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Decreti sicurezza, perché abolirli è una priorità

Debris and life jackets from capsized boat float by the rocky shore of the Sicilian island of Lampedusa, southern Italy, Sunday, Nov. 24, 2019. Italian news reports say the Italian coast guard has recovered seven bodies of migrants near Lampedusa and kept up its search Sunday of rough seas for as many as 13 other migrants feared missing after their boat capsized on Saturday. (AP Photo/Mauro Seminara)

Da alcune settimane i diritti, la dignità e la sicurezza negati agli immigrati sono tornati al centro del dibattito politico-sociale. A fare da volano è stata in primis la sanatoria, di cui tanto ci siamo occupati su Left mettendo in evidenza alcune luci e molte ombre. Un provvedimento fortemente voluto dal ministro per le Politiche agricole, Teresa Bellanova, in virtù del quale i rimpatri sono bloccati fino al 15 agosto, ultimo giorno per presentare la domanda di regolarizzazione. Ci sono stati anche numerosi sbarchi con relativa messa in quarantena dei migranti sulle navi al largo. Per non dire delle diverse centinaia di persone bloccate nei Cpr e hotspot. In primis a Lampedusa dove sono ”reclusi” circa mille migranti, vale a dire dieci volte la capienza del centro. Situazioni che sarebbero pericolose per l’incolumità degli ospiti già senza Covid-19, figuriamoci a quali rischi sono esposti ora con il virus che ancora gira. Eppure la salute è un diritto primario, così come lo è l’accoglienza delle persone in difficoltà. Perché in Italia si continua a far fatica a riconoscere i migranti che arrivano sul nostro territorio come soggetti di diritto? Ne parliamo con Silvia Albano, magistrato presso la sezione specializzata per la protezione internazionale del tribunale di Roma.

Il magistrato Silvia Albano

Magistratura democratica di cui lei fa parte si pone come obiettivo principale la tutela dei diritti fondamentali. In un periodo del genere, in cui i confini del diritto sono piuttosto sfumati, qual è il vostro impegno affinché gli immigrati possano godere dei benefici che il nostro paese garantisce?
È sotto gli occhi di tutti che sulla materia dei migranti c’è molto lavoro da fare, stante una resistenza da parte della politica.

Il decreto “porti chiusi” del 7 aprile, che definisce l’Italia luogo non sicuro, è un esempio di questa resistenza?
Se l’Italia non è un porto sicuro, nemmeno gli aeroporti lo sono. Perché ogni migrante che arriva è sottoposto al test, mentre agli aeroporti, dove arrivano persone da tutte le parti del mondo, non vengono fatti gli stessi controlli? Se durante il lockdown c’è stato un momento di effettiva difficoltà nell’accogliere i migranti, questo non può in alcun modo giustificare discriminazioni e precludere un’accoglienza e un trattamento dignitoso a chi sta rischiando la propria vita a bordo di un barcone.

I problemi tuttavia non nascono con il Covid-19. Il cd. decreti “Sicurezza” di Salvini convertiti in legge hanno posto numerose limitazioni, a partire dall’abolizione della protezione umanitaria. Cosa pensa di questi provvedimenti? Più volte esponenti del governo Conte 2 ne hanno annunciato l’intenzione di abrogarli…
L’abrogazione è molto urgente. Nel primo dei due, per es., parliamo di un decreto incostituzionale sotto molti profili. La protezione umanitaria copriva quelle situazioni in cui i diritti fondamentali non erano coperte dalle due protezioni maggiori, lo status del rifugiato e la protezione sussidiaria. In Italia abbiamo una normativa molto ampia, a partire dall’articolo 10 comma tre della Costituzione, che prevede l’obbligo per il nostro Paese di fornire il permesso di soggiorno e accogliere le richieste d’asilo di qualsiasi persona non possa esercitare libertà democratiche nel proprio Paese

Ci può fare un esempio concreto?
Rispetto agli obblighi internazionali, l’articolo 14 della convenzione contro la tortura, fonte sovraordinata e ratificata in Italia con legge, prevede che gli Stati abbiano l’obbligo di garantire riabilitazione alle vittime di tortura. Questo ha permesso di dare protezione umanitaria a tutte quelle persone che provenivano dalla Libia e avevano subito trattamenti di cui tutti conosciamo l’efferatezza. Adesso, senza la protezione umanitaria i migranti non possono essere più accolti.

Per non parlare dello stravolgimento del sistema di accoglienza…
L’ennesima privazione alla tutela dei diritti dei migranti. Con il divieto di accesso agli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che prevedevano integrazione, inserimento nel mondo del lavoro e assistenza psicologica, adesso i richiedenti asilo possono accedere solamente ai Cas (Centri di accoglienza straordinaria), che non hanno l’obbligo di garantire questi servizi. Il migrante è abbandonato a sé stesso, plausibilmente destinato a diventare irregolare. Questo decreto ha avuto dunque effetti criminogeni, che rischiano di aggravarsi con la pandemia che stiamo vivendo. Mantenendo…

L’intervista prosegue su Left che esce il 7 agosto

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Il virologo Fabrizio Pregliasco: La seconda ondata non è un destino ineluttabile

FILE - In this on Tuesday, March 10, 2020 file photo, a member of the medical staff measures the temperature of a traveller at a autobahn park place near Gries am Brenner, Austria near the border crossing with Italy. Europe is taking a big step toward a new normality after the coronavirus outbreak as many countries open up their borders to fellow Europeans – but exceptions remain, and it remains to be seen how many will use their rediscovered freedom to travel. (AP Photo/Kerstin Joensson, file )

Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano

Professor Pregliasco, da circa due mesi in Italia il dato dei contagi giornalieri sembra piuttosto stabilizzato. Non mancano però alcuni picchi legati alla scoperta di nuovi focolai. Nulla comunque a che vedere con quanto sta accadendo in Spagna, per esempio, dove dopo una fase di relativa calma il ritmo dei contagi è improvvisamente aumentato nell’ordine di migliaia al giorno. Come si può leggere questa situazione?
In Italia abbiamo superato la fase epidemica e siamo in una fase cosiddetta endemica. Io dico che dobbiamo considerare la seconda ondata come la peggiore delle eventualità ma appunto un’eventualità. Cioè dobbiamo tener conto che potrebbe verificarsi per attrezzarci e organizzarci nel miglior modo possibile. Se non altro perché la storia ci dice che altre pandemie lasciate a se stesse, senza particolari misure di prevenzione e contenimento, a un certo punto si sono ripresentate.
Si parla molto dell’autunno come possibile orizzonte temporale.
Sicuramente in autunno ci sono sbalzi termici, e il fatto che i sintomi di questo virus gli consentano di nascondersi tra le pieghe di un’influenza aumenta la possibilità di mimetizzarsi. Come del resto è già successo all’inizio dell’anno. C’è però un elemento che secondo me va considerato in maniera positiva. In questo momento noi stiamo scoprendo moltissimi casi di asintomatici, persone che durante la prima ondata raramente venivano intercettate. Questo significa che oggi siamo capaci di individuarle riducendo progressivamente il rischio di nuovi focolai.
È sufficiente questo per stare tranquilli?
Diciamo che è una condizione necessaria ma non sufficiente. L’acquisita capacità di intercettare gli asintomatici porta risultati positivi solo se il Sistema sanitario nazionale non viene messo in condizioni critiche. Va quindi evitato di fare di tutto per infettarci con le “movide” o di ascoltare i nemici delle mascherine, perché è chiaro che così diventa tutto più difficile.
Lei fa parte dei medici e scienziati ottimisti o pessimisti?
Io sono ottimista ma prudente. I focolai son dovuti a tre possibili situazioni che a volte si intersecano: attività lavorative a rischio (es. macellazione di animali, spedizionieri etc), situazioni sociali a rischio (es. abitazioni sovraffollate), e la terza è che il virus sicuramente arriva per lo più dall’esterno. Anche in business class. Questo per rispondere a chi dice che è colpa dei migranti. Diversi Paesi occidentali sono in una fase espansiva, quindi ci sono molti casi di ritorno.
Mascherina sì o no? Dove e quando?
Non avrebbe senso e non sarebbe ragionevole lanciare la moda della tintarella con il segno della mascherina. Però io dico che in questo momento in tutta Italia la dobbiamo avere sempre con noi come fosse un accessorio moda, come gli occhiali da sole. C’è qualcuno che li porta anche di notte per darsi un tono, però normalmente l’occhiale da sole lo usiamo quando serve. Riguardo la mascherina bisogna tener conto che non sempre sappiamo valutare quando serve. Mi riferisco al discorso sugli asintomatici che facevo prima. Persone che stanno bene e che si trovano solo con il sierologico. Sicuramente sono meno contagiosi di chi tossisce in un luogo chiuso e con sintomi evidenti. Però rappresentano a oggi un rischio effettivo e dunque le precauzioni vanno prese.
Altrimenti sarà seconda ondata?
Se manteniamo questa capacità sistematica a livello territoriale di individuare i casi sospetti, di evitare i contatti stretti e di agire con quarantene mirate, spegnendo gli incendi finché son piccoli, e se noi con il nostro senso civico facciamo la nostra parte, allora a mio avviso la seconda ondata non ci sarà. E continueremo ad avere dati ondulanti simili quelli odierni. Cioè numeri piccoli sia nei contagi che nei decessi. È chiaro che una vita è una vita ma dal punto di vista numerico la situazione è ben diversa dal marzo scorso.
Quello che accade ora in Spagna può essere considerata seconda ondata?
Non ancora. Sono le premesse per una possibile seconda ondata. È una fase di rialzo che va controllata perché il rischio c’è. È comunque il segnale che qualcosa è stato sottovalutato ed è stato lasciato andare.
Quanto può incidere in Italia l’esperienza vissuta cinque mesi fa?
Una patologia di questo tipo che si mimetizza molto bene ai suoi prodromi, che passa in poco tempo da influenza a polmonite rende tutto molto difficile. Di fatto la prima ondata…

 

L’intervista prosegue su Left che esce il 7 agosto

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Il mare magnum della negazione

La pandemia colpisce ancora duramente a livello mondiale. Casi in crescita negli Stati Uniti con 1.400 vittime in 24 ore e il Congresso che denuncia una catastrofe sanitaria, allarme in Giappone con un nuovo record per il terzo giorno consecutivo. Crescita esponenziale dei contagi in un giorno (oltre 5.400 e 95 morti) anche nella Russia di Putin il quale ha annunciato che ad ottobre inizierà una grande campagna di vaccinazione. Situazione drammatica anche in Uruguay, Messico, in Brasile e più in generale in America Latina. Ma il Covid tiene sotto scacco anche l’Europa: la Germania ha registrato quasi mille casi in un giorno; picco improvviso di 1.400 contagi anche in Francia; mentre dalla Spagna giunge la notizia che Madrid è la città europea che conta il maggior numero di morti. Se consideriamo anche gli effetti collaterali del Covid che ha paralizzato un po’ dovunque le strutture sanitarie con l’aumento vertiginoso che ne è conseguito della mortalità nelle patologie cardiovascolari e oncologiche, e quelle che richiedono interventi chirurgici d’urgenza, il quadro generale è inquietante e dovrebbe suggerire prudenza e rispetto rigoroso delle norme anticontagio.
La scorsa settimana invece a Berlino migliaia di negazionisti, ostili alle misure restrittive delle libertà individuali, hanno marciato inneggiando alla fine della pandemia e alla Giornata della libertà. La polizia ha stimato la presenza di 15mila persone. Tra loro anche no-vax, estremisti di destra e neonazisti. Nel corteo pochi indossavano una maschera, così come non è stata rispettata la distanza fisica normalmente obbligatoria di un metro e mezzo. In Italia i gilet arancioni di Antonio Pappalardo a loro tempo non sono stati da meno dei “coronaidioti” tedeschi (come sono stati opportunamente ribattezzati), come anche tutti i protagonisti indisciplinati delle “movide”. Mentre al convegno dei negazionisti che si è tenuto in Senato a fine luglio Vittorio Sgarbi – confortato dalle dichiarazioni di medici che potrebbero indurre a un falso ottimismo (come quelle dell’onnipresente in tv Alberto Zangrillo) – ha sostenuto che in Italia il coronavirus non c’è più.
Notevole anche l’intervento in quel contesto di Andrea Bocelli che è passato dal melodramma all’opera buffa interpretando la parte della vittima e del finto tonto. Prima spara stupidaggini sul numero dei morti per pandemia poi chiede scusa in perfetto stile vatican-cattolico. Senza dilungarmi sulle esternazioni tragico-comiche della politica e della cultura italiana nonché internazionale (vedi Trump, Johnson, Bolsonaro solo per fare alcuni esempi) si deve constatare che il Covid ha avuto un impatto molto forte sulla salute mentale delle persone, in alcuni casi già in condizioni precarie, e ha favorito l’irruzione di giudizi “deliranti” e la perdita di un rapporto minimo con la realtà dell’epidemia che anche ad un esame superficiale appare tutt’altro che vinta e sicuramente ancora pericolosissima soprattutto se si abbassa la guardia.
Dietro il virus della Sars II traspare allora il virus, altrettanto se non più pericoloso del negazionismo come ha scritto Alessandro Robecchi sul Fatto del 29 luglio. Sappiamo che questo termine designa una “malattia” che originariamente ha colpito solo una piccola compagine di storici antiaccademici i quali partendo da posizioni revisioniste erano approdati al tentativo di confutare l’esistenza della Shoah, dei campi di concentramento, delle responsabilità naziste. Interessanti gli espedienti retorici attraverso cui si giungeva ad annullare la verità dei fatti come lo sterminio di milioni di ebrei comprovata da innumerevoli testimonianze fra cui quella decisiva di Adolf Eichmann durante il suo soggiorno argentino. Le ricostruzioni “negazioniste” decontestualizzavano le fonti attraverso una loro lettura gravata sistematicamente dal sospetto paranoico della manipolazione e del complotto, mentre la falsa deduttività dei paralogismi attraverso l’individuazione di una serie di nessi apparentemente consequenziali giungeva a ribaltare il ruolo delle vittime e dei persecutori. La responsabilità dei campi di concentramento sarebbe stata dell’ebraismo mondiale che avrebbe, a suo tempo ordito un complotto e dichiarato guerra ai nazisti che avrebbero reagito di conseguenza come ha sostenuto Robert Faurisson e più recentemente in Italia Carlo Mattogno. Ma qual è…

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Calderoli che odiano le donne

«Qualcuno dice che questo è fatto per favorire la parità di accesso. Ve lo dice un umile e modesto conoscitore della materia elettorale: chi la conosce sa che in collegi che hanno a disposizione un numero di candidature che va da due a sette, quindi piuttosto piccolo, la doppia preferenza di genere danneggia il sesso femminile, perché normalmente il maschio è maggiormente infedele della femmina, per cui accanto a una candidatura maschile…». Così il senatore della Lega Roberto Calderoli intervenendo in Aula al Senato durante la discussione generale sul dl per la doppia preferenza in Puglia.

«Il maschio solitamente si accoppia con quattro o cinque rappresentanti del gentil sesso, cosa che la donna solitamente non fa – dice ancora – Il risultato è che il maschio si porta i voti di quattro o cinque signore e le signore non vengono elette».

Mentre il senatore Calderoli pronunciava queste bestialità di fianco a lui il senatore Matteo Salvini applaudiva. Sì, applaudiva.

Ciò che sconvolge è che ogni giorno, da qualche parte, arriva la prova inconfutabile che questi:

  • odiano le donne;
  • ritengono le donne altro rispetto al proprio esser maschi;
  • ritengono la politica una pratica da cacciatori e furbi e non da amministrazione della cosa pubblica;
  • ritengono gli uomini valorosi per le loro infedeltà mentre le donne le immaginano ovviamente silenti e punite;
  • sono talmente sfacciati che dicono le cose che dicono in una seduta del Parlamento, con tanto di verbale scritto;
  • si danno di gomito quando parlano di donne come se fossero nei peggiori bar.

Ma una domanda mi agita da sempre: ma le donne come fanno a votarli? Ma le donne della Lega non hanno niente da dire ai Calderoli che odiano le donne?

Ah, a proposito: prima tocca agli stranieri, poi agli omosessuali, poi alle donne. Piano piano, vedrete, toccherà prima o poi anche a voi. Perché loro sono patrioti di un’unica patria: se stessi.

Buon venerdì.

La fuga di Juan Carlos apre una crisi istituzionale in Spagna

FILE - In this June 3, 2014 file photo then King Juan Carlos attends a military ceremony in San Lorenzo de El Escorial, outside Madrid, Spain. The royal family's website on Monday Aug. 3, 2020, published a letter from Spain's former monarch, King Juan Carlos I, saying he is leaving Spain to live in another country, amidst a financial scandal. (AP Photo/Daniel Ochoa de Olza, File)

Travolto dalla corruzione il re emerito di Spagna Juan Carlos I, padre di Felipe VI il regnante, ha scelto di fuggire dal suo Paese. Decisione presa in accordo con la casa reale, con Sofia di Grecia, la regina consorte rimasta in vacanza a Maiorca, e dopo aver debitamente informato la componente socialista del governo, ma evitando di coinvolgere Unidas Podemos formazione dichiaratamente repubblicana, dunque una decisione di stato.
È evidente che la prima conseguenza della sua scelta, che aggiunge ulteriore meschinità alla sua storia da tempo compromessa, dovrebbe essere l’apertura della crisi dell’istituzione monarchica spagnola e con essa del patto costituzionale del ’78.

Ha ragione Aitor Esteban, giurista e capogruppo parlamentare del partito nazionale basco, a sostenere che senza cambiamenti radicali la monarchia è destinata a essere spazzata via dalla Spagna e sbaglia la vicepresidente del governo Carmen Calvo, socialista, a pensare di liquidare la vicenda sostenendo che il re emerito «non fugge da nulla, non è coinvolto in nessuna causa», come se fosse partito per un viaggio di piacere, come se non dovesse rispondere di corruzioni e frodi fiscali di fronte alla giustizia.
Una crisi istituzionale che capita nel momento meno opportuno, mentre la Spagna attraversa uno dei peggiori momenti di vita collettiva, nel pieno di una massiccia ripresa dei contagi con le strutture sanitarie di nuovo in difficoltà, mentre parte della popolazione, in piena crisi climatica, è costretta a convivere con temperature ben oltre i 40 gradi, alla vigilia di un autunno che si annuncia carico di tensioni sociali per la crisi economica.

Sánchez ha ribadito al consiglio dei ministri e al suo partito che «La monarchia fa parte del patto costituzionale. E noi siamo leali, dall’inizio alla fine» e ha tentato di tenere fuori il governo di coalizione da questa vicenda, ma è stato poco convincente. Le differenze con Unidas Podemos sono emerse con forza e ancora di più si sono manifestate quelle con i repubblicani catalani di Erc, la cui astensione in parlamento è determinante per la sopravvivenza del governo progressista.

Certo non è all’ordine del giorno un referendum sulla monarchia, ma è difficile pensare di tenerla fuori dalla crisi quando un terzo del parlamento sospetta della monarchia, il re Felipe VI è persona indesiderata in Euskadi e Catalogna e uno dei partiti al governo ritiene che sia giunto il momento di aprire il dibattito sulla repubblica. Inoltre sulla crisi istituzionale si sono lanciate le tre destre spagnole tentando di usare le differenze fra i due partiti di coalizione per spingere i socialisti a sbarazzarsi di Unidas Podemos dal governo. Su questa messa in crisi del rapporto fra Psoe e Unidas Podemos le destre ritrovano subito unità di intenti, lasciando capire che un loro atteggiamento più responsabile e collaborativo avrebbe come prezzo la rottura a sinistra e la liquidazione del programma che ha permesso la formazione del governo progressista.

Il tentativo dei socialisti e di Sánchez di attirare Ciudadanos per strappare una astensione sul voto, in autunno, del nuovo bilancio, dividendo il fronte delle destre, è una tattica che finora ha logorato solo la maggioranza.
Dividere le destre e indebolirle potrebbe servire a togliere un punto di riferimento a quella rabbia sociale che sarà difficile contenere quando termineranno le garanzie e il sostegno dello scudo sociale voluto dal governo progressista, come la cassa integrazione, e quando le risorse europee tarderanno ad arrivare. Ma, a prescindere dalla crisi della monarchia, c’è il rischio di mandare a monte la maggioranza progressista, proprio quando il Paese patisce e l’incertezza del futuro è più forte. Mentre continua la paura del virus, l’uscita sociale dalla crisi e quella promessa di non lasciare indietro nessuno è sempre più difficile immaginarla se si continua a rinviare, a chissà quali tempi più opportuni, capitoli importanti del programma concordato con Unidas Podemos, dalla revisione della legge sul lavoro a una riforma fiscale che comprometta patrimoni e speculazione finanziarie, all’urgenza di una riforma della giustizia che nega da mesi ogni indagine sugli imbrogli e i traffici del re emerito, mentre cancella la semilibertà per lavoro appena concessa ai dirigenti indipendentisti catalani.

È agosto e, scappato il re emerito forse ai Caraibi, iniziano le brevi vacanze istituzionali: chi non è scappato dalla casa reale si riunisce a Maiorca, il presidente del consiglio a Lanzarote, consiglio dei ministri sospeso fino al 25 agosto, ma vista la situazione sanitaria, tutti e tutte reperibili a meno di due ore da Madrid in auto o in aereo. Rimane il dubbio che il Psoe stia varcando il confine fra scelta tattica per dividere le destre e le decisioni strategiche abbindolato dalla grande coalizione.

Ti conosciamo, mascherina

A face mask that reads in Portuguese "Bolsonaro out" hangs from a line during a protest against racism, the policies of President Jair Bolsonaro's government, and to defend democracy amid the new coronavirus pandemic at the Ministries Esplanade, in Brasilia, Brazil, Sunday, June 21, 2020. (AP Photo/Andre Borges)

Eccolo qui, Matteo Salvini, in tutto il suo splendore di vittima sacrificale che si offre ai suoi elettori e che prepara la propaganda per i prossimi mesi sperando di passare incolume questa estate senza ripetere gli errori dell’anno scorso. L’uomo che voleva “tutti i poteri” l’anno scorso mentre ballava a torso nudo sulla spiaggia del Papeete quest’anno ha deciso di rivendersi come l’uomo che va a processo per le sue idee e che vuole essere il martire del difensore dei confini italiani. Peccato che la narrazione, per quanto rivenduta con una certa alchimia, non stia per niente in piedi proprio per tutta la fatica che ci ha messo brigando per farsi salvare dai suoi amici (e dai suoi finti nemici) in Parlamento: se avesse voluto fare l’eroe avrebbe dovuto avere il fisico per farlo fino in fondo e invece si ritrova a essere quello che prova prima a scappare dal processo e infine, quando non ha avuto più armi a disposizione per evitarlo, ce lo vuole rivendere come una medaglia che si porta al petto. Prima frigna e poi lo rivendica: dispiace ma l’atteggiamento bambinesco depotenzierà non poco il suo messaggio e difficilmente la parte dell’eroe nazionale gli si confà. Resta anche da vedere che ne faranno i suoi alleati: Silvio Berlusconi ha usato il rinvio a giudizio semplicemente per rivendicare la propria storia da pluricondannato, sostanzialmente parlando di se stesso più che di quello che potrebbe accadere all’ex ministro dell’Interno; Giorgia Meloni ha avanzato una difesa di facciata che è risultata poco convincente e non bisogna essere fini analisti per capire che proprio sul processo potrebbe avvenire il sorpasso che porterebbe la leader di Fratelli d’Italia a tenere in mano le redini di tutto il centrodestra. «Tornerò l’anno prossimo da presidente del Consiglio» ha detto Salvini a Milano Marittima qualche giorno fa, ovviamente sulla spiaggia che è luogo a lui consono, e che non si sia sentita la fragorosa risata di risposta che si sono fatti dalle parti del Parlamento è solo dovuto a una forma di buona educazione. Il governo rimarrà in piedi, eccome, e se c’è un rischio per la montagna di soldi che arriverà dall’Europa sarà piuttosto un tentativo di restaurazione di antichi poteri, gli stessi che già digeriscono poco un accrocchino di governo con Conte e M5S e centrosinistra, figurarsi se metterebbero in mano tutto il malloppo a chi, come Salvini, viene giudicato troppo inaffidabile per operazioni politiche di rilevanza internazionale.
A proposito di politica internazionale: gli ultimi fatti avvenuti in Europa hanno dato un duro colpo alla narrazione sovranista del leader della Lega e ora dalle parti di via Bellerio si cerca di capire la strategia per riuscire a trascinarsi nei prossimi mesi: copiare da Trump rimane sempre la poco…

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Un vaccino contro il virus del negazionismo

Foto Guido Calamosca/LaPresse 2 agosto 2020 Cervia Milano Marittima, Italia cronaca Matteo Salvini in spiaggia al Miami Beach Nella foto: Matteo Salvini Photo Guido Calamosca/LaPresse August 2, 2020 Cervia Milano Marittima, Italy news Matteo Salvini on the beach at Miami Beach In the pic: Matteo Salvini

Come se non bastassero il dolore per le vittime della pandemia e le difficoltà dovute alla crisi economica negazionisti e complottisti rischiano di farci pagare un prezzo se possibile ancor più alto, con le loro fandonie sull’inutilità delle mascherine e della prevenzione.
Se in Italia il Covid-19 in questo momento risulta sotto controllo è perché hanno funzionato in primis le basilari misure di distanziamento fisico e di igiene, dal momento che non disponiamo ancora né di un vaccino né di farmaci ad hoc per questa malattia.
Negare di essere ancora in pericolo e sbarazzarsi degli strumenti protettivi (in nome di un astratto concetto di libertà, per una credenza religiosa o per ragioni economiche ecc.) ci mette tutti seriamente a rischio. Non solo perché ci potrebbe essere una nuova ondata di contagi in autunno, ma anche per quel che riguarda strettamente il presente, visto che con il caldo estivo il virus non è affatto sparito, diversamente da quel che preconizzavano i negazionisti nei mesi scorsi durante il lockdown.
Per rendersene conto basta guardare a quel che accade anche in Paesi vicini a noi come la Spagna, solo per fare un esempio.
Sostenere che il virus si stesse indebolendo e che fosse diventato meno aggressivo come hanno fatto, senza uno straccio di evidenza scientifica, alcuni medici e scienziati è stato a dir poco irresponsabile. Fra loro spicca Alberto Zangrillo («La salute è importante ma altrettanto lo è l’economia», dice lui). Direttore della terapia intensiva al San Raffaele di Milano e noto per essere stato il medico di Berlusconi, nel giugno scorso ha lanciato un manifesto firmato da Matteo Bassetti e altri.
Una sorta di manifesto degli ottimisti in cui si parlava di casi «debolmente positivi».
«Clinicamente il nuovo coronavirus non esiste più, qualcuno terrorizza il Paese» ha sbottato durante un’intervista andata in onda su Rai Tre nella trasmissione Mezz’ora in più. Ben presto è stato smentito dai fatti. Ma anche da altri autorevoli virologi e specialisti. Nonché da un contro manifesto di scienziati che però – curiosamente – non è stato altrettanto rilanciato dai media mainstream. La comunità scientifica internazionale, intanto, continua a dire che non bisogna abbassare la guardia.
Audito da una commissione speciale del Congresso Usa, l’immunologo Anthony Fauci ha ammesso che il virus negli Stati Uniti resta fuori controllo. Anche perché, ha detto, gran parte delle attività economiche non si sono mai fermate, diversamente da quanto è accaduto in Italia (o per lo meno in quasi tutta l’Italia a Sud della Lombardia, aggiungiamo noi). Il negazionismo è un virus diffusissimo negli Usa, come ci racconta l’americanista Alessia Gasparini in questa storia di copertina, alimentato dal mito nazionale del produrre e consumare a tutti i costi, da una storica avversione dei conservatori nordamericani verso i dettami della scienza, e da predicatori di sette evangeliche che sostengono Trump. Ma c’è forse anche dell’altro: una diffusa e mal intesa idea di libertà personale che si traduce in un rifiuto delle norme sanitarie, infischiandosene dei rischi per sé e per gli altri. Sulla stessa linea di Trump si muove il presidente brasiliano Bolsonaro, l’amico di Salvini, che ancora parla del Covid come di una banale influenza (come scrive Eric Gad).
«Ma anche negare la pandemia considerandola solo un’influenza, sottovalutarne le conseguenze senza l’avallo di adeguate conoscenze scientifiche, convincere che l’uso delle mascherine è inutile, equivale ad una condotta criminale che può costare la vita a decine di migliaia se non in prospettiva a milioni di persone», commenta lo psichiatra Domenico Fargnoli al quale abbiamo chiesto di aiutarci a leggere il fenomeno del negazionismo, indagandone le radici. «Complottismo, razzismo, annullamento sistematico della verità storica oggi confluiscono nel fiume in piena del negazionismo che, alimentato da soggetti senza scrupoli, rischia di travolgere le deboli difese di popolazioni stremate dal lockdown e dalla crisi economica», avverte lo psichiatra stigmatizzando le strumentalizzazioni di politici nostrani come Salvini che il 27 luglio scorso ha partecipato a un convegno di negazionisti che si è tenuto in Senato, rifiutandosi di indossare la mascherina, per dire che non c’è alcun pericolo. Salvo poi accusare i migranti di essere degli untori. Negazionista intermittente, a seconda della convenienza, insieme a esponenti di Forza Nuova, il capo della Lega è fra quanti cavalcano cinicamente stanchezza e malessere sociale per far cadere il Paese in una crisi ancor più grave.

L’editoriale è tratto da Left che esce il 7 agosto

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Hiroshima e Nagasaki, mai più

Hiroshima A-Bomb Dome, Genbaku Domu, against evening red sky. A-Bomb Dome in Hiroshima,the first atomic bomb to be used in war detonated almost directly above the dome on August 6, 1945.

Sono passati 75 anni da quei due giorni, il 6 e 9 agosto 1945, quando due lampi accecanti seguiti da una mostruosa nuvola a forma di fungo cancellarono in un baleno le due città di Hiroshima e Nagasaki, vaporizzando oltre 200mila persone, e condannando i sopravvissuti a sofferenze inenarrabili seguite in molti casi da una morte straziante. È giunto il momento di dire “mai più”, non solo come reazione di orrore, ma perché oggi per la prima volta si può. Andiamo con ordine, perché la storia è una guida per capire e agire in modo consapevole. Vi fu, in qualche modo, una “preistoria” quando ai primi del Novecento si scoprì che il nucleo atomico racchiude energie milioni di volte più grandi delle ordinarie energie dei processi chimici. L’interesse a capire questi fenomeni ha consentito avanzamenti enormi della nostra conoscenza dei processi fisici. Il problema è sorto quando si sono prospettate le possibilità di sviluppare effettivamente queste potentissime energie. Io sostengo sempre che è stato il più grande errore dell’era contemporanea, perché se è vero che la loro produzione era complessa, è purtroppo vero anche il contrario dato che i processi nucleari non sono reversibili, e i loro prodotti artificiali sono estremamente pericolosi e nocivi e non sono eliminabili dai processi che avvengono sulla Terra.

Poi, allo scoppio della II guerra mondiale, crebbe il timore che i nazisti potessero realizzare la super-bomba, e un pacifista come Einstein fu indotto da Szilard a scrivere una lettera a Roosevelt che di fatto fu all’origine del Progetto Manhattan per la realizzazione della bomba nucleare. Quando Einstein se ne pentì era ormai troppo tardi. Alla fine del 1944 era chiaro che i nazisti non avrebbero realizzato la super-bomba e nel giugno 1945 la Germania si arrese. Ma la realizzazione della bomba atomica non si era arrestata e solo un fisico fra le migliaia di scienziati che lavoravano all’impresa a quel punto l’abbandonò per motivi di coscienza. Il suo nome era Józef Rotblat. Rimaneva aperta l’opzione: usarla realmente? Gli scienziati ebbero ancora un’occasione decisiva. Ma un autorevole comitato di ricercatori nominato appositamente – composto da Robert Oppenheimer, Enrico Fermi, Ernest Lawrence e Arthur Compton – si era pronunciato tra il 15 e il 16 giugno in maniera abbastanza pilatesca, riconoscendo l’obbligo di «salvare vite americane» e concludendo: «Non vediamo nessuna alternativa accettabile all’impiego militare diretto». Così si arrivò alla prima esplosione nucleare, denominata Trinity, che, il 16 luglio del 1945 nel poligono di Alamogordo nel deserto del Nuovo Messico, inaugurò cupamente la nuova era.

La retorica di “salvare vite americane” nella decisione di sganciare le bombe sul Giappone ha dominato a lungo, ma è stata smentita storicamente: il Giappone era al collasso e si sarebbe arreso comunque senza bisogno di un’invasione di terra, la vera urgenza di Truman era di accelerarne la resa per escludere l’Unione sovietica dalle trattative di pace in Asia. In sostanza valeva la pena uccidere 200mila persone, esattamente come dirà 58 anni più tardi il Segretario di Stato Madeleine Albright a proposito dei 500mila bambini vittime della guerra all’Iran. Nei decenni successivi gli ordigni nucleari proliferarono, arrivando negli anni Ottanta al numero demenziale di 70mila, ben più distruttivi di quelli di Hirohima e Nagasaki. Il pretesto era di inibire il loro uso perché avrebbe provocato la «distruzione mutua assicurata»: se non fosse che numerosi allarmi per errore non hanno portato all’Apocalisse nucleare solo per il coraggio di ufficiali che non vollero credere alla loro veridicità, salvando l’umanità da un olocausto generalizzato. Per citare Noam Chomsky, «se siamo vivi è per miracolo».

Per ottenere il plutonio per il test di Alamogordo e Nagasaki, il 12 dicembre 1942 Fermi aveva realizzato la reazione a catena controllata con il primo reattore nucleare, detto impropriamente “Pila di Fermi” poiché non era affatto progettato per produrre energia. Dopo la guerra furono costruiti solo reattori militari, plutinigeni o adattati per la propulsione dei sommergibili. Finché nel 1953 fu lanciato l’Atomo per la Pace per mettere a profitto la nuova tecnologia, promettendo un’energia che sarebbe stata «talmente economica da non poter essere misurata». Anche volendo prescindere dall’enorme quantità di vittime dell’Era nucleare – tumori contratti dai lavoratori nelle miniere di uranio, contaminazione radioattiva dell’atmosfera terrestre per più di duemila test nucleari, sottostima degli effetti della radioattività sull’organismo umano, drammatici incidenti nucleari che hanno reso inabitabili alcune regioni – l’Apprendista stregone umano ha…

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L’autore: Il fisico Angelo Baracca è stato docente universitario a Firenze, ed è attivista e saggista. Impegnato nelle campagne per l’ecologia, contro le guerre e per il disarmo nucleare ha firmato numerosi saggi tra cui “Storia della fisica italiana, un’introduzione” (Jaca Book, 2017)

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SOMMARIO

La fine fredda di Beirut

A drone picture shows the scene of an explosion at the seaport of Beirut, Lebanon, Wednesday, Aug. 5, 2020. A massive explosion rocked Beirut on Tuesday, flattening much of the city's port, damaging buildings across the capital and sending a giant mushroom cloud into the sky. More than 70 people were killed and 3,000 injured, with bodies buried in the rubble, officials said. (AP Photo/Hussein Malla)

Esperti militari hanno affermato che le catastrofiche esplosioni di martedì 3 agosto 2020 a Beirut fanno comprendere le ragioni per cui gli Stati Uniti, l’Unifil e le Nazioni Unite avevano ripetutamente chiesto il monitoraggio e la protezione della costa libanese, e perché «Hezbollah stava spedendo le sue armi via mare e non via terra», come è stato riferito dal quotidiano al-Joumhouria. Fatto sta che il volto di Beirut oggi è totalmente devastato: edifici storici, bar alla moda e gallerie d’arte sono stati tutti sventrati. Il vivace quartiere di Mar Mikhail, una volta una delle gemme di Beirut, vitale centro della vita notturna è stato tra le aree più colpite ed è ora una terra desolata di vetri rotti e auto distrutte. «Mar Mikhail era il cuore pulsante di Beiru – ha detto Lina Daoud, una volontaria di 45 anni che distribuisce cibo e acqua -. Ora, mi sento come se stessi entrando in un posto sconosciuto. Non avrei mai pensato che sarebbe venuto un giorno … quando avrei visto Mar Mikhail in questo modo».

Le persone che hanno perso la vita, mentre scriviamo, sono almeno 135, centinaia i dispersi e almeno 5000 i feriti. Tra le vittime dell’esplosione c’è anche un uomo australiano e numerosi sono i cittadini stranieri rimasti feriti, tra cui 21 marinai del Bangladesh, almeno 21 francesi, un indonesiano e un italiano e un belga. Le ambasciate australiana e tedesca e belga sono state danneggiate. La procura di Parigi ha aperto un’indagine sull’esplosione, come è consuetudine quando i cittadini francesi vengono feriti all’estero. L’esplosione di martedì è arrivata al culmine di una spirale in cui si sono connesse la crisi economica e l’aggravamento prodotto dal blocco derivante dal coronavirus, che ha aggiunto un danno di circa 3 miliardi di dollari al pesante fardello che grava sul piccolo Paese mediterraneo. Secondo il governatore di Beirut l’esplosione ha reso quasi 300mila persone senza casa. Intanto mi giungono notizie di tante persone che, trascinando pesanti valige, intraprendono una strada dura, unendosi all’esodo di un quartiere reso quasi inabitabile. Le persone camminano per la strada non sanno dove guardare: alla devastazione totale intorno a loro, o in alto, dove le stalattiti affilate di vetri rotti minacciavano di rompersi in qualsiasi momento.

«Sembra la seconda guerra mondiale», racconta un passante, esaminando i danni. Mar Mikhael è storicamente un distretto armeno e molti sono gli armeni che hanno trovato la morte martedì, fra queste l’infermiera Jessica Beckjian, morta sotto le macerie del suo ufficio presso il Saint George Medical Center, gravemente danneggiato, vicino al porto. Alcuni esperti militari, che hanno parlato chiedendo l’anonimato in quanto non autorizzati a fare commenti ai media, hanno detto che «l’esplosione è stata il risultato di un attacco aereo». Alcuni testimoni hanno dichiarato inoltre di avere visto un aereo sorvolare Beirut e che molto probabilmente c’è stato un bombardamento nel luogo dell’esplosione. Gli esperti hanno confermato inoltre che l’esplosione «non è stata un’esplosione di polvere, ma piuttosto un’esplosione rossa con scintillii scoppiettanti provenienti da esplosivi». A loro avviso tali esplosioni «provengono da teste di missili o materiali esplosivi posti nelle teste di missili» e potrebbero essere state «lanciate dal mare in modo che la Siria non le potesse intercettare».

L’esperto chimico Elie Haddad, ha riferito sempre ad al-Joumhouria che il fumo dell’esplosione «assomiglia al fumo di acido nitrico che proviene da esplosivi o a sostanze utilizzate dai militari; questo dimostrerebbe che il materiale appartiene a sostanze militari». Gli ex primi ministri Saad Hariri, Najib Miqati, Fouad Saniora e Tammam Salam hanno chiesto mercoledì di incaricare un comitato internazionale o arabo (Onu o Lega Araba, ndr) di indagine per fare luce sulla dinamica di quanto accaduto e chiedono di preservare la “scena del crimine”, prima che venga manomessa. «La ferma città di Beirut che ha sofferto per oltre quattro decenni a causa di infinite catene di distruzione e abusi – hanno aggiunto – è stata colpita da una catastrofe, che avrebbe potuto essere evitata se non fosse stato per l’assenza di leadership, intuizione e volontà». «Ciò ha portato in precedenza ad un grave crollo della fiducia del popolo libanese nel governo e nel mandato presidenziale, nonché nella fiducia delle comunità arabe e internazionali» ha proseguito l’ex Primo ministro. Numerosi Paesi vicini hanno promesso nella giornata di mercoledì di volere aiutare il Libano già intrappolato in una profonda crisi economica ma anche dall’Australia all’Indonesia all’Europa e agli Stati Uniti, in molti si sono attivati immediatamente per inviare squadre di soccorso e ricerca.

Riflettendo sia sulla gravità del disastro sia sulle relazioni speciali della Francia con il suo ex protettorato, il presidente francese Emmanuel Macron è arrivato oggi in Libano. Parigi non ha perso tempo nel inviare due team di specialisti, soccorritori e forniture a Beirut già mercoledì. L’Unione europea ha attivato il suo sistema di protezione civile per radunare i lavoratori e le attrezzature di emergenza da tutto il blocco di 27 nazioni. La Commissione europea ha dichiarato che il piano sarà quello di inviare urgentemente oltre 100 pompieri con veicoli, cani da fiuto e attrezzature progettate per trovare persone intrappolate nelle aree urbane. La Repubblica ceca, la Germania, la Grecia, la Polonia e i Paesi Bassi hanno preso parte allo sforzo con altri paesi che si prevede di aderire. Il sistema di mappatura satellitare dell’UE sarà utilizzato per aiutare le autorità libanesi a stabilire l’entità del danno. Cipro, dove l’esplosione di martedì è stata avvertita a circa 120 miglia (180 chilometri) da Beirut, ha inviato personale di emergenza e cani da fiuto. Anche l’Iraq sta inviando sei camion di forniture mediche e un’équipe medica di emergenza per aiutare a rafforzare il sistema sanitario in Libano, mentre Egitto e Giordania hanno preparato ospedali da campo. Le forze di pace delle Nazioni Unite dall’Indonesia già di stanza in Libano stanno aiutando nello sforzo di evacuazione, e l’Australia ha affermato che avrebbe donato 2 milioni di dollari australiani (1,4 milioni di dollari) a sostegno umanitario.

Ma le promesse di aiuto hanno sollevato nuove domande per un Paese la cui crisi economica e politica, combinata con la corruzione endemica, ha reso i donatori cauti negli ultimi anni. La visita di Macron potrebbe portare alcuni momenti imbarazzanti. Meno di due settimane fa, il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian ha chiarito che la Francia, il più importante sostenitore economico di Beirut, avrebbe trattenuto il sostegno non destinato direttamente alla popolazione libanese, fino a quando «misure di riforma credibili e serie» non fossero state messe in campo. Non è chiaro se il presidente francese avrebbe aggirato la no-go zone del suo Paese e offerto qualcosa di più dell’aiuto di emergenza. Circa 11 miliardi di dollari sono stati promessi al Libano in una conferenza di Parigi del 2018, ma a condizione che vengano intraprese riforme. I lavoratori francesi inviati in Libano mercoledì includono membri di un’unità speciale addestrata per intervenire in siti industriali danneggiati. Tra i loro compiti ci sarà quello di identificare i rischi speciali derivanti dall’esplosione, ha dichiarato il portavoce della sicurezza civile nazionale Michael Bernier. L’Organizzazione mondiale della sanità sta trasportando in aereo forniture mediche in Libano per coprire fino a 1.000 interventi traumatologici e fino a 1.000 interventi chirurgici, su richiesta del ministro della sanità del Paese. Il portavoce dell’Oms Tarik Jasarevic ha dichiarato in una e-mail che le forniture sarebbero state trasportate in aereo da un “hub umanitario” a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, e che sarebbero giunte già mercoledì.

Perfino il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il suo Paese, ufficialmente in guerra con il Libano, è pronto ad offrire aiuto ai libanesi «come esseri umani per gli esseri umani». La bandiera del Libano è stata proiettata mercoledì dal municipio di Tel Aviv dopo le devastanti esplosioni di Beirut, nell’ultimo gesto di Israele verso un Paese con il quale è tecnicamente in conflitto. Dozzine di passanti israeliani in piazza Rabin, sotto il municipio, hanno acceso luci bianche, rosse e verdi delle finestre del grande edificio nel centro della città mediterranea illuminate alle 19:55. «L’umanità precede qualsiasi conflitto e il nostro cuore è con il popolo libanese sulla scia del terribile disastro che ha colpito loro», ha dichiarato il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai su Twitter.

Bisogna anche voler stare bene

Foto Claudio Furlan - LaPresse 21 Luglio 2020 Milano (Italia) News Murales in via Palizzi all'ingresso di Quarto Oggiaro realizzato dall'artista Cosimo Cheone dedicato ai medici e al personale sanitario dell'ospedale Sacco di Milano Photo Claudio Furlan - LaPresse 21 July 2020 Milan (Italy) Murals in via Palizzi at the entrance to Quarto Oggiaro created by the artist Cosimo Cheone dedicated to the doctors and health personnel of the Sacco hospital in Milan

Il buongiorno di oggi me l’ha mandato Letizia. Letizia è un’infermiera e, come spesso accade, si ritrova ad avere a che fare con la speranza e con la disperanza. Il suo racconto è uno spaccato di vita che fa bene al cuore. Il racconto è del tempo in cui il Covid mieteva centinaia di vittime al giorno ma questo brano non parla solo di Coronavirus: parla di un modo di intendere la vita.

G. è un uomo alto quasi 2 metri, 74 anni ma la malattia gliene ruba una decina. Il dolore nello sguardo implacabile. Da giovane è stato certamente molto affascinante.
Con parecchie infermiere è stato un po’ brusco nei gg. precedenti. Anche con me all’inizio.
Quando ha suonato il campanello ero da un altro paziente. La collega viene a riferirmi che vuole parlare proprio con me, l’infermiera riccia e bionda.
Mentre percorro il corridoio per andare verso la sua stanza ripenso al suo referto: cure solo palliative… metastasi ovunque…
Entro nella stanza.
Lui è seduto sul bordo del letto, le mani sulla ferita, rivolto verso la finestra a guardare fuori, verso le montagne. È solo in stanza, gli altri due letti sono vuoti.
Mi guarda e sorride appena.
Gli dico:
– Chiamo il medico per farle prescrivere qualche altro farmaco più efficace, sta soffrendo troppo.
– No, non lo faccia, infermiera. Davvero. Non chiami il medico, ho ancora un po’ di male ma non sto morendo di dolore. Resti un pochino qui a parlare con me la prego.
Sono le 3 di notte, chiacchieriamo per circa mezz’ora. Lui è tranquillo, accenna a un altro sorriso per il mio accento romano, piano piano mi dà del tu, come parlasse a sua figlia o a sua nipote. Prima di lasciarlo riposare gli chiedo:
– Come sta? Ha ancora dolore?
– No, sto meglio, grazie..
Si sistema nel letto, tira su le coperte..
– …sto meglio, grazie, ma ricordati che bisogna anche voler stare bene. Bisogna anche volerlo…Ripete con un lieve sorriso.
Alle 7,40 stacco, vado a casa. Potrei dormire finalmente. Ma non voglio e non posso. Penso e ripenso. Penso a quanta vita in quella chiacchierata…
Sì, perché quando la vita ci sfugge viviamo avidamente ogni minuto e ogni secondo che passa. Ne percepiamo l’importanza. E quando hai questa consapevolezza, spesso, è troppo tardi.
Bisogna anche voler stare bene.
Questo è accaduto circa un anno fa, lo scrissi di getto e oggi lo condivido. Oggi mi sono tornate in mente le sue parole: “bisogna anche voler stare bene”. Oggi G. non è più con noi.
Ma quanti “G” ci sono ancora in ospedale? Tanti. Tantissimi, con le stesse paure e gli stessi bisogni, con quel senso di stanchezza indefinita, verso tutto e tutti.
Non dobbiamo dimenticare che alle solite paure, probabilmente se ne sarà aggiunta un’altra. Quella che i loro riferimenti in ospedale pensino solo al Coronavirus e che siano troppo impegnati dalla situazione di emergenza, per comprendere anche la loro paura di morire… che per alcuni è una certezza, inesorabile, anche se “vogliono stare bene”…
Non sono spariti questi pazienti. Ci sono, c’erano prima e ci saranno ancora in futuro. Dobbiamo continuare a comprendere anche la loro paura, adesso raddoppiata, triplicata..
Per questo dico che voglio far trapelare il mio sorriso da dietro la mascherina. Anche quando ho paura. Voglio che si vedano le rughe ai lati degli occhi e che questi siano più sottili, come quando sorridi, appunto. Voglio imparare a sorridere solo con gli occhi. Adesso e ancora nei prossimi gg., perché sarà lunga e sarà ancora più difficile di oggi, per noi Infermieri, Medici, Oss e per tutti. E anche quando tra un annetto dovremo ricucire ogni ferita, tangibile o meno. Adesso non dobbiamo mollare e non molleremo.
#Celafaremo per molte persone è quasi fastidioso da sentire, con il bollettino dei morti che incombe ogni giorno. Per noi #Infermieri, invece, è un mantra che ci sostiene gli uni gli altri, che ci fa resistere, ci dà la forza per cercare di superare con una angoscia calibrata questo momento difficile per tutti. Il senso non è sminuire il problema, ma rafforzare la soluzione, con “boccate di ottimismo”. Anche per questo, spesso, scherziamo tra di noi nei momenti di pausa e di solitudine forzata.
Quando ne usciremo non sarà perché siamo eroi, siamo forti, siamo bravi, siamo angeli… Niente di tutto questo. #Celafaremo perché, uniti, ognuno avrà fatto la sua parte: chi al lavoro, per il bene di tutti, chi restando a casa, per il bene di tutti.
“Bisogna anche voler stare bene.”
E impareremo a sorridere solo con gli occhi.