Home Blog Pagina 430

Il segno che ha fatto la Storia

Fountain pen on antique letters and empty sheet

Il sito International pen friends conta oggi circa 300mila iscritti in 192 Paesi e promuove la corrispondenza di lettere tra bambini, adolescenti e adulti di tutto il mondo. Il suo obiettivo principale è quello di conservare l’arte della scrittura delle lettere.
Nell’era digitale tanti scelgono ancora di scrivere a mano e, per conservare questa abilità, il 23 gennaio si celebra in tutto il mondo la Giornata della scrittura a mano.
Ormai è noto che la scrittura ha cambiato la storia dell’umanità e la sua invenzione ha datato la transizione dalla preistoria alla storia. Con il passaggio dall’oralità alla lingua scritta, l’uomo non ha più bisogno di utilizzare moduli fissi o frasi fatte per trasmettere la tradizione, la cultura e la memoria della propria civiltà. Questa è affidata ai libri. Ora attraverso la lingua scritta l’essere umano è libero di comunicare il proprio pensiero e le proprie emozioni.

La scrittura è nata in luoghi diversi, in modo indipendente, per rispondere alle necessità di contatti economici, sociali e culturali. Nel corso dei secoli la scrittura ha assunto valore anche da un punto di vista antropologico, poiché non trasmetteva soltanto dati relativi all’aspetto utilitaristico della vita dei popoli, ma coinvolgeva anche la sfera sociale e culturale. Carlo Magno, ad esempio, utilizzò la scrittura denominata “minuscola Carolina” come strumento unificante dei popoli dell’impero, anche se ogni area geografica ha rivendicato il proprio tratto distintivo attraverso specifiche caratteristiche grafiche. La scrittura inglese era sottile ed elegante, quella francese e spagnola tondeggiante, mentre quella italiana era grande e rotonda. Potremmo quindi ipotizzare che la calligrafia rappresenti elementi identitari sia collettivi sia individuali.
«Neurologi, antropologi e linguisti sono tornati a rifare la storia della scrittura per indagare che cosa ha significato nell’esperienza sensoriale dell’individuo l’invenzione della scrittura… e per capire cosa ha significato per il cervello umano la sfida di praticare la lingua non solo con le orecchie ma anche con gli occhi e con la mano», afferma Francesco Sabatini nel corso di formazione 2017/18 Leggere e scrivere,  dell’Accademia della Crusca.
Come si impara a scrivere? Si è scoperto che…


L’intervista prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Ghigo Renzulli: Quella volta che aprimmo il concerto dei Clash…

MILAN, ITALY - MARCH 31: Ghigo Renzulli of Italian rock-band Litfiba performs on stage on March 31, 2017 in Milan, Italy. (Photo by Sergione Infuso/Corbis via Getty Images)

Non è solo l’unica presenza fissa nei Litfiba, ma anche una delle star più rappresentative del panorama rock italiano. Federico “Ghigo” Renzulli si racconta senza filtri al nostro settimanale. A partire dalla cantina di via de’ Bardi, là dove tutto nacque negli anni 80, sino alla reunion con Piero Pelù alla fine degli anni Duemila. E all’ultimo progetto solista del chitarrista e autore campano di nascita e fiorentino di adozione, No.Vox. Un viaggio musicale di oltre quarant’anni, con sullo sfondo un’Europa che cambia. Ma partiamo dall’inizio.

La tua infanzia. I primi contatti con la musica. Il tuo rapporto con i tuoi genitori.
La mia infanzia è stata molto felice. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia unita e compatta, di mentalità un po’ all’antica e patriarcale, ma che mi ha dato una educazione rispettosa dei valori umani basati sul lavoro, sugli ideali e sul rispetto degli altri. Il mio rapporto con i genitori è sempre stato ottimo, anche con mio padre, un uomo all’antica tutto d’un pezzo, con cui ho avuto a volte qualche diverbio ideologico ma che ho sempre rispettato ed onorato. La passione per la musica invece me l’ha trasmessa mio nonno, diplomato in corno al conservatorio di Napoli. Fin da bambino mi faceva ascoltare la musica classica, l’opera e soprattutto la musica napoletana interpretata dai più famosi tenori dell’epoca.

Nel tuo libro 40 anni da Litfiba racconti tanti decenni. Ci parli dei tuoi anni Settanta?
Quelli furono per me gli anni della scoperta del mondo e della vita. Fu un periodo duro e difficile per l’Italia, ma nonostante tutto c’era la voglia di migliorare la società e di lottare per raggiungere questo scopo. Ero un ragazzo che ebbe comunque la fortuna di vivere la sua gioventù mentre si stavano affermando stili di vita alternativi e anticonformisti, e feci esperienze di tutti i tipi, sia belle che brutte, passando attraverso il mio periodo “lisergico”, il servizio militare e lunghi periodi vissuti all’estero, senza mai dimenticare la musica e la mia chitarra, che con forza sempre maggiore entravano a far parte della mia vita.

La cantina di via de’ Bardi a Firenze. Da qui è partito tutto. È ancora meta di pellegrinaggio?
Con il senno di poi devo dire che all’epoca fui un vero pioniere. Quando trovai il locale e lo feci diventare, con tanto sudore e tanto lavoro, una sala prove, non me ne rendevo conto. Seguivo solamente il mio istinto che era quello di un ragazzo che voleva vivere e godere della sua musica e che non si tirava indietro davanti a niente per farlo. Fu un luogo importantissimo dove…


L’intervista prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

«Una sinistra democratica è ciò che vogliamo», dice Pahor…

L'écrivain Italien Boris Pahor, le 26 mai 2012 à Saint Malo, France. (Photo by Ulf ANDERSEN/Gamma-Rapho via Getty Images)

È la storia drammatica e appassionante di un partigiano e combattente delle idee e della libertà quella che Boris Pahor ha scritto con la sua vita e suoi scritti. 108 anni di integrità e coraggio al quale non ha rinunciato neanche quando nel luglio scorso Mattarella gli ha conferito l’onorificenza di cavaliere della Gran croce: «Un riconoscimento che ho accolto dal presidente della Repubblica con sincera gratitudine» ci dice al telefono. «Ma – precisa lo scrittore – deploro la fallace e pericolosa narrativa sulle foibe propalata con la Giorno del ricordo».

Dell’orrore e della disumanità del nazifascismo Pahor ha scritto in molti libri raccontando i due anni terribili passati in cinque campi di concentramento: Natzweiler, Dachau, Dora, Harzungen e Bergen Belsen. Già a 6 anni nella sua Trieste ebbe il primo scioccante incontro con azioni squadriste. Nella sua memoria sono ancora vive le fiamme dell’incendio del 13 luglio nel 1920 del Narodni dom, la casa della cultura slovena. Quel rogo dei libri mostrava la persecuzione verso il popolo sloveno autorizzandola. Il fascismo impediva qualsiasi forma di espressione associativa e di pensiero agli sloveni. E ne colpiva l’identità culturale proibendo loro l’uso della propria lingua, come Pahor ha raccontato in Qui è proibito parlare (Fazi editore) e Piazza Oberdan (Nuova dimensione). Anche per questo entrò nel Tigr, la resistenza slovena. Poi l’arresto da parte della Gestapo, i vagoni piombati, la stella rossa di prigioniero politico nei lager. Di tutto questo, con grande forza e umanità, ha scritto in Necropoli (Fazi).

Oggi come allora Boris Pahor si interroga sulle radici di quello sterminio lucido perpetrato dal nazifascismo e sull’omertà e l’indifferenza che ne furono il terreno di coltura. Ieri rispetto agli ebrei e oggi rispetto ai migranti che muoiono nel Mediterraneo e che vengono denudati, derubati e respinti lungo la rotta balcanica. Denunciando le conseguenze che potrebbero avere nel presente il tradimento della memoria, il negazionismo e la falsificazione della storia. A indignarlo in particolare è «La pletora di falsità che hanno accompagnato l’istituzione de il Giorno del ricordo che dal 2004 si celebra il 10 febbraio, senza menzionare esplicitamente i crimini fascisti contro gli sloveni nel ventennio fascista», come ha scritto insieme a Tatjana Rojc in Così ho vissuto (Bompiani). Ed è sulla pericolosità di questa narrazione che, nell’avvicinarsi dell’anniversario, Pahor vuole richiamare la nostra attenzione.

«Vorrei fare un riconoscimento al secolo trascorso dicendo che dobbiamo usarlo molto bene» esordisce, riprendendo immediatamente il filo della conversazione avviata dal collega Marino Calcinari (v. box): «Non mi capacito come sia possibile che anche massime cariche dello Stato colte e intelligenti possano dire che gli jugoslavi, ossia gli sloveni di sinistra, avrebbero sistematicamente mandato gente alle foibe, non è accettabile. La narrazione sulle foibe è basata su una bugia molto pericolosa. Che messaggio diamo ai giovani? Se diciamo loro una cosa non vera, ossia che gli sloveni di sinistra si sono vendicati, potremmo suscitare il pensiero che sia bene che arrivi una forza autoritaria per fare ordine in Italia». Quale dovrebbe essere dunque per lei, Boris Pahor, il senso del Giorno del ricordo?

«Si dovrebbero ricordare gli esuli. Ripeto, dire che gli sloveni si sono vendicati è una sporca menzogna. Anzi, ai militari fu detto: la guerra è finita, lasciate qui le armi e andate a casa. Potevamo fare dei prigionieri, ma abbiamo detto: siete liberi, andate a casa. Intanto i tedeschi erano già scesi a Milano. Alla stazione di Trieste c’erano i carabinieri. Io ho tagliato la corda, sono salito su un treno che mi ha portato a Miramare e sono salito in montagna per fare la lotta partigiana. Su quel treno che procedeva a fatica, piano piano, c’erano tanti altri giovani come me. All’epoca i giovani li mandavano a San Saba a lavorare per poca paga, ma noi abbiamo scelto un’altra strada».

La voce qui si fa più flebile quasi un soffio. Grazie professore delle sue parole, abbozzo, non voglio stancarla troppo. «Aspetti – mi ammonisce con garbo – vorrei che lei riportasse su Left che lo scrittore Boris Pahor ha scritto una lettera al presidente della Repubblica ricordando che la storia delle foibe è una bugia, certo non posso chiedergli di ritrattare il suo discorso, ma potrebbe sottoscrivere e rilanciare quanto ha dichiarato l’Unione italiana slovena di cultura e di storia che ha lavorato sei anni per scoprire la verità storica». Impossibile mettere sullo stesso piano partigiani comunisti e ragazzi  di Salò pena il tradimento della memoria di chi ha dato la vita per la democrazia e la libertà. «La verità è che abbiamo sperimentato una feroce dittatura nazifascista. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta – sottolinea con orgoglio -. Anche la casa di cultura slovena è stata riparata, ora è come nuova. Dunque sono stato contento di accettare il premio che il presidente della Repubblica mi ha conferito, parlando dei campi di concentramento. Lo ringrazio e offro il premio alla memoria delle vittime del fascismo, è importante non perdere la memoria dei luoghi, dei volti, delle storie».

Trieste è stata ed è uno straordinario crocevia di storie e culture, ma anche uno sfaccettato laboratorio di resistenza. Lo stesso Pahor da intellettuale di ispirazione cristiano democratico diventò partigiano di sinistra. Mentre si ricorda il centenario della nascita del partito comunista gli chiediamo quale fosse la sua posizione. «Io non sono mai stato anticomunista», risponde Pahor. «Sono sempre stato amico del comunismo che lotta per la dignità e la giustizia per i diritti dei lavoratori. Ho attaccato il comunismo quando è diventato dittatura. Non posso dire che Tito non avesse delle buone idee, ma è stato un dittatore. C’erano comunisti che erano contro la dittatura, ma non contavano, li mettevano ad attaccare i francobolli. Invece erano loro i veri comunisti».

Accadeva nella Repubblica socialista federale di Jugoslavia dell’epoca di Tito ed era accaduto in Urss. «Lenin voleva la dittatura del proletariato ma il proletario non deve mai diventare dittatore, il proletariato deve costruire una società solidale, libera, democratica. Morto Lenin, Stalin prese in carico il progetto di fare la dittatura, costruendo campi di concentramento in Siberia purtroppo facendo man bassa dei comunisti democratici. Chi è per me un comunista democratico? È un uomo che combatte con me per la libertà e la cultura delle minoranze, in Italia ci sono 12 minoranze linguistiche che chiamiamo nazionali, coscienti di essere italiani parlano un dialetto greco, un dialetto sloveno, un dialetto ladino, ecc. Siamo italiani grazie e per il dialogo», dice evocando il suo lungo impegno in questo ambito come direttore di riviste e animatore del dibattito culturale.

«Posso concludere con un augurio? Che la democrazia in Italia sia ricca, libera, non dittatoriale. La sinistra democratica ha diritto di vivere completamente libera. Che le pare? Potrebbe un bel titolo per questa nostra conversazione: “La sinistra democratica è ciò che vogliamo dice Pahor, la sinistra sì ma democratica”. Mi piacerebbe leggerlo su Left».

 


L’intervista è tratta da Left del 22 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Le tre eresie

POTOCARI, BOSNIA AND HERZEGOVINA - JULY 10: A young Muslim girl walks past a stone memorial bearing the names of victims of the 1995 Srebrenica massacre at the Potocari cemetery and memorial near Srebrenica on July 10, 2011 in Potocari, Bosnia and Herzegovina. The newly-identified remains of 613 victims are scheduled to be buried in a ceremony to be held on July 11, the 16th anniversary of the massacre. At least 8,3000 Bosnian Muslim men and boys who had sought safe heaven at the U.N.-protected enclave at Srebrenica were killed by members of the Republic of Serbia (Republika Srpska) army under the leadership of General Ratko Mladic, who is currently facing charges of war crimes in The Hague, during the Bosnian war in 1995. A Dutch court recently found the Dutch government responsible for the deaths of three of the victims when Dutch U.N. peacekeepers handed the three men, who had been working on the Dutch base in Srebrenica, over to Serbian soldiers. (Photo by Sean Gallup/Getty Images)

Ci vorrebbe la capacità di un drammaturgo elisabettiano o la genialità del maestro del brivido per dipanare intrighi internazionali, vicende vere o presunte, follie di despoti locali, ordalie di mafie e capi carsimatici, apparizioni e crolli, deliri mistico-ideologici, miracoli, minareti e campanili, orrori tanti e stupri orrendi affogati nella rakija, tanta rakija a incendiare o spegnere, ogni cinquant’anni, la polveriera balcanica.

L’immagine migliore per raccontare ciò che è accaduto nei Balcani fra il 1980 e il 1995 (o 1999) la troviamo in As I lay dying (Mentre morivo) di William Faulkner, dove si racconta la vicenda della famiglia Burden, poveri contadini del sud degli Stati Uniti, che in occasione della morte della madre, trasportano il feretro per nove lunghi giorni fino a Jefferson per darle una degna sepoltura. Il padre Anse e i cinque figli, incontrano gli ostacoli dell’acqua e del fuoco prima di poter arrivare in città con il carro su cui la bara emana ormai un fetore terribile.

E sono proprio le difficoltà del viaggio a far esplodere tensioni e rancori che covano tra i membri della famiglia, ciascuno dei quali è prigioniero del proprio dramma privato e nasconde segreti e desideri più o meno inconfessabili, raccontati nel romanzo da ognuno dei protagonisti dal proprio punto di vista.

Nove giorni che in ex-Jugoslavia diventano nove anni, ovvero gli anni che trascorrono dalla morte di Tito (1980) al 28 giugno del 1989, giorno in cui Milosevic pronuncia il celebre discorso di Kosovo Polje sul rischio di un futuro scontro armato in difesa dell’identità nazionale serba.

Le date in questa storia sono importanti. Una in particolare. Il 28 giugno in ex-Jugoslavia non è un giorno come un altro, è un po’ come il…


L’intervista prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Violeta Tomic: «Così Bruxelles fa un favore ai nazionalisti»

Violeta Tomic andrebbe definita come una donna senza confini. Nata in Bosnia, a Sarajevo ma cresciuta in Slovenia, nota in tutto il Paese come attrice teatrale, cinematografica e televisiva, capace di passare dal dramma alla satira con una incredibile poliedricità. Ma insieme alla carriera artistica ha sempre coltivato la passione e l’impegno politico che l’ha portata dal 2014 ad essere eletta in Parlamento con la allora Sinistra unita. Nel 2015 è stata fra i protagonisti delle contestazioni contro il filo spinato anti immigrati fra Slovenia e Croazia. Riconfermata in parlamento nel 2018, con la formazione Levica (Sinistra), è stata nominata presidente della commissione cultura in Parlamento e, presso il Consiglio d’Europa Garante dei diritti delle persone Lgbt. Nel 2019 è stata indicata dal gruppo Gue/Ngl come candidata alla presidenza della Commissione europea (v. Left del 24 maggio 2019).

L’abbiamo raggiunta partendo da una occasione particolare, la decisione presa in sede Ue di nominare per il 2025 Nova Gorica e Gorizia, capitali della cultura europea. Una scelta che può avere caratteri interessanti non solo dal punto di vista simbolico. «Si tratta insieme di un onore e una sfida, soprattutto in questi tempi che non sono, per utilizzare un eufemismo, troppo amichevoli con chi crea cultura e con gli artisti. Mi auguro sinceramente che entro il 2025 avremo finito con la pandemia e che la creazione artistica possa riprendere ad agire col suo pieno potenziale. Anche la cooperazione transfrontaliera della capitale della cultura “Gorizia Nova Gorica”, tra Italia e Slovenia è importante, ancora di più in questa fase in cui assistiamo tutte e tutti a intolleranza, razzismo, nazionalismo e odio, amplificati dalle politiche di destra in Europa e nel mondo. La partecipazione congiunta di due Paesi vicini a progetti culturali è quindi un’opportunità per rafforzare il riconoscimento reciproco e la fiducia».

Pensi che da qui al 2025 si riuscirà a promuovere una maggiore conoscenza fra due mondi che sono rimasti molto separati?
Purtroppo, trovo che i tempi di crisi in cui viviamo oggi non abbiano un effetto positivo sulla società, sulla solidarietà e sulla cooperazione. Ognuno custodisce con ansia il proprio giardino, i gruppi neonazisti stanno rafforzando il loro potere, le fake news e l’incitamento all’odio stanno crescendo. Vengono violati i diritti umani e civili già acquisiti, l’uguaglianza delle donne è…


L’intervista prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

«Escort». E tutti giù a ridere

Dunque Alan Friedman ospite della trasmissione Uno mattina mercoledì 20 gennaio per commentare l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ha voluto regalarci una perla di maschilismo travestito da analisi politica dicendo: «Donald Trump si mette in aereo con la sua escort e vanno in Florida». Poi si è corretto, come si correggono i pessimi comici che non fanno ridere e ha detto «moglie».

La escort in questo caso era Melania Trump, moglie dell’ex presidente degli Usa. Si è levato giustamente un coro di indignazione ma poco, meno di come avrebbe dovuto essere. Perché? Perché in fondo offendere la compagna del proprio nemico politico è considerato meno grave per chi usa la difesa delle donne semplicemente come roncola, come l’ennesima arma da portarsi nell’agone politico.

Eppure offendere la moglie di un avversario per colpire lui è proprio un comportamento maschilista fatto e finito. Forse sarebbe il caso di difendere i principi e i valori indipendentemente dal fatto che ci tornino utili per attaccare quelli che non ci stanno a genio. Sì, è vero che fa ridere ascoltare Salvini che si indigna, proprio lui che ha portato sul palco una bambola gonfiabile paragonandola a Laura Boldrini. Ma questo non è il punto, ora. Il punto è difendere la dignità di Melania Trump, in quanto donna oggetto di attacchi maschilisti. Questo ci interessa.

Anche perché Friedman si è giustificato dicendo che non era una parola “voluta” e che stesse traducendo dall’inglese. «La parola che volevo dire era ‘accompagnatrice’», dice Friedman. Beh, caro Friedman, una moglie non è l’accompagnatrice del proprio uomo, non esiste solo in quanto portatrice dell’identità del suo marito o compagno. E poi sorge una domanda spontanea: Friedman è corrispondete dall’Italia dal 1983, davvero è ancora così indietro con la sua capacità di linguaggio? Dai, non scherziamo, su. Chiamare “gaffe” una frase sessista non si può sentire, no.

Ma andiamo avanti: la conduttrice rimprovera a Friedman la sua pessima uscita e lui dice che «Melania non è una vittima ma è razzista come Trump». Quindi il buon Friedman siccome voleva attaccare Melania Trump non le ha dato della razzista ma le ha dato della escort. Peggio di prima. Passano alcune ore e ieri Friedman scrive «ho fatto una battuta infelice, chiedo scusa». E niente, non riescono proprio a dire “ho fatto una battuta sessista e me ne scuso”. È più forte di loro.

Immaginate se quella stessa frase fosse stata rivolta alla moglie di Biden o peggio alla moglie di Obama: sarebbe scattato l’inferno. Dai, facciamo i seri e difendiamo i principi che vanno difesi senza farsi inquinare dal tifo. L’onestà intellettuale è una forma di rispetto per se stessi e in questo caso anche delle donne.

Buon venerdì.

 

Dove finisce l’Europa

Migrants watch Bosnian soldiers put up the tents at the Lipa camp outside Bihac, Bosnia, Friday, Jan. 1, 2021. The Bosnian army on Friday were setting up tents for hundreds of migrants who have been stuck in a burnt out camp in the northwest of the country in winter weather and with no facilities. Bosnia has faced international criticism leaving some 1,000 migrants practically without shelter after fire engulfed the Lipa camp near the border with Croatia last month. (AP Photo/Kemal Softic)

Che senso ha celebrare la Giornata della memoria se non la teniamo viva combattendo il negazionismo e la falsificazione della storia? Questa è la domanda spiazzante e radicale che ci pone lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Boris Pahor, dall’alto dei suoi 108 anni vissuti da partigiano della democrazia e della libertà. Basta andare in visita ad Auschwitz e studiare il nazifascismo denunciandone la logica disumana se poi non riconosciamo quella stessa agghiacciante matrice nei discorsi di alcuni politici di oggi? Come leggere altrimenti l’anaffettività di certi discorsi di esponenti di governo che, all’inizio della pandemia ci dicevano di rassegnarci a lasciar andare i nostri anziani e che ora dicono che i più ricchi devono avere un accesso prioritario al vaccino? Uno dei peggiori ministri della scuola che l’Italia abbia mai avuto, Letizia Moratti, in una settimana dalla sua nomina ad assessore regionale alla salute della Lombardia è riuscita perfino a fare peggio del suo predecessore Gallera chiedendo di distribuire i vaccini in base al Pil delle Regioni. Per chi non avesse ancora messo a fuoco quale sia l’ideologia sottesa all’autonomia differenziata ora può averne piena contezza: in quella prospettiva il diritto alla salute non è un diritto universale come scritto nella Carta ma un diritto legato al censo. Abbiamo visto l’ecatombe di morti che questo tipo di logica ultra liberista ha provocato negli Usa colpendo in primis le minoranze afroamericane e ispaniche?

L’impudenza delle affermazioni di Moratti colpisce ancor più essendo lei chiamata a gestire un bene pubblico come la salute in un Regione che proprio a causa di privatizzazioni, aziendalizzazione della sanità e dismissione della medicina territoriale ha registrato il numero più altro di morti per Covid in Italia. Con sfacciato classismo e cinismo quelli di “prima il nord”, “prima i ricchi” hanno anteposto gli interessi della produzione a tutto il resto, arrivando con una alleanza trasversale fra i due Matteo a causare una irresponsabile crisi di Governo mentre tutti gli sforzi dovevano essere concentrati sul piano vaccinale, sul Recovery fund, nel far ripartire la scuola, nel riformare gli ammortizzatori sociali in vista dello sblocco dei licenziamenti a marzo. Mentre il Paese versa in una crisi profondissima la politica delle destre (con molte maschere diverse ma unite da un’interesse corporativo) consiste nel pensare solo al proprio interesse “particulare”, perseguendolo con arroganza e disumanità. Non parliamo solo delle destre becere e ignoranti ma anche quelle in doppiopetto. Accade in Italia ma accade anche nell’Europa guidata dalla “coalizione Ursula” che chiude gli occhi di fronte ai diritti negati dei migranti, ai trattamenti disumani e degradanti che subiscono le persone che sono costrette ad avventurarsi lungo la rotta balcanica. Molti di loro vengono dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Siria e da altre aree di conflitto.

Le immagini dei reportage che pubblichiamo su Left ci riportano drammaticamente alla mente quel che accadde nei lager nazisti. Ci parlano di una tragedia che si consuma a pochi km dal nostro confine e in Italia non se ne parla. Eccetto rari casi. Come quello, preziosissimo, di Niccolò Zancan che nel suo libro Dove finisce l’Italia (Feltrinelli) ci racconta di migranti respinti a cui crudelmente vengono tolti cellulari e scarpe rigettandoli nel gelo perché muoiano assiderati. La polizia croata è accusata di abusi sistematici sui migranti al confine con la Bosnia. Organizzazioni come Amnesty hanno documentato brutali “respingimenti” e quotidiani atti di violenza. Qualche mese fa il Guardian aveva raccolto la testimonianza di migranti derubati, picchiati e marchiati con vernici a spruzzo con croci rosse in testa da agenti di polizia croati che ridacchiando infliggevano loro questo trattamento come «cura contro il coronavirus». Questi fatti avvenuti vicino al confine sloveno, sulla rotta 61 nella zona di Rijeka, si sono ripetuti poi molte altre volte. Il drammatico copione è sempre lo stesso. «Ci hanno fatto firmare dei fogli» denunciano i migranti a più voci. «Abbiamo chiesto asilo ma ci hanno detto di stare zitti». Deportazioni e respingimenti illegali ora sono al centro del Libro nero dei respingimenti a cui ha collaborato la rete RiVolti ai Balcani. Documenta in modo capillare l’ampia mappa degli abusi costantemente segnalato da rifugiati e migranti che tentano di attraversare il confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia e poi tra Slovenia e Italia.

Nel suo discorso alla Camera e al Senato il premier Conte, parlando dell’europeismo del suo governo ha fatto solo un accenno a una generica integrazione dei Balcani. Dal canto suo il ministro Lamorgese, sollecitata in due differenti occasioni dai deputati Magi e Palazzotto, ha dato risposte evasive e contraddittorie come ricostruisce il cooperante Gianluca Nigro per Left. Al momento, si calcola, che potrebbero essere 9mila i migranti che vivono vicino al confine bosniaco. Dopo recenti episodi di terrorismo la cancelliera Merkel e il presidente Macron hanno chiesto controlli più rigorosi alle frontiere dell’Europa. E la Croazia è disposta a fare di tutto. Alcuni europarlamentari hanno chiesto una commissione d’inchiesta indipendente per indagare sugli abusi e le violenze. Il fatto stesso che su 6.7 milioni di euro che la Ue ha dato alla Croazia per affrontare le questioni di confine, solo 300mila euro siano stati assegnati per garantire i diritti umani e il diritto internazionale la dice lunga, ha denunciato l’eurodeputata irlandese Clare Daly di Independents 4 Change. La rete RiVolti ai Balcani, intanto, ha raccolto l’appello di attivisti e volontari bosniaci, italiani e di altri Paesi europei affinché si fermi la catastrofe umanitaria che si sta consumando specialmente nel Cantone di Una Sana dove migliaia di migranti, richiedenti asilo e rifugiati, vivono all’addiaccio, senza assistenza. L’appello è pubblicato su Change.org. Firmiamolo.


L’editoriale è tratto da Left del 22-28 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Al confine tra umanità e disumanità

BIHAC, BOSNIA AND HERZEGOVINA - JANUARY 2: A migrant looks from inside burned down and devastated Lipa camp on January 2, 2021 in mountains near Bihac, Bosnia and Herzegovina. The European Commission announced that it would increase its humanitarian assistance by 3.5 million euros to help migrants in Bosnia, whose living conditions it considers "unacceptable". (Photo by Damir Sagolj/Getty Images)

La piazza della stazione di Trieste è tornata a essere vuota, non più migranti in arrivo dalla Rotta balcanica, di rado qualche volontario per monitorare gli arrivi. Questa assenza è soprattutto il frutto delle condizioni meteorologiche che non consentono gli arrivi a piedi e l’attraversamento dei boschi, pieni di neve o comunque impervi per essere battuti in questo periodo. Questa assenza non è la vittoria, dunque, della politica dei respingimenti messi in atto dai Paesi europei della Rotta, che sappiamo bene non essere strumenti efficaci né rispettosi delle norme Ue. Anzi tale strategia repressiva, incentrata su pratiche illegali, si configura come l’inizio di una fase delicata che rischia di intaccare i pilastri della civiltà giuridica europea.
Dal lavoro capillare e certosino di alcune organizzazioni della società civile, fra cui Amnesty international e la rete RiVolti ai Balcani che ha annunciato proprio in questi giorni l’uscita di un nuovo corposo report ragionato sul tema elaborato dal network internazionale Bvmn (Border violence monitoring network), emergono in modo cristallino le responsabilità nelle violenze dei Paesi della Rotta prima dell’arrivo in Italia e le responsabilità italiane nella gestione superficiale delle procedure di riammissione dei migranti arrivati sul confine orientale. Il documento si aggiunge al Libro nero dei respingimenti, curato dal Bvmn e pubblicato dal Gruppo parlamentare Ue Gue/Ngl, presentato alla stampa lo scorso dicembre, che ricostruisce dettagliatamente le violenze e la violazione dei diritti subite da oltre 12mila persone che hanno attraversato la Rotta balcanica dal 2016.
Questa piccola premessa per dire che le difficoltà e le violenze che si stanno perpetrando sulla Rotta balcanica, con particolare riferimento alla Bosnia e alla Croazia, sono diventate di dominio pubblico o, comunque, hanno sfondato il muro del suono della stampa. Ciò che, invece, rimane ambiguo e sfuggente all’opinione pubblica è il ruolo dell’Italia nell’organizzazione dei respingimenti a catena, che dai nostri confini conducono le persone fino in Bosnia.
Facciamo un passo indietro. Nel novembre 2018, altro ministro dell’Interno rispetto a oggi, altra compagine governativa, si registrano i primi casi di “riammissione” dall’Italia verso la Slovenia dalla frontiera di Trieste. Un’inchiesta de La Stampa mostra, infatti, come decine di persone arrivate sul confine orientale per la seconda volta dichiarino di aver subito respingimenti nonostante avessero espresso la volontà di chiedere asilo già al primo arrivo. In fretta e furia le autorità locali e nazionali si affrettano a chiarire che nessun richiedente asilo è stato riammesso in Slovenia. Tutto questo si ferma per un po’, ma dall’inizio del 2020, in concomitanza con la diffusione del Covid-19, i respingimenti riprendono e per questo la piazza della Stazione di Trieste inizia a riempirsi di transitanti che desiderano andare altrove, in Italia e all’estero. Lo spettro di una “riammissione” fa paura, rende tutto cupo e insicuro, in particolare se ciò avviene nel luogo che fino a qualche mese prima era quello dove si poteva avere la certezza di aver scampato il pericolo di un altro “game”.
La piazza della Stazione, che per ironia della sorte si chiama piazza Libertà, non era…

*-*

L’autore: Gianluca Nigro è un operatore sociale nel campo dell’immigrazione e dell’asilo. Dal 2014 vive e lavora a Trieste. Ha all’attivo alcune pubblicazioni sul tema dell’asilo e sullo sfruttamento dei migranti nel comparto agricolo. È stato fra i protagonisti nel 2011 dello sciopero della Masseria Boncuri a Nardò, in Salento.


L’articolo prosegue su Left del 22-28 gennaio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Non gli resta che intralciare

Foto POOL LaPresse 19-01-2021 Roma Politica Senato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla situazione politica Nella foto Matteo Renzi Photo POOL LaPresse 19-01-2021 Rome (Italy) Senate - Communications by Prime Minister Giuseppe Conte on the political situation In the pic Matteo Renzi

La mossa del cavallo non gli è riuscita, nemmeno stavolta. Ne sta sbagliando parecchie ultimamente Matteo Renzi ma la crisi di governo che alla fine non è andata a buon fine rimane una delle sue imprese più deprimenti per modalità, per l’accrocchio di motivazioni e per l’esito finale. Ma esattamente cosa ha ottenuto Renzi? Voleva ancora una volta essere lo spiffero che apriva una crepa per potersi intestare un eventuale nuovo governo e rivendicare un ruolo d’azionista, continuando a galleggiare con un peso politico dopato che esiste solo in Parlamento (perché bisognerebbe ricordare che il numero di parlamentari che Italia Viva ha ora sono solo il frutto di meccanismi di palazzo che non hanno nessuna corrispondenza nelle proporzioni nel mondo reale) e invece si ritrova ad essere all’opposizione con Meloni e con Salvini sempre più solo, circondato perfino dal malumore dei suoi uomini che ora gli presentano il conto del risultato rancido.

Renzi avrà avuto forse la soddisfazione di avere indebolito Conte e il governo (ma può essere un obiettivo politico destabilizzare un governo senza nemmeno la forza di farlo cadere?) ma sostanzialmente cosa ha ottenuto? Niente, zero, nisba. E infatti non è un caso che già ieri qualcuno dei suoi abbia cominciato a proporre aperture al governo e abbia cominciato a parlare dell’esigenza “di ricostruire”.

E ora che faranno Renzi e i renziani? Faranno gli intralciatori, ovvio, per farsi notare, per non sparire mentre fanno ciao ciao con la manina e nella giornata politica di ieri si è già avuto un assaggio significativo: durante il voto sulle misure contro la pandemia (misure discusse e decise quando Italia Viva era ancora in maggioranza) la capogruppo in Senato Laura Garavini ha annunciato il voto di astensione (per la discussione della pregiudiziale di costituzionalità ndr) con parole che sarebbero degne di una Meloni o di un Salvini qualsiasi: “stiamo assistendo ad una inedita modalità di produzione normativa. Un modo di procedere che non solo crea confusione tra i cittadini, a causa della sovrapposizione tra i diversi testi. Ma che viola le regole democratiche dei rapporti tra le fonti normative”, ha detto Garavini. Peccato che solo tre giorni fa il renziano Rosato dicesse: “la nostra è una rottura responsabile. Voteremo il decreto ristori, mercoledì in Aula voteremo lo scostamento di bilancio, giovedì e venerdì anche il decreto sul Covid, così come continueremo a sostenere tutte le misure che aiuteranno il nostro Paese nella lotta al coronavirus“. Niente, promessa mancata.

Ora continueranno così, pronti a essere l’elemento disturbante per potersi fare notare, pronti a fare pesare il loro (debole) peso per intralciare ogni cosa, almeno per certificare la propria esistenza. IV: intralciatori vivi. Segnatevelo ogni volta che sentirete Renzi parlare di “responsabilità”.

Buon mercoledì.

Cent’anni dopo. Il Congresso di Livorno e la sinistra di oggi

Sono cent’anni esatti. Da quel gennaio 1921 quando, al termine del XVII Congresso del Partito socialista italiano, si consumò a Livorno la scissione della componente comunista di Amadeo Bordiga, Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci. Fu allora che il gruppo di delegati comunisti lasciò il teatro Goldoni per dirigersi verso il fatiscente teatro San Marco, dove fu fondato il Partito comunista d’Italia. Un evento indubbiamente periodizzante, nella storia della sinistra, ma nell’insieme della storia politica del ’900. E con conseguenze che arrivano ad oggi, come dimostrano anche i numerosi interventi, libri, articoli, che da mesi animano il dibattito pubblico su quei fatti lontani cent’anni. Questo libro promosso da Left è però qualcosa di più di un instant book. Non un palinsesto d’occasione, ma un contributo autonomo, plurale, critico. Non c’è dubbio che con sempre maggior forza dopo il 1989, dopo cioè lo scioglimento del Pci e il disperante fallimento delle esperienze che ne scaturirono, dal Pds, ai Ds, al Pd, alla stessa Rifondazione, l’intera vicenda iniziata nel ’21 è stata liquidata come errore, colpa, fallimento. E anche del socialismo si è detto che “è morto”. A certe “narrazioni” questa raccolta di saggi intende reagire. Senza nostalgie. Questo è certo. Ma con attenzione critica, approfondimento di temi, proposizione di prospettive diverse e più comprensive. Oggi l’Italia è l’unico Paese in Europa senza più una sinistra. Né comunista, né socialista. E neanche azionista, sindacalista, movimentista, ecologista ecc. Interrogarsi sulle ragioni remote di tutto ciò è un dovere.

Possono aiutare alcune domande radicali: a Livorno vi fu davvero la scissione dei comunisti? La separazione da Filippo Turati e dai riformisti fu un atto di puro e semplice settarismo? E infine: la fondazione del Pcd’I fu un diktat di Mosca? È evidente che a seconda di come si risponde a tali interrogativi la storia prende una piega diversa. Si capiscono e si vedono cose diverse. È necessario però che le risposte siano altrettanto nette delle domande. Nell’ordine: a mio avviso a Livorno non vi fu nessuna scissione dei comunisti dal Psi. Accadde altro. Perché altro era l’obiettivo di partenza. La frazione comunista intendeva sicuramente assumere la guida del Psi, ma facendo blocco con la maggioranza centrista di Giacinto Menotti Serrati ed espellendo i riformisti di Turati. Quindi non si voleva una scissione, al contrario una espulsione. Questa era la linea dell’Internazionale comunista (le famose 21 condizioni imposte a tutti i partiti che volessero restare nell’Internazionale). Ma gli stessi comunisti erano divisi, da una parte Gramsci, Togliatti e Angelo Tasca decisamente contrari alla scissione, che ritenevano giocoforza minoritaria, dall’altra Bordiga, Bruno Fortichiari e quanti invece volevano il “vero partito comunista italiano”, duro e puro.

Il quadro era dunque assai complesso e va colto nel suo insieme se si vuole capire qualcosa di Livorno. C’erano tre componenti di massima: la sinistra comunista, divisa nel modo ora detto, la maggioranza centrista di Serrati, che accettava le 21 tesi ma avrebbe evitato di espellere i riformisti, la destra riformista di Turati e Claudio Treves. Il congresso sarebbe stato vinto da quella delle due “estreme” (comunisti o riformisti) che fosse riuscita a trarre a sé i centristi, formando una larga maggioranza. Il che però avrebbe comportato o l’espulsione dei riformisti o quella dei comunisti. Questi i termini della partita. Decisivo fu lo scontro congressuale fra Umberto Terracini e Turati. L’intervento del comunista torinese fu di alto livello. A suo dire in Occidente c’erano le condizioni “oggettive” per la rivoluzione. Per questo occorreva un nuovo tipo di partito. Il giudizio sull’esperienza riformista non era però liquidatorio. E qui si risponde alla seconda domanda posta all’inizio. Terracini riconosceva l’“attività necessaria” svolta dal partito a guida turatiana fra ’800 e ’900, esso «nel periodo prebellico ha creato in Italia delle forti organizzazioni sindacali, ha creato se stesso come forte partito politico, ha creato le cooperative, le mutue ecc.». Dunque non settarismo, ma un’analisi articolata della storia politica nazionale e in essa del movimento operaio. Dopo la prima guerra mondiale, dopo l’Ottobre, in presenza del fascismo montante, un certo tipo di partito e di politica, secondo i comunisti, era superato. Questa…


L’introduzione prosegue su “Livorno 1921, il tormento di una nascita” 

Acquistalo subito online
SENZA SPESE DI SPEDIZIONE

SOMMARIO