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L’attualità del socialismo a 100 anni dalla nascita del Partito comunista

La Rivoluzione Russa, nella semplicità delle sue parole d’ordine – «la pace, la terra ai contadini» – ha dato una soluzione positiva alle enormi questioni che la borghesia aveva creato – la guerra – o non era in grado di risolvere: la servitù della gleba e le diseguaglianze sociali.

I partiti comunisti nascono, sulla spinta della Rivoluzione Russa, come l’avanguardia di questo movimento universalistico che, a partire dalla classe operaia e dai contadini, agisce concretamente la liberazione di tutte e tutti gli sfruttati ed in prospettiva di tutto il genere umano. E’ un messaggio di fortissimo universalismo concreto quello che emerge dalla rivoluzione e – come esemplificato dallo slogan “fare come la Russia” – va oltre la politica tradizionale, parlando a tutte e tutti gli sfruttati.

Il comunismo 100 anni fa non era un fatto ideologico ma “la semplicità difficile a farsi”: la pace e la terra ai contadini, appunto. A quella semplicità dobbiamo tornare. Il comunismo non è una scelta religiosa o l’ideologia di un partito ma “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, cioè la ricerca della soluzione migliore a fronte delle enormi contraddizioni generate dal modo di produzione capitalistico.

A distanza di un secolo dalla prima guerra mondiale il capitalismo ci ha ributtati nella barbarie: della distruzione del pianeta, dello sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo, del razzismo e della guerra, delle masse sterminate dei poveri a cui fanno da contraltare la concentrazione di enormi ricchezze. Il capitalismo ha esaurito la sua spinta propulsiva e solo la fuoriuscita dalla logica del profitto come principio organizzatore del vivere sociale può garantire un futuro all’umanità.

Per questo l’umanità ha bisogno di Socialismo: come regno della libertà a partire dal superamento dello sfruttamento del lavoro e della natura. Come possibilità per l’umanità di utilizzare positivamente l’enorme potenzialità data dallo sviluppo della scienza e della tecnica. Come superamento delle classi sociali e di ogni ruolo sociale gerarchico e fisso a partire da quelli legati al genere o al colore della pelle. Comunismo come libertà degli individui di sviluppare positivamente la propria personalità in un quadro in cui l’uscita dal regno della necessità è garantita dalla cooperazione e dalla solidarietà.

Di questo parleremo giovedì 21 nel celebrare la nascita del Partito comunista d’Italia. Nella consapevolezza delle difficoltà: dalla guerra tra i poveri alla pervasività del pensiero unico fino alla nostra debolezza politica e sociale. Ma nel convincimento che la rifondazione un pensiero ed una pratica comunista rappresentano non solo un bene comune dell’umanità ma la condizione per uscire dalla barbarie dello sfruttamento dell’umanità e della natura. Perché come ci ha insegnato Seneca, «non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare».

*-*

 

 

 

 

 

 

Libertà, pace, lavoro, giustizia sociale, democrazia, tutela dell’ambiente. A 100 anni dalla nascita del Partito Comunista, l’attualità del socialismo

21 gennaio 2021 ore 18.00

Convegno on line – Presiede Rosa Rinaldi – Introduce Paolo Ferrero – Conclude Maurizio Acerbo

con la partecipazione di 

Heinz Bierbaum, Presidente del Partito della Sinistra Europea

Cinty Misculini del Comitato Centrale del Partito Comunista Cileno

Fabien Roussel, segretario nazionale del Partito Comunista Francese

Enrique Santiago, segretario nazionale del Partito Comunista Spagnolo

Intervengono: Giovanna Capelli, Paolo Ciofi, Carlotta Cossutta, Rita De Petra (Left), Paolo Favilli, Andrea Ferroni, Eleonora Forenza, Francesca Fornario, Dino Greco, Guido Liguori, Maria Grazia Meriggi, Dmitrij Palagi, Giovanni Russo Spena

diretta sulla pagina fb rifondazione comunista

Partito della Rifondazione Comunista, Partito della Sinistra Europea

 

Demolition man

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 28-12-2020 Roma Politica Matteo Renzi presenta il progetto di Italia Viva per il Recovery Plan Nella foto Matteo Renzi Photo Roberto Monaldo / LaPresse 28-12-2020 Rome (Italy) Matteo Renzi presents the Italia Viva party project for the Recovery Plan In the pic Matteo Renzi

Vi ricordate quando Renzi e i renziani volevano convincerci che la stampa internazionale impazzisse per lui e che solo grazie a lui l’Italia brillava nel mondo? Bene, ecco. Oggi proviamo solo a mettere in fila un po’ di commenti internazionali sull’ultima mossa politica di Renzi, perché ne vale la pena, perché rende l’idea e perché in fondo così il buongiorno si scrive praticamente da solo.

Demolition man Renzi mette sotto sopra Roma” è il titolo del Financial times, che scrive: «La crisi italiana minaccia di ostacolare il Recovery plan di Bruxelles». E poi aggiunge: «La mossa di Renzi potrebbe essere stata pensata per rafforzare il potere di interdizione del suo piccolo partito e la sua stessa immagine personale, ma potrebbe facilmente ritorcersi contro di lui, mentre il Paese combatte la pandemia».

Il Guardian scrive che la manovra «largamente impopolare» di Renzi arriva «nel momento peggiore possibile per l’Italia» e «lascia gli osservatori perplessi riguardo alle motivazioni». Nonostante siano stranieri hanno ben in mente i motivi della crisi: «La sua popolarità è crollata da quando ha dovuto dimettersi da premier dopo il fallito referendum del 2016. Italia viva nei sondaggi ha meno del 3% dei voti».

Andiamo avanti. El Paìs scrive di un «momento delicatissimo e difficile da spiegare». Il settimanale tedesco Die zeit scrive: «Con richieste sempre nuove» Renzi «ha portato alla caduta della coalizione di governo in Italia. Dietro c’è un calcolo di potere: il suo partito è basso nei sondaggi». «Renzi – conclude l’articolo – vuole far parte del prossimo governo», sia esso una riedizione «della coalizione precedente» sia nella forma di «una soluzione di tutti i partiti». «Ma se questo accadrà è scritto nelle stelle. È anche concepibile che Conte cerchi nuovi sostenitori tra i piccoli partiti di centro in Parlamento – e Renzi sederebbe poi all’opposizione senza alcuna influenza. O che si arrivi a nuove elezioni – e Italia viva lascerebbe quasi certamente il Parlamento. Renzi potrebbe allora passare alla storia come qualcuno che si è suicidato per paura della morte».

In Francia Le Figaro scrive: «Chi si assumerà la responsabilità della caduta del governo italiano in un momento in cui l’Italia sta attraversando una crisi senza precedenti?».

Insomma, un successo per Matteo. Pensate che aspirava alla Nato. Direi che anche questa missione è miseramente fallita.

Intanto la ministra Bonetti, quella che è stata dimessa da Renzi in una conferenza stampa che è stata tutto un attacco, ieri ha dichiarato: «Le mie dimissioni sono lo spazio perché questo tavolo si apra per le risposte da dare al Paese. Noi sgombriamo il campo, adesso si faccia la politica, noi ci stiamo». Aggiungendo di essere disposti a rimanere in maggioranza. Ettore Rosato, vicepresidente della Camera e presidente di Italia viva, è riuscito perfino a dire: «Se ci sono risposte concrete non abbiamo preclusioni rispetto a Giuseppe Conte».

Sempre peggio.
Buon venerdì.

A scuola prima di tutto

MILAN, ITALY - JANUARY 08: Italian students are preparing a sign to show during the protest against the posticipation of the schools reopening on January 08, 2021 in Milan, Italy. (Photo by Francesco Prandoni/Getty Images)

Ripartire dalla scuola pubblica come gesto radicale per cambiare il presente. Da qui in avanti, questa consapevolezza deve entrare nelle priorità di chi governa e del Paese intero. L’uscita da questa crisi avverrà solo se saremo capaci di tale cambiamento di rotta.

La pandemia ha reso evidente lo smantellamento dell’istruzione pubblica avvenuto negli ultimi decenni, insieme al totale disinteresse che un’intera classe politica ha nei confronti dei diritti dei/delle minori, della formazione e della cultura.

Garantire l’apertura di tutte le scuole in presenza, sicurezza e continuità, ribaltando le attuali priorità governative, è cogliere l’occasione da dentro questa crisi per ri-attivare un ragionamento sul ruolo del welfare pubblico nel presente e nel futuro – di una sua trasformazione, di una sua accessibilità potenziata. Organizzare tempestivamente l’apertura di tutte le scuole in presenza significa dare priorità al necessario rafforzamento del pubblico attraverso un suo finanziamento massiccio, invece di investire su una tecnologia proprietaria che, così applicata, non potrà mai fare scuola.

La scuola pubblica ha bisogno di soluzioni sul breve e sul lungo termine, dentro e oltre l’emergenza. Sul breve termine un rientro in sicurezza e continuità, in questo momento in Italia, significa garantire per tutta la popolazione scolastica screening di ingresso, così come organizzati ad esempio dalla Regione Toscana, e monitoraggio regolare. Quest’ultimo, come il movimento Priorità alla scuola chiede da aprile, renderebbe le scuole dei veri e propri…


L’articolo prosegue su Left del 15-21 gennaio 2021

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Il senso di Ken Loach per la working class

Ken Loach, director of "Sorry We Missed You." Photo courtesy of Zeitgeist films.

Come si manifestano le nuove forme di sfruttamento dei lavoratori, in particolare nei settori della logistica e della cura. Quale dovrebbe essere il ruolo dei sindacati, perché siano all’altezza delle sfide che hanno di fronte. Quale quello dei partiti di sinistra. Lo abbiamo chiesto al regista britannico Ken Loach, autore di film che pongono al centro le persone, costrette a fare i conti con un modello di società sempre più brutalizzata e oppressa dalle logiche di mercato. Unico a ricevere per due volte la Palma d’oro a Cannes (con Il vento che accarezza l’erba nel 2006 e Io, Daniel Blake nel 2016), il regista, premiato anche per capolavori recenti, quali La parte degli angeli (2012) e Sorry we missed you (2019), è stato tra le voci più autorevoli coinvolte dai Giovani comunisti/e, nell’ambito dell’iniziativa intitolata “Costruire il presente”, due giorni di dibattito in cui, partendo dalla pandemia, si è provato a gettare uno sguardo sul futuro. A margine dell’iniziativa, abbiamo rivolto a Loach alcune domande.

Ken, in Bread and roses (2000), hai posto come fulcro del film il processo di sindacalizzazione di un gruppo di dipendenti, assunti irregolarmente in un’impresa di pulizie. A distanza di vent’anni, quali sono le nuove forme di sfruttamento?
Le nuove forme di sfruttamento sono i lavori senza sicurezze o garanzie, quelli precari, che siano in ufficio o in fabbrica, nei turni notturni. Sono tutte quelle mansioni con basse retribuzioni e che non prevedono alcuna tutela per i lavoratori e le lavoratrici. Anche nell’ultimo film che abbiamo realizzato abbiamo esplorato due realtà di questo tipo, i lavoratori dell’assistenza e del settore logistico.

In effetti, in Sorry we missed you (2019), i protagonisti sono costretti a sacrificare la famiglia, pur di cercare un lavoro, che, per quanto instabile, garantisce maggiore sicurezza economica. In particolare, il protagonista si reinventa fattorino; può essere questa una forma di sfruttamento, secondo la tua definizione?
Non solo i rider, ma anche…


L’intervista prosegue su Left del 15-21 gennaio 2021

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Il sogno di una cosa

Da tre decadi navighiamo a vista tra i marosi della politica, stretti ai tronchi di una zattera legati dai fili di una solida identità che ci mantiene a galla, ci fa resistere e continuare a guardare alla politica come base del vivere civile. Abbiamo assistito a disastri ambientali, saccheggio delle risorse del pianeta, distruzione del mondo del lavoro, crollo di un intero mondo politico; liquefazione dei partiti storici. Inermi, siamo stati travolti da una potente ondata di populismo, quello grillino e quello delle destre reazionarie e razziste, privati di ogni rappresentanza politica: “ininfluenti”, come commenta ogni volta, sconsolato, un amico. Ora, fronteggiare l’emergenza Covid, ci può aiutare a dare una spallata ai populismi e a rimettere al centro della politica temi importanti: sanità pubblica, lavoro, istruzione e ambiente. Guidati da un governo M5s, meno rete e più partito, e da un Pd, che fa del tacere e dello stare immobile la sua cifra politica, abbiamo avuto un governo che si è dovuto occupare dell’emergenza ed ha amministrato più che governato, e quando è stato chiamato a misurarsi con la politica, per la presidenza del G20, ha dato pessime prove di sé. Greenpeace denuncia: «Il governo spieghi perché ha affidato a un manager Eni il ruolo di referente del tavolo ambiente e energia del G20». Eni, un’azienda con uno dei più alti tassi di emissioni al mondo; mentre al tavolo tecnico per le imprese manda Confindustria chiudendo ai sindacati.

Non andrà tutto bene. Trent’anni fa si è creduto che in Italia ci fosse bisogno di un grande partito socialdemocratico e riformista e che fosse necessario convertirsi al neoliberismo archiviando lotta di classe, eguaglianza e cultura, o per dirla con Gramsci «l’egemonia culturale». Si è mandata in soffitta l’utopia, quella di “un altro mondo è possibile”, o, come dice D’Alema: «Abbiamo appannato la nostra identità per inseguire la maggioranza», così oggi non abbiamo un partito rivoluzionario né uno riformista. Inermi abbiamo affrontato la pandemia, che ci ha sottratto gli affetti e si è abbattuta sul mondo del lavoro colpendo donne (-4,7%) e giovani (-8%). Nella legge di bilancio c’è la proroga del divieto dei licenziamenti fino al 31 marzo, dopodiché questi dati li dovremo aggiornare. L’onda lunga della pandemia la sentiremo negli anni a venire, quando all’interruzione forzata del percorso di formazione dei giovani corrisponderà un lavoro meno qualificato, sottopagato. Ma i lavoratori, donne e giovani, espulsi o che non avranno accesso al mondo del lavoro, cosa faranno, cosa penseranno, quali risentimenti coveranno? Quale movimento riuscirà a canalizzarli in energie positive volte al cambiamento? I movimenti? Con loro vinci le battaglie (referendum acqua pubblica e Costituzione 2016) e perdi sul terreno degli obiettivi concreti. Per questo ci vuole un partito che rappresenti queste istanze. «Un partito – come diceva il costituente Mortati – che faccia da cerniera tra società civile, società politica e istituzioni». Il rapporto tra Partito e Stato andrà approfondito; quello tipico dell’Occidente capitalistico non va universalizzato.

Quale partito? Non convince il coro dei politici che invoca un partito della sinistra, né asserzioni del tipo «riformare il capitalismo» di un D’Alema. Non è proponibile la “rete”. Il partito di cui la società italiana necessita deve avere un piede nei movimenti e uno nelle istituzioni; rimettere al centro i grandi temi (come facciamo con questa storia di copertina), avere la capacità di orientare gli umori, capire le aspirazioni e convogliarle in un programma politico credibile e aggregante. Un partito in grado di assumersi la responsabilità, che non deluda, ma abbia idee, ovvero metodo, prassi e teoria.

Quale “forma” di organizzazione per questo “partito” non è possibile dire, a meno che non si voglia partire da uno schema pregiudiziale. I partiti sono un prodotto storico (come raccontiamo in un libro sulla scissione del 1921, dal 15 gennaio in edicola, ndr) determinato dalle società in cui nascono e dalle leggi elettorali vigenti. Si può solo far riferimento all’art. 49 della Costituzione che pone a soggetto della formazione dei partiti «i cittadini» e indica la partecipazione dal basso alla politica nazionale con metodo “democratico”. Un diritto di libertà ribadito dall’art.12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione: «I partiti politici a livello dell’Unione contribuiscono ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione». Dovranno dunque essere “i cittadini” a farsi artefici della rinascita di un partito della Sinistra, quelli che, a dirla con Marx grazie alla «riforma della coscienza» vedono «che da molto tempo il mondo ha il sogno di una cosa». Cittadini, che, noi speriamo, abbiano un gran “bagaglio” di sogni.


L’editoriale è tratto da Left del 15-21 gennaio 2021

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Gli ultimi barlumi di Narciso

Italian Senator, former premier and head of the political party 'Italia Viva' (IV), Matteo Renzi holds a press conference at the Italian Chamber of Deputies in Rome, Wednesday, Jan. 13, 2021. The Italian cabinet was in crisis on January 13, 2021 following the resignations of ministers Teresa Bellanova and Elena Bonetti, members of former premier Matteo Renzi's Italia Viva party. (Alberto Pizzoli/pool via AP)

Il più grande pregio di Renzi è anche il suo più grande difetto: riesce a irrompere nella scena politica dicendo parole sconclusionate che funzionerebbero in bocca a qualcuno che non abbia la sua storia, le sue alleanze, il suo ruolo e quello del suo partito e invece lui, con calma serafica, riesce veramente a farci credere che sia convinto davvero di quello che dice.

Così ieri Renzi, quello che vorrebbe spersonalizzare la politica, annuncia il ritiro dei suoi componenti del governo (le ministre Bellanova e Bonetti più Scalfarotto) accusando Conte di averle usate solo come “segnaposto” e lo fa usando i suoi compagni di partito come segnaposto al suo fianco mentre rovescia sugli altri le sue stesse politiche patologiche. Fa un po’ senso come trucco però evidentemente funziona. Meglio: lui è convinto che funzioni nonostante tutti i numeri di tutti i sondaggi dicano che questa crisi non l’ha capita nessuno e che la maggioranza degli italiani sia convinta che sia tutta una mossa personale dell’ex Matteo.

Però lui, Renzi, ieri è riuscito con il suo risicato 2% a tenere incollati i giornali e le televisioni come piace a lui, con quell’aspettativa che evidentemente gli procura l’adrenalina che gli serve per sentirsi vivo e con il suo bel faccione che oggi campeggia su tutti i giornali. A lui basta questo, a lui serve questo, del resto il suo scambiare la visibilità per consenso l’ha già portato a boicottarsi con le sue stesse mani.

Comunque il punto politico è che Renzi ritira le ministre e poi si dice pronto a qualsiasi scenario. Tradotto: ho fatto casino ma mi raccomando se riuscite tenetemi dentro. Poi dice di non avercela con nessuno. Tradotto: io amo me stesso e odio chi non mi ama, non è questione di contenuti o di persone ma è solo una questione della mia persona. Poi dice che non spetta a lui decidere il futuro. Tradotto: ho combinato caos per farvi rumorosamente sentire che esisto anch’io ora sta a voi provare a ricomporre le macerie. Però dice di essere pronto a discutere di tutto. Tradotto: dai, va bene, continuiamo a parlare di me.

Fuori intanto crescono i numeri di contagi e continua il tragico conto dei morti. Poi ci sono le aziende che chiudono, le attività in sofferenza e una caterva di rinchiusi che conta i danni dei propri tormenti. Ma Narciso sorride specchiandosi. C’è di buono che sono gli ultimi barlumi. Del resto per riuscire a specchiarsi ha dovuto inventarsi un partito che non esiste là fuori ma rimane un’esperienza extraterrestre favorita dai meccanismi parlamentari.

Buon giovedì.

Arnaud Antolinos: Le théâtre se sauva en suivant “le fil d’Ariane”

En France aussi, la culture souffre des conséquences de la crise sanitaire, surtout depuis que le confinement national du 1er novembre a imposé la fermeture de tous les lieux culturels, librairies incluses. À la suite de cette décision, l’État français a annoncé un vaste plan de relance de deux milliards d’euros pour la culture. De plus, cette fois-ci, les tournages, les répétitions et les captations d’œuvres sont autorisés. L’activité artistique peut ainsi continuer. Malgré tout, la culture peine à maintenir sa flamme allumée. Certains théâtres, musées et cinémas ont conçu des projets originaux afin de continuer à diffuser l’art pour répondre à la demande des citoyens et pour ne pas s’éteindre. C’est le cas du théâtre national de La Colline de Paris, qui propose des projets divers pour “créer un lien réel entre celui qui parle et celui qui écoute” malgré l’isolement. Nous en parlons avec le secrétaire général du théâtre, Arnaud Antolinos.

À l’heure actuelle, l’État français reconnaît-il le rôle essentiel que joue la culture pour la société ?
Je ne suis pas sûr que l’État dans ces discours définisse le théâtre et la culture comme prioritaires. À la vue de la crise actuelle, le message le plus important concerne plutôt l’éducation et la santé. Lors de certains discours du chef de l’État français, la culture a parfois été complètement oubliée. Mais d’autres fois, elle est citée. Donc, moi ce que j’en conclus, c’est que la culture n’est pas souvent évoquée, mais lorsqu’elle est évoquée c’est pour nous faire avancer et pour nous soutenir. Après, dans les faits on peut considérer que nous avons de la chance d’avoir un ministère de la Culture en France, ce qui n’est pas le cas de tous les pays. Et au sein de ce ministère de la Culture, on a une administration et une ministre qui sont à l’écoute des différents acteurs du milieu culturel.

L’État déploie-t-il les moyens et les fonds nécessaires pour permettre au secteur culturel d’affronter la crise ?
Le théâtre de la Colline, en tant que théâtre national, n’est pas complètement représentatif du secteur car c’est un théâtre qui appartient intégralement à l’État. Je ne sais pas si les moyens déployés par l’État sont suffisants. En tant qu’observateur, je peux dire que l’État essaie d’être attentif à toutes les branches. Après, cela ne veut pas dire que tout le monde est satisfait. Mais, d’un point de vue européen par exemple, c’est la France qui a insisté le plus pour faire entendre à tous les pays de l’UE qu’une part minimum, 2% du plan de relance, devait être consacrée à la culture. Et puis, j’ai la sensation que les acteurs de la culture française sont en tout cas écoutés et au mieux soutenus contrairement à d’autres pays européens ou du monde.

Après l’annonce du confinement en France, Jean-Michel Ribes, directeur du théâtre du Rond-Point à Paris, a déclaré : “Le théâtre va crever”. Le spectacle vivant est-il en train de mourir ?
J’ai toujours eu, je le sais, une vision un peu optimiste. Le théâtre est un des arts qui ont traversé les millénaires. Il a vécu des heures sombres dans son histoire, mais il n’est jamais mort. Donc, j’ose espérer que le théâtre ne va pas s’éteindre après 2 500 ans d’histoire à cause d’un virus. En revanche, je rejoins Jean-Michel Ribes sur le fait que le confinement est antinomique avec le théâtre. Parce que le théâtre c’est quoi ? C’est la rencontre entre des acteurs, une œuvre d’art et un spectateur au même endroit et au même moment. Donc évidemment, en temps de confinement, il n’y a pas de théâtre. L’art théâtral est complètement à l’arrêt. Tout ce que l’on peut proposer au public, ce n’est pas du théâtre parce qu’il n’y a pas une convocation du public dans les salles. Et si le confinement se poursuit, le théâtre n’existera plus. Mais à partir du moment où il y aura déconfinement, l’art théâtral pourra recommencer.

Le directeur de votre théâtre, Wadji Mouawad, affirme : “La parole poétique est une condition essentielle à notre survie”. Comment le théâtre de La Colline continue-t-il à diffuser cette “parole poétique” vitale malgré le confinement ?
En France, durant ce second confinement, nous pouvons continuer à travailler dans nos salles. C’est une nouveauté, car ce n’était pas du tout le cas entre mars et juin dernier. Donc, toutes nos salles de répétition sont actuellement pleines d’artistes. On a des spectacles qui continuent à être répétés, on a des spectacles qui sont prêts à être joués. Et, le fait d’être prêts, si nous avons la possibilité d’ouvrir courant décembre, assure une continuité artistique. Ensuite, nous continuons à être actifs grâce à l’invention de projets qui vont plutôt susciter la créativité, une certaine forme d’écriture, une certaine forme de poésie. La conception du projet “Le fil d’Ariane” est une façon pour nous de prolonger ce désir de créativité, à la fois des artistes et à la fois aussi de nos spectateurs. Il nous permet de garder un lien avec nos spectateurs.

Les différentes initiatives que comprend le projet “Le fil d’Ariane”, visent à la production d’œuvres artistiques de manière collective. Pourquoi avoir insisté sur la création d’un lien entre l’artiste et le spectateur ?
Cela vient de l’expérience que l’on a tirée du premier confinement. Les projets que l’on avait développés pour le premier confinement ont reçu un accueil très chaleureux du public. Nous nous sommes rendus compte que les spectateurs eux aussi avaient envie de participer à certains projets, donc on s’est dit que l’on allait tenter ce lien avec certains d’entre eux. Nous avons testé pour ce second confinement un autre type de rapport avec le spectateur. Par exemple, nous n’avons pas fait le choix de l’enregistrement vidéo parce nous voulons véritablement protéger l’art théâtral, la venue des spectateurs dans nos théâtres. Il faut faire la distinction entre spectacle et captation. Nous ne sommes pas opposés aux captations. Les captations, ça existe, mais il faut bien rappeler au spectateur qu’une captation, ça n’est pas du théâtre. Il faut être très clair sur la terminologie.

Le public répond-il présent à vos projets ? Les Français ont-ils soif de culture ?
Alors oui, le public est réceptif, ne serait-ce que par les encouragements qu’il nous prodigue. Une des leçons que l’on peut tirer du premier et du second confinement, c’est que toutes les sociétés ont tenu au cours de ces périodes-là autour d’un triptyque qui est la santé, l’éducation et la culture. Les deux confinements nous ont enseigné que la culture tient une place primordiale, pas seulement en France, mais très certainement dans le monde entier. Il y a une demande de culture de la part de l’humanité toute entière.

Donc l’art et la culture sont fondamentaux pour l’être humain ?
J’ai toujours été convaincu que la culture et l’art sont fondamentaux à l’équilibre d’une société. Et je crois que c’est la raison pour laquelle le théâtre existe depuis 2 500 ans, bien qu’il ait traversé les guerres, les périodes de barbaries, l’obscurantisme, les totalitarismes, etc. La Covid, qui a touché l’humanité entière, m’a plus que convaincu de cela. La preuve est claire. L’art a permis à la société de tenir moralement, intellectuellement et psychologiquement, en cette période de drame humanitaire. Je crois que la crise sanitaire a répondu à la question du poète allemand Friedrich Hölderlin : “À quoi bon des poètes en temps de détresse ?”.

L’article de Juliette Penn a été publié dans Left du 27 novembre au 3 décembre 2020

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La marcia dei Mille, disperati

A migrant walks during a snowfall at the Lipa camp, outside Bihac, Bosnia, Friday, Jan. 8, 2021. A fresh spate of snowy and very cold winter weather on has brought more misery for hundreds of migrants who have been stuck for days in a burnt out camp in northwest Bosnia waiting for heating and other facilities. (AP Photo/Kemal Softic)

Qualcuno di molto furbo e poco umano deve avere capito da tempo, dalle parti del cuore del potere d’Europa, che il primo trucco per sfumare l’emergenza umanitaria legata ai flussi migratori sia quello di fare sparire i migranti. Per carità, non è mica una criminale eliminazione fisica diretta, come invece avviene impunemente in Libia con il silenzio criminale proprio dell’Europa, ma se i corpi non sbarcano sulle coste, non si fanno fotografare troppo, non si mischiano ad altri abitanti, non rimangono sotto i riflettori allora il problema si annacqua, interessa solo agli “specializzati del settore” (come se esistesse una specializzazione in dignità dell’uomo) e l’argomento, statene sicuri, rimane relegato nelle pagine minori, nelle discussioni minori, sfugge al chiassoso dibattito pubblico.

In fondo è il problema dei naufragi in mare, di quelle gran rompiballe delle Ong che insistono a buttare navi nel Mediterraneo per salvare e per essere testimoni, che regolarmente ci aggiornano sui resti che galleggiano sull’acqua o sulle prevaricazioni della Guardia costiera libica o sui mancati soccorsi delle autorità italiane.

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di persone, migranti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”, che si surgelano sotto il freddo tagliente di quei posti e di questa stagione, che appaiono nelle (poche) immagini che arrivano dalla stampa in fila emaciate con lo stesso respiro di un campo di concentramento in un’epoca che dice di avere cancellato quell’orrore.

Lo scorso 23 dicembre un incendio ha devastato il campo profughi di Lipa, un inferno a cielo aperto che proprio quel giorno doveva essere evacuato, e le persone del campo (nella maggior parte giovani di 23, 25 anni, qualche minorenne, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan o dal Bangladesh) sono rimaste lì intorno, tra i resti carbonizzati dell’inferno che era, in tende di fortuna, dentro qualche casa abbandonata e sgarruppata, abbandonati a se stessi e in fila sotto il gelo per accaparrarsi il cibo donato dai volontari che anche loro per l’ingente neve in questi giorni faticano ad arrivare.

A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare, indovinate un po’, viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro. Gli orrori, raccontano i cronisti sul posto, avvengono alla luce del sole perché funzionino da monito a quelli che si mettono in testa la folle idea di provare a salvarsi. E le violenze, badate bene, avvengono in suolo europeo, di quell’Europa che professa valori che da anni non riesce minimamente a vigilare, di quell’Europa che non ha proprio voglia di spingere gli occhi fino ai suoi confini, dove un’umanità sfilacciata e disperata si ammassa come una crosta disperante.

«L’Ue non può restare indifferente – dice Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato -. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi».

È sempre il solito imbuto, è sempre il solito orrore. Subappaltare l’orrore (le chiamano “riammissioni” ma sono semplicemente un lasciare rotolare le persone fuori dai confini europei) facendo fare agli altri il lavoro sporco. Ma i marginali hanno il grande pregio di stare lontano dal cuore delle notizie e dei poteri. E molti sperano che il freddo geli anche la dignità, la curiosità e l’indignazione.

Buon mercoledì.

Immaginare città a dimensione umana, la sfida della politica

Pedestrian and cyclist wearing protective face masks in Milan, Lombardy, Italy.

Che le nostre città stiano cambiando, ormai è un dato di fatto.
Le città vivono, quindi si trasformano.
Crescono, muoiono, rinascono.
Certo la città è un caleidoscopio che mostra immagini diverse ad ogni sguardo, ma rimane lo spazio unico dove si riversa gran parte della conoscenza umana.
Da sempre, fin dall’antichità, come ci racconta Richard Sennet in Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli Editore, Milano, 2018), esiste una tensione tra il modo in cui le città sono costruite e la capacità delle persone di abitarle.
Da una parte infatti “sta il terreno edificato, dall’altra il modo in cui la gente abita e vive”, non senza che però questi due aspetti siano fra loro connessi, al punto di condizionarsi uno con l’altro.

Sarebbe impossibile infatti oggi, nella società in cui viviamo, tradurre gli spazi di una metropoli senza calarla nella dimensione politica, sociale ed economica in cui è nata e cresciuta.
Cambiano le città e si trasformano.
Il modo in cui abitiamo allora, in cui viviamo le nostre città, è influenzato da come è pensato, costruito, collocato all’interno di una dimensione più ampia e collettiva.

Allo stesso tempo è proprio questa nostra funzione, quella di immaginare e disegnare una città che poi può influenzare il modo di vivere le città stesse.
Ecco che le strutture, le funzioni, gli spazi pubblici e verdi, i processi di riqualificazione e rigenerazione possono diventare determinanti per dare una prospettiva diversa alle città che viviamo.
Il lavoro e la sua qualità diventano elemento determinante per disinnescare non solo i classici processi di “gentrification” in atto, ma anche per ridisegnare le città, il nostro modo di viverle.

C’è un tema di struttura quindi, interno alla dinamica legata all’organizzazione del lavoro, ma soprattutto la questione è politica e in particolare si lega a come si orientano le politiche pubbliche territoriali, urbanistiche, di sviluppo e anche appunto di sostegno alle classi lavoratrici.
Se è vero che le città e i Comuni sono, più di altri, i luoghi comunitari dove vengono condivisi sogni e prospettive, dove si costruiscono progresso sociale e futuro, allo stesso tempo è in questo spazio che possiamo e dobbiamo provare a intervenire con politiche mirate e per certi aspetti innovative.
Occorre quindi ripartire dall’unità di misura locale, quella come detto più vicina al cittadino, dove la stessa valutazione quantitativa e qualitativa dei servizi è misurabile e anche meglio percepita.

È nell’ambito delle politiche pubbliche locali che ci giochiamo la partita del futuro, quella della credibilità oltre al consenso, se però troviamo il coraggio di formulare proposte innovative, ambiziose e radicali attraverso il rinnovamento del policy making come processo di coinvolgimento di attori nuovi con competenze eterogenee e ruoli diversificati.
Dal basso quindi, valorizzando la partecipazione attiva e i processi democratici territoriali, tenendo vivi tutti i percorsi di lotta e di mutuo soccorso, provando a legare assieme i nuovi protagonisti dell’intervento sociale con i policy makers tradizionali.
Questo non solo nel tentativo di trovare, nei diversi spazi, nuove risposte a bisogni sempre più diffusi, articolati e complessi, ma anche per intervenire nel disegno della città futura, provando a immaginare un luogo aperto, inclusivo e accogliente.

La politica, come spazio collettivo e concorso di idee, progetti, sogni.
La politica, prendendo in prestito il pensiero di Pietro Ingrao, capace di pensare l’impossibile così da avere la misura di quello che si può cambiare.
Ma soprattutto una politica con una visione e una prospettiva di lungo termine,
che sappia accogliere i bisogni del territorio e di conseguenza riesca a governare i processi di trasformazione attraverso il coinvolgimento e il protagonismo delle organizzazioni, dalle associazioni di volontariato alle associazioni culturali e sportive, fino ai singoli.
Dalla scuola, ri-costruendo uno spazio aperto e condiviso, come luogo per rinsaldare rapporti e legami attraverso la messa a disposizione di spazi per un uso comune e pubblico, così da restituire alla città un ambiente da vivere e costruire in senso democratico.

Un percorso permanente che possa valorizzare le sensibilità ambientali che animano le vertenze del territorio grazie a un confronto continuo con tutte le esperienze a difesa e a tutela dell’ambiente, che possa far tesoro delle competenze acquisite negli anni dai movimenti contro le grandi opere così da coglierne suggerimenti, proposte, alternative con l’obiettivo del bene comune e collettivo, capace di tenere insieme giustizia sociale e tutela del territorio.
Una politica del lavoro per il territorio e con il territorio, per accrescere la vivibilità in una dimensione maggiormente inclusiva riportando così le città ad essere vissute e quindi abitabili.
Per salvare la città dagli abissi, serve allora una politica coraggiosa che sappia ridisegnare gli spazi, ripensare politiche pubbliche di sostegno, che rimetta l’anima della città al centro.
E l’anima della città è il cervello e il corpo che la vive, sono le donne e gli uomini che la abitano, sono le scelte che poi la portano a prendere una piega oppure un’altra, che la fanno diventare un porto di umanità oppure una barca senza direzione pronta a naufragare.
«Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone» (Italo Calvino).

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L’autore:  Lorenzo Ballerini, iscritto a Rifondazione Comunista, dal 2018 è consigliere comunale di Campi a sinistra a Campi Bisenzio (Firenze)

 

Il calendario dell’avvento (di Renzi)

Foto Riccardo Antimiani/LaPresse/POOL Ansa 22-07-2020 Roma, Italia Politica Senato - Informativa del Presidente del Consiglio sugli esiti del Consiglio europeo Nella Foto Matteo Renzi Photo Riccardo Antimiani/LaPresse/POOL Ansa July 22, 2020  Rome, Italy Politics Prime minister Conte reports at the Senate on Recovery Fund In the pic Senator Matteo Renzi (L) delivers a speech after prime minister Giuseppe Conte reported at the Senate on Recovery Fund,

Era il 9 dicembre quando Matteo Renzi aprì la “crisi di governo” che ancora oggi si stiracchia sulle pagine di tutti i giornali. “È il momento di dirci le cose in faccia” tuonò con uno di quegli interventi che risulta perfetto per essere confezionato e diventare una clip già pronta per i social e take away per tutti i telegiornali. Disse: “Per giocare pulito e trasparente, noi diciamo: se c’è un provvedimento che tiene dentro la governance del Next Generation Eu, noi votiamo contro. Siamo pronti a discutere, ma non a usare la manovra come veicolo di quello che abbiamo letto sui giornali, compresi i servizi segreti. Se c’è una norma che mette la governance con i servizi votiamo no”. Minacciò di ritirare immediatamente i suoi ministri. Non accadde.

Il giorno successivo, il 10 dicembre, il segretario del Pd Zingaretti e alcuni membri provarono a placare gli animi. Da quel giorno ovviamente la cosiddetta “crisi” si è spostata sui giornali e in televisione, il campo preferito da Renzi. Pochissimi i passaggi istituzionali. Renzi rilascia due interviste, a Il Messaggero e a El Pais, in cui dice: “Se Conte non fa marcia indietro siamo pronti a far cadere il governo”. Conte intanto era a Bruxelles per chiudere l’accordo. Alla grande, direi.

Il 12 dicembre interviene il presidente della Camera Roberto Fico che dice che se cade il governo si va a elezioni. A nome di Renzi interviene Anzaldi che dice che le elezioni le decide il Presidente della Repubblica. E via già con la via d’uscita di un accordicchio, quindi.

A quel punto Conte convoca i partiti a Palazzo Chigi per discuterne. Ve lo ricordate? Renzi dice: “noi abbiamo detto ‘Presidente, se vogliamo andare avanti noi ci siamo con lealtà, se ritieni che quello che proponiamo non va bene, con rispetto per le istituzioni, noi ci alziamo e ci dimettiamo”. E via di nuovo con l’ennesimo penultimatum. Ovviamente continuano le interviste dappertutto.

Il 28 dicembre Renzi presenta il suo piano (che chiama simpaticamente “Ciao”, che simpaticone). 13 righe di proposte in tutto. “Se c’è accordo su questo bene. Altrimenti è evidente che faranno senza di noi e le ministre si dimetteranno”, dice Renzi. Sempre per dare un’idea di come si svolge la trattativa.

A fine anno c’è il discorso di Mattarella. Renzi ovviamente pensa a se stesso quando il Presidente della Repubblica dice che “servono costruttori”. Figurati. Però non coglie il monito di Mattarella a non perdersi in polemiche. Passano 48 ore dal discorso del Presidente e Renzi dice, a Il Messaggero: “Se Conte ha scelto di andare a contarsi in aula accettiamo la sfida”.

Il 5 gennaio è un giorno da fantascienza. Renzi è ospite di Nicola Porro su Rete 4 e dice che bisognerebbe trovare un accordo preliminare sui temi. Sembra un’apertura. E invece poi serafico aggiunge: “Poi vedremo se il premier sarà Conte o un altro“.

Arriviamo agli ultimi giorni. Conte ringrazia i partiti di maggioranza per i contributi portati (quindi anche Renzi) e Renzi gli risponde “se Conte è in grado di lavorare lo faccia, altrimenti toccherà ad altri. Ha detto che è pronto a venire in Aula, lo aspettiamo lì”. L’8 gennaio si incontrano per discutere e i renziani Boschi, Faraone e Bellanova protestano: “Il documento sul Recovery Plan non c’è: c’è una sintesi di 13 pagine e una tabella. Il Paese ha bisogno di serietà e ciò comporta leggere e studiare un testo completo“.

Ieri Renzi ha detto sì al Recovery però minaccia di ritirare le sue ministre dopo il Consiglio dei Ministri. E siamo a oggi. Gli scenari sono o un corposo rimpasto (con quelle poltrone che a Renzi non interessano, segnatevelo), o un Conte ter o un governo tecnico. Le elezioni? figurarsi. Se ci fosse davvero il pericolo delle elezioni non avremmo visto nulla di tutto questo.

Buon martedì.