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Matteo risponde (male)

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2021 Roma Politica Camera dei Deputati - Consultazioni del Presidente Roberto Fico Nella foto Matteo Renzi Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2021 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Consultations by the President of the Chamber of Deputies Roberto Fico In the pic Matteo Renzi

Ieri Matteo Renzi è stato intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera. Chiamarla intervista in realtà è una parola grossa visto che l’ex premier, come spesso accade, ha potuto comiziare per iscritto praticamente intervistandosi da solo, come piace a lui. Poiché ormai la notizia del suo viaggio in Arabia Saudita è diventato un fatto non scavalcabile il senatore fiorentino è stato costretto a rispondere sul punto (senza rispondere, ovvio) e ha inanellato una serie di panzane che farebbe impallidire anche il più sfrontato dei bugiardi ma che Renzi invece ha sciorinato come se fosse un dogma.

«La accusano di avere fatto da testimonial del regime saudita», dice Maria Teresa Meli e l’ex presidente del Consiglio risponde: «Sono stato a fare una conferenza. Ne faccio tante, ogni anno, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Medio Oriente alla Corea del Sud. È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali». Renzi non è andato a fare una semplice conferenza ma siede nel board della fondazione Future investment initiative che fa capo direttamente al principe Bin Salman e per questo è pagato fino a 80mila euro all’anno. Non era lì in veste di conferenziere ma è uno dei testimonial dell’organizzazione di queste iniziative. La differenza è notevole, mi pare. Poi: Renzi dice che molti ex primi ministri svolgono questa stessa attività ma dimentica di essere un senatore attualmente in carica, l’artefice principale di questa crisi di governo, un membro della commissione Difesa nonché lo stesso che chiedeva di avere in mano la delega ai Servizi. Se non vedete qualche problema di conflitti di interessi allora davvero risulta difficile perfino discuterne.

Poi, tanto per leccare un po’ il suo narcisismo e il suo odio personale per Conte Renzi aggiunge: «Sono certo che anche il presidente Conte, quando lascerà Palazzo Chigi, avrà le stesse opportunità di portare il suo contributo di idee». Roba da bisticci tra bambini. E addirittura rilancia: «E grazie a questo pago centinaia di migliaia di euro di tasse in Italia». Capito? Dovremmo ringraziarlo che paga le tasse. Dai, su.

Ma il capolavoro dell’intervista renziana sta in queste due frasi: «Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico» e «Se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». E in effetti il senatore di Rignano deve avere dimenticato che 15 su 19 degli attentatori dell’11 settembre fossero sauditi (incluso Osama bin Laden) ma soprattutto che l’Arabia Saudita finanzi l’estremismo con molta indulgenza e pratichi l’estremismo proprio come forma di governo. Come quelli che sono interrogati in storia e non l’hanno studiata Renzi fa la cosa che gli viene più semplice: la riscrive. Infine, tanto per chiudere in bellezza, promette in futuro di rispondere «puntigliosamente in tutte le sedi» ventilando querele. Perfetto. Ovviamente nessuna osservazione da parte della giornalista: in Italia la seconda domanda è un tabù che non si riesce a superare.

Sarebbe anche interessante sapere da Renzi cosa ne pensi del “costo del lavoro” in Arabia Saudita che ha detto di invidiare, se è informato del fatto che il 76% dei lavoratori sono stranieri sottopagati che vivono in baracche malsane e che sono, di fatto, proprietà privata dei loro padroni che fino a qualche tempo fa addirittura tenevano i passaporti dei loro dipendenti come arma di ricatto per rispedirli a casa e che la situazione delle donne è perfino peggiore con “sponsor” che si spingono fino agli abusi psicologici e sessuali sulle loro dipendenti facendosi forza sul Corano che nella teocrazia saudita detta le leggi. E chissà se Renzi ha avuto il tempo almeno di leggersi una paginetta su Wikipedia (senza chiedere troppo) che dice chiaramente: «L’Arabia Saudita è uno di quegli Stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l’amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l’ubriachezza, lo spaccio o il gioco d’azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L’Arabia Saudita è anche uno dei Paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione».

Non c’è che dire: è proprio aria di Rinascimento. Davvero. O forse semplicemente Renzi ha detto la verità: lui invidia un mercato del lavoro così, dove il Jobs Act è stato scritto proprio come lo sognano i ricchi padroni.

Buon lunedì.

Carmen Yáñez: Lucho ed io, la nostra vita senza ritorno

«In questo libro c’è l’ultima poesia che ho scritto per Luis mentre era in vita. Eravamo stati ricoverati insieme poi io sono stata dimessa e sono tornata a casa. Ogni giorno alle 13.30 dovevo attendere la chiamata dall’ospedale per avere informazioni dal medico che lo aveva in cura. Tutti i giorni alle 13.30 io ascoltavo le sue parole e poi le trasmettevo in un gruppo su whatsapp che avevo creato per gli amici più intimi. E la mia giornata praticamente finiva lì, ad aspettare le 13.30 del giorno successivo». Carmen Yáñez, moglie e compagna di una vita di Luis Sepúlveda ha da poche settimane pubblicato in Italia per Guanda Senza ritorno, il suo nuovo libro di poesie. Uscito in Spagna con il titolo Sin regreso a fine 2019, nella versione italiana sono stati pubblicati i versi inediti dedicati al grande scrittore e giornalista cileno scomparso a Oviedo il 16 aprile 2020 dopo essere stato contagiato in febbraio dalla Sars-CoV-2. Sin regreso era in quelle settimane in fase di traduzione in italiano ed ecco cosa ci ha raccontato Carmen Yáñez del libro, di se stessa e di Lucho.

Partiamo dal titolo. Perché Senza ritorno?
Ho scelto io il titolo perché quando sei migrante hai sempre una speranza di ritornare alla tua terra, a casa, e quindi non disfai mai la valigia. C’è una poesia di Bertolt Brecht in cui lui scrive che non si svuota mai la valigia perché la speranza del ritorno non ti abbandona mai. Anch’io ho vissuto questo sentimento. Quando lasciai il Cile pensavo che sarei tornata entro un paio di anni al massimo, che il dittatore non sarebbe durato a lungo. Ma alla fine Pinochet non cadeva mai e gli anni di regime furono 17.

Ma anche dopo la fine della dittatura fascista non sei rientrata subito…
Per lungo tempo sono stata indecisa se tornare o non tornare. C’è gente che quando può torna per restare e c’è chi decide di non tornare a vivere più nel suo Paese. Un giorno ti ritrovi a cercare un luogo, una casa dove abitare definitivamente, a disfare la valigia, appendere i quadri ai muri, a pitturare la casa, e sistemare i vestiti negli armadi. Chi decide di tornare è altrettanto coraggioso, torna perché lo chiama la sua storia, la sua infanzia ma ricominciare da zero non è facile. Nemmeno tornare è facile. Negli anni tu sei cambiato, il tuo Paese è cambiato, le persone sono cambiate. La vita del migrante è…


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Portogallo, quella crepa nel Paese “modello a sinistra”

TOPSHOT - People wearing face masks stand next to Bica funicular in Lisbon on January 7, 2021. - Portugal reported a record 10,000 new coronavirus cases in 24 hours yesterday, and the government warned that its hospitals were under "enormous pressure" from the resurgence of the pandemic. (Photo by PATRICIA DE MELO MOREIRA / AFP) (Photo by PATRICIA DE MELO MOREIRA/AFP via Getty Images)

I portoghesi hanno eletto al primo turno il loro presidente della Repubblica. Per meglio dire, il 24 gennaio hanno rieletto (con circa il 60 per cento dei voti utili) il presidente in carica, Marcelo Rebelo de Sousa. I sondaggi che lo davano in vantaggio sui concorrenti di una cinquantina di punti percentuali sono stati confermati, dunque la vera notizia non è tanto questa quanto ciò che gira attorno a quella che sarebbe stata la passeggiata trionfale di Marcelo (qui lo chiamano tutti così, affettuosamente) se il contesto non si fosse notevolmente deteriorato. A cominciare dai numeri del coronavirus. Proprio alla vigilia della domenica elettorale il Portogallo aveva superato i 10mila decessi, ma il peggio è che 4mila di quelle morti erano avvenute nell’ultimo mese, mentre in una sola settimana il Paese registrava 74mila nuovi contagi, tanti quanti ne aveva avuti in tutto il primo semestre di pandemia.

Resterà in parte un mistero cosa abbia spinto una delle nazioni che, nella prima fase, avevano ottenuto i migliori risultati nella lotta al virus a dilapidare un capitale di esperienza propria e altrui e sprofondare in un caos ora difficilmente arrestabile. Fatto sta che, dall’autunno e fino al 15 gennaio scorso, il Portogallo ha silenziosamente optato per una soluzione moderatamente “svedese”: mascherine obbligatorie per strada, sì, ma con scuole e attività commerciali aperte, sia pure con dei limiti, sottoposti comunque a blandi controlli. All’apnea cui il virus ci costringe resistono indubbiamente meglio le economie più robuste e diversificate. Non è il caso del Portogallo che, dopo la crisi dell’euro, il piano triennale della Troika (2011-2014) e l’arrivo dei socialisti al governo nel 2015, è riuscito a far quadrare il cerchio della crescita economica accanto al pareggio di bilancio grazie al boom turistico e ai consumi interni.

L’impazienza strisciante e poi l’aperta protesta di questi settori economici, unite alla volontà ideologica (certamente ricca di preoccupazioni giuste e comprensibili, ma non meno pericolosa sul piano epidemiologico) di tenere aperte a tutti i costi le scuole di ogni ordine e grado, hanno alla fine innescato un’accelerazione pandemica che adesso sarà molto difficile frenare, anche con la quarantena severa che nel frattempo è stata decretata e che darà il colpo di grazia proprio all’economia e alla didattica che si è cercato di salvare. Parafrasando il Churchill del dopo conferenza di Monaco, si dirà che i portoghesi dovevano scegliere tra…


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Ian Anderson: Sul palco io “sono” musica

SAN DIEGO, CA - OCTOBER 17: Musician Ian Anderson of Jethro Tull: Written And Performed By Ian Anderson performs on stage at Balboa Theatre on October 17, 2016 in San Diego, California. (Photo by Daniel Knighton/Getty Images)

Thick as a brick, Minstrel in the gallery, Aqualung sono alcuni degli album con i pezzi composti da Ian Anderson con i Jethro Tull, contribuendo alle sperimentazioni musicali e artistiche degli anni 70 e in particolare del progressive rock. Anderson sembra uscire fuori da un racconto di Cortázar, una sorta di Johnny Carter per intenderci, dove la ricerca della dimensione magica, onirica attraverso la musica è sinonimo di catarsi. «L’ho suonato domani», dice il protagonista del racconto. Lui abbraccia un unico spazio fatto di realtà e allucinazione, restando perciò sempre un passo avanti al dipanarsi della Storia. Insegue il suo stesso genio artistico trasformandosi sul palco in molteplici personaggi come il giullare o il menestrello e tra i denti sempre il suo flauto traverso. Sono maschere che non nascondono il curioso Ian dai capelli lunghi arruffati, i fianchi stretti e con gli occhi tirati da un’ironica follia luciferina ma aprono alla visionarietà completandolo, proprio come le tante voci si allungano e si riflettono in una eco.

Cosa ha influito sul tuo linguaggio musicale e sulla scrittura dei testi?
L’arte visiva è fonte del 90 per cento di quello che scrivo. Sono stato molto appassionato di pittura e fotografia fin dai primi anni di college. Apprezzo la grandezza degli impressionisti, la surrealtà di Magritte ma in particolare sono affascinato da un certo filone di fotografi che rappresentano l’uomo che si muove all’interno di un piccolo spazio. Insomma, non amo particolarmente i ritratti stretti o i paesaggi senza personaggi. E così è per la scrittura; è per me come entrare in un teatro seduto a guardare uno spettacolo osservando gli attori che interpretano il loro personaggio, quello che fanno muovendosi all’interno della scenografia che ha per me un’importanza secondaria.

Quali fotografi ti hanno più ispirato?
Ammiro il documentarista Cartier-Bresson. Lui parte dalla scena e perciò dall’ambiente, dalla luce, dalle distanze mettendoli a fuoco con l’obiettivo della sua macchina fotografica per poi aspettare che questo spazio venga riempito dalle persone e dalle attività che svolgono creando anche una certa sfumatura dell’immagine dando vita a un vero e proprio spettacolo sociale. Tornando all’immagine teatrale è come se lui resti in attesa a guardare il palco con le tende aperte finché si riempia. Nel Regno Unito abbiamo avuto una scuola di pittori chiamata La scuola di Newland dal nome di un piccolo villaggio portuale nella Cornovaglia occidentale a sud-ovest dell’Inghilterra, ed era molto popolare nell’Ottocento, una sorta di anticipazione del pensiero fotografico documentarista dove si raffiguravano soprattutto lavoratori, pescatori dediti alle loro attività quotidiane nel loro scenario ambientale, per lo più marittimo. Si tratta di persone vere in luoghi reali. Io non…

(Traduzione di Ruben Vitiello)


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L’amore è ribellarsi al fascismo

Nel 1938 il poeta turco Nâzım Hikmet venne chiamato al banco degli imputati dal governo di İnönü perché i suoi versi erano accusati di incitare alla rivolta; passò in carcere più di dieci anni, non smise mai di scrivere.
Nel 1946 la poetessa russa Anna Achmatova fu espulsa dall’Unione degli scrittori sovietici, impedendole di fatto di pubblicare le sue poesie, ma mai di scriverle, recitarle, regalarle. Era ritenuta colpevole di estetismo e di non aderire ai canoni del realismo socialista.
Nel 1955, lo scrittore azero Samed Vurgun, fedelissimo del regime sovietico, così sentenziava: «Al centro del nostro pensiero poetico deve essere la grandiosa figura del nuovo uomo socialista», non c’è più spazio per la voce intima del poeta.

Il pericolo della poesia è sentito con forza dai regimi. I burocrati della censura se lo bisbigliano, mentre sudano freddo e tendono l’orecchio in ascolto. Perché la poesia si porta su pezzi di carta leggeri, che si nascondono nelle tasche, nelle borse, sotto i letti; sembra nulla, ma fa esplodere in mille pezzi i bastioni della repressione. Perché la poesia esiste anche se non viene scritta, se viene passata, di voce in voce, ai bordi delle strade. Si canta, la poesia, nelle notti d’amore. Si inventa, tutti possono inventarla: è un’arte democratica e popolare. Snobba il professionismo cattedratico, la tecnica e l’affettazione; cresce tra papaveri e ginestre, fuggendo gli allori.
Nel 1974, il 25 aprile, con una ribellione pacifica il Portogallo si liberò della dittatura fascista più longeva d’Europa, quella iniziata negli anni Trenta con Salazar. Nelle ore precedenti due canzoni vennero usate per annunciare alla radio che il momento era arrivato: prima “E depois do adeus”, struggente successo di Paulo de Carvalho; poi, a notte inoltrata, “Grândola vila morena” del cantautore antifascista Jose “Zeca” Afonso. Un canto proibito di una storia operaia. Tutti capirono che qualcosa stava per cambiare.

Nei lunghi mesi seguenti, sotto la spinta popolare, la rivoluzione prese sempre più un carattere socialista. A tutte le colonie fu riconosciuta l’indipendenza, imprese e banche vennero nazionalizzate, il latifondo fu abolito e le terre redistribuite. Una famosa vignetta del tempo ritraeva i maggiori pensatori comunisti della storia riuniti intorno a una lavagna, a studiare il caso portoghese. Dopo due anni tormentati, nel 1976 il Partito socialista vinse le libere elezioni e Mário Soares divenne primo ministro. I fantasmi della dittatura erano stati spazzati via.
In Portogallo la resistenza al fascismo non era mai stata domata. Poeti, scrittori, registi, cantanti, artisti avevano continuato a creare per immaginare un mondo nuovo. Doveva esserci qualcosa, in quella loro opposizione vitale, di quella coraggiosa speranza che portò sconosciuti marinai portoghesi e italiani a iniziare a navigare verso l’ignoto, ben prima degli spagnoli, immaginando un oltre.
Daniel Filipe, poeta capoverdiano, torturato e perseguitato dalla Pide, la polizia politica portoghese, aveva scritto nel 1961 un poema rivoluzionario: L’invenzione dell’amore. È la storia di…


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I sogni e lo scacco alla morte

La pandemia, evento morboso di natura infettiva esteso a tutta l’umanità, rientra nella categoria dei “disastri”. Il disastro è una situazione di stress collettivo legato a situazioni in seguito alle quali è impedito lo svolgimento di funzioni essenziali del vivere sociale. Pandemia e disastro sono sinonimi di crisi o “catastrofe” termine che nella Poetica di Aristotele indicava il punto culminante della tragedia caratterizzato dal passaggio brusco del protagonista da uno stato di benessere ad uno di infelicità di fronte alla soluzione, di solito luttuosa, del dramma. La catastrofe, come suggerisce l’etimologia della parola, è un rivolgimento, un rovesciamento improvviso che introduce una discontinuità, una frattura nella vita di una persona, di una comunità o dell’intera umanità. Karl Jaspers, agli inizi del Novecento, accennava alle psicosi da catastrofi, fenomeni psicopatologici
collettivi e reattivi ad eventi di particolare gravità. In seguito si sono individuati i “Disturbi post traumatici da stress”, ai quali oggi si fa continuo riferimento o le varie “sindromi da disastro”. Andando oltre le descrizioni sintomatologiche e le categorie nosografiche molti ricercatori si sono concentrati in tempi recenti sullo studio dei sogni cercando di comprendere a quali modificazioni essi vadano incontro in seguito ad eventi catastrofici in particolar modo nel periodo dell’emergenza da coronavirus. Mettere in relazione sogno e realtà storico sociale, nello specifico la pandemia da Covid-19, comporta implicitamente…


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Una rete per proteggersi dall’odio online

This is a person being alienated by a group of people. eps.10 Transparencies used.

Internet e il digitale hanno rappresentato in questo anno di pandemia la nuova fonte di socialità, uno dei pochi mezzi a disposizione per mantenere i rapporti professionali e personali.

Il digitale ha portato con sé nuove sfide, che seppur già presenti si sono manifestate con urgenza nel momento di un uso massivo della rete, che ha posto tutti noi in una condizione di isolamento fisico. “Solitudine” è stata una delle parole chiave degli ultimi mesi, un isolamento colmato per quanto possibile con la presenza in numerose piazze virtuali. Si è dibattuto a lungo delle conseguenze di questo isolamento sulle famiglie, sulle persone anziane. Si è parlato delle difficoltà legate a uno smart working per cui il Paese non era pronto e di quelle di una didattica a distanza organizzata in fretta dai docenti più abili con le tecnologie. Ma cosa è accaduto agli adolescenti che sono nella fase della vita in cui scoprono la relazione con l’altro, al di fuori del nucleo familiare, coloro che si trovano in quel periodo della vita in cui la crescita personale avviene anche grazie alle dinamiche di gruppo?

Le notizie degli ultimi giorni raccontano il disagio diffuso tra i più giovani, le conseguenze devastanti dell’isolamento associato ad una vita online che è aumentata a dismisura e ha portato con sé tutte le sfide e criticità di un uso non consapevole della rete. Gli adolescenti sono esposti a contenuti e incontri nocivi, rischiano di diventare il bersaglio di comportamenti pericolosi.

Secondo uno studio realizzato dall’associazione Di.Te. (Associazione nazionale dipendenze tecnologiche), assieme a Skuola.net e all’Università politecnica delle Marche, le manifestazioni dei bulli in rete sono…


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Ma vi ricordate l’app Immuni?

Medical workers wearing protective gear take swabs to test for COVID-19 at a drive-through for people returning from Croatia, Spain, Malta and Greece, at the San Carlo hospital, in Milan, Italy, Tuesday, Aug. 25, 2020. People returning to Italy from Spain, Malta, Greece and Croatia must be tested within 48 hours of entering the country, after those nations saw worrisome upticks in infections. (AP Photo/Luca Bruno)

Lanciata nella scorsa primavera e disponibile dall’1 giugno 2020, l’app Immuni era stata presentata come una delle armi che il governo italiano stava affilando contro la Covid-19, in parallelo con altri progetti simili di contact tracing sviluppati nel resto del mondo per fronteggiare la pandemia. Subito erano scoppiate le polemiche, tra fedelissimi dell’algoritmo salvatore e complottisti secondo cui l’app avrebbe potuto installarsi a nostra insaputa per defraudarci dei nostri dati sanitari. E poi c’era chi, come noi (v. Left dell’8 maggio 2020, ndr), semplicemente avanzava alcuni dubbi sulla reale efficacia e adeguatezza dello strumento. A ragione. Oggi quasi non se ne parla più, nessuno sembra interessarsi della sua funzionalità e del suo destino.

Per capire come stanno le cose, partiamo dai numeri che abbiamo a disposizione. Innanzitutto quelli delle comunicazioni di contatto stretto avvenute tramite app. Per avere un’idea di quanto (poco) incidano nella lotta alla pandemia, possiamo raffrontarli al numero di nuovi contagi da Covid-19, visto che non abbiamo a disposizione il numero totale dei contatti stretti rilevati nelle regioni italiane (che possono essere individuati non solo tramite app, ma anche tramite il tracciamento “analogico” operato dai Dipartimenti di prevenzione delle Asl).

Le regioni sul podio per numero di smartphone squillati a causa di Immuni nella settimana tra il 18 e il 24 gennaio sono…


L’editoriale è tratto da Left del 29 gennaio – 4 febbraio 2021

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Yemen, moneta di scambio tra Occidente e Medio oriente

SANA’A, YEMEN –NOVEMBER 28: Yemenis gather to receive food aids from a distributing center provided by charity people on November 28, 2018 in Sana’a, Yemen.

«La designazione degli Usa del movimento yemenita houthi (Ansar Allah) come organizzazione terroristica è stato l’ultimo sconcertante atto dell’amministrazione Trump». Non ha dubbi la nostra fonte yemenita nel commentare la decisione dell’ex Segretario di Stato Usa Mike Pompeo annunciata pochi giorni dall’insediamento del nuovo presidente statunitense Biden. «È un errore gravissimo che rischia di far cadere il Paese in una carestia di dimensioni mai viste dalla catastrofe degli anni 80 in Etiopia», aggiunge sconsolata.

Una denuncia condivisa da analisti e ong umanitarie che operano in Yemen. Ma soprattutto dal direttore generale dell’Ufficio delle Nazioni unite per il Coordinamento degli affari umanitari Marc Lowcock che ha esortato a metà gennaio Washington ad annullare la sua disposizione perché «potrebbe portare ad aumento del costo cibo del 400%». «Già 50mila yemeniti rischiano di morire di fame in quella che è già una piccola carestia – ha spiegato -. Ma altri 5 milioni si trovano soltanto poco dietro».

Il disastro umanitario yemenita è evidente solo nei numeri: l’80% della popolazione (24 milioni su 30,5 complessivi) ha bisogno di assistenza umanitaria. Di questi, 14 milioni ne hanno assoluto bisogno. A preoccupare è soprattutto l’insicurezza alimentare che riguarda 20 milioni di persone, ovvero 2 su 3 yemeniti. Senza poi dimenticare che 20 milioni non hanno accesso all’acqua pulita e servizi igienico-sanitari. Lo Yemen è un Paese distrutto, lacerato dall’epidemia di colera (ora pare terminata) e ora dal Covid-19 le cui morti ufficiali sono sotto il migliaio. Un dato sicuramente a ribasso dato che il sistema sanitario è del tutto collassato dopo 6 anni della guerra saudita anti-houthi che ha fatto oltre 100mila vittime.
In questo contesto, la decisione nordamericana contro gli sciiti houthi filo-iraniani sembra dare il colpo finale. «La mossa soffocherà i flussi di cibo nel Paese che dipendono per lo più da importazioni e complicherà il lavoro delle agenzie umanitarie – denuncia la nostra fonte -. I commercianti yemeniti temono infatti che …


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L’arabo fenice

Dunque ieri abbiamo avuto l’occasione di assistere in differita al doppio Matteo Renzi, quello in versione zerbino di fronte al principe saudita Bin Salman e quello che fa la voce grossa nella crisi politica che lui stesso ha provocato in piena pandemia. Sono due Mattei così lontani tra di loro, probabilmente anche molto inopportuni nei tempi, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi che non è solo politica ma forse e soprattuto di credibilità.

Il Renzi prostrato ai sauditi (per la modica cifra di 80mila euro l’anno) è quello che da senatore della Repubblica, da membro della commissione Difesa, quello stesso che da mesi vorrebbe avere in mano la delega ai Servizi segreti, riesce a fare la velina per il principe Bin Salman con il suo inglese alla Alberto Sordi celebrando l’Arabia Saudita (terra di principesca violenza e di diritti negati) come “terra di un nuovo Rinascimento” insozzando un po’ della sua Firenze di cui si sente padrone, è lo stesso Renzi che riesce a dirgli «non mi parli del costo del lavoro a Ryad, come italiano io sono geloso» dimenticando che da quelle parti siano vietati i sindacati (e quindi i diritti) e le manifestazioni (chissà cosa ne pensa l’ex ministra Bellanova), quello che si fa chiamare ripetutamente “Primo ministro” per celebrare e per autocelebrarsi. Una scena imbarazzante nei modi e nei contenuti da cui i renziani si difendono nel modo più bambinesco e cretino ripetendo all’infinito “e allora gli altri?” come avviene tra bambini dell’asilo.

Il Renzi italiano invece è quello che dopo il colloquio con Mattarella si ferma per un’ora davanti ai giornalisti scambiando come al solito una conferenza stampa per un comizio e raccontando ancora una volta un’impressionante serie di balle infilate una dopo l’altra, riducendo ancora tutta la crisi di governo alla difesa del suo partitino politico (indignato perché c’è qualcuno che non vuole più trattare con lui) e spiegando ai giornalisti di non avere posto veti su Conte al Presidente della Repubblica per poi smentirsi pochi minuti dopo con un suo stesso comunicato che invece chiede che l’incarico venga dato a un’altra personalità. «Oggi non si tratta di allargare la maggioranza ma di verificare se c’è una maggioranza: se vi fosse stata una maggioranza, non saremmo stati qui ma al Senato per votare la fiducia a Bonafede», ha detto ieri Renzi nel tentativo di fermare il tempo in questa fase che gli regala un po’ di visibilità e temendo tremendamente lo spettro delle elezioni che lo farebbero scomparire. Poi, sempre in nome della sua coerenza, è riuscito a stigmatizzare la nascita di un nuovo gruppo in Parlamento dimenticandosi che la sua stessa Italia viva sia frutto dello stesso trucco parlamentare. Ma si sa: per Renzi le stesse identiche azioni hanno dignità differente se è lui a compierle o se sono gli altri.

E così tra liti e tentativi di riconciliazioni si trascina una crisi politica che diventa ogni giorno di più una barzelletta, sfiancante per i toni e la bassezza dei protagonisti, sfiancante perché avviene in un momento di piena pandemia.

E viene voglia di dirsi che finisca tutto presto, il prima possibile.

Buon venerdì.