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Priorità alla scuola

GOETTINGEN, GERMANY - MAY 12: Twelve-graders on the way to a break wear protective face masks and come back to school for the first time since March, whereby the lessons for each pupil take place only every second day and only half of the class can take place at the Hainberg-Gymnasium due to hygiene reasons caused by the coronavirus crisis on May 12, 2020 in Goettingen, Germany. Across Germany twelfth graders are returning this week in cautious steps to reopen schools that have been closed since March as authorities lift lockdown measures that had been imposed to stem the spread of the virus. The A-Level examinations in Lower Saxony, which were postponed for 3 weeks due to the corona pandemic, began late and under difficult conditions. (Photo by Christian Ender/Getty Images)

Su un punto siamo tutti d’accordo: il diritto alla conoscenza è fondamentale perché rappresenta una esigenza irrinunciabile. E in questa fase di crisi sanitaria va garantito con ogni mezzo, trovando il modo perché tutti gli studenti lo possano esercitare in sicurezza. Il ministro Lucia Azzolina dice che le scuole devono restare aperte, ma il governo di cui è esponente ha decretato prima la Dad al 75 per cento e poi la Didattica integrata digitale (Did) al 100 per cento per tutte le scuole superiori fino al 3 dicembre. E sappiamo ormai benissimo quali e quante disparità di accesso ci siano per questo tipo di didattica in Italia. Basta ricordare che già prima della pandemia l’Istat rilevava che il 25 per cento delle famiglie in Italia è fuori da ogni connessione digitale, con forti divari fra nord e sud, città e periferie. Ben prima di febbraio il Forum disuguaglianze cercava di accendere i riflettori dell’attenzione pubblica su una cifra enorme di bambini (un milione e 200mila) che in Italia vivono in povertà assoluta; condizione che quasi sempre si accompagna a povertà di offerta formativa e a dispersione scolastica.

Con la pandemia lo iato delle disparità si è ulteriormente allargato: ora più che mai la scuola è il luogo dove combattere le disuguaglianze sociali e le vecchie e nuove povertà educative, perché tutti i ragazzi hanno diritto all’istruzione. E checché ne dica il presidente della Campania De Luca soffrono se non ci possono andare, se non si possono realizzare nel conoscere cose nuove e nel rapporto con gli altri. Gli adolescenti in modo particolare (con la chiusura delle medie e delle superiori nelle zone rosse) sono quelli che patiscono di più questa privazione di contenuti, di stimoli e di confronto. Non tutti hanno intorno reti affettive, sociali e formative che possano almeno in parte supplire. Mentre attraversano una fase evolutiva delicata rischiamo di far loro un danno enorme. Per fortuna i ragazzi hanno capacità di reagire e di trovare soluzioni creative mentre i casi di ritiro sociale rappresentano una minoranza, come racconta la psichiatra Nella Lo Cascio su questo numero. Ma questo – avverte – non cancella il problema della privazione che gli stiamo infliggendo. Non possiamo chiudere gli occhi.

La Costituzione dice che la Repubblica ha il dovere di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Dice che la scuola è aperta a tutti e che deve garantire a tutti – nessuno escluso – il diritto alla formazione, all’accesso al sapere. E in questo momento questi diritti fondamentali rischiano di essere disattesi. E la Carta rischia di essere lettera morta. Dunque che fare? Il mondo della scuola non si arrende. Studenti, docenti e terzo settore, come raccontano le inchieste e le testimonianze che abbiamo raccolto non si limitano a criticare i ritardi del governo nel mettere in sicurezza la scuole (anche risolvendo la questione annosa dei trasporti) e avanzano proposte concrete. Mentre il movimento Priorità alla scuola si mobilita su tutto il territorio nazionale e, contro le ordinanze regionali di chiusura delle scuole fa ricorso al Tar, altri gruppi, associazioni, realtà territoriali, studiano e fanno ricerca per mettere a punto soluzioni alternative e avanzano progetti di lungo periodo, cogliendo in questa necessità di distanziamento sociale per contenere il contagio da Covid-19 l’occasione per ripensare gli spazi, i tempi e i modi della didattica e la forma stessa della classe ereditata dal ’900 e che fino a pochi mesi fa, in molte parti del Paese, era ancora esemplata, nelle file continue di banchi, sul modello della fabbrica fordista.

L’invito a pensare la scuola non come un’isola ma a farne il cuore pulsante del tessuto sociale e urbano viene in particolare dalla Fondazione Feltrinelli di Milano che come ci racconta il direttore Massimiliano Tarantino ha messo in rete una serie di esperienze territoriali d’avanguardia approdando a un progetto in 13 punti di “Scuola sconfinata”: un modello di scuola aperta alla collettività, che mappa e esplora spazi urbani inediti per la didattica, che favorisce la coesione sociale; un modello di scuola che mette al centro i bisogni e le esigenze dei ragazzi. Perché come scrive la professoressa Elisabetta Amalfitano: «I ragazzi non vogliono restare a casa!», Va rifiutato «un pensiero che, oltre che falso, è comodo per certa politica perché la solleva dal dover mettere in atto un sistema alternativo senza perdere consensi ma che è violentissimo nei confronti del mondo scuola e in particolare dei giovani, della conoscenza, della nostra identità umana che invece è fatta di relazioni sociali, di saperi, di pensiero critico e libero».

L’editoriale è tratto da Left del 13-19 novembre 2020

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SOMMARIO

Sardegna e discoteche dappertutto

Dj mixing outdoor at new year party festival with crowd of people in background - Nightlife view of disco club outside - Soft focus on bracelet, hand - Fun ,youth,entertainment and fest concept

Non è un caso da poco quello aperto dalla Procura della Repubblica di Cagliari per epidemia colposa e per altri reati sul Ferragosto vacanziero sardo in cui le discoteche sono rimaste bellamente aperte mentre già arrivavano i primi preoccupanti numeri del virus.

La vicenda intanto. Tutto nasce da un’inchiesta della trasmissione televisiva Report che intervista due consiglieri regionali della maggioranza (nomi di peso: Angelo Cocciu è capogruppo di Forza Italia, Giovanni Satta vicecapogruppo del Partito Sardo d’Azione) mentre confessano «pressioni da parte degli imprenditori del settore». L’ordinanza del presidente della Sardegna Solinas risale all’11 agosto sulla base del parere del Comitato tecnico scientifico regionale. Almeno così dice Solinas. Il parere del Comitato però sembra impossibile da vedere, da leggere e da controllare. «Se c’è – ha intimato Emiliano Deiana, presidente regionale dell’Anci – lo tirino fuori subito. Se non c’è, vuol dire che i soldi di pochi hanno contato più della salute di tutti i sardi». Fonti investigative fanno intendere che forse quel parere sia stato semplicemente “verbale”. Tipo un consiglio al telefono, siamo a questi livelli qui.

Una cosa è certa: quell’ordinanza permise alle discoteche più in voga (come Billionaire, Phi Beach, Just Cavalli, Country Club e Sottovento) di ammassare un bel tot di gente tutti festanti e senza mascherina procurando uno dei più grossi cluster di quei mesi. Tanto per avere un’idea dei numeri: solo nel Lazio sono stati intercettati più di 1200 positivi di rientro dalla Sardegna. 1200.

Solo che la Sardegna e le discoteche sono dappertutto, in tutta Italia, in aperture che sono rimaste aperte (e che sono ancora aperte) e che poiché non hanno nomi e volti noti magari non vengono raccontati e investigati. Non so se avete notato che dalla narrazione generale sembra ad esempio che siano spariti magicamente tutti gli infettati in fabbrica, sui posti di lavoro, negli ospedali (solo negli ospedali di Milano San Carlo e San Paolo nelle prime 3 settimane di ottobre, badate bene, c’erano 80 lavoratori contagiati). Tutto sparito. Si fanno pulci alle scuole (giustamente) ma l’attività produttiva, quella che non si potè toccare nella bergamasca nella prima ondata, continua imperterrita a non esistere. E chissà quante centinaia di inchieste andrebbero aperte. Magari anche senza bisogno del giornalismo investigativo.

Il crinale su salute e lavoro è quello su cui camminiamo in questo tempo buio.

Buon giovedì.

Emergenza Covid-19, a Gaza si rischia la catastrofe umanitaria

A Palestinian medic from the Infection Control Committee, taking random samples from Coronavirus COVID-19 in Gaza Strip, September 24, 2020. (Photo by Mahmoud Khattab/INA Photo Agency) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 30892395

Lo European Hospital e l’Al Awda Hospital di Gaza hanno inviato una richiesta lanciando l’allarme sull’emergenza sanitaria che colpisce la popolazione palestinese in questi giorni: mascherine (N95 e chirurgiche), alcool 70%, camici, occhiali di plastica, guanti, dispenser e visiere. È urgente avere il necessario per contenere e prevenire la diffusione incontrollata del Covid-19.
Dall’Italia un importante collegamento è costituito dal lavoro di Acs – Associazione per la Cooperazione e la Solidarietà, una Ong italiana che da anni si impegna per favorire scambio culturale e progetti di rigenerazione e sviluppo nelle aree più colpite dalla guerra. Nella Striscia di Gaza è attivo il progetto di rigenerazione Green Hopes Gaza. Fin dalla sua nascita Acs lavora in stretto contatto con il Centro di scambio culturale Vittorio Arrigoni – VIK.  Attraverso un crowdfunding, disponibile su produzionidalbasso.com e sulle pagine social Gaza FREEstyle , (una collettività di attiviste e attivisti che dal 2014, grazie alla cultura di strada, tra l’Italia e Gaza promuove il rispetto della donna e dell’altro, la fratellanza e la condivisione attraverso la diffusione e la pratica dello skate, il calcio e il circo) è possibile prendere parte alla raccolta di materiali sanitari da inviare ai due ospedali. Una risposta attiva alla richiesta di solidarietà, oggi più che mai necessaria.

Basti pensare al nostro lockdown, alle difficoltà che ognuno di noi ha incontrato in questi duri mesi di pandemia, e immaginare invece di vivere quella stessa situazione trovandoci dall’altra parte del mare. Pulizia costante delle mani, distanziamento fisico, terapie intensive, quarantene e mascherine. In otto mesi dallo scoppio della pandemia abbiamo imparato a fare i conti con la fondamentale importanza di ognuna di queste cose. Convivere con misure limitative della libertà personale per garantire a tutte e tutti il diritto alla salute è stato un enorme sforzo collettivo. Come rinunciare agli spostamenti, alla socialità e spesso anche al lavoro. Ogni cittadino d’Europa, chi più chi meno, ha garantita dalla nascita la libertà di movimento, il diritto alla salute attraverso un sistema sanitario pubblico più o meno efficiente, una rete elettrica e un sistema di comunicazione capace di tenere milioni di persone interconnesse costantemente per mesi.

Il Mediterraneo bagna anche le spiagge della Palestina, come quelle di Gaza, il più grande carcere a cielo aperto del Pianeta. Chi nasce entro quei confini, segnati per terra, per mare e per aria dall’esercito israeliano, vive in una condizione simile a quella di un detenuto. Non si esce e non si entra con facilità da Gaza. Oggi il Covid-19 ha superato le recinzioni e i muri, i cecchini e i valichi che separano due milioni di persone dal resto del mondo. A Gaza più del 95% dell’acqua è inquinata, non è potabile e sicuramente non può essere utilizzata per sterilizzare le mani, nemmeno dei medici. La scarsa qualità di questo bene primario ha conseguenze pesanti sulle condizioni di salute della popolazione, con tassi elevati di immunodepressione e malattie. L’elettricità è centellinata, per poche ore al giorno si può fare affidamento sulla rete elettrica, ma non è comunque abbastanza per sostenere le postazioni di terapia intensiva degli ospedali. Il resto del tempo bisogna ricorrere ai generatori.

Due milioni di persone vivono in una striscia di terra lunga circa 40 km, unendo a Sud la penisola del Sinai e a Nord lo Stato di Israele. Come se tutta la popolazione di Milano fosse concentrata in un’area grande quanto il Lago di Garda. Due milioni di giovanissimi, visto che l’età media della popolazione supera a malapena i 18 anni. Esistono luoghi nella Striscia di Gaza, come il campo profughi di Jabalia, dove la densità abitativa raggiunge punte di più di 100.000 abitanti per km quadrato. In un contesto di costante precarietà della vita, tra guerre e privazioni, il tasso di disoccupazione e quello di povertà hanno superato il 70%. La carenza di macchinari per la ventilazione meccanica (sono circa 50 all’interno della Striscia) e di posti letto in terapia intensiva si aggiunge alla mancanza cronica di medicinali e prodotti sanitari di base e alla inadeguatezza delle strutture sanitarie in un sistema già al collasso da anni. Il governo militare di Hamas ha imposto un lockdown preventivo, chiudendo di fatto la maggior parte delle attività. Misure come queste non sono nuove in un’area colpita di frequente dai bombardamenti dell’aviazione israeliana. Nemmeno durante la fase di emergenza, infatti, le bombe hanno smesso di cadere dai cieli di Gaza. In questa situazione di persistente crisi economica e sociale determinata dalla durezza dell’embargo e dell’occupazione dei confini da parte dell’esercito israeliano, l’emergenza sanitaria del Covid-19 rischia oggi di essere devastante.

È ora di richiamare la comunità internazionale alla propria responsabilità verso le violazioni del diritto internazionale perpetrate dal governo israeliano, senza più ignorare le profonde ingiustizie che pesano sul popolo palestinese. Gli accordi di pace con Stati come gli Emirati Arabi dimostrano solo la semplicità con cui Netanyahu e il suo esecutivo sono disposti, per interessi politici ed economici, a scendere a patti con alcune tra le dittature più dure del Pianeta. Mentre l’egemonia politica e religiosa nel mondo arabo e musulmano vengono pericolosamente contese da Erdogan, l’Europa è chiamata a rompere il muro di isolamento che stringe il popolo palestinese. Dal basso, ciò che ci è possibile fare oggi è questo: sostenere le raccolte di fondi e di materiali sanitari necessarie per combattere il Covid-19.

 

 

Kamala Harris e la Palestina

Democratic vice presidential candidate Sen. Kamala Harris, D-Calif., speaks during a drive-in get out the vote rally, Monday, Nov. 2, 2020, in Philadelphia. (AP Photo/Michael Perez)

Sì, certo, ci sono anche le ombre. Due giorni fa nel mio #Buongiorno mi permettevo di sottolineare come fosse un vento buono quello che ha portato alla vicepresidenza degli Usa una donna che ha una visione dei diritti completamente lontana da quella dei diritti negati secondo Donald Trump. E il dibattito si è infiammato: qualcuno giustamente fa notare a noi di Left che Kamala Harris è troppo poco progressista poiché molto vicina, anzi vicinissima a Hillary Clinton (come se una vittoria, ai tempi, di Hillary Clinton su Donald Trump non sarebbe stata comunque una buona notizia rispetto a quello che abbiamo vissuto), qualcuno sottolinea i diversi errori (e qualche omissione) di Kamala Harris nel suo ruolo di procuratrice (i 1.500 arrestati per reati legati al fumo di marjuana, ad esempio, oppure la proposta di mettere in prigione i genitori di bambini che registravano un elevato tasso di assenze scolastiche). Ed è tutto vero, verissimo. Vero anche che Kamala Harris sia parte integrante dell’establishment democratico. Mi permetto di credere però che se esponenti molto progressiste femministe vedono nella sua elezione un ulteriore passo in avanti verso la caduta del tetto di cristallo ci saranno delle buone ragioni.

È estremamente preoccupante anche la posizione di Kamala Harris sulla questione palestinese, con la Palestina che ancora una volta non vede una gran luce dalle elezioni americane (Israele è corso subito alla corte di Biden). Ci sono, tra le dichiarazioni di Kamala Harris, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi.

«L’ultima raffica di attacchi missilistici da Gaza contro israeliani innocenti non può essere tollerata: Israele ha il diritto di difendersi da questi orribili attacchi. Mi unisco agli altri nell’esortare contro un’ulteriore escalation», ha detto a JewishInsider il 15 novembre 2019. Sul fatto che Israele soddisfi o meno gli standard dei diritti umani: «Nel complesso, sì» ha detto al New York Times, 19 giugno 2019. E poi: «Per questo motivo sostengo fortemente l’assistenza alla sicurezza dell’America a Israele e mi impegno a rafforzare il rapporto americano di sicurezza e difesa israeliana… Credo che quando una qualsiasi organizzazione delegittima Israele, dobbiamo alzarci in piedi e parlare apertamente contro di essa. Israele deve essere trattato allo stesso modo, ed è per questo che la prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e di affermare e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una soluzione giusta, sicura e sostenibile per due Stati» (intervento al Comitato ebraico americano, 3 giugno 2019).

Le debolissime politiche di Biden sui diritti dei palestinesi sembrano avere trovato un ottimo appiglio in Kamala Harris. Purtroppo per noi e purtroppo per tutti quelli che tengono alla situazione mediorientale. Sarà un’altra presidenza americana dura dalle parti di Gaza, senza dubbio. E su questo ci sarà da lottare.

Poi, mi sia concesso, il profumo dell’assenza di Trump è una vittoria politica. Una vittoria breve? Può essere. Noi siamo qui proprio per questo, per osservare e informare, osservare e informare, osservare e informare.

Buon mercoledì.

Tamponi privati, tamponi pubblici

Foto Claudio Furlan - LaPresse 08 Aprile 2020 Milano (Italia) News Servizio di tamponi covid direttamente dall’auto per pazienti dimessi, all’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo Photo Claudio Furlan/Lapresse 08 Aprile 2020 Milano (Italy) Service of covid swabs directly from the car for discharged patients, at the Bassini Hospital in Cinisello Balsamo

Mi scrive Mattia:

«Ti voglio raccontare due storie che sono strettamente connesse e che hanno a che fare con l’epidemia da coronavirus. Sono due storie che parlano di me e della mia famiglia e della gestione a dir poco folle e criminale di Regione Lombardia. La prima parte della storia riguarda la questione tamponi: mi sono contagiato, in famiglia, andando a prendere una pizza da una zia asintomatica, e ho contagiato mia mamma. Si sono contagiati, con me anche mio fratello e il mio compagno, fortunatamente tutti con sintomi lievi. E qui mi fermo, perché questa malattia ci ha spinto e ci spinge a pensare che le priorità del dolore non siano mai abbastanza: mi sento fortunato e lo sono stato, penso a chi invece non ce l’ha fatta ed è morto con i polmoni di pietra e ringrazio il destino. Ma questo non toglie la paura. E tuttavia, facendo i conti con i sensi di colpa, ho dovuto anche fare i conti con una “sanità” che non accetta più tamponi a chi non ha la febbre. Il mio medico ha dovuto mentire dicendo che fossimo ancora febbricitanti per ottenere un tampone. Inoltre, come se non bastasse, i tempi per ottenere un risultato si stanno aggirando ad oggi sui dieci giorni di attesa. E tu mi dirai “Sono tempi tecnici”, e io ti rispondo che hai ragione. Ma il problema è che i giorni di isolamento partono da quando si sa l’esito del tampone e al lavoro non ci si può tornare e si sta in attesa anche se nel frattempo si sta già facendo la quarantena. Inoltre, se il secondo tampone fosse di nuovo positivo, la Regione non ha tempo, modo, risorse di farne un terzo, quindi ti assegna ventuno giorni di quarantena e tanti saluti. Tutto questo ovviamente se si va nel pubblico, perché il privato funziona. Ma almeno si avesse la decenza allora di dire che la nostra “sanità” è all’americana, sarebbe meno ipocrita e più credibile. Dire “Signori, i “ricchi”, come in America li curiamo”, i “poveri” quando abbiamo tempo. Che poi parlarne di cosa vuol dire “ricchi”: so di gente che ha speso i soldi da parte per un tampone a 120 euro senza quasi sintomi ma per una legittima voglia di sapere. E a questa prima storia si aggiunge quella che più mi fa male: mio nonno si chiama Lucio, ha ottantanove anni e da febbraio ATS non gli concede le analisi del sangue. “Qui si fanno i tamponi” e oggi per la seconda volta lo hanno rimandato a casa. Inutile dire che mio nonno di quelle analisi ha bisogno e quindi ovviamente provvederemo a mandarlo in altri centri anche a pagamento, anche dandogli una mano con la pensione da muratore che ha e con la quale paga affitto e medicine. Ecco, ti scrivo perché c’è di sicuro una parte di rabbia, ma c’è anche tanta delusione e sconforto. E volevo condividerlo con te».

È una testimonianza singola ma che la possibilità di fare i tamponi sia diventata in molte zone una condizione che appartiene solo alla sanità privata qualche domanda forse ce la dovrebbe porre. No? Per il resto c’è poco da aggiungere. È tutto nella lettera.

Buon martedì.

Marco Santagata: Vi racconto Boccaccio e il suo amore per le donne

Dante, Petrarca, Boccaccio. Delle celebrate “tre corone” della letteratura italiana, Dante fiero uomo di parte della Firenze comunale e autore della Commedia, Petrarca raffinato frequentatore delle corti signorili e autore del Canzoniere, Giovanni Boccaccio con le cento novelle del suo Decameron raccolte in una splendida cornice è certamente il più moderno, il più vicino a noi. Gentiluomo modesto tra due geni superbi, il certaldese fu amante della cultura e delle donne, che considerava le sue vere muse, sottraendosi al luogo comune di celebrarle, come Beatrice e Laura, dopo la loro morte. Di Dante scrisse la prima e forse più bella delle biografie, facendosi anche copista, illustratore e iniziatore di pubbliche letture del Poema sacro. Di Petrarca, che pure ostentò di ignorare il suo capolavoro in volgare permettendosi di fare, con intento esemplare, una traduzione latina dell’ultima novella del Decameron, fu fedele amico e ospite. Grande operatore culturale, ebbe un vivo senso dell’importanza della trasmissione e della diffusione del patrimonio letterario promuovendo l’istituzione di una cattedra di greco a Firenze, quando ancora quella lingua in Occidente era sconosciuta, e un primo avventuroso esperimento di traduzione dei poemi omerici.

A Marco Santagata, autore di numerose opere sui tre grandi scrittori toscani, chiediamo di illustrare il titolo intrigante del suo recente lavoro Boccaccio. Fragilità di un genio (Mondadori) alla luce dell’autobiografismo, indicato come cifra ricorrente in tutte le sue opere.

L’amabile scrittore fu un uomo tormentato?

Il volto rotondeggiante e paffuto delle immagini che lo ritraggono e la sensazione dei lettori del Decameron di avere a che fare con una persona che osserva con tranquillo e sorridente distacco le cose del mondo spingerebbero a pensarlo come un uomo sereno, pacioso, affabile e aperto, saggiamente indulgente verso sé stesso e gli amici. E invece sappiamo che aveva un carattere difficile: introverso, fragile, diffidente e anche molto permaloso. Insomma, Boccaccio cerca di essere accettato, di integrarsi negli ambienti in cui si trova a vivere, e nello stesso tempo teme di non essere riconosciuto, di essere messo da parte. L’instabilità emotiva lo accompagna per tutta la vita.

Quale nesso esiste tra la condizione di figlio illegittimo, per parte di madre, di un mercante inurbato a Firenze e l’originale scelta di dedicare il Decameron alle donne «vaghe» e «dilicate» – poiché alle altre «è assai l’ago, e ’l fuso e l’arcolaio» – in soccorso e rifugio di quelle che soffrono per amore, e come ricompensa per averlo più volte confortato nelle proprie pene amorose?

Il discorso sarebbe lungo. Semplificando al massimo, si può dire che il trauma di non avere conosciuto la madre si ripercuote non solo sui suoi atteggiamenti di uomo ma anche sulla sua produzione letteraria. L’instabilità di cui parlavo, il desiderio di essere accettato e, insieme, la paura di essere rifiutato, hanno la loro radice in quel trauma infantile, così come da quella mancanza sembra dipendere anche l’aspirazione, irrealizzabile per lui chierico, alla vita matrimoniale. Lo scrivere letteratura, e non solo in volgare, è l’attività che dà voce alle frustrazioni e alle delusioni della vita ma che, nello stesso tempo, apre la strada a quei risarcimenti fantastici negati dalla realtà. Siccome il tema amoroso, sia nei suoi aspetti negativi sia in quelli positivi, è al centro della sua letteratura, ecco che Boccaccio finisce per collocare la sua intera produzione creativa sotto il segno del femminile. Le donne non sono solo il punto intorno al quale essa ruota, ma anche e soprattutto le sue destinatarie privilegiate. In prima istanza, lo scrivere di donne e per le donne segnala l’intenzione di Boccaccio di rivolgersi a un pubblico di lettori più ampio e meno specialistico di quello della coeva letteratura latina e di affrontare temi più vicini alle esperienze di un pubblico di media cultura; tuttavia, a rappresentare uno degli aspetti più innovativi e moderni delle sue scritture, e non solo in volgare, sono soprattutto la partecipazione e l’acutezza di sguardo con le quali lui osserva la condizione delle donne. La sua capacità di esplorare i rapporti tra i sessi dal punto di vista di quello femminile per secoli non avrà corrispettivo.

La Divina Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio, raccolte rispettivamente di canti, liriche e novelle, sono opere accomunate dal fascino di un’architettura narrativa unitaria secondo un disegno – religioso le prime due, integralmente laico l’ultima – che nella cultura cortigiana non sarà più ripreso. Come mai?

La costruzione di un libro unitario attraverso l’assemblaggio di singoli testi, le novelle, autonomi e autosufficienti è, insieme all’attenzione per le donne, un altro dei punti di grande modernità di questo scrittore. E vero che, proprio come il Canzoniere di Petrarca, da questo punto di vista il Decameron non è stato capito. Le poesie dell’uno e le novelle dell’altro saranno nella civiltà d’antico regime i modelli sui quali costruire una letteratura di consumo finalizzata alla comunicazione sociale. E invece sia Petrarca sia Boccaccio miravano a edificare monumenti letterari che si collocassero allo stesso livello dei grandi testi degli antichi e, per quanto riguarda Boccaccio, del testo principe della letteratura in volgare, la Commedia di Dante. Da questo punto di vista, Boccaccio è forse ancora più moderno dello stesso Petrarca: questi con il Canzoniere si riprometteva di scrivere un libro umanistico, in altri termini, di inglobare dentro il dominio umanistico un testo volgare per la lingua ma “classico” nei temi e nelle intenzioni; Boccaccio, invece, vuole compiere l’operazione contraria, cioè arricchire di armoniche classicheggianti e umanistiche un libro orgogliosamente volgare. Petrarca è stato il grande maestro di Boccaccio, il modello a cui lui ha cercato di uniformare la propria spiritualità e i propri interessi culturali, ma ciò non toglie che per tutta la vita Boccaccio abbia perseguito un suo progetto sostanzialmente antipetrarchesco: conciliare la due culture, quella alta, latina, degli studiosi e degli umanisti con quella volgare mirata all’intrattenimento e alla divulgazione propria del pubblico delle corti e delle professioni. L’incondizionata ammirazione per Petrarca non ha mai fatto vacillare il suo culto per Dante, come a dire che la sua sincera conversione agli studi umanistici non ha mai incrinato la sua convinzione che la nuova cultura debba necessariamente fondere in un nuovo amalgama la lezione degli antichi e la lingua dei contemporanei, di Dante prima di tutto.

«Noi leggiavamo un giorno per diletto»: nell’Inferno la lettura di romanzi d’amore costa a Paolo e Francesca la condanna nel girone dei lussuriosi. Nel Decameron, cognominato prencipe Galeotto con evidente riferimento all’episodio dantesco, il narrare e fare musica è scelto dai dieci giovani, temporaneamente ritirati in villa, come un baluardo contro gli orrori della peste che devasta la città, in luogo della preghiera e dell’espiazione. Non pensa che dalla bella storia, che il suo libro ricostruisce, possa derivare al lettore qualche suggestione contro l’attuale abbrutimento della vita pubblica?

Confesso che questa pur legittima domanda mi crea qualche imbarazzo. Penso anch’io che dall’opposizione tra lo sconvolgimento della peste e l’ordine “civile” ricostruito dai giovani novellatori possano scaturire non poche suggestioni per il presente, e tuttavia resto fedele all’idea che il compito della letteratura non sia insegnare, ma suscitare emozioni. Che i processi di identificazione mediante i quali opera la grande letteratura possano produrre effetti positivi anche sul piano sociale è indubbio; per quali strade ciò avvenga è tuttavia assai misterioso. In ogni caso, penso che dopo Auschwitz non sia più lecito nutrire troppo speranze negli effetti salvifici e taumaturgici dell’arte e della cultura.

L’intervista è stata pubblicata su Left del 17 gennaio 2020

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SOMMARIO

Kamala Harris

Vice President-elect Kamala Harris speaks Saturday, Nov. 7, 2020, in Wilmington, Del. (AP Photo/Andrew Harnik)

Trump ha perso. Insieme a Trump perde anche quel sovranismo populista condito di niente che ha attraversato il mondo, quel modo muscolare di fare politica pescando nel torbido per non affrontare i problemi, quella politica che ancora si innamora dell’uomo forte per potersi concedere di non occuparsi dei deboli che sono da sempre i nemici di certa destra. Diritti e dignità, forse, ce lo auguriamo tutti, trovano almeno uno spazio nel dibattito pubblico dopo essere stati oscurati come inutili lamentosi che avrebbero solo potuto rallentare la produttività del Paese.

Dagli Usa arriva anche la storia della prima vicepresidente donna, finalmente, una donna che non è moglie di qualche ex vicepresidente e che ha una storia da portare con fierezza. Kamala Harris è donna, nera, figlia di una biologa indiana e di un economista giamaicano, sposata con un bianco ebreo. Qualcuno dice che potrebbe “oscurare” Biden. Ma magari.

In lei molti elettori e elettrici democratici hanno intravisto il futuro di un Paese che sta diventando sempre più diversificato dal punto di vista razziale, sognando un’America inclusiva, integrata e progressista. Ex procuratore distrettuale di San Francisco, è stata la prima donna nera a essere procuratorice generale della California. Quando è stata eletta senatrice degli Stati Uniti nel 2016, è diventata la seconda donna nera nella storia della Camera. Una donna di legge che contraria alla pena di morte, favorevole ai diritti gay, sostenitrice della sanità pubblica, impegnata nel movimento Black Lives Matter.«Ogni volta che ho corso ero la prima a vincere. La prima persona di colore. La prima donna. La prima donna di colore. Ogni volta», diceva nel 2019.

Nel suo discorso inaugurale ha detto: «Penso alle donne, alle donne nere, asiatiche, bianche, ispaniche, nativo americane, che nel corso della storia di questo paese hanno aperto la strada per questo momento, si sono sacrificate per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti noi; penso alle donne nere che troppo spesso non sono considerate, ma sono la spina dorsale della nostra democrazia. Penso a tutte le donne che hanno lavorato per garantire il diritto di voto e che ora nel 2020 con una nuova generazione hanno votato e continuano a lottare per farsi ascoltare. Stasera voglio riflettere sulle loro battaglie, la loro determinazione, la loro capacità di vedere cioè che sarà a prescindere da quello che è stato. E questa è una testimonianza della personalità di Joe, che ha avuto il coraggio di buttare giù uno dei muri che continuavano a resistere nel nostro paese scegliendo una donna come vicepresidente. Anche se sono la prima a ricoprire questa carica, non sarò l’ultima. Ogni bambina, ragazza che stasera ci guarda vede che questo è un paese pieno di possibilità. Il nostro paese vi manda un messaggio: sognate con grande ambizione, guidate con cognizione, guardatevi in un modo in cui gli altri potrebbero non vedervi. Noi saremo lì con voi».

È un buon vento, quello di Kamala Harris.

Buon lunedì.

Un’economia della cura per ridisegnare l’Europa

18 September 2020, Berlin: Federal Chancellor Angela Merkel (CDU, l) is waved to her by Ursula von der Leyen (CDU), President of the European Commission, during the welcoming address before talks in the Chancellery. Photo by: Odd Andersen/picture-alliance/dpa/AP Images

Cento milioni di euro per assicurare tamponi agli aeroporti e garanzia europea per l’approvvigionamento agli Stati di test rapidi di massa. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, fa il punto sul ritorno della bufera Covid in Europa proprio mentre Merkel, Conte, Macron e Sánchez annunciano i nuovi lockdown, più o meno light, in Germania, Italia, Francia e Spagna.

La presidente riconosce che le cose non sono andate per il verso giusto. Il deconfinamento è avvenuto troppo presto e in modo troppo massiccio. Le impreparazioni sono state troppo grandi. Il coordinamento europeo inadeguato. La Commissione agirà dunque in modo più diretto. È una novità, piccola e tardiva, per una Ue abituata a vigilare parametri e ad affidarsi al mercato.

Ma la bufera Covid è tornata dopo la tregua estiva e soffia ancora più forte. Altro che ripresa economica col ritorno dei giochini “austeri”. Qui c’è da sperare che reggano i sistemi sanitari ad un impatto violentissimo. Addirittura Merkel dubita su quello tedesco, che pure è quello messo meglio in Europa. Macron dice che si rischia in Francia di essere travolti. Spagna e Italia fanno la conta dei posti letto. Sarà bene chiedersi cosa è successo dopo che i grandi sforzi di cittadine e cittadini, al lavoro sui fronti della pandemia o confinati in casa, avevano fatto abbassare la “febbre”.

Deconfinamento non ben riuscito, dice Von der Leyen. Dovrebbe ricordarsi gli inviti a far ripartire il turismo lanciati un po’ da tutti nell’ansia di cominciare a riprendere i punti di Pil caduti sotto i colpi del Covid. Si è riaperto senza neanche quei tamponi agli aeroporti di cui oggi dice di volersi far carico come Ue. Avevamo parlato di questo strumento su Left, ad inizio estate, segnalandolo come un primo passo urgente che si sarebbe potuto fare per garantire a livello europeo la salute delle persone e magari dar vita ad un bozzolo di Servizio sanitario pubblico europeo.

Non se ne è fatto niente. Invece si è lasciato a ciascuno Stato la possibilità di rivolgersi al Mes, un assurdo organismo improprio di una Unione politica. Quando sarebbe stato, e sarebbe tutt’ora, opportuno scioglierlo, recuperando soldi che nessuno vuole ricevere in quel contesto, per costruire un fondo comunitario condiviso per…

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Federico Masini: La ricerca per uscire dalla crisi

Illustration shows students attending a les and respecting the special safety and security measures for the fight against the Covid-19 pandemic, at the KULeuven University, in Leuven, Monday 19 October 2020. In the ongoing coronavirus crisis, students returned to the colleges and universities since the start of the new academic year in September. BELGA PHOTO ERIC LALMAND BELGA PHOTO ERIC LALMAND
 BELGA PHOTO/LaPresse



Non tutti gli studenti hanno avuto uguale possibilità di accesso all’istruzione durante la pandemia. Con il lockdown della scorsa primavera sono emerse e si sono acuite drammatiche disuguaglianze fra Nord e Sud del Paese, fra aree metropolitane e aree interne, fra studenti di diversa estrazione sociale. Preservare il fondamentale diritto allo studio è più che mai prioritario ora. Come fare a garantire a tutti scuola e formazione anche con l’acuirsi dell’emergenza sanitaria? Di questo tema e delle misure necessarie per sostenere l’università e la ricerca abbiamo parlato con Federico Masini, ordinario di lingua e letteratura cinese all’Università La Sapienza di Roma e candidato alle elezioni del Rettore 2020.

«Innanzi tutto, dobbiamo avere chiara una cosa: l’università è la casa degli studenti e delle studentesse che qui si incontrano con gli insegnanti. Questa è la sua prima missione: essere uno spazio di libero incontro fra allievi e docenti», risponde il professor Masini. «Questo libero incontro è garantito dalla Costituzione poiché il diritto allo studio e il diritto alla salute sono i due diritti fondamentali difesi dalla nostra Carta. I docenti si dovrebbero ricordare sempre che quando entrano in aula difendono un diritto costituzionale e hanno una responsabilità enorme. In questo momento il diritto allo studio va difeso sempre di più nelle scuole e nelle università, nelle biblioteche universitarie e negli spazi aperti alla comunicazione e alla connessione. Mai come in questo momento l’Università rappresenta un presidio costituzionale».

Sappiamo però, per esempio, che ci sono stati problemi riguardo alla didattica a distanza. L’articolo 34 della legge primaria dello Stato afferma che «la scuola è aperta a tutti» e dice anche «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti negli studi». Cosa deve essere fatto per garantire a tutti l’accesso ai device e alla connessione veloce?

L’università, in prima battuta, non si può fare carico dell’accesso a internet degli studenti da remoto, questo esula dalle sue competenze. Quello che può fare è, come accennavo, tenere aperte le aule, le sale di lettura, gli spazi pubblici dell’ateneo dotati anche di possibile collegamento via fibra. Il diritto allo studio, certo, si difende anche dando agli studenti la possibilità di seguire le lezioni da remoto, penso per esempio ai tanti studenti fuori sede. Non esiste una formula unica, serve flessibilità e intelligenza. Per quanto riguarda la nostra università penso che La Sapienza avrebbe dovuto tutelare di più gli studenti dei primi anni. È stata data un’indicazione rigida a tutti i corsi. Forse avremmo fatto meglio ad essere più flessibili garantendo l’arrivo in aula alle sole matricole, che sono gli studenti i più vulnerabili, perché per la prima volta entrano nel mondo degli adulti. Per loro la Sapienza avrebbe dovuto fare di più.

In questi mesi di emergenza sanitaria l’accademia è diventata centrale, la comunità scientifica è salita alla ribalta. Abbiamo visto concretamente quanto sia importante la ricerca. Cosa fare perché venga implementata, perché questa crisi diventi anche l’occasione per una trasformazione positiva di un settore troppo a lungo trascurato dai governi e ampiamente sotto finanziato in Italia?

Certamente la pandemia ha fatto uscire da un cono d’ombra l’accademia, l’istruzione ed anche la sanità, che non avevano goduto di buona stampa, a parte qualche eccezione. Veniamo da almeno due decenni in cui la scuola, la sanità, la ricerca non sono stati ben visti dall’opinione pubblica in generale. La pandemia ha segnato forse una svolta importante. La ricerca è libera ed è creativa. L’università pubblica è l’unica che è in grado di difendere la libera ricerca e la creatività del singolo, ma la deve anche sostenere. Sappiamo che il Next Generation Eu contiene misure a sostegno del diritto allo studio, per allargare la no tax area per gli studenti; è prevista anche una quota importante di fondi per la ricerca. Quanto a fondi per la ricerca l’Italia è quasi il fanalino di coda in Europa; dunque c’è un margine di miglioramento incredibile. Ma le risorse da sole non bastano. Serve anche un modo intelligente per utilizzarle. Serve anche un’accademia aperta, libera. Bisogna che le persone abbiamo la possibilità di esprimere liberamente se stesse, trovando sostegno pratico ed efficace. Ripeto non bastano le risorse, bisogna favorire la crescita di una comunità libera e aperta di ricercatori e accademici. È necessario abbandonare definitivamente logiche verticistiche e baronali, che purtroppo dominano ancora ampie aree della Sapienza.

Parliamo del ruolo dei ricercatori. Sono molto importanti anche all’interno della didattica. Ma la loro condizione troppo spesso è precaria. Come far sì che si possano realizzare nel proprio lavoro e percorso?

La cosiddetta legge Gelmini 240 del 2010 ha creato nuove figure di ricercatori, a contratto (tipo A) e poi con una prova finale volta alla stabilizzazione (tipo B). Nel primo caso c’è il rischio che si formino sacche di precariato se alla fine del loro percorso questi ricercatori non possono essere valutati in vista di una loro stabilizzazione. L’università – e in particolare La Sapienza, che è la più grande di Italia – deve farsi promotrice di un meccanismo affinché tutti i ricercatori di tipo A abbiano il diritto di essere valutati per delle posizioni strutturali di tipo B, per far sì che ci sia un accesso regolare, naturale, non a singhiozzo all’interno dell’università. Per essere libera l’università deve essere accessibile, deve prevedere un regolare ricambio generazionale di ricercatori e di docenti; solo la certezza del reclutamento costante dà ai giovani la tranquillità necessaria per impegnarsi nella didattica e nella ricerca, in grado di dare frutti.

Il mondo dell’università è fatto anche di tecnici e amministrativi. Questo è il momento di grandi assunzioni pubbliche? Bisogna investire sulla formazione, per far sì che il personale si possa riqualificare anche per accelerare sulla digitalizzazione e lo snellimento della burocrazia?

Se prendiamo l’esempio della Sapienza vediamo che ha una componente amministrativa assai ampia. Ma non sufficientemente efficace ed efficiente. Per questo noi abbiamo bisogno di più amministrazione di qualità. Serve un piano straordinario di reclutamento del personale tecnico amministrativo. L’università è un corpo vivo in cui ogni sua componente deve potersi aggiornare, ripensando costantemente il proprio ruolo, perché la scienza e la cultura sono in continua trasformazione. È così anche per il personale tecnico amministrativo, penso ai tecnici di laboratorio, ai tecnologi che devono contribuire alla ricerca sperimentale nei laboratori scientifici, ma anche ai restauratori nei laboratori di archeologia. Necessitiamo di un maggior numero di figure professionali ad ogni livello. Solo da una nuova condivisione degli obiettivi fra la parte didattica e quella amministrativa potrà rinascere una grande università come La Sapienza.

C’è poi tutto il discorso che riguarda la tutela e la valorizzazione del patrimonio architettonico universitario. Quello della Sapienza è fra i più ingenti.

La Sapienza è forse l’università con la più ampia dotazione di beni culturali al mondo. Pensiamo alla città universitaria protetta dalla Soprintendenza, ma pensiamo anche alla facoltà di ingegneria di San Pietro in Vincoli. La Sapienza ha un patrimonio architettonico davvero unico. Va tutelato, ma soprattutto va valorizzato in vista delle finalità universitarie, ovvero la didattica e la ricerca. Non dobbiamo viverlo in modo museale, conservativo, dobbiamo adeguare gli spazi alle nuove esigenze della didattica e della ricerca. Soltanto vivendo il patrimonio in questo modo, potrà diventare un manifesto della Sapienza all’esterno. Un esempio concreto: la città universitaria progettata da Piacentini è stata il primo campus universitario in Europa e con opportuni e intelligenti cambiamenti potrebbe dimostrare capacità di trasformazione per essere al passo con le nuove esigenze della didattica e della ricerca.

La Sapienza svolge un ruolo di primo piano anche nella sanità, con il policlinico?

La Sapienza, come università che ospita il maggior numero di studenti di medicina e delle professioni sanitarie, contribuisce anche alla tutela del diritto costituzionale alla salute. La Sapienza è l’unica università in Italia a gestire due policlinici universitari e una realtà territoriale al Polo di Latina, dunque ha un impegno nel settore della formazione medica, che non ha uguale a livello nazionale; una responsabilità, che oggi è ancor più importante, per la formazione dei medici del futuro, proprio quel capitale umano di cui ogni giorno sentiamo dire il nostro Paese ha bisogno. La Sapienza è sempre stata all’avanguardia su questo. Purtroppo, il più grande policlinico universitario d’Italia, l’Umberto I (le cui stesse mura sono di Sapienza) si appresta a diventare al 50% ospedale Covid: su oltre mille letti la metà saranno letti Covid. Questo fatto, meritorio dal punto di vista della salute pubblica, ha però un grande inconveniente. Ha leso e, temo, continuerà a ledere, il diritto alla formazione di migliaia di studenti di medicina e di centinaia di specializzandi delle varie discipline, che studiano al Policlinico e dovrebbero avere la possibilità di proseguire la loro attività di formazione. Infatti, a causa della riconversione di interi reparti in reparti Covid, questi studenti si vedono limitati in questo loro diritto. È un serpente che si morde la coda: da una parte abbiamo bisogno di nuovi giovani medici formati, ma dall’altro non li mettiamo in condizione di formarsi, perché convertiamo il Policlinico universitario Umberto I, il più grande d’Italia, in ospedale Covid. Forse ci dovevamo pensare prima. Dubito che dopo vent’anni di rettori medici, un altro medico sia capace di fare fronte a questi problemi.

Per far diventare l’università un volano per uscire dalla crisi occorre soprattutto una visione chiara del presente, ma al contempo di lungo periodo? 

Ho chiamato il mio programma “Verso il 2030”: dobbiamo avere una visione ambiziosa non basta immaginare un buon sistema per far funzionare un ateneo. Questo ormai non è più sufficiente. Bisogna immaginare una università proiettata in futuro aperto sprovincializzato e soprattutto internazionale. L’internazionalizzazione deve diventare un elemento trasversale di tutto il sistema. La sfida è mettere La Sapienza all’interno dei grandi processi mondiali, che riguardano la sostenibilità e la digitalizzazione. Dobbiamo rifuggire ogni atteggiamento conservativo e di mantenimento dello status quo, dobbiamo combattere contro ogni tipo di verticismo e controllo oligarchico, per proiettarci verso il 2030 e oltre, pensando anche ai decenni successivi. Solo così la Sapienza continuerà per i prossimi settecento anni ad essere un punto di riferimento per le nuove generazioni, come lo è stata nei suoi primi settecento anni.

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Franco Cardini: I miti da sfatare per capire la jihad

PARIS, FRANCE - NOVEMBER 20: A French police officer stands guard as Muslim women leave the Great Mosque of Paris (Grande mosquee de Paris) after the Friday prayers on November 20, 2015 in Paris, France. Following the terrorist attacks in Paris last week, which claimed 130 lives and injured hundreds more, the Muslim community of Paris has seen an increase in security as Paris remains on a high security alert. (Photo by Thierry Chesnot/Getty Images)

Dopo gli attentati dell’11 settembre e da allora ogni volta che si ripete tragicamente un evento simile, in tutti i media italiani e mondiali si parla di Islam, radicalizzazione religiosa e coesistenza fra uno Stato laico occidentale e la religione di Maometto. Fra chi cavalca l’islamofobia, ma purtroppo anche fra chi professa una convivenza fra i due mondi, troviamo molto spesso descrizioni o idee folcloristiche del mondo musulmano che tendono a radicarsi indissolubilmente nell’immaginario del cittadino comune. Per sfatare alcuni miti e avere delle conoscenze precise su cui tracciare la nostra opinione, abbiamo sentito Franco Cardini, storico e saggista italiano, fra i massimi esperti di storia delle Crociate e del mondo e della cultura arabo-islamica.

Da studioso del tema come vede il dibattito sulla coesistenza di uno Stato laico e la religione islamica?
C’è una resistenza a trattare l’argomento, non dico scientificamente, ma con un minimo di serietà e imparzialità. Non si può generalizzare sull’Islam. La Umma (l’insieme delle comunità islamiche) è composta da un miliardo e 700milioni di persone, sparse su tutto il globo, e non esiste un Paese dove vivono solo musulmani o dove sono assenti. In parte questa resistenza è causata dall’ignoranza, ma va riconosciuta anche l’esistenza di una certa malafede. Se nel primo caso è possibile fare qualcosa, purtroppo nel secondo è ben più difficile intervenire.

Nei media e come luogo comune predomina l’idea di un Islam arretrato, è una visione veritiera?
Vige ancora l’opinione comune che l’Islam sia “fermo al Medioevo” senza sapere che è una dimensione storica tipicamente occidentale e non applicabile al mondo musulmano. È in realtà un’entità che muta rapidissimamente. La stragrande maggioranza dei musulmani si sta adattando, modificando in parte anche la propria religione. L’ala marciante dell’Islam infatti è fatta da persone che vogliono continuare a rispettare i dettami della propria cultura religiosa, ma che allo stesso tempo vivono in modo coerente con l’occidente moderno, che al giorno d’oggi, che se ne dica bene o male, ha dato forma alle tradizioni politiche ed economiche dominanti.

Qual è quindi il rapporto fra il mondo musulmano e il radicalismo religioso?
In reazione al cambiamento di cui stavamo parlando, esistono realtà musulmane che sono politicamente e programmaticamente rivolte all’indietro. Gruppi fondamentalisti di utopisti reazionari che…

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