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Chiara Saraceno: È la scuola a essere in debito con bambini e ragazzi

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 23 Maggio 2020 Roma (Italia) Cronaca Fase 2 : manifestazione priorità alla scuola Nella Foto : la manifestazione vicino al ministero della pubblica istruzione Photo Cecilia Fabiano/LaPresse May 22, 2020 Rome (Italy) News Phase 2 : demonstration the school is a priority In the pic : the protesters near the ministry of public education

Con la pandemia le disuguaglianze si sono molto acuite. Professoressa Chiara Saraceno il peso economico della crisi rischia di gravare soprattutto sulle spalle delle donne e dei giovani?
Ha pesato e pesa sulle donne di tutte le età, ma soprattutto su quelle con responsabilità familiari. E sui giovani, di entrambi i sessi. Nonostante l’ampio uso della cassa integrazione, nonostante il divieto di licenziare, ci sono categorie escluse da ogni tutela. Diversamente da quel che è accaduto nella crisi del 2008 quando si persero, prevalentemente, lavori maschili, oggi donne e giovani patiscono moltissimo la situazione, perché perlopiù assunti con contratti a tempo determinato e perché impegnati in settori come il commercio, la cultura, il turismo e in altri ambiti che hanno risentito pesantemente del lockdown. Molte donne con figli non sanno se riusciranno a tornare al lavoro perché la scuola è rimasta chiusa; l’estate è lunga, non tutti si possono permettere i centri estivi. Anche fra quanti hanno continuato a lavorare si è creata una ulteriore disuguaglianza: fra chi poteva lavorare a distanza e chi no. Fra chi lavora nel pubblico e chi nel privato ecc.

Un fenomeno specificamente italiano?
In tutti i Paesi sono aumentate le disuguaglianze, non solo in Italia. L’Ocse segnala che in tutto il mondo sviluppato le donne e i giovani sono più a rischio (figuriamoci quel che accade nei Paesi in via di sviluppo ed emergenti). Ma va detto anche che rispetto ad altri Paesi europei forse da noi il quadro è più squilibrato: qui si registra la maggiore concentrazione di donne e giovani con contratti di lavoro più fragili.

Anche in Germania è cresciuta la disoccupazione, ma hanno messo in campo più strumenti di contrasto alla crisi?
La Germania non ha l’enorme debito pubblico che abbiamo noi. E loro hanno potuto essere ben più generosi di noi nel sostenere chi si è trovato in difficoltà. Penso in particolare ai nostri esigui 600 euro una tantum. Ma anche ai soldi della cassa integrazione arrivati dopo due o tre mesi. Abbiamo un problema di regole e di inefficienza del nostro apparato pubblico. Inoltre i primi interventi sono stati erogati a pioggia. All’inizio i 600 euro sono stati dati a tutti, indipendentemente dalla condizione di chi li riceveva. Ma se i soldi sono pochi non è meglio farli avere a chi ne ha davvero bisogno?

Gli interventi, insomma, sono stati molteplici ma frammentati e diseguali?
La cassa integrazione ordinaria, quella in deroga, i bonus formano un panorama accidentato. Perché al lavoratore dello spettacolo sono stati dati 600 euro una tantum mentre al lavoratore della Fiat la cassa in deroga legata al proprio stipendio? Così è stata ribadita la disuguaglianza anche mentre si interveniva per proteggere. Con tutta evidenza è necessaria una riforma degli ammortizzatori sociali. Fin qui si è proceduto con la continua creazione di categorie. Ne mancava sempre una. Con questo approccio categoriale tipicamente italiano c’è sempre qualcuno che cade fra due sedie.

La disuguaglianza economica e sociale significa anche disparità di accesso alla formazione, anche per i più piccoli?

La disuguaglianza sociale si sperimenta già da bambini, purtroppo, nelle risorse che si hanno, nelle possibilità di futuro che si percepiscono davanti a sé. Con la chiusura delle scuole questo è diventato ancora più evidente perché è mancato un luogo in cui tutti i bambini potessero avere la stessa cosa.

La modalità con cui si è cercato di supplire a questa mancanza di un luogo per tutti ha ampliato le disuguaglianze. Non avere i soldi necessari per pagare gli strumenti tecnologici e la connessione veloce necessari per la didattica a distanza ha determinato disparità nell’accesso all’istruzione, ma anche disuguaglianze culturali. Anche avere o non avere i genitori in grado di darti una mano ha fatto la differenza, così come lo spazio a disposizione a casa: tanti bimbi facevano lezione online in cucina, con i rumori di fondo e i fratelli. Tantissimi dovevano condividere con loro e con i genitori un unico computer o cellulare di famiglia. La ministra Azzolina ha detto che la scuola non si è mai fermata grazie alla didattica a distanza ma per tanti bambini il lockdown della scuola è stato totale. Per alcuni, i meno privilegiati, ha comportato anche perdere l’unico pasto proteico del giorno. Da un momento all’altro hanno perso la scuola e anche la mensa, garanzia di alimentazione adeguata almeno durante la settimana. La già alta dispersione scolastica sta aumentando ancora, questo è il punto. Anche fra i più grandi. Lo stiamo già verificando. Qui a Torino la associazione di cui mi occupo ha seguito quattro superiori. Ebbene da quelle scuole sono letteralmente spariti 120 studenti, fra loro molte ragazze che si devono occupare dei fratelli.

Il diritto all’istruzione e alla conoscenza in questo modo che fine fa?

Nei fatti il diritto all’istruzione non è stato garantito a tanti bambini e ragazzi. Lo stesso Ministero ha comunicato che si è perso un 20 per cento di bambini. L’Agcom indica una percentuale del 30 per cento di bambini e ragazzi. È una cosa enorme! Se fossi ministro dell’Istruzione non ci dormirei la notte. È una cifra smisurata. E non si è fatto nulla per invertire la rotta. La responsabilità è grande, riguarda tutti, sindacati compresi. Ripeto: il 30 per cento di giovani e giovanissimi non ha avuto scuola, per motivi diversi, oppure ha avuto qualcosa in modi estemporanei…

Cosa dovrebbe fare il ministero dell’Istruzione secondo lei?

Subito, dalla fine del lockdown, averebbe dovuto mettere in campo tutta una serie di iniziative per recuperare questi ragazzi. Dal primo di settembre questi ultimi non devono recuperare i debiti (come si usa dire con linguaggio tragico) ma crediti, perché è la scuola che deve restituire loro ciò che gli spetta. È la scuola che ha contratto debiti enormi con questi bambini. Già in tempi normali gli studi ci segnalavano che le lunghe estati italiane delle vacanze risultavano problematiche per i bambini più svantaggiati che non potevano supplire alla mancanza di scuole con vacanze, viaggi, stimoli di altro genere. Ogni anno alla ripresa si constatano perdite gravi, adesso sarà un disastro. Con Save the children, il Forum disuguaglianze e altre associazioni stiamo lavorando su questa questione cardine. Non possiamo aspettare il 15 settembre. Adesso tutto è affidato alla società civile che, per come può, cerca di recuperare questi ragazzi, fornendo loro non solo gli insegnamenti persi ma anche cercando di fargli ritrovare la motivazione, la voglia, la fiducia. Se c’era qualcuno che aveva un po’ di difficoltà e doveva essere un po’ stimolato immaginiamoci adesso. Ne discuteremo a lungo,ma quest’estate, intanto, è già persa. La scuola che riprende deve avere al centro il problema delle disuguaglianze pensando a come contrastarle. Il che non vuol dire promuoverli tutti, ma aiutarli, nel miglior modo possibile, a sviluppare le proprie capacità.

L’intervista prosegue su Left del 14-20 agosto

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Gli adolescenti sono il nuovo capro espiatorio

Teenage Kids walking to school in the morning, silhouettes

L’anno scorso mentre ero sul tram per tornare a casa sono saliti accanto a me cinque ragazzi in età da scuola superiore, chiassosi fuori misura come lo sono spesso certi studenti in libertà non vigilata alle prime avvisaglie d’estate, appena scontata la “condanna” agli otto mesi di scuola. Mi ricordo il fastidio degli adulti, compreso il mio, costretti a fare da spettatori ai lazzi reciproci che si scambiavano. Il vocabolario era un turpiloquio continuo, in perfetta sintonia con la pochezza delle frasi scritte sulla maglietta di uno di loro che elencava le cinque ragioni perché una birra è meglio di una ragazza…

Negli sguardi obliqui dei presenti si potevano leggere con facilità frasi mute del tipo: meno male che mio figlio non è come loro. Appena fossero scesi dal tram quei giovani sarebbero tornati ad essere testimonianza di un’adolescenza fastidiosa, da condannare o per lo meno ignorare. La tolleranza nei loro confronti derivava solo dalla certezza che a breve sarebbero scesi e tornati invisibili, estranei ed esterni al mondo in cui viviamo. Estraneo ed esterno sono vocaboli che derivano dal latino “extraneus” che è la base etimologica di “straniero”.
Oggi purtroppo più di ieri, qualcuno descrive gli adolescenti come fossero gli «stranieri interni» di cui ha scritto Georg Simmel, quelli che «non vengono oggi e domani vanno, bensì quelli che oggi vengono e domani rimangono». (vedi la raccolta di saggi Georg Simmel Stile moderno, Einaudi ndr).

Molto diversi per condizione e nascita dalle popolazioni che a ogni età lasciano la propria terra per cercare l’Italia, ma la richiesta che ci pongono è drammaticamente uguale e questa volta ineludibile: fare loro spazio per vivere una vita degna di essere vissuta.
Una domanda scomoda che infastidisce molti. Quando, come adesso, il futuro da promessa di miglioramento diventa una minaccia di regressione la prima reazione è blindare la condizione presente, ma non si può fare della adolescenza che esige e rappresenta necessariamente il nuovo l’ennesimo nemico inventato, il nuovo capro espiatorio.

Certo gli atteggiamenti degli adolescenti possono risultare sbagliati e allora devono essere stigmatizzati senza sconti né indulgenze di alcun tipo, ma l’arroganza e la spavalderia che spesso mettono in mostra serve a coprire una fragilità che segna questa generazione come nessun altra prima. Scegliere la via del giudizio sommario è il più grande errore che si può commettere.
Già ci siamo colpevolmente dimenticati dell’infanzia e dell’adolescenza nei mesi difficili che abbiamo attraversato, chiudendo tra i primi le scuole e riaprendole tra gli ultimi, senza nemmeno aver usato quel tempo per decidere cosa fare per garantire a chi le frequenta il sacrosanto diritto all’istruzione e alla socialità. Farne adesso addirittura gli untori che portano ed espandono questo virus che ha cambiato la vita di tutti, ma per prime e in maggior misura le loro, sarebbe pura ipocrisia.

L’adolescenza è un periodo della vita difficile, caratterizzato da un cambio di pelle totale, dove «è più quello che si perde di quello che si acquista» come ha scritto Tolstoj, accompagnato da una inquietudine che inevitabilmente si trasforma in disubbidienza. Ma non è una minaccia da combattere come invece purtroppo sta accadendo. I passeggeri del tram che mi portava a casa possono cambiare di posto per allontanarsi dal chiasso degli adolescenti; chi soffre le conseguenze della movida notturna può condannare i loro comportamenti (dimenticando i propri a quella età), ma non sarebbe male riconoscere che l’isolamento imposto dalla pandemia ha chiesto proprio a loro la prova più dura. Quella è l’età in cui si vive di contatti, di abbracci, di carezze.
Invece li abbiamo visti scoprire il loro attaccamento alla scuola; sentiti riflettere sul valore e sul bisogno che hanno di quella sua routine, come tutte spesso monotona ma che scandisce il tempo delle loro giornate.
Nella loro primavera hanno vissuto una lunghissima eclissi di sole e l’hanno superata. Per loro natura sono “fuori sistema”, ma proprio per questo sono la risorsa più preziosa per un cambiamento che non è un nuovo problema ma l’unica soluzione ai problemi di sempre.

Giuseppe Bagni è presidente del Centro di iniziativa democratica insegnanti (Cidi) e membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione

L’editoriale è tratto da Left del 14-20 agosto

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Ma cos’è stata Sant’Anna di Stazzema?

Foto LaPresse/Iacopo Giannini 13-03-2015 Sant'anna di Stazzema, Lucca - Italia cronaca A Sant'Anna di Stazzema, in alta Versilia, famosa per il suo eccidio, i danni del maltempo dello scorso 5 marzo hanno distrutto il parco della pace, monumento internazionale per ricordare le 560 vittime dell'eccido per mano dei nazisti. Nella foto: il monumento ai caduti danneggiato dal maltempo

Lo racconta un superstite. Enio Mancini aveva 6 anni.

Non avevo ancora compiuto sette anni all’alba di quello splendido sabato estivo; niente faceva presagire ai circa quattrocento abitanti di Sant’Anna e agli oltre mille sfollati che si trattasse di un cupo giorno di terrore e di morte, il giorno del massacro di cinquecentosessanta vittime innocenti, delle quali circa centocinquanta erano bambini sotto i quattordici anni.
Mio padre aveva scorto le colonne naziste che scendevano dai passi montani sui borghi di Sant’Anna.
Prima di andare a nascondersi con gli altri uomini nel bosco, ci sveglio’ e ci invito’ a mettere in salvo la nostra “roba”.
Pensavamo si trattasse di un rastrellamento e temevamo l’incendio delle nostre case, come era avvenuto nel vicino paese di Farnocchia.
Nessuno immaginava che donne, vecchi e bambini avessero a subire violenze.
Poco dopo ecco entrare in casa un gruppetto di S.S., indossavano la tuta mimetica, erano armati fino ai denti e portavano l’elmetto sul capo; notammo che due nascondevano il volto con una specie di maschera e parlavano come noi.
Ci buttarono letteralmente fuori, non permettendoci di prendere nemmeno gli zoccoli e, mentre alcuni con strani attrezzi che lanciavano lunghe lingue d fuoco incendiavano la casa, altri ci condussero sull’aia che dominava il borgo di Sennari.
Li’ trovammo gia’ molte persone, ci addossarono contro un muro di una casa e iniziarono ad installare, su un poggio sovrastante, degli strani attrezzi, tipo treppiedi.
Qualcuno comincio’ a piangere e ad implorare per la disperazione; una vecchina, forse per ingenuita’ o per sdrammatizzare il momento, disse di non preoccuparci che forse stavano per farci una fotografia.
Quando anche la mitragliatrice fu montata e lo sgomento e la paura erano ormai generali, arrivo’ nell’aia un ufficiale tedesco, forse un generale, che imparti’ degli ordini in tedesco: “Raus… Valdicastello”, ripeteva.
Le spregevoli belve con il volto mascherato tradussero: l’ordine era quello di scendere verso Valdicastello.
Al nostro nucleo familiare si erano aggiunti la nonna materna, la zia e gli altri.
Scendendo, passammo davanti alle nostre case, ormai quasi completamente incendiate (si udiva ancora il muggito della mucca rimasta intrappolata nella stalla).
Decidemmo di non ubbidire all’ordine di scendere a Valdicastello, ma di nasconderci nei pressi, con la speranza di poter fare presto ritorno alle nostre case per salvare il salvabile.
Ci nascondemmo in un anfratto naturale che si trovava nella selva, duecento metri sotto casa.
Dopo circa mezz’ora si udirono quelle voci gutturali che si avvicinavano al nostro nascondiglio; lo sgomento fu totale, ci videro, erano una decina, alzammo le mani in segno di resa.
Ci incolonnarono e ci spintonarono lungo il sentiero che portava verso il centro del paese, verso la chiesa di Sant’Anna.
Malgrado le pedate e i colpi coi calci dei fucili nella schiena, si riusciva a procedere molto lentamente.
Alcuni, infatti, erano scalzi ed il sentiero era pieno di rovi e ricci di castagno.
Ad un certo punto decisero di proseguire (sembrava avessero molta fretta), lasciando di guardia un solo soldato che, nel frattempo, si era tolto l’elmetto dal capo; era molto giovane, quasi un adolescente e non ci faceva piu’ tanta paura.
Quando il gruppo dei tedeschi scomparve dalla nostra vista, il giovane soldato comincio’ ad impartirci degli ordini, che non capivamo, ma ci faceva anche dei gesti eloquenti.
Questi si’ erano facilmente intuibili: ci diceva di tornare velocemente indietro.
Salimmo il ripido pendio, si udi’ una scarica di arma automatica che ci fece trasalire, ci girammo di scatto temendo che ci stesse sparando addosso ed invece imbracciava il fucile verso l’alto e sparava verso le fronde dei castagni.

Si continuo’ a salire verso Sennari, mentre sul versante opposto, verso la chiesa, si udivano in un frastuono generale crepitio di spari, scoppi di bombe, tetti di case che crollavano, lamenti di animali che stavano bruciando vivi nelle stalle e poi si scorgeva il fuoco ed il fumo nero che proveniva da ogni direzione, da ogni borgo del paese.
Non ci rendevamo pero’ conto di tutto quello che realmente stava accadendo.
Giungemmo a casa poco prima delle dieci e tutti ci adoperammo per salvare dal fuoco quella parte non ancora completamente distrutta.
Ci sembrava cosa gravissima aver perso gran parte della nostra roba e soprattutto la mucca che, in quel periodo, ci aveva permesso di sopravvivere.
Verso le cinque del pomeriggio, pero’, la tremenda notizia.
Un giovane della borgata, allontanatosi al mattino con gli altri uomini per nascondersi nei boschi e che, al ritorno, aveva attraversato il centro e gli altri borghi, arrivo’ a Sennari urlando, sembrava impazzito: “Una strage! Sono tutti morti! Sono bruciati!” ripeteva.
Lasciammo le nostre case che ancora fumavano per correre verso il centro, verso la chiesa.
Ogni gruppo andava la’ dove abitavano i propri congiunti, i propri parenti.
Passammo al “Colle”.
Ne avevano uccisi diciassette (una ragazza, ferita, ed un uomo anziano si erano miracolosamente salvati sotto il cumulo dei cadaveri).
Arrivammo alle “Case” dove abitavano i nostri parenti: cadaveri sparsi dappertutto, rovine, fuoco e i pochi sopravvissuti impietriti dal dolore.
In una casa, sventrata dal fuoco, su una trave che ancora ardeva – incastrata – una rete di un letto e sopra tre corpi quasi completamente consumati.
Al nero dei tessuti carbonizzati faceva contrasto il bianco dello scheletro; uno dei corpi era piccolo, il corpo di un bambino.
E poi l’odore acre, intenso, della carne arrostita.
Una nonna, per fortuna, riprese noi bambini per riportarci verso Sennari.
Avevamo visto molto, troppo per la nostra tenera eta’.
Una esperienza drammatica che segna per sempre un’esistenza, ma comunque meno tragica di altri giovani ragazzi sopravvissuti nell’eccidio che, feriti o incolumi, videro massacrare i propri cari.
Poi ci fu il dopo, ma quella e’ un’altra storia.

La parola ai giovani

Group of teenagers posing showing their protective face masks during Covid-19 Coronavirus epidemic spread.

Forse converrebbe parlarci con i giovani, piuttosto che parlare di giovani. Forse sarebbe il caso di smetterla una volta per tutte con questi atteggiamenti paternalistici da parte di una classe dirigente che si è fatta trovare sempre impreparata all’incontro con le nuove generazioni e dirci una volta per tutte che essere giovani oggi in Italia è qualcosa che fa schifo.
Fa schifo arrabattarsi in una scuola che è ancora novecentesca nell’approccio del mondo e che non ha i mezzi nemmeno per garantire la dignità, proprio lei che dovrebbe insegnarla. Per capirlo basta parlare con i ragazzi che frequentano scuole che stanno in edifici dismessi e che si devono portare la carta da casa, la carta per scriverci e pure la carta per pulirsi le terga, perché mentre si ordinano i banchi con le rotelle si ha a che fare con professori che cambiano ogni anno, se va bene, o che sostengono il programma giusto il tempo di qualche mese.

Bisognerebbe parlare con una generazione che non ha idea di cosa sia la speranza, che ha un orizzonte che spesso non è più lungo della fine della scuola (per chi ha la fortuna di poterla frequentare) e che in ambito lavorativo si ritrova ancora a elemosinare l’opportunità di provare a fare un lavoro ovviamente dietro ridicolo compenso. E mentre lavorano mettendo via i soldi che bastano (forse nemmeno) per arrivare a fine mese, ragazze e ragazzi continuano a usare la propria famiglia come unico ammortizzatore sociale di una società costruita e architettata per essere il nido di auto preservazione della classe dirigente (che di giovani non ne ha o ne ha pochissimi oppure ha qualche “figlio di”). E bisognerebbe provare ad ascoltarli mentre ti raccontano che l’acquisto di una casa, elemento fondamentale per avere il coraggio di programmarsi una vita, è…

L’articolo prosegue su Left del 14-20 agosto

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Yes, we Kam. Joe Biden e Kamala Harris alla conquista della Casa Bianca

FILE - In this Sept. 12, 2019, file photo, Democratic presidential candidate former Vice President Joe Biden, left, and then-candidate Sen. Kamala Harris, D-Calif. shake hands after a Democratic presidential primary debate hosted by ABC at Texas Southern University in Houston. Biden has chosen Harris as his running mate. (AP Photo/David J. Phillip, File)

La notizia più attesa dell’estate statunitense finalmente è arrivata: sarà Kamala Harris la candidata vicepresidente al fianco del democratico Joe Biden, prima donna di colore a ricoprire questo ruolo. Il ticket Biden-Harris affronterà a novembre il presidente in carica Donald Trump, affiancato dal suo fedele alleato Mike Pence.

Il processo di scelta della vicepresidente è iniziato il 15 marzo, quando Joe Biden ha annunciato che la sua compagna nella corsa alla Casa Bianca sarebbe stata certamente una donna. Una scelta accolta da alcuni come estremamente progressista, da altri come una sorta di premio di consolazione dopo l’uscita di scena di tutte le candidate donne presenti nelle primarie democratiche (ben sei). Tra loro c’era anche Kamala Harris, che aveva iniziato la sua corsa alla nomination proprio con un attacco frontale a Joe Biden. Durante il primo dibattito televisivo tra i candidati, il 27 luglio del 2019, Harris aveva accusato Biden di aver appoggiato politiche segregazioniste nel sistema scolastico, il cosiddetto busing, vincendo il dibattito a sorpresa con le parole «That girl was me», «Ero io quella ragazzina», alludendo al fatto di essere stata lei stessa vittima del busing. Kamala Harris, infatti, ha il papà jamaicano e la mamma indiana tamil, origini che la rendono parte della minoranza di colore anche se nata negli Stati Uniti.

Kamala Harris sembrava la favorita nei dibattiti, il diamante allo stato grezzo emerso tra oltre venti aspiranti candidati alla nomination democratica. Poi, quasi senza preavviso, è arrivato il suo ritiro molto prima che si votasse per le primarie di partito, motivato da un’improvvisa mancanza di fondi per la campagna elettorale. La sua sparizione dalla rosa dei Dem al culmine del successo ha stupito non poco il mondo della politica. Uno stupore parzialmente sedato quando Biden ha annunciato che avrebbe scelto una donna al suo fianco: il nome di Harris è schizzato subito in cima alla lista delle favorite, nonostante la politica molto insistente condotta da Stacey Abrams, quasi governatrice afroamericana della Georgia, che non ha mai fatto mistero di ambire fortemente a quella carica.

Kamala Harris è la scelta “sicura” per un candidato in bilico come Joe Biden: donna di colore con una carriera di successo alle spalle, è abbastanza giovane da assicurargli una successione nel 2024, qualora vincesse e non volesse ricandidarsi (Harris ha 55 anni, Biden 77), abbastanza progressista da spingere gli elettori di centro-sinistra a votarlo a novembre ma non troppo da spaventare i conservatori del partito. Harris è stata la prima donna nera a diventare Procuratore distrettuale a San Francisco e, nel 2010, prima donna di colore a essere nominata Procuratore generale della California, il secondo dipartimento di giustizia più grande dopo quello federale degli Stati Uniti. Durante questi anni, ha conosciuto il figlio di Joe Biden, Beau, che ricopriva la carica di Procuratore generale del Delaware. L’amicizia con suo figlio, morto di tumore nel 2015, è stata una delle motivazioni che Biden ha addotto per la sua scelta. Dal 2016, Harris è senatrice della California, seconda donna di colore mai eletta al Senato.

Ma la carriera da record di Kamala Harris non è rimasta esente da critiche. Alcuni elettori radicali, tra cui dei sostenitori di Bernie Sanders, l’hanno accusata di essere incoerente nelle sue politiche. Se è vero che si è molto spesa per il cambiamento climatico, per il recupero di chi si avvicina per la prima volta alla droga aiutandolo a studiare e a trovare lavoro, per l’uguaglianza di genere e per il cambiamento climatico, Harris si è distinta anche per non essere incline alla morbidezza quando si tratta di punire il crimine. In particolare, nonostante abbia dichiarato di essere contro la pena di morte, rifiutandosi anche di eseguire una condanna mentre era Procuratore, non ha mai fatto nulla per far abolire la legge in California.

L’accusa di incoerenza, d’altronde, può essere girata anche a Joe Biden, cosa che la stessa Harris ha fatto in merito al busing. Con l’uscita di scena di Bernie Sanders è sfumata la possibilità di avere un candidato “di sinistra” come si intende in Europa, riportando la lancetta delle elezioni americane sul centrismo che caratterizza la politica statunitense. Sembra ormai chiaro che il ticket Biden-Harris voglia proporre un ritorno ai fasti dell’era di Obama, suo ex vicepresidente lui, l’«Obama al femminile» lei. Dopo quattro anni di presidenza Trump, Joe Biden e Kamala Harris vogliono rassicurare l’elettorato proponendo poche sorprese, molti risultati rassicuranti. Non a caso, sui social spopola già lo slogan «Yes, we Kam», un gioco di parole tra il nome di Kamala e lo slogan di obamiana memoria «Yes, we can», «Sì, possiamo». Riuscirà Joe Biden, accusato di avere comportamenti inappropriati nei confronti delle donne (fino a un caso non accertato di molestie) a convincere chi ripone tutta la sua fiducia politica nella senatrice Kamala Harris?

Eccallà: commercialista e beneficenza

“Sono socio in uno studio di tributaristi – ha detto Forcolin in una intervista al Corriere della Sera -. Senza che lo sapessi la mia socia ha presentato domanda per tutti, dove possibile. Il dato di fatto però è che non ho visto un centesimo, lo sottoscrivo col sangue”. Gianluca Forcolin è vicepresidente della Regione Veneto, il vice di Zaia: “Resto a disposizione del partito – ha detto Forcolin  -. Voglio augurarmi che cinque anni di integrità e impegno etico e morale non siano messi a repentaglio da una semplice pratica”.

“Ho preso il bonus ma l’ho restituito” C’è anche un consigliere regionale del Piemonte, sempre della Lega, tra quelli che hanno percepito il bonus per le partite Iva. “Ho già provveduto allo storno delle cifre all’Inps restituendo i due bonus – ha detto Claudio Leone, eletto lo scorso anno per la prima volta nella Lega -. I contributi erano destinati alle società di cui faccio parte per il periodo di chiusura dei negozi – spiega -. Sentito il commercialista, entrambe rientravano nelle attività alle quali spettavano gli aiuti. Ne ho parlato con i soci e abbiamo deciso di chiedere il bonus. L’ho fatto a cuor leggero forse, certo che fosse consentito. La politica non c’entra nulla”. Come nei gialli, solo che questa volta la colpa è del commercialista. Vedrete che il commercialista in questi giorni sarà il nuovo maggiordomo come nei classici gialli.

“Ho dato tutto in beneficenza“. Ubaldo Bocci, coordinatore del centrodestra nel Consiglio comunale di Firenze, che nel 2019 sfidò Dario Nardella nella corsa a sindaco del capoluogo toscano, ha chiesto e percepito il bonus. Bocci, ex dirigente Azimut, come riportano oggi i quotidiani locali, spiega di non aver problemi di finanze ma di averlo fatto “per dimostrare che il governo stava sbagliando non dando soldi ad hoc per disabili e tossicodipendenti” e di aver dato tutto in beneficenza, assicurando di avere i bonifici che lo testimoniano. “È vero ho preso quei soldi ma non li ho tenuti per me – rivela Bocci -. Il commercialista mi disse che avrei potuto averli anche io visto che si trattava di denari a pioggia, dati in maniera sbagliatissima, senza distinguere reddito e posizione di ciascuno. E allora pensai che potevo richiederli per donarli a chi ne aveva davvero bisogno. E così ho fatto”. Bocci ha una dichiarazione dei redditi da 270mila euro. La beneficenza con i soldi degli altri è un livello superiore: si sapeva che anche questa sarebbe stata un classico.

L’aspetto più comico e patetico è che sai già come si trincereranno, dietro quali scuse. Però c’è da registrare un fatto mica da poco: si giustificano. Si giustificano (male) ma si giustificano. E così rendono tutto ancora più aberrante e ridicolo.

E viene in mente quando per un politico (così come un personaggio pubblico) era di moda il senso dell’opportunità, del non fare qualcosa perché inopportuno, del non sentire una schiera di quelli che ora vorrebbero insegnarci (proprio loro) come scrivere le leggi giuste. Siamo il Paese con il mito degli antifurti progettati da ladri, solo che sono ladri che continuano a operare.

Buon mercoledì.

La maionese è impazzita

Businessman standing in the fast moving crowds of commuters. This is entirely 3D generated image.

Ecco qua. Ci sono cinque parlamentari senza dignità che alla faccia nostra incassano i 600 euro che sarebbero serviti a persone certamente più bisognose e ora la guerra si allarga e si assiste al solito assolutismo italiano, quello che è l’ingrediente perfetto per scivolare ancora più in basso rispetto a dove siamo.

Sia chiaro, i cinque sono imperdonabili. Imperdonabili. Ne abbiamo parlato giusto nel buongiorno di ieri.

Ma si legge in giro qua e là che “addirittura dei sindaci, assessori e consiglieri comunali” avrebbero aderito al bonus Covid, come se davvero la gente fosse talmente cretina da non sapere che un consigliere comunale o un sindaco di un piccolo paese deve lavorare (eh, sì, incredibile, lavorare) per fare politica perché non può permettersi di vivere di quella. Così si butta tutto nel calderone.

Ieri una consigliera comunale di Milano, Anita Pirovano, ha provato a spiegarlo con calma: «Mi autodenuncio. Non vivo di politica perché non voglio e non potrei. Non potrei perché ho un mutuo, faccio la spesa, mantengo mia figlia e – addirittura – ogni tanto mi piace uscire e durante le ferie andare in vacanza. In più ho studiato fino al dottorato e all’esame di stato per diventare psicologa e ricercatrice sociale, professione in cui negli ultimi tempi mi sembra spesso di essere “più utile” alla società che in consiglio comunale (attività a cui comunque dedico tutto il tempo non lavorato e la passione di cui sono capace). Infine e soprattutto pur non cedendo alle sirene antipolitiche ho capito sulla mia pelle che avere un lavoro (nel mio caso più d’uno in regime di lavoro autonomo) mi consente di essere “più libera” nell’impegno politico presente e ancora più nelle scelte sul futuro, per definizione incerto. Come tanti mi indigno – perché è surreale – se un parlamentare in carica fruisce ammortizzatori sociali e penso sia paradossale che una misura di sostegno al reddito non preveda nessuna soglia di reddito».

Niente, è una guerra continua alla politica senza senso della misura e senza cognizione. Magari il presidente dell’Inps Tridico potrebbe anche spiegarci come mai non siano stati comunicati i furbetti delle casse integrazioni inventate o del Reddito di Cittadinanza. Sia chiaro, non è benaltrismo, è che vorremmo conoscerli tutti i furbetti. Tutti. Per avere cognizione di causa.

Intanto veleggia l’antipolitica, ancora una volta. Ed è una pessima notizia. Peggiore di quei cinque cretini.

Buon martedì.

Gli arraffoni

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 24-04-2020 Roma Politica Camera dei Deputati - Voto finale sul dl Cura Italia Nella foto L'aula Photo Roberto Monaldo / LaPresse 24-04-2020 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Vote on Care Italy law decree

La Direzione centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell’Inps ha scoperto che cinque deputati della Repubblica Italiana, gente che ha uno stipendio lauto e assicurato perfino in tempi di pandemia, hanno pensato bene di fare richiesta (e ottenere, come sancisce la legge) il bonus dei 600 euro che il governo aveva varato con i decreti Cura Italia e Rilancio e che erano destinati alle partite Iva e ad alcune specifiche categorie di autonomi. I bonus erano stati pensati per venire incontro alle partite Iva che scontavano il calo di lavoro durante il periodo di lockdown e che avrebbero potuto avere un po’ di ossigeno.

Sia chiaro: vi basta avere un amico commercialista per sapere che le pratiche dei bonus alle partite Iva sono state preparate per persone che non hanno avuto nessun problema economico e perfino per ricchi imprenditori che quella stessa cifra la spendono per un sostanzioso aperitivo in terrazza con gli amici. I furbi ormai non stupiscono più da un bel pezzo e in Italia (come nel resto del mondo) molto dell’impegno legislativo si consuma più nel non dare accesso ai furbi piuttosto che dare sostegno ai bisognosi. Anche questa è una stortura a cui siamo abituati.

I cinque parlamentari però sono degli arraffoni tutto tondo per due motivi almeno. Primo: mentre migliaia di persone hanno rinunciato al bonus (volontariamente) perché hanno ritenuto più giusto che finisse ad altri questi hanno dimostrato di avere un’etica che li rende indegni di essere cittadini, prima che parlamentari. Secondo: sono quegli stessi parlamentari che avrebbero potuto (e dovuto) riflettere sul fatto che il decreto così com’era scritto presentava evidenti falle e risultava iniquo e invece hanno sfruttato quelle falle.

Ma non preoccupatevi, diranno che è tutta colpa dei loro commercialisti. Andrà così.

E la bocca degli avidi non dirà mai: mi basta.

Buon lunedì.

Il “terrore” degli Etruschi in Campania

«In quel periodo accadde… che entrambi (Giovanni Patroni e Antonio Sogliano) ripudiammo il dogma proclamato dal Von Duhn sulla inesistenza di una dominazione etrusca in Campania, che si asseriva doversi ritenere una favella o tutt’al più un’ombra: dogma accettato fino a quel tempo da tutti i pompeianisti, sì che non si doveva parlare di Etruschi a Pompei, e non se ne parlava. Chi non ha vissuto quegli anni nell’ambiente ove Pompei è particolarmente studiata, non sa in quali curiose condizioni debbano talora svolgersi gli studi. Ripudiando il dogma, si doveva invece ridare valore alle fonti che annoverano gli Etruschi tra i dominatori e possessori di Pompei, si doveva dunque parlare di Etruschi a Pompei e cercarveli; come d’altra parte si doveva ammettere la fondazione etrusca di Capua… e cercarvi le tracce di qualche industria caratteristica degli Etruschi. Chi spinse e chi fu spinto a questo nuovo indirizzo? Non saprei ben dirlo. A volte mi sembra di essere stato io il propulsore, a volte ne dubito» scriveva Patroni tra il 1946 e il 1948.

Le frasi di Patroni, tratte da un suo scritto commemorativo in onore del pompeianista Antonio Sogliano, descrivono in modo molto efficace quale fosse l’atmosfera che si respirava nel mondo accademico napoletano ancora alla fine dell’Ottocento in merito alla questione dibattutissima dell’esistenza o meno di un dominio degli Etruschi esteso anche alla Campania. Un vero e proprio “terrore”, come Patroni aveva già ricordato in un altro suo scritto (Patroni 1912, pp. 601-602), legato anche all’assertività delle posizioni espresse sin dalla prima metà del XIX secolo da alcuni dei più illustri storici e archeologi tedeschi (Barthold Georg Niebuhr, Karl Otfried Müller, Theodor Mommsen, Friedrich von Duhn ecc.), artefici di una vera e propria demolizione della tradizione, relegata nel novero delle favole anche in virtù dell’assenza, almeno apparente, di testimonianze materiali e/o epigrafiche che potessero indubitabilmente suffragarle. Furono proprio ragioni come queste a indurre in errore Giulio De Petra, all’epoca direttore del Museo, quando nel 1898 espresse parere negativo in merito all’acquisto della Tegola di Capua. Fu così che il secondo testo etrusco per lunghezza e importanza poté tranquillamente emigrare a…

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Altro che Parlamento, qui tagliano la democrazia

Foto Valerio Portelli/LaPresse 23-01-2020 Roma, Italia Presentazione Comitato referendario per il No Politica Nella Foto: Presentazione Comitato referendario per il No Photo Valerio Portelli/LaPresse 23 January 2020 Rome, Italy Presentation of the referendum committee for the no Politics In The Pic: Presentation of the referendum committee for the no

Appare molto difficile l’avvio della campagna elettorale per il referendum confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari deciso dal Parlamento, soprattutto per via dell’accorpamento della data di svolgimento con le elezioni regionali e amministrative. La sforbiciata di deputati e senatori, se confermata alle urne, porterebbe i primi da 630 a 400 e i secondi da 315 a 200. Con una conseguente menomazione della rappresentatività di Camera e Senato e, pertanto, un arretramento della democrazia.

Per fare valere le ragioni del No, affinché tutto ciò venga scongiurato, bisognerà prima di tutto far crescere la qualità del confronto politico: non basterà, infatti, replicare al Movimento 5 stelle – principale promotore della riforma – su argomentazioni di modesto profilo. Non sarà sufficiente, infatti, contrapporsi alla logica di “adeguamento” utilizzata dalle forze politiche in Parlamento che si trovano opportunisticamente a promuovere le ragioni del Sì, e non basterà neppure cercare di isolare il M5s addossandogli la responsabilità esclusiva di questa operazione.

Emergono alcuni punti individuabili come dirimenti nel complesso ragionamento da portare avanti: la questione della rappresentanza dei cittadini; il tema del funzionamento delle Camere e più in generale delle istituzioni; il problema dei costi della democrazia. Molto si è detto e scritto su tali aspetti della faccenda. Oggi ogni parlamentare rappresenta 63.500 abitanti, con il taglio ne rappresenterebbe in media 100mila, col risultato che ognuno di loro avrebbe meno tempo per rapportarsi coi propri elettori e coi cittadini. Inoltre, è stato calcolato, tutto ciò porterebbe ad un risparmio che equivale a “ben” un caffè in più all’anno per ogni cittadino.
È necessario però riflettere più ampiamente su…

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