle tante metropoli dell’Africa sub sahariana che in questi ultimi anni si sono rese protagoniste di uno sviluppo economico notevole e rapidissimo.

Con una crescita rapida, sostenuta, negli anni passati, dall’alto prezzo del petrolio e dagli ingenti prestiti dell’Fmi e del governo cinese, la città ha mutato progressivamente aspetto e composizione sociale. Grandi edifici, nuove opere pubbliche, hotel di lusso, centri commerciali ma anche grandi opportunità d’investimento e di sviluppo sono apparsi nel giro di poco tempo e moltissime persone, per lo più giovani, attratte dall’idea di una vita migliore e differente, si sono spostate dalle province alla città. Il massiccio flusso migratorio non è stato solo interno ma anche da altri Paesi africani, dalla Cina, dal Portogallo, dal Brasile, dal Libano, tutti attratti dalle grandi opportunità che l’Angola offriva e che in verità ancora offre. Una corsa a un nuovo Eldorado che aveva convinto molti che l’Angola sarebbe stata la nuova Dubai e che i soldi del petrolio avrebbero potuto risolvere tutto. Ed effettivamente sembrava così, con le file di portoghesi che dal Portogallo chiedevano il visto all’ambasciata per venire a lavorare in Angola, con la classe media angolana che cresceva in maniera esponenziale ed era tutta proiettata alle nuove opportunità di business e con le fasce più povere della società che avevano la speranza di migliorare la propria condizione di vita.

Esemplificativo di quel momento, le zungueiras, instancabili venditrici ambulanti che…


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