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L’età della resistenza

Un anno di pandemia grava sulle nostre spalle. Per molti un anno pieno di lutti, di dolore per la perdita di persone care. Per tutti un anno di distanziamento sociale, che troppo spesso è diventato isolamento, a cui ora si aggiunge la crescente preoccupazione per quel che potrà accadere quando verrà meno il blocco dei licenziamenti, mentre la crisi economica è sempre più nera e le disuguaglianze diventano abissali. E tutto questo mentre la campagna vaccinale procede a rilento e i governi nazionali impotenti subiscono il ricatto delle multinazionali del farmaco. Tanto più in Italia alle prese con una inopportuna e irresponsabile crisi di governo.

Pur avendo addosso tutta la fatica degli ultimi 365 giorni dobbiamo ancor più cementare la nostra vitalità e resistenza a livello individuale e collettivo, sviluppare capacità di reagire e di immaginare una via d’uscita dal tunnel. Non è facile. E tanto meno lo è per chi aveva già delle fragilità psicologiche che questa situazione può aver acuito e per chi ha visto ridursi le proprie possibilità di accesso alle terapie. Uno studio di Openpolis documenta che la crisi scoppiata col Covid-19 è stata particolarmente difficile per le persone che necessitano di servizi psichiatrici e psicologici. «Durante la prima ondata dei contagi, uno o più servizi dedicati a pazienti con problemi mentali, neurologici o di abuso di sostanze stupefacenti sono rimasti paralizzati in quasi tutti i Paesi monitorati dall’Organizzazione mondiale della Sanità». Di fatto 3 su 4 servizi di igiene mentale sono stati sospesi in Europa a causa della crisi da Covid-19. A fronte di una drastica riduzione dei servizi sanitari in presenza diffusi sul territorio c’è stato un aumento di offerta di servizi sanitari online da remoto nell’ambito della psichiatria. Ma non in tutti i Paesi alla stessa maniera.

Secondo i dati dell’Associazione europea di psichiatria riportati da Openpolis oltre il 75% dell’assistenza psichiatrica durante la prima ondata di Covid-19 in Europa è stata fatta online, ma con grandi differenze tra una nazione e l’altra. Quando è scoppiata la pandemia solo Finlandia, Paesi Bassi e Svezia avevano attivato programmi di psichiatria online a livello nazionale (fonte Oms). Grecia e Spagna avevano appena lanciato programmi pilota da remoto, mentre in Italia, Croazia e Lituania si registravano solo «iniziative sporadiche o informali». Ovunque hanno pesato differenze nella possibilità di accesso agli strumenti tecnologici e, per i più anziani, una più scarsa alfabetizzazione digitale. Avendo ancora davanti un lungo cammino prima di arrivare all’immunità di gregge come effetto di vaccinazioni di massa il punto è come colmare questi gap che lasciano esposte le persone malate e più fragili. Ma anche come fare prevenzione. Con particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti cercando di comprendere quale impatto ha avuto sulla loro vita emotiva e sulla loro realtà psichica un anno di mancanza di relazioni sociali e di scuola in presenza con quel che la scuola significa non solo come occasione formativa ma anche relazionale.

Il direttore generale dell’Oms, Tedros A. Ghebreyesus, ha lanciato un allarme sull’impatto psicologico che l’emergenza in corso avrà non solo su chi ha già patologie conclamate. Gli esperti di salute mentale temono un’ondata di problemi psichici, ansia, conseguenze, da stress post traumatico. Fra i più colpiti da stress post traumatico e burnout ci sono i professionisti in campo sanitario, i medici, gli infermieri che ormai da molti mesi sono sempre in prima linea. Ma tra i più a rischio ci sarebbero, come accennavamo, anche gli adolescenti che si sono trovati ad affrontare questo periodo della vita caratterizzato da grandi cambiamenti da soli, stando chiusi nella propria cameretta trascorrendo sempre più tempo sui social.

Come riportiamo in questo numero di Left alcune ricerche parlano di un notevole aumento di casi di cyberbullismo e di autolesionismo, mentre drammatici casi di cronaca riportano in primo piano il rischio che i bambini in rete si possano trovare esposti a contenuti violenti, fra i quali anche “giochi” che istigano al superamento del limite e al suicidio. Senza demonizzare i social network, come proteggere i più piccoli e come intervenire per stimolare consapevolezza dei rischi, senso critico? Come cogliere i segnali del loro disagio che talora potrebbe non essere solo “disagio” ma essere espressione di una patologia? Sappiamo bene che la diagnosi e l’intervento precoce sono determinanti specie quando si parla di giovani. La chiusura delle scuole ha avuto come conseguenza anche l’impossibilità di poter avere l’aiuto fornito ai ragazzi dagli sportelli psicologici. Di tutto questo abbiamo parlato con alcuni dei maggiori esperti del settore, psichiatri e psicoterapeuti dell’età evolutiva in primis, chiedendo loro di aiutarci a tracciare un quadro della situazione anche suggerendo strumenti e possibilità di intervento.

Riuscire a reagire in modo sano a una situazione così difficile che si protrae ormai da lunghissimo tempo è la sfida che ci riguarda tutti. Così oltre a chiedere agli psichiatri di aiutarci a capire cosa sono e come si manifestano disturbi post traumatici da stress o, per esempio, come distinguere forme di depressione reattiva (dettata da una situazione oggettivamente drammatica) dalla depressione patologica più grave, abbiamo anche cercato di stimolarli a parlare delle risorse emotive e trasformative legate alla nostra identità più profonda. Cosa ci dicono a questo proposito i sogni? La pandemia in che modo ha impattato sull’attività onirica? In che modo cerchiamo di elaborare la situazione di crisi che stiamo attraversando? È un tema che ci apparso molto affascinante da affrontare perciò ci siamo rivolti a un team di psichiatri che sta studiando da mesi questo aspetto, curiosi di conoscere a quali risultati siano giunte le loro ricerche. Anche nei sogni, insomma, possiamo trovare una risorsa per non arrenderci. «Il pensiero e l’identità non razionale sono un nucleo di resistenza contro la violenza visibile e invisibile» di certa politica e cultura che guarda solo al profitto e non all’umano, scrive lo psichiatra Domenico Fargnoli.


L’editoriale è tratto da Left del 29 gennaio – 4 febbraio 2021

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Andrea Masini: Salute mentale, la parola è “prevenzione”

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 29 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19, i ragazzi chiusi in casa passano molto tempo tra compiti ed attività a scarsa mobilità Nella Foto: un tredicenne che vive a Roma Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 29, 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , kids locked down spending a lot of time working on homework and making activities with limited mobility In the pic: thirteen year old boy living in Rome

Crescita “spaventosa” degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio in età 12-18 anni. Picco dei disturbi dell’alimentazione tra gli adolescenti. Aumento dei ricoveri di ragazzi nei reparti di neuropsichiatria. Negli ultimi giorni una serie di articoli usciti sulla stampa ha posto l’accento in questo modo sui “danni” che le restrizioni imposte dalla Covid-19 avrebbero provocato alla tenuta psichica delle giovani generazioni. Notizie del genere colpiscono chiunque così come quelle piuttosto frequenti in cui si parla di un legame diretto tra la crisi economica provocata dalla pandemia e il suicidio di chi ha visto fallire la propria attività commerciale.

Ma il nesso è davvero così stringente o vanno valutati anche altri aspetti? Il lockdown, le restrizioni di varia natura e le misure di distanziamento sociale cui siamo sottoposti ormai da quasi un anno se da un lato hanno indubbiamente il merito di rallentare la diffusione del virus (unica vera arma a disposizione per evitare il collasso del Servizio sanitario nazionale in assenza di terapie efficaci e in attesa dell’immunità di gregge garantita dai vaccini), dall’altro in che modo hanno un ruolo nello sviluppo di una malattia mentale? E soprattutto, come si può intervenire su queste patologie in una situazione di lunga e costante emergenza socio-sanitaria?

Dato che la salute psichica è importante quanto quella fisica per fare chiarezza abbiamo rivolto alcune domande allo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, direttore della rivista scientifica Il sogno della farfalla e docente della scuola di psicoterapia dinamica Bios Psichè di Roma.

Professor Masini, con particolare attenzione alle problematiche che riguardano gli adolescenti quali sono gli strumenti più efficaci oggi per fare prevenzione e intervenire sui casi più complessi?
Sicuramente la prevenzione è oggi il cardine per affrontare la malattia mentale. Un principio questo che vale per tutte le patologie ma per quella mentale in particolare. Ed è noto a tutti che la più importante forma di prevenzione è quella culturale. Cioè occorre in primis fare buona informazione su cosa è la malattia mentale, quali sono i disturbi, quali sono i problemi, le cause. Ma questo è un dibattito mondiale che richiederà ancora forse anni per trovare una definitiva chiarezza. Oggi infatti la psichiatria si dibatte in una serie di discussioni interminabili, però seguendo il grande filone della psicopatologia, della psicologia e dell’origine psicologica dei disturbi mentali indubbiamente fare prevenzione vuol dire cercare di capire come si determina e cosa determina la malattia mentale.

Leggiamo spesso sui media notizie in cui si imputa al lockdown e alla crisi economica che ne consegue l’aumento di casi patologici. Lei cosa ne pensa?
Penso che questo sillogismo sia un po’…


L’intervista prosegue su Left del 29 gennaio – 4 febbraio 2021

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Primule e Arcuri

Ve li ricordate i padiglioni a forma di primula che il prode turbocommissario Arcuri ha pensato per la campagna vaccinale contro la pandemia? Bene, ci siamo. Martedì 20 gennaio è stato pubblicato il bando per la realizzazione e ci sono alcuni punti interessanti da analizzare. Perché forse sarebbe il caso di essere curiosi prima per poi non pagare lo scotto dopo.

Una delle critiche più argomentate e che vale la pena riprendere è quella di Carlo Quintelli, docente di Ingegneria e architettura all’università degli studi di Parma, che in un post su Facebook ha analizzato tutti i dettagli del bando. Ripassiamoli. Scrive Quintelli:

«Il padiglione misura 315 mq e per realizzarne, trasportarne, allestirne 21 chiavi in mano arredi compresi in diverse parti d’Italia si danno 30 gg di tempo! E dove si richiede la riparazione degli impianti con intervento entro 30 minuti dalla chiamata! (da sottoporre all’attenzione della ricerca in logistica del Pentagono o di Amazon!). Delle due l’una verrebbe da pensare: o chi ha redatto il bando è totalmente ingenuo ed estraneo al settore o qualcuno ha già pronto tutto da inizio dicembre. Oppure succede come con i banchi per le scuole che sono andati quasi tutti fuori tempo di consegna contrattuale (e le penali?)». E in effetti verrebbe da chiedersi perché insistere pubblicando bandi che si sa che non possono essere rispettati per poi slittare il tutto. Almeno che non ci sia, anche dalle parti di un ruolo tecnico come è quello di Arcuri, troppa attenzione alla propaganda.

Poi, scrive Quintelli: «Il costo massimo è pari ad euro 1.300/mq + Iva ergo se Arcuri si limita ai 21 padiglioni (dimostrativi? sperimentali? promozionali? di fatto inutili ai fini della campagna vaccinale) staremo tra gli 8 e i 9 milioni di euro, ma se in un delirio di onnipotenza ne ordina 1.200 ci portiamo attorno al mezzo miliardo di euro (di soldi nostri)». Per avere un’idea dei costi, osserva Quintelli: «Ognuno di questi padiglioni potrà avere un costo massimo di euro 400.000 (+/- 20%) e a questa modica cifra è in grado di effettuare 6 vaccinazioni alla volta per la durata, compresa anamnesi, di 10/15 minuti a seconda dei soggetti. Ma diciamo pure 12 minuti per 6 postazioni = 30 vaccinazioni/ora per 10 ore = 300 x 90 gg (tre mesi), senza mancare un turno e con efficienza tayloristica, si vaccinano 27.000 persone, un piccolo centro da 30.000 abitanti, spendendo “solo” 10 volte tanto rispetto a un punto vaccini di analoga portata nella sala civica, in quella parrocchiale, nella palestra, sotto la tenda degli alpini e via dicendo…Per un centro da 100.000 abitanti il padiglione da quasi mezzo milione di euro li vaccina tutti ma gli ci vuole un anno (slow vaccination). La soluzione? Se ne acquistano tre, posizionati in tre diverse piazze e risolviamo spendendo la modica cifra di un milione e mezzo di euro. Ora capite perché il Commissario si riserva di ordinarne 1.200 se si pensa che abbiamo 103 città con più di 60.000 abitanti e diverse da oltre 200.000 più Roma e Milano. Che dire…capisco sempre di più le perplessità di certi paesi nel concederci il credito europeo».

E gli spazi? Ecco qua. Lo spiega Quintelli: «In ogni caso l’architettura è un’arte (tecne) dove la ratio è messa alla prova e allora non si spiegano quelle 16 persone in un’area di attesa di circa 40mq che funge anche da ingresso/uscita (non separate!), punto reception, disimpegno ai corridoi, dove tutti incrociano tutti ecc. ecc. Uno spazio oltretutto alto solo 2.70 (di tipo domestico) con volumi d’aria limitati e che andrà fortemente depressurizzato (con quali effetti?). Speriamo bene che non faccia da area di contaminazione….è stato certificata da qualcuno? Il resto degli ambienti è da sommergibile, 2,60 mt di profondità degli spazi per anamnesi e vaccinazione (idonei si dice a 4 persone tra operatori e pazienti/accompagnatori), corridoi da 1,40 mt, “sala attrezzata per reazioni avverse” da circa 9 mq (speriamo di non averne bisogno…) e dulcis in fundo, con una media di 50 persone sempre presenti nella primula, due soli bagni per i pazienti ed uno (evidentemente unisex) per gli operatori (confidiamo nei bar dei dintorni, se in zona gialla)».

Ora la domanda è una sola: siamo sicuri di avere preso una decisione che abbia un senso e che risulti vantaggiosa? Abbiamo il diritto di sapere? O come sempre aspettiamo la prossima conferenza stampa per sentire Arcuri non rispondere sul punto? Anche perché le vaccinazioni impattano sulla nostra vita molto di più delle beghe su cui si stanno sprecando tutti gli editoriali.

Buon giovedì.

Cercasi visione per una rivoluzione verde

Wide angle shot of a green tree surrounded by residential houses. The sun is shining through the green. Shot from directly below the tree

È

il 12 gennaio 2021 quando il Consiglio dei ministri, dopo un annus horribilis che segnerà in modo indelebile l’Italia e il mondo, nel buio della notte, approva il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non è notte solamente oltre i vetri delle finestre, è notte per il governo, alle prese con una crisi che si è avvitata in modo repentino. È notte per il Paese intero, che da mesi è attanagliato da una crisi economica e sociale dalla quale, con difficoltà, si inizia ad intravedere una via d’uscita solo ora. Dal blu cobalto della copertina del testo approvato spicca una foglia verde, luminosa e di un colore vivo, d’altronde il verde è speranza.

Il piano infatti è caratterizzato da una forte impronta green, fedele almeno idealmente al fil rouge tracciato dall’accordo di Parigi, e votato quindi alla riconversione ecologica e sostenibile del modello di sviluppo. Questo risultato non era assolutamente scontato, viste le numerose marce indietro che si fanno in nome dell’emergenza. Negli ultimi mesi, infatti, tanti sono stati gli assalti per smantellare l’impalcatura del Green deal europeo, millantando che l’apposizione di norme e principi ecologici e di tutela ambientale avrebbero strozzato la ripresa economica. 

Nell’incubo che stiamo vivendo, il messaggio di P. A. Sorokin di inizio del secolo scorso è quanto mai attuale, la pandemia non ha fatto che acuire e rendere più evidente quella “crisi di civiltà” che lega indissolubilmente crisi ambientale, sociale e culturale, ora poi che l’approccio riduzionista, che ha dominato il pensiero scientifico per secoli, ha rivelato le sue enormi falle. Questo implica una revisione integrale del rapporto Uomo-Natura optando per un approccio ecosistemico che possa informare e rinvigorire con nuova creatività un’economia differente, capace di produrre circoli virtuosi che valorizzino e preservino il capitale naturale e il patrimonio culturale per le nuove generazioni. Questa è l’economia circolare auspicata. La sfida attuale sta nel riscrivere le regole di equilibrio dell’Antropocene forti della consapevolezza che ciò che è bene per l’ambiente è bene anche per l’uomo. Dunque investire nella sostenibilità oggi vuol dire investire in competitività, tecnologia e riduzione delle disuguaglianze, obiettivi che il piano nazionale di ripresa e resilienza intende fare propri e mettere a sistema in via programmatica.

Partiamo dai dati principali. Sono 222,9 i miliardi che, tra sussidi e prestiti, l’Italia avrà dall’Europa, nei prossimi anni. Non è banale sottolineare quanto questo approccio sia inedito: solo un anno fa sarebbe stata inimmaginabile una politica economica continentale tanto espansiva e basata sulla condivisione del debito. Il piano è suddiviso in 6 aree di investimento, 16 cluster e 48 linee di intervento: digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,1 miliardi), rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 miliardi), infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,9 miliardi), istruzione e ricerca (28,4 miliardi), inclusione e sociale (27,6 miliardi) e salute (19,7 miliardi). Una mole di investimenti così elevata, concentrata in un lasso di tempo così breve, supera in proporzione il programma New Deal di rooseveltiana memoria che ha permesso di risollevare un Paese dalle macerie della guerra.

Un risultato lo possiamo, con la necessaria modestia, rivendicare. Quando abbiamo cominciato l’avventura dell’associazione Transizione ecologica solidale (Tes) nel 2018, il binomio “transizione ecologica” non era di casa nel gergo politico. Notiamo con piacere come ormai tale espressione sia invece entrata nel linguaggio quotidiano a tal punto da diventare elemento portante del piano: oltre a esservi affidata la coerenza di principi con gli impegni dell’agenda europea vi viene destinato il 40% dei fondi.

È necessario addentrarsi nel documento varato per comprendere, al di là dei punti di forza, le aree da puntellare o sulle quali occorre vigilare in modo cauto. Dei 68,9 miliardi di euro, destinati alla missione 2 “Rivoluzione verde e alla transizione ecologica”, 6,3 miliardi saranno destinati alla

*-*

Gli autori: Ludovica Marinaro e Alessandro Paglia fanno parte dell’associazione Tes, Transizione ecologica solidale. Marinaro è responsabile scientifico e Paglia è responsabile delle relazioni europee


L’articolo prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

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Renzi d’Arabia

Foto LaPresse/Palazzo Chigi/Tiberio Barchielli politica09 11 2015 Riyadh - Arabia Saudita Pres. Renzi incontra il re d'ArabiaArabia Saudita, Matteo Renzi incontra il re d'Arabia Photo LaPresse/Palazzo Chigi/Tiberio Barchielli news9 Nov 2015 Riyadh - Arabia SauditaMatteo Renzi visiting in Arabia Saudita,DISTRIBUTION FREE OF CHARGE - Obbligatorio citare la fonte © LaPresse/Palazzo Chigi/Tiberio Barchielli

Dunque il curioso giornalista del quotidiano Domani, Emiliano Fittipaldi, ha scoperto che il prode Matteo Renzi, colui che ha provocato questa crisi di governo in piena pandemia, ha dovuto fare in fretta le valigie per tornare in Italia mentre se ne stava pasciuto in Arabia Saudita, a Riad, per il Fii events, organizzato dall’omonimo istituto voluto dalla famiglia reale, guidata dal re Salman e dal principe ereditario Mohammed bin Salman (detto MbS), leader incontrastato del Paese.

Renzi non era un semplice ospite e nemmeno un banale conferenziere come gli altri 150: il leader di Italia viva (che frequenta i sauditi dal 2017) siede nell’advisory board dell’Fii institute che si occupa di intelligenza artificiale, robotica e cybersicurezza per dare consigli «su come usare la cultura nelle città, che è un possibile driver del cambiamento del Paese mediorentale».

All’uscita della notizia gli scherani di Matteo sono subito accorsi per spiegarci come non ci sia nulla di male se un leader di un partito nazionale, senatore pagato con i soldi degli italiani, nel giorno della crisi che lui stesso ha scatenato (anche se ostinatamente insiste a negarlo come un Fontana qualsiasi), colui che ha accusato Conte di essere “un pericolo per la democrazia” sia pagato (si dice circa 80mila euro all’anno) da un regime che applica la Sharia nella sua forma più rigida, ossia dai governanti di un luogo dove le donne vengono discriminate più che in ogni altro posto al mondo, quella stessa Arabia Saudita che da anni sta devastando lo Yemen uccidendo civili (bambini inclusi) e bombardando ospedali, quella stessa Arabia Saudita che arresta e condanna giornalisti e attivisti e intellettuali per avere espresso delle libere opinioni, quella stessa Arabia Saudita che arbitrariamente ha arrestato i difensori dei diritti delle donne, quella stessa Arabia Saudita che ogni anno emette condanne a morte (anche tramite decapitazioni), quella stessa Arabia Saudita in cui Raif Badawi è stato condannato a 1.000 frustate e 10 anni di carcere semplicemente per aver scritto un blog, quella stessa Arabia Saudita in cui la tortura viene utilizzata come legittimo strumento punitivo, quella stessa Arabia Saudita in cui la discriminazione religiosa della minoranza sciita avviene alla luce del sole, quella stessa Arabia Saudita in cui è stato fatto pezzi il giornalista del Washington post Jamal Khashoggi.

Tutto bene, insomma. Anzi qualcuno ci dice che non essendoci nulla di illegale non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Del resto la questione morale, dalle nostre parti, sembra contare ormai molto poco. Quando un anno fa Corrado Formigli gli chiese (dopo che un altro pezzo del Financial Times aveva segnalato la sua partecipazione a un meeting in Arabia) se da «senatore italiano» si ponesse «il problema etico quando tiene conferenze in Paesi che violano i diritti umani come l’Arabia Saudita», Renzi rispose sereno che non c’era alcun conflitto di interesse e che sarebbe sorto solo se lui avesse «fatto parte del governo come ministro o premier». Bei tempi quando in Italia si chiedeva la decadenza della cittadinanza italiana a Sandro Gozi in quanto consulente di Macron.

Intanto qui c’è una crisi di governo da sistemare. Che impiccio, per mister Renzi.

Buon mercoledì.

Vedi alla voce: Genocidio

Foto: Cecilia Fabiano-LaPresse 01-03-2020: Roma( Italia) Cronaca : 76° Anniversario della deportazione dei cittadini romani ed ebrei Nella Foto: il muro commemorativo al cimitero monumentale del Verano Photo: Cecilia Fabiano- LaPresse January ,03, 2020, Rome ( Italy ) News : 76° anniversary of the roman Jewish deportation in The Pic : the commemorative wall in Verano’s monumental cemetery

Il termine genocidio, coniato nel 1944 dall’avvocato polacco Raphael Lemkin per indicare “l’insieme di azioni progettate e coordinate per la distruzione degli aspetti essenziali della vita di determinati gruppi etnici, allo scopo di annientare i gruppi stessi”, rimanda immediatamente all’immane tragedia della Shoah: la peggiore, forse, fra le tante che hanno purtroppo funestato il “secolo breve”. Ha scritto Marek Edelman: «Per una persona dotata di una psiche normale, è difficile comprendere che si possa assassinare gli esseri umani solo perché hanno un determinato colore di capelli e di occhi, solo perché hanno origini diverse» (Il ghetto di Varsavia lotta, Giuntina). Ciò che maggiormente colpisce e lascia attoniti, studiando lo sterminio degli Ebrei d’Europa – come Raul Hilberg ha intitolato il suo monumentale saggio, frutto di una ricerca durata tutta la vita – è la fredda razionalità con la quale operò il nazionalsocialismo, attuando sistematicamente, e in un arco di tempo relativamente breve – dal 1933 al 1945 – l’emarginazione, la persecuzione ed infine l’eliminazione fisica di circa sei milioni di esseri umani. Un’organizzazione estremamente precisa ed efficiente, quella messa in piedi dal Nsdap (Nazionalsozialistische deutsche arbeitpartei, Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi), era alla base del sistema concentrazionario, consistente in centinaia di campi, sei dei quali erano Vernichtungslager – letteralmente “campi di annientamento”, cioè di messa a morte – Treblinka, Sobibor, Auschwitz-Birkenau, Chelmno, Majdanek, Belzec.

Oltre che nei Lager, si moriva nelle stragi perpetrate nell’Europa dell’Est dagli Einsatzgruppen tramite fucilazioni di massa o con l’uso dei Gaswagen (autocarri convertiti in camere a gas), nonché nel famigerato “Progetto T4”. Quest’ultimo, avente come specifico obiettivo l’eliminazione fisica di portatori di handicap e malati di mente – considerati esponenti di un’umanità degradata e quindi inferiore («vite indegne di essere vissute», secondo la definizione del vocabolario nazista) e perciò pericolosi, in quanto potenziali agenti di contaminazione per la purezza della Volksgemeinschaft (“comunità di popolo”) ariana – prende il nome dall’indirizzo dell’istituto berlinese nel quale venne avviato, al numero 4 della Tiergartenstrasse.

Per anni la gigantesca macchina di morte nazista operò praticamente indisturbata, grazie all’indifferenza di molti Paesi (Stati Uniti compresi) e alla fattiva collaborazione di altri – prima fra tutte l’Italia fascista, che nel 1938 varò – del tutto autonomamente – le leggi razziste. Sino all’ideazione – scartate altre ipotesi, alcune delle quali bizzarre come quella di procedere al trasferimento coatto di tutti gli Ebrei in Madagascar – della Endlosung, la “soluzione finale”, durante la Conferenza di Wansee, il 20 gennaio 1942. Stücke, cioè “pezzi”, venivano definite le persone che, caricate come bestie sui Sonderzüge (“Treni speciali”) erano destinate quasi tutte alla morte nei Lager. «Soluzione finale», «risoluzione della questione ebraica», «pezzi», «treni speciali»: l’asettica neutralità del linguaggio della burocrazia nazista ulteriormente aggiunge, se possibile, orrore ad orrore. Com’è noto, nei campi oltre agli ebrei vennero deportati anche prigionieri appartenenti ad altre categorie: oppositori politici (furono i primi ad essere internati, nel campo di Dachau, in Baviera), omosessuali, testimoni di Geova, “asociali”. Il gruppo più numeroso dei prigionieri per motivi “razziali”, dopo gli Ebrei, fu quello dei Rom e dei Sinti: circa 500mila persone (ma un computo esatto è reso impossibile dal fatto che spesso queste popolazioni non venivano censite regolarmente) inghiottite dal nulla. Cosa accomunava, secondo la delirante ideologia nazista, i Rom e i Sinti agli Ebrei? Probabilmente soprattutto il fatto di essere, per vari motivi, degli sradicati, privi di patria. Una seria pericolosità sociale veniva attribuita dal razzismo nazista a popoli considerati tradizionalmente nomadi (ma in effetti, costretti nei secoli a spostarsi continuamente in quanto sempre emarginati, esclusi e scacciati, ovunque si trovino, come non si stanca di sottolineare il professor Santino Spinelli, docente di Lingua e Cultura Romanì all’Università di Chieti) come i Rom e i Sinti. Era infatti radicata nell’ideologia razzista la credenza in un’origine biologica, e dunque specificamente genetica, del cosiddetto Wandertrieb, ovvero l'”istinto del nomadismo” (sic!): caratteristica fenotipica che sarebbe stata appunto determinata dall’esistenza in un individuo di uno specifico gene. Anche questi popoli vennero quindi perseguitati dal nazionalsocialismo per motivi razziali, in quanto ritenuti, in base al razzismo biologico, «ariani degenerati, con l’istinto alla criminalità e al nomadismo» (Giovanna Boursier, Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale, in “Studi storici”, 2, aprile-giugno 1995, anno 36). All’interno del campo di Auschwitz-Birkenau esisteva un settore speciale per gli “zingari” (Zigeuner, 3): lo Zigeunerlager, liquidato durante la notte del 2 agosto 1944, quando in circa tremila tra uomini, donne e bambini trovarono la morte nelle camere a gas. Piero Terracina, che da ragazzo fu testimone di quel tragico evento, ha più volte raccontato il silenzio agghiacciante che improvvisamente, la mattina del giorno seguente, regnava nel campo dove sino a poche ore prima si sentivano le voci dei bambini (tra i pochi ad Auschwitz) rom e sinti. Il Samudaripen (in lingua romanì, “tutti uccisi”, dunque “genocidio”), definito anche, sempre in romanès, Baro Romano Meripen, cioè “la grande morte”, o, più comunemente Porrajmos (“divoramento”), presenta quindi numerosi tratti in comune con la persecuzione e lo sterminio degli ebrei; tuttavia, non si dovrebbe mai perdere di vista la specificità e l’unicità della Shoah sia rispetto al Porrajmos, sia rispetto ad altri genocidi – ad esempio, quello armeno.
Ma perché continuare, oggi, a fare ricerca storica sulla Shoah? Fatta salva la specificità di questo evento, studiare lo sterminio degli Ebrei può essere ancora importante anche per analizzare e mettere a nudo i meccanismi che sono alla radice di ogni genocidio: da quello degli Armeni, ai massacri di Pol Pot in Cambogia, alla guerra fratricida tra Hutu e Tutsi in Ruanda, sino alla “pulizia etnica” nella ex-Jugoslavia. Alla base di tali fenomeni c’è sempre l’annullamento dell’altro come essere umano: per vari motivi – di matrice etnica, politica, religiosa – esso non viene più percepito e considerato tale; a quel punto, se si verificano determinate condizioni storiche e sociali (una grave crisi economica, ad esempio, come accadde in Germania dopo il 1929), è possibile che si realizzi il passaggio dal pensare all’agire, cioè che venga messa in atto l’eliminazione fisica del “diverso”. Di fronte ai risorgenti e sempre più frequenti fenomeni di xenofobia e di razzismo di cui quotidianamente ci narrano le cronache italiane – e non solo – è oggi più che mai di fondamentale importanza tenere sempre viva la memoria di quanto è accaduto nel XX secolo. Conoscere e comprendere le dinamiche storiche che hanno prodotto i genocidi del passato dovrebbe spingerci a riflettere sugli avvenimenti del presente, per costruire un’analisi seria ed approfondita di fenomeni storici attuali come le migrazioni: contro la continua tentazione, alimentata soprattutto da parte di certa destra ultranazionalista, di individuare facili capri espiatori per coprire un evidente vuoto di idee e di contenuti.


Per approfondire, vedi Left del 22-28 gennaio 2021

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È la Lega, bellezza

Altra giornata convulsa ieri per Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, il suo capo Matteo Salvini e la distintissima Moratti, assessora al Welfare che non sta per niente bene dalle parti della Lombardia. Mentre Salvini si sbraccia e arranca e si affanna per dare la colpa dei dati sballati della Lombardia al governo nazionale ora ci sono anche le mail che testimoniano come proprio la Regione non avesse compilato tutti i campi che doveva compilare nei moduli da inviare all’Istituto superiore della sanità, esattamente come quelli che non leggono le noticine dei contratti che firmano e poi si ritrovano la casa debba di enciclopedie.

Il 22 gennaio il direttore generale del Welfare in Regione Marco Trivelli invia una mail all’Iss che dice chiaramente:

«Gentilissimi, tenuto conto della integrazione nel flusso dati trasmesso mercoledì 20 us rispetto al flusso trasmesso mercoledì 13 us, effettuata a seguito del confronto tecnico tra Iss e Dg Welfare e relativa alla riqualificazione del campo stato clinico da assenza di informazioni in merito alla presenza di sintomi in stato asintomatico nei casi con data inizio sintomi, si chiede la rivalutazione dell’indice Rt sintomi per la settimana n.35 ora per allora. Cordiali saluti».

Quella che Trivelli chiama “riqualificazione” è semplicemente un errore. E a causa di quell’errore l’Rt della Lombardia risultava 1,4 invece che 0,88 poiché a causa del mancato aggiornamento dello stato clinico risultavano molti più sintomatici.

In un Paese normale il presidente di una Regione che commette un errore del genere (l’erronea zona rossa sarebbe costata 600 milioni alla Lombardia, di cui ben 200 solo a Milano) avrebbe provocato le immediate dimissioni dei cialtroni al governo. E invece?

Invece la Lega, per bocca del suo prode Salvini, decide di buttarsi sulla strada della menzogna e addirittura rilancia. Sentite cosa ha detto Salvini ieri: «C’è stato un clamoroso e drammatico errore di calcolo sulla pelle dei cittadini fatto dal ministero della Salute. Speriamo che Speranza sia ministro ancora per poco. Di danni ne ha fatti abbastanza». Tutto falso, ovviamente, nessuna prova a supporto della tesi, niente di niente. E se pensate che sia un comportamento solo del segretario vi sbagliate di grosso: ieri tutti i presidenti di Regione leghisti sono accorsi al fischio del padrone firmando tutti insieme una lettera in cui chiedono una «revisione immediata delle procedure» per determinare il colore dei territori in modo da «affrontare con serenità maggiore una grave situazione». Fa niente che quelle stesse procedure funzionino dall’inizio della pandemia, fa niente che solo la Lombardia abbia sbagliato mentre le altre regioni non hanno avuto problemi. Niente di niente. Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia), Christian Solinas (Sardegna), Nino Spirlì (Calabria), Donatella Tesei (Umbria), addirittura Fontana (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto) hanno deciso di esporsi al pubblico ludibrio. Ah, a proposito: proposte? Nessuna.

È il metodo leghista: dire una bugia, ripeterla, farla ripetere a tutti gli scherani, gridarla in coro, insistere fino a ammaestrare i propri elettori; ridurre una questione tecnica a una barzelletta di propaganda; non entrare mai nel merito delle questione ma rilanciare sempre un nuovo nemico da additare, senza nemmeno passare dalla verifica dei fatti. Poi c’è il viscido gioco delle loro amicizie perverse: Matteo Salvini, quello che indossa la mascherina che raffigura il giudice Borsellino, ha avuto il coraggio di proporre Berlusconi presidente della Repubblica. Per dire cosa riescono ad essere, dove riescono ad arrivare. Ora chiudete gli occhi e immaginate al governo delle persone così.

Buon martedì.

Il gioco delle tre carte con i soldi per il Mezzogiorno

Taranto, Italy. August 10, 2014. A group of people taking pictures of the beautiful sunset over the sea in Taranto

Nel dedalo di avvenimenti politici che si susseguono incessanti si rischia seriamente di perdere il bandolo della matassa. Ripartiamo da quanto disposto dall’Europa a proposito del Recovery fund: «Gli Stati membri potranno beneficiare di un contributo finanziario sotto forma di un sostegno non rimborsabile. L’importo massimo per Stato membro sarà stabilito in base a un criterio di ripartizione definito».
Alle pagine 8 e 9 del regolamento, il Parlamento europeo fissa i paletti sui criteri di ripartizione delle risorse a fondo perduto del Recovery plan.

«Dovranno essere destinate maggiori risorse a quei territori con più residenti, con maggiore disoccupazione e prodotto interno lordo inferiore».
Seguendo i criteri europei, il governo Conte dei 209 miliardi del Recovery fund dovrebbe investire al Nord Italia il 21,20% dei 65,4 miliardi a fondo perduto previsti dal Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr); il 12,81% al Centro e il 65,99% al Sud.

Al Mezzogiorno dovrebbero pertanto andare 43,15 miliardi; al Centro-Nord, dovrebbero essere destinati 22,24 miliardi. Bisogna infatti considerare che se il Sud non soffrisse di un così grave stato di prostrazione, causato dalle politiche monoculari a favore del Nord degli ultimi governi, mai all’Italia sarebbero assegnati 209 miliardi, visto che il vero tema dell’azione europea è quello della diminuzione delle diseguaglianze. Questo quanto richiesto dall’Unione europea, ma la realtà che si sta preparando è ben diversa, visto che per il Mezzogiorno considerando l’inserimento anche di 21 miliardi del Fondo sviluppo e coesione (già dovuti), il piano “promette” solo il 50% degli investimenti pubblici, contro il 65,99% (al netto dei fondi aggiuntivi) indicato dall’Europa: è già iniziata la sottrazione.
Ad esempio, il nuovo documento di 160 pagine approvato dal Consiglio dei ministri, alla voce “porti” assegna un miliardo in più, ma equamente distribuito fra quelli del Nord e del Sud, ma mentre assegna ai porti del Nord il ruolo di scalo dei traffici mondiali relega la missione dei porti del Sud a turismo e traffici locali.
Accade così che la marocchina Tangeri diventi il primo porto merci del Mediterraneo, grazie al fatto che l’Italia, contro l’interesse nazionale, non investe nei porti italiani al centro del Mediterraneo, come Augusta o Gioia Tauro, per non parlare di Taranto. Porti di serie A e serie B, così come i cittadini, in base ai…

*-*

L’autore: Natale Cuccurese è il presidente del Partito del Sud


L’intervista prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

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Avanzi di Gallera

Foto LaPresse - Claudio Furlan 19/01/2021 - Milano (Italia) Seduta del Consiglio Regione della Lombardia Nella foto: Letizia Moratti Attilio Fontana Photo LaPresse - Claudio Furlan January 19, 2021 - Milan(Italy) Meeting of the Lombardy Region Council In the photo: Attilio Fontana

In Lombardia non bisogna mai correre il rischio di pensare che peggio di così non potrebbe andare perché ci si imbatte sempre in una delusione cocente, in quella terribile sensazione per cui gli uomini al governo della Lombardia (quelli che Salvini e compagnia cantante ci porgono tutti i giorni come alti esempi di ottima amministrazione) riescono sempre a toccare il fondo, poi scavare, poi scavare e poi scavare ancora.

Facciamo un salto indietro: il 17 gennaio la Lombardia è una delle poche regioni che viene indicata come “zona rossa”, ovvero una regione ad alto rischio di contagio dove devono essere prese misure molto stringenti che impattano enormemente sulla vita dei suoi cittadini e delle sue attività economiche. Badate bene: la decisione del governo viene presa sulla base dei dati che Fontana, Letizia Moratti e i tecnici regionali mandano regolarmente al ministero. I dati dalla regione sono stati consegnati il 13 gennaio e infatti non è un caso che se sfogliate i giornali di quei giorni potrete incrociare un Fontana contritissimo che avvisa tutti che si finirà in zona rossa e che bisogna stare attenti. Poi, per il solito gioco della propaganda e del rimpiattino con il governo, accade che Fontana si dica costernato e stupito della decisione del governo. In sostanza si è stupito di quello che egli stesso pensava fino a poche ore prima. E già fin qui la vicenda rasenta una tragica irresponsabilità. Fontana fa ricorso al Tar. Letizia Moratti si lancia a dire: «La Lombardia non merita la zona rossa. Indubbiamente il rischio per la regione è di fermarsi, di fermare il lavoro, le attività e la vita sociale. Per questo con il presidente Fontana abbiamo ritenuto di voler presentare un ricorso, per uscire dalla zona rossa».

Attenzione al capolavoro. Il 20 gennaio la Regione Lombardia invia nuovi dati e sono molto diversi rispetto ai dati precedenti. In sostanza si smentiscono. E si scopre che la Lombardia sulla base dei nuovi numeri avrebbe dovuto essere zona arancione. Il ministero della Salute spiega molto chiaramente che a falsare il calcolo dell’Rt sono stati numeri parziali inviati dalla Regione. In base all’aggiornamento del 20 gennaio, i casi sintomatici che hanno sviluppato dei sintomi – cioè un dato fondamentale per calcolare l’Rt – fra il 15 e  il 30 dicembre non erano più 14.180 come segnalato il 13 gennaio, bensì 4.918, quasi tre volte di meno. In Lombardia, dopo avere fatto la figura di quelli che non sanno nemmeno fare da conto, si scatenano. Fontana dice: «A Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze», Moratti rincalza dicendo: «Nessuna rettifica, a seguito di un approfondimento relativo all’algoritmo dell’Iss, abbiamo inviato la rivalorizzazione dei dati». Rivalorizzare un numero significa averlo sbagliato, l’elegante Moratti però lo dice con una perifrasi che vorrebbe nascondere l’errore.

All’Istituto Superiore della Sanità rispondono chiaramente: «L’algoritmo è corretto, da aprile non è mai cambiato ed è uguale per tutte le Regioni che lo hanno utilizzato finora senza alcun problema – scrive l’Iss -. Questo algoritmo e le modalità di calcolo dell’Rt sono state spiegate in dettaglio a tutti i referenti regionali perché lo potessero calcolare e potessero verificare da soli le stime che noi produciamo, ed è perciò accessibile a tutti». In sostanza: siete voi che non sapete fare i calcoli. È anzi l’Iss a sottolineare come l’anomalia sia stata fatta notare più volte a Regione Lombardia.

Salvini chiede le dimissioni dei responsabili. In sostanza sta chiedendo le dimissioni del suo presidente Fontana, quindi. Roba da teatro dell’assurdo. Secondo alcune stime il danno per i circa 10mila negozianti costretti a chiudere domenica 17 gennaio sono stati di circa 485 milioni di euro solo a Milano tra abbigliamento e pubblici esercizi secondo Confcommercio. Immaginate i totali di tutta la regione. E in più ci sono le scuole, le persone. Roba gravissima.

Ecco, se pensavate che l’addio di Gallera fosse una buona notizia non avete fatto i conti con gli avanzi che Gallera ha lasciato: il suo presidente, la sua sostituta e una Regione ormai completamente allo sbando. In sostanza questi hanno ricorso al Tar contro se stessi. E ora fanno i pesci in barile scaricando le colpe sul governo. Ah, a proposito: come ultima dichiarazione ieri Fontana ha detto che «forse non è colpa di nessuno».

Bravi, bene, bis.

Buon lunedì.

La geografia allarga la mente

"Faenza, Italy - May 24, 2009: Boy looks at a political map of Europe which is located in the train station."

«Parma!», risponde uno degli studenti de Il Collegio 5, il reality show trasmesso da Rai 2 tra ottobre e novembre 2020, al professore Raina che gli ha chiesto quale fosse il capoluogo della Sicilia. «Cosa divide la Sicilia dalla Calabria?», insiste il professore. «Lo stretto di Bering!», risponde senza incertezza lo stesso alunno, diciassettenne. La realtà stravolta dalla tv? Tutt’altro.
In una lettera inviata nel 2018 a Tecnicadellascuola.it una professoressa di una seconda media scrive(va): «Parlando della dominazione spagnola in Italia, ho accennato ai Promessi Sposi: «È un romanzo ambientato sul lago di Como», spiego. “Ma dove sta Como?”, mi sento chiedere. Piuttosto contrariata dall’ignoranza dimostrata, rispondo: “In Lombardia, non lontano da Milano!”. “Ah, io credevo stesse nel Lazio!”, è il commento di un’alunna».

I ragazzi hanno una conoscenza troppo spesso inadeguata della geografia. A partire da quella italiana. Gli indizi di questo declino della conoscenza dei luoghi e della loro localizzazione si rincorrono. Sovrapponendosi. Le testimonianze, si fanno sempre più numerose. Dimostrando che a scuola, dalle elementari alle superiori, la geografia ha assunto un ruolo marginale, da tempo. Spazi più che esigui negli orari, certo. Ma non solo. Così nei licei è addirittura assente come singola materia. Dopo l’accorpamento con la storia e quindi la creazione della “geostoria”. Un sapiente mix nelle intenzioni, forse. Nella realtà, un guazzabuglio. Nel quale la geografia ha un ruolo più che marginale rispetto alla storia. Con i libri di testo generalmente sprovvisti perfino delle carte geografiche.

Negli istituti tecnici economici, ad eccezione dell’indirizzo turismo, è presente solo al biennio per 3 ore settimanali. Mentre nei tecnici tecnologici è prevista un’ora, per l’intero ciclo di studio di 5 anni. Il problema è che in entrambi gli istituti è possibile che ad insegnare la geografia sia chiamato il docente di scienze, che nel corso degli studi universitari potrebbe non aver sostenuto nessun esame specifico. Potrebbe essere chiamato il docente di scienze, non solo se “perdente posto”. L’Associazione italiana insegnanti di geografia a ottobre 2019 ha controllato a campione gli organici di diritto di alcune province e sono emerse stime allarmanti: circa il 25 per cento delle ore di geografia che si dovevano potenzialmente assegnare alla classe di concorso A21 “Geografia” nell’anno scolastico 2019/2020, sono state attribuite ad altre classi di concorso, senza una motivazione lecita. Negli istituti professionali la geografia è…


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