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Storia di Lucía Sánchez Saornil, anarchica e femminista durante il franchismo

Un vulcano di idee rivoluzionarie e di energia costruttiva racchiusi in un fisico minuto, mostrava un carattere riservato e poco incline al protagonismo, ma quando prendeva la penna in mano, per scagliarsi contro il sistema capitalista e la società patriarcale, ne uscivano articoli di fuoco che difficilmente potevano lasciare indifferenti.
Lucía Sánchez Saornil, anarchica e femminista spagnola (1895-1970), è una figura dimenticata della storia dei movimenti dei lavoratori e delle battaglie delle donne del secolo scorso. Eppure, la sua complessa e avventurosa traiettoria di vita e il suo pensiero innovativo e controcorrente hanno molto da dire ancora oggi.
Intellettuale autodidatta di estrazione proletaria, è stata giornalista, poetessa, sindacalista e dirigente di alcune importanti realtà del movimento anarchico spagnolo e internazionale. Ha saputo analizzare il proprio tempo con uno sguardo particolarmente acuto, cogliendo i nodi centrali del sistema di genere a lei contemporaneo e proponendo un’originale sintesi tra anarchismo e femminismo.

Da giovane aveva militato nelle avanguardie artistiche, unica donna presente tra i poeti aderenti al movimento spagnolo dell’Ultraismo. I suoi poemi d’amore, scritti nei ritagli di tempo del suo lavoro come telefonista, erano percorsi da una dirompente carica erotica, e già questo basterebbe per definirli azzardati, considerando la morale dell’epoca. Ma c’era qualcosa di più: Lucía Sánchez Saornil vi parlava esplicitamente di attrazione omosessuale, descrivendo attraenti corpi di donne e le inquietudini che le suscitavano. Per firmarli utilizzava spesso uno pseudonimo maschile alternato al suo vero nome, giocando e sperimentandosi con identità diverse, alla ricerca di una propria rappresentazione non binaria, non predefinita.

Nel frattempo portava avanti le sue prime battaglie sindacali, nel difficile contesto della dittatura di Primo de Rivera e in un settore lavorativo, quello della telefonia, nel quale si erano da poco aperti ampi spazi alle donne, ma dove la manodopera femminile era costantemente sottopagata e sottoposta a una rigida disciplina.
Lasciati gli ambienti letterari alla fine degli anni Venti, si era data anima e corpo alle lotte del movimento anarchico, militando nella Cnt (Confederación Nacional de Trabajo), il sindacato che riuniva centinaia di migliaia di lavoratori spagnoli. Dava conferenze, teneva lezioni per quei lavoratori che non avevano avuto la possibilità di istruirsi, e scriveva ininterrottamente per la stampa anarchica. La sua produzione giornalistica era così prolifica e di qualità che all’inizio degli anni Trenta era entrata a far parte della redazione del quotidiano nazionale del sindacato, anche in questo caso unica donna in un collettivo tutto al maschile.

Convinta sostenitrice della necessità di un’azione rivoluzionaria che abbattesse il sistema capitalista, riteneva tuttavia che ciò non fosse sufficiente: per giungere a una trasformazione radicale della società andava innescato anche un cambiamento profondo nei rapporti tra i due sessi, bisognava sovvertire uno status quo che teneva relegate le donne in un’intollerabile posizione d’inferiorità. Credeva fermamente che queste due rivoluzioni andassero di pari passo e che nessuna delle due avrebbe potuto realizzarsi pienamente senza l’altra.
Le riflessioni maturate nel corso degli anni sulla condizione di subordinazione patita dalle donne e la sperimentazione sulla propria pelle delle difficoltà che esse incontravano nell’acquisire un ruolo di primo piano nelle lotte sociali, trovandosi discriminate perfino all’interno degli ambienti anarchici, portarono Lucía Sánchez Saornil alla conclusione che fosse necessaria una battaglia femminile indipendente, che le donne dovessero unirsi e lottare in prima persona per conquistare la propria liberazione.

Fu così che nella primavera del 1936, assieme ad altre militanti anarchiche, fondò Mujeres Libres (Donne Libere), una rivista prodotta da sole donne e rivolta a un pubblico femminile. Pochi mesi dopo, di fronte alla situazione bellica scatenata dal tentato colpo di Stato del luglio 1936 contro la Repubblica e sotto la spinta propulsiva della resistenza antifascista, l’iniziale progetto editoriale messo in piedi da questo piccolo collettivo di anarchiche si trasformò in una vera e propria organizzazione femminile, un’ampia forza schierata a sostegno del fronte repubblicano.

Mujeres Libres si espanse rapidamente su tutto il territorio non conquistato dai golpisti, arrivando a contare più di 20.000 aderenti e configurandosi come la seconda più grande organizzazione di donne della Repubblica spagnola. La sua peculiarità, che la distingueva da altre organizzazioni femminili coeve, risiedeva soprattutto nell’essere una realtà autonoma, formata e gestita da sole donne. Non era una semplice sezione femminile di partito come le molte che erano state create in Spagna in quegli anni, e rivendicava con forza la propria indipendenza e volontà di autodeterminazione. Si prefiggeva il duplice intento di sostenere il fronte repubblicano e gli esperimenti rivoluzionari che vi si stavano verificando, e allo stesso tempo di promuovere l’emancipazione delle donne, favorendone un percorso di autoformazione e di presa di coscienza che consentisse loro di superare quella che Mujeres Libres definiva una condizione di doppio sfruttamento, da una parte come lavoratrici e dall’altra in quanto donne.

Lucía Sánchez Saornil ne divenne la segretaria nazionale e l’organizzazione avviò una miriade di iniziative a sostegno del fronte repubblicano, mentre apriva istituti dove si svolgeva una mutua formazione tra donne a livello culturale, professionale e politico, rivendicando la necessità di spazi separati e liberi da influenze maschili. Nel frattempo Lucía Sánchez Saornil moltiplicava febbrilmente le sue attività: si recava al fronte per scrivere reportages sull’andamento della guerra e nelle fabbriche collettivizzate per raccontare la nuova organizzazione del lavoro, diveniva redattrice di nuove riviste anarchiche e assumeva l’incarico di segretaria a livello internazionale di Solidaridad International Antifascista, organizzazione creata in vari paesi a sostegno della Spagna repubblicana.

Poi, con la disfatta della Repubblica nel 1939, si aprì per lei come per centinaia di migliaia di altri spagnoli il periodo dell’esilio, che affrontò a fianco della sua compagna, América Barroso García. Insieme condivisero tutto: la militanza clandestina per salvare i repubblicani spagnoli dai campi di concentramento francesi, l’invasione nazista del 1940, le persecuzioni della polizia di Vichy e infine il ritorno obbligato nella Spagna schiacciata dalla dittatura franchista.
Si chiudeva così brutalmente un’epoca di grandi speranze di cambiamento sociale, nella quale anche alcune donne, come lei, avevano provato a mettere in atto la propria rivoluzione, anticipando di molti decenni le rivendicazioni di generazioni successive, quando sarebbero finalmente arrivati, come scriveva nei suoi ultimi versi, “altri sogni per nuovi cuori”.

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L’autrice: Michela Cimbalo, dottoressa di ricerca in Human Mind and Gender Studies presso l’Università Federico II di Napoli, è autrice del libro “Ho sempre detto noi. Lucia Sanchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile” (Viella, 2020)

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Dieci storie di donne libere e rivoluzionarie
Su Left del 14-20 agosto

Sommario http://bit.ly/3fTKCAn

 

 

 

 

 

 

 

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La discocrazia

È l’immagine di questa destra che si è involuta nel tempo, che è invecchiata male ballando al Billionaire e al Twiga, allo Smaila’s e al Papeete che negli anni hanno voluto trasformare come simbolo di un Paese che esiste solo nelle loro tasche, nelle loro teste e nella loro ristretta cerchia di amicizia che non ha niente a che fare con il mondo reale e nemmeno con la situazione reale.

Se c’è qualcosa di più stupido di quelli che temono di avere in futuro un microchip sotto pelle iniettato con un vaccino allora è sicuramente questa discocrazia che viene proposta, tra l’altro, mica da giovani che reclamano la propria libertà, ma da attempati signorotti della politica, che di politica hanno vissuto e continuano a vivere, che vorrebbero risultare giovanili e invece sono semplicemente patetici. Daniela Santanchè che balla per fare opposizione è una scena da film dell’orrore che tra qualche anno riguarderemo con disgusto.

È la destra che da anni si propone come il partito del “rispetto delle regole” e invece ora vorrebbe crescere nei sondaggi invitando gli altri a non rispettarle. Badate bene: non propone una nuova regolamentazione e non propone nemmeno una soluzione strutturale a un problema strutturale (perché il virus chiede un nuovo paradigma piuttosto che una serie di interventi tardivi e isolati), no, la destra italiana chiede il “diritto di ballare” dimostrando tutta la sua distanza dalla realtà.

Agli elettori della discocrazia non interessa poi nemmeno troppo in fondo ballare, vivono questa battaglia di resistenza culturale perché qualcuno gli dice che si comincia così, vietando i balli, imponendo le mascherine e poi togliendo i diritti civili. E i leader della discocrazia hanno pensato bene che essere liberi significhi praticare la propria libertà di ammassarsi in nome della loro nuova rivoluzione.

Dalla mignottocrazia di Berlusconi alla discocrazia di Meloni e Salvini il passo è stato breve e, se guardate bene, i protagonisti sono sempre gli stessi.

A un mese dall’apertura delle scuole, nel pieno della discussione sul Mes, mentre si dovrebbe discutere di come ripensare il Paese con i soldi che arrivano dall’Europa, qui si continua a discutere da giorni di discoteche. Nell’anno di una pandemia mondiale.

Ma vi sembra normale?

Buon mercoledì.

Lo strabismo di Salvini

Fermi tutti, c’è un vincitore. Dice Salvini che chiudere le discoteche e prendersela con i giovani non ha senso. E uno si domanda: perché non ha senso? Risponde Salvini: perché bisogna chiudere i porti. E uno si domanda: e che c’entrano i porti con le discoteche? Niente di niente. Ma c’entra Salvini.

La propaganda sovranista finalmente ha trovato un gancio dove appoggiare il suo maiale sgozzato: i casi di positività al Covid di alcuni migranti sbarcati ha reso possibile il solito martellante, incessante logorio di propaganda di Salvini, Meloni e di tutta la loro allegra brigata. Avviene quello che accade ogni volta che un nero compie un reato: prenderlo, amplificarlo e renderlo un manifesto politico.

Così mentre il mondo (e le persone serie) si occupano di come risistemare la vita in tempi di Covid, avendo il coraggio di prendere decisioni strutturali che non si perdano dietro all’ultimo tweet indignato, da noi è una gara al “sempre uno più di te” come i bambini che giocano a trovare il numero più grosso.

Peccato che lo strabismo di Salvini in questo caso sia ancora più lampante. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha detto al Corriere della Sera: «A seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infettano nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate». L’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) scrive: «Dall’inizio dell’emergenza a oggi sono state meno di un centinaio le persone straniere giunte irregolarmente via mare in Italia e trovate positive al nuovo coronavirus. Il numero va confrontato con i 6.469 migranti sbarcati sulle coste italiane tra inizio marzo e il 14 luglio. In tutto, dunque, solo circa l’1,5% dei migranti sbarcati è risultato positivo. Da non dimenticare inoltre che le positività sono state certificate su gruppi di migranti che avevano condiviso la stessa imbarcazione durante il viaggio, dando credito all’ipotesi che un numero significativo di essi si sia infettato nel corso della traversata».

C’è dell’altro: tutti i migranti che sbarcano vengono sottoposti a tampone e quarantena. Pratica che risulta difficile invece negli aeroporti. E poi c’è la chicca finale: racconta Salvini di una ex caserma in provincia di Treviso dove dei migranti ammassati sono risultati positivi in larga parte e che il sindaco della città voglia fare causa al governo. E chi ha voluto concentrare i migranti in vecchie caserme demolendo l’accoglienza diffusa? I decreti Sicurezza. Di chi? Di Salvini.

A posto così.

Buon martedì.

Le lezioni scolastiche? In discoteca

A DJ performs in a discotheque in Madrid, Spain, early Saturday, July 25, 2020. Nightlife is becoming the new target of Spanish authorities attempting to contain a spike in coronavirus infections since the country ended a lockdown. The Catalonia regional government has shut nightlife venues in Barcelona, and on Friday officials in Madrid said they were considering a similar step. (AP Photo/Manu Fernandez)

Il punto è sempre lo stesso: rifiutare la complessità, sempre, comunque, ostinarsi a banalizzare tutto, sempre, comunque, trovare particolari da rivendere come se fossero la fotografia del tutto e soprattutto, come nei peggiori trucchi, trovare un colpevole, sempre.

Il governo italiano si muove per serrare le discoteche. Il 16 agosto dell’anno 2020 della pandemia. Basterebbe scriverlo così per rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato se stiamo viaggiando su e giù per l’Italia (e per fortuna) in treno distanziati indossando la mascherina, c’è qualcosa di sbagliato se il teatro e lo spettacolo dal vivo continuano a essere pericolosamente claudicanti, quasi morti, c’è qualcosa di sbagliato se gli infermieri e i medici continuano a chiederci di ascoltarli e nel frattempo nelle discoteche italiane ci si può sudare addosso con la mascherina sotto il mento.

Perché i controlli in questa estate italiana non ci sono stati. Meglio: sono stati pochi. Infinitamente pochi se si pensa che siamo quello stesso Paese che qualche mese fa andava alla ricerca dei corridori solitari sulla spiaggia con tanto di drone e di esercito. Ma ve lo ricordate?

No, purtroppo siamo il Paese con il ricordo breve, corto, spesso distorto. E così il periodo del lockdown è diventato carne fresca per i complottisti ma ha perso tutta la sua eredità sociale e sentimentale. È tutto passato, non c’è più niente anzi forse non è mai esistito: il discorso Covid l’abbiamo chiuso così, come i bambini che strizzano gli occhi sperando di riaprirli e non c’è più la paura.

E mentre il governo richiude le discoteche (e ci dirà che è colpa “solo” delle discoteche, secondo la stessa logica di banalizzazione che ci ha portato a mirare coloro che portavano in giro il cane) ora si può ricominciare a sentirsi tranquilli. Chiuse le discoteche e tutto a posto.

Nel frattempo, tra le persone da ascoltare, ci sono i dirigenti scolastici che mi scrivono di avere rinunciato alle vacanze per girare classe per classe con il metro in mano, di avere provato a progettare la didattica integrata e di avere passato mesi a rispondere ai “monitoraggi urgenti” richiesti dal governo che dovevano essere pronti per il giorno successivo. Lo so, non se ne legge in giro, già. Eppure la riapertura della scuola è in imbarazzante ritardo e tra poco scoppierà il bubbone, appena si finisce questa risibile polemica sulle discoteche. E via così.

A pensarci bene i nostri ragazzi potrebbero studiare in discoteca, senza sudare, senza ballare. No?

Buon lunedì.

Concorsi universitari, il grande imbroglio

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 31-03-2015 - Roma - Italia Cronaca Concorso di ammissione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore per seimila candidati. Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 31-03-2015 - Rome - Italy News Entry test for the faculty of medicine and surgery of the Università Cattolica del Sacro Cuore.

«Perché ho deciso di raccontare senza pudore questa sequenza di miei fallimenti? Innanzitutto, perché non me ne sento responsabile e non mi sento affatto di aver mancato gli obiettivi iniziali… E proprio perché ritengo che io sia stata costretta a fallire per via di un sistema ingiusto e illecito che ho sentito il dovere morale di denunciare. Per rabbia e per orgoglio, poiché trovo intollerabile che in un Paese civile venga letteralmente impedito a un giovane di belle speranze e grande impegno di autodeterminarsi e di scegliere cosa fare nella vita. Trovo intollerabile che il merito in questo Paese sia puntualmente calpestato, negato, vilipeso, non riconosciuto, mistificato, obnubilato, parafrasato, derubato, mentre se ne riempiono tutti la bocca. Trovo intollerabile che ci sia qualcuno che si arroghi il diritto di rubarti il futuro per pensare agli interessi personali, cosa tanto più illecita quando parliamo di strutture pubbliche, finanziate con denari pubblici. Trovo intollerabile l’assenza di diritto di scelta, di democrazia, di libertà, di esistenza, di pensiero, di parole e di opere».

Helga Di Giuseppe è una archeologa, dal nutritissimo curriculum. Che aveva un’ambizione. Quella di continuare a fare ricerca. Per questo non si è risparmiata, nel tentativo di vincere un concorso che le aprisse le porte dell’Università. Ha studiato, ha pubblicato, ha lavorato. Testardamente. Senza riuscirci. Recentemente ha…

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Marta Lempart: Il mio Paese odia le donne

Anti-abortion activists and clergy gather, during a pro-choice protest outside the parliament building, in Warsaw, Poland, Monday, July 2, 2018. Hundreds of abortion-rights activists in Poland have held a protest against a proposed law that would ban abortions in cases involving irreparably damaged fetuses. Banner reads "Yes for Life." (AP Photo/Czarek Sokolowski)

«Spazzatura di sinistra». Così Marlena Maląg, ministra della Famiglia polacca, definisce la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, meglio conosciuta come Convenzione di Istanbul. «Manifesto dell’ideologia gay» l’ha invece additata il ministro della Giustizia Ziobro, che il 25 luglio ha avviato le procedure per uscire dal trattato (v. Calesini a pag. 34). «Non c’è bisogno di una Convenzione internazionale per prevenire la violenza sulle donne in Polonia», ha ribadito Ziobro. Tuttavia, gli avvenimenti susseguitisi negli ultimi anni a queste latitudini dicono altro.

Ne è convinta Marta Lempart, fondatrice del movimento dello sciopero delle donne Ogolnopolsky strajk kobiet (Osk), che ha accettato di rispondere alle nostre domande per aiutarci a capire costa sta realmente accadendo in Polonia. «La Convenzione – osserva Marta Lempart – rappresenta per il governo di Varsavia un ostacolo alla legalizzazione della violenza domestica. Nel 2017 avevano proposto una legge che avrebbe esonerato la polizia e i servizi sociali dall’obbligo di registrare la violenza domestica, non riconoscendo come tale, inoltre, l’abuso psicologico». La proposta di legge  è stata pubblicata sul sito ufficiale del Parlamento polacco e in seguito cancellata. «Ma io ho la copia – afferma Lempart -, non è stata cancellata ma solamente congelata». Finché la Polonia aderisce alla Convenzione di Istanbul questa legge non potrà essere implementata, ma per l’attivista «è solamente una questione di tempo prima che riescano ad abrogare la ratifica». All’inizio del 2019 Diritto e giustizia (PiS), il partito dei conservatori al governo, emulando una legge vigente in Russia aveva addirittura proposto una nuova norma che avrebbe riconosciuto un atto come violenza domestica solamente nel caso in cui la donna fosse stata colpita più di una volta. Dopo due giorni di vibranti proteste dei movimenti femministi, la proposta è stata ritirata.

La volontà di uscire dalla Convenzione è pertanto un atto politico, osserva Lempart, che si innesta sulla stessa linea ideologica perseguita dal…

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Alessandro Rosina: Più investimenti a favore dei giovani o sarà il nostro declino

Generation Z teens wearing protective face masks during Covid-19 Coronavirus epidemic spread.

Se prima della pandemia la condizione giovanile era difficile, dopo, probabilmente, lo sarà ancora di più. Almeno stando all’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo in parte pubblicata sul Rapporto giovani 2020 (Il Mulino), e risultato di una rilevazione condotta da Ipsos tra marzo e aprile in Italia tra 2mila persone di età compresa tra i 18 e 34 anni e tra mille loro coetanei in Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. Ebbene, il 61,96% per cento degli italiani ritiene che l’emergenza metta a rischio i propri progetti di vita contro il 42,5% dei tedeschi e il 45,76 % della Francia, il 58,66% della Spagna e il 53,85% dei britannici.

Non solo. Il futuro è sospeso anche perché gli under 35 Neet (cioè coloro che non studiano, non lavorano e non sono impegnati nella formazione) per il 41% hanno posticipato la ricerca del lavoro mentre il 33% l’ha proprio abbandonata. E ancora: chi tra i 18 e i 34 anni percepisce di più il rischio sono i lavoratori in proprio (36,7%), i collaboratori a progetto (24,4%) mentre più sicuri del futuro sono gli imprenditori (14,5%) e i lavoratori dipendenti (17,2%). Le donne, va detto, sono quelle più incerte in assoluto sul proprio avvenire: il 67% in Italia rispetto al 55% degli uomini, mentre in Germania sono il 48,03% e il 46,99 in Francia.

L’indagine internazionale costituisce l’ultimo tassello di un quadro a tinte fosche sulla condizione giovanile in Italia che l’Osservatorio “fotografa” dal 2012. In questa edizione vengono analizzati alcuni aspetti come, tra gli altri, l’impatto con le nuove tecnologie, la partecipazione alla politica del bene comune, gli interessi culturali legati al livello d’istruzione, il fenomeno degli expat, e la Generazione zero. Nel Rapporto si fa cenno al «triste primato» dei Neet: incrociando gli ultimi dati Eurostat e quelli Istat sono oltre 3 milioni in Italia tra i 20 e i 34 anni, la cui incidenza è del 28,9% su una media europea del 16,5% e del 17,2% nell’Eurozona. «Quello dei Neet è l’indicatore che ci fa vedere quanto un Paese spreca il valore delle nuove generazioni», afferma Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani, docente di Statistica alla Cattolica di Milano e autore nel 2009 con Elisabetta Ambrosi di Non è un paese per giovani (Marsilio). «Noi abbiamo meno giovani rispetto ad altri Paesi per via della denatalità – continua – e in più li…

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E se quello dei ragazzi fosse un pensare nuovo?

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 10-07-2020 Roma , Italia Cronaca Campidoglio - flash mob studenti La Sapienza Nella foto: studenti dell'università La Sapienza in una 'mobilitazione artistica' per richiedere la riapertura in sicurezza delle aule universitarie Photo Mauro Scrobogna /LaPresse July 10, 2020  Rome, Italy News Campidoglio - flash mob students La Sapienza In the photo: students of La Sapienza University in an 'artistic mobilization' to request the safe reopening of the university classrooms

«Carissimo Delio…Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni cosa». Scriveva Antonio Gramsci, in una delle lettere ai figli, nei lunghi anni della sua prigionia. Anche a noi la storia piace, soprattutto quella recentissima, dove giovani e meno giovani, studenti, insegnanti e tutto il mondo della medicina, hanno espresso qualità e capacità inusuali e impensabili.

Quando a fine dicembre iniziavano ad arrivare, dalla Cina, le notizie di un nuovo virus che aveva fatto il salto di specie e che cominciava a mietere le prime vittime, qui in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, i più giovani, irrisi da buona parte dei potenti del pianeta, manifestavano per l’ecosistema paventando una imminente catastrofe ambientale.
Questa ripresa di un sentire comune, che non necessariamente avesse una connotazione politica, sembrava la più alta espressione di un ideale di convivenza civile, a cominciare proprio dagli studenti del venerdì, insultati perché in quel giorno disertavano i banchi di scuola, senza ascoltare e porre attenzione al loro grido di allarme.
Poi l’allarme è arrivato dall’Oriente. A sconvolgere la nostra quotidianità, apparentemente serena, è stato un insulto alla salute fisica che ha aggredito il nostro organismo.
Un virus, denominato Covid-19, ci ha prepotentemente aperto gli occhi, sovvertendo la scala dei valori che governava la nostra vita e ci ha costretti ad immaginare nuove strade per la costruzione del futuro, consapevoli che il cardine di ogni cambiamento sta nella capacità di vedere la realtà circostante e di comprendere i movimenti mentali e culturali che lo governano.

Gli esseri umani da sempre hanno convissuto con la malattia non limitandosi però a registrarne gli effetti su loro stessi ma cercando di conoscere la natura di quei virus che attaccavano il loro corpo. A partire da Talete, la malattia è diventata un fenomeno proprio della realtà fisica e non più una punizione degli dei. Per migliaia di anni i progressi della ricerca sono stati oscurati dalle credenze religiose, ma non si è mai smesso di cercare, convinti fermamente che l’insulto al nostro organismo potesse provenire dalla realtà circostante. Quando, poi, il metodo ha permesso di confermare questa idea, si è potuto risalire alle cause vere di malattia e individuarne i rimedi. Tutto questo ha riguardato soltanto le malattie del corpo umano. Nelle malattie della mente, invece, non si è mai smesso di pensare ad un male radicato nella natura umana. Non si è mai pensato che la malattia della mente, come la malattia del corpo, possa essere la conseguenza di un insulto proveniente da una realtà umana esterna (cfr. La Teoria della nascita di Massimo Fagioli).

Quindi l’idea di male radicale non è per nulla scontata e men che meno naturale: nei giorni della pandemia, che ancora stiamo vivendo, gli esseri umani hanno dimostrato un interesse per i loro simili assolutamente al di sopra di qualsiasi utile e vantaggio personale. Tutti hanno impegnato qualsiasi energia comune per combattere questo attacco proveniente dalla realtà circostante, che ci ha travolto sia sul piano biologico che su quello economico e sociale. Abbiamo iniziato con lo slogan dei bambini “Andrà tutto bene”, neanche troppo veritiero, proseguendo con le canzoni dai balconi, dimostrandoci ogni giorno più solidali. Occorre però ricordare come storicamente carestie, pestilenze ed epidemie abbiano alimentato caccia alle streghe, persecuzioni, vaticini, deliri collettivi o immaginarie catastrofi, fomentati ieri dai sostenitori della fede, oggi dalle facce bifronti di chi da una parte sostiene che non è successo niente, dall’altra indica nei ragazzi e nei migranti i nuovi untori o i portatori naturali di un male radicale, impedendo di fatto di cogliere la verità delle cose. Per questo, ci indigna leggere quanto scriveva, giorni fa, sul Corsera, l’intellettuale Polito, che parlava del Covid come del riacuirsi del male, contrapponendolo ad un bene generico e proponendo un’accozzaglia di esempi, tra i più disparati, per dimostrare la sua tesi di un’umanità immodificabile, afflitta “da sempre” dal male radicale.
Il virus…

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Povera scuola abbandonata a se stessa

BOLOGNA, ITALY - JUNE 06: A demonstrator holds a sign that reads "make school not war" during a protest for the public school over the return to teaching in attendance and more rights for teachers and educators on June 06, 2020 in Bologna, Italy. Many Italian businesses have been allowed to reopen, after more than two months of a nationwide lockdown meant to curb the spread of Covid-19. (Photo by Michele Lapini/Getty Images)

Sarà una scuola “in presenza”, parola di ministra. Sarà pure una scuola della disuguaglianza, parola del comitato Priorità alla scuola e dei numerosi presidi impegnati a trovare soluzioni difficilissime. Già da tempo, quella italiana, è una scuola dell’abbandono: abbandonata dalla politica e dalle campagne elettorali e dagli studenti (l’Italia è terz’ultima in Europa per dispersione scolastica). «Con questa idea di riapertura non ci sarà più un’istituzione uguale per tutti, bisogna che sia chiaro a genitori e docenti», racconta Elisabetta D’Alfonso del Comitato. C’è chi avrà aule e chi container, c’è chi avrà mensa e chi dovrà tornare a casa a pranzo, chi avrà docenti in classe e chi supplenti usa e getta, c’è chi avrà continuità didattica e chi no.

Tutti in classe, tutti a scuola, ma la scuola dov’è? C’è, ma a pezzetti, c’è diversa e inadeguata. C’è, ma non per tutti e non allo stesso modo. La scuola deve essere ripensata, l’emergenza Covid-19 poteva essere un’occasione ghiotta per dare una spinta di qualità e lungimirante alla crescita del nostro Paese, ma per settimane abbiamo parlato solo di bar, ristoranti e parrucchieri e plexiglass. La scuola non è soltanto obbligo, è prima di tutto un diritto, un diritto spesso negato. Notiamo, con amaro disappunto e scoramento, come a questo Paese manchi nella sua visione e progettazione un pezzo: gli improduttivi, appunto. I bambini e i ragazzi. E tutto nasce da qui. Da questo buco, falla, voragine sostanziale. Sappiamo che andremo a scuola dal 14 settembre, ma non siamo organizzati per farlo.

«C’è bisogno di distanziamento, ma non tutti i dirigenti hanno avuto la possibilità di reperire spazi, e soprattutto non si può lasciare un’operazione di tale importanza all’intraprendenza del singolo dirigente scolastico. Al momento, per esempio – racconta D’Alfonso -, a Milano ci troviamo circa con 74 presidi, tra primarie secondarie di primo grado e secondo grado, che scrivono direttamente ai genitori per annunciare riduzioni di orario, doppi turni, taglio del tempo pieno. In alcuni casi metà classe farà lezione con un video in un’altra aula, forse in un container, con un commesso a controllare. In altri casi non ci sarà neppure questa possibilità, ma ci sono come sempre i più fortunati che avranno la possibilità  di fare scuola come prima». Ma il diritto allo studio vale se è uguale per tutti. Offrire pari opportunità di…

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Un Ferragosto dedicato

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 02-05-2020 Roma Cronaca Covid-19, isolata la Clinica Latina, Rsa per anziani Nella foto Una paziente positiva al tampone per il Covid-19 viene trasferita all'ospedale Spallanzani Photo Roberto Monaldo / LaPresse 02-05-2020 Rome (Italy) Coronavirus outbreak, isolated residence for elderly Clinica Latina In the pic A positive patient for Covid-19 during the transfer to Spallanzani hospital

Un Ferragosto dedicato agli invisibili che non sanno che farsene del Ferragosto, in questo duemila e venti che è una ferita che molti vorrebbero rimarginare e che invece sanguina ancora.

Mi viene in mente, per questo Ferragosto, a quanto presto ci siamo dimenticati dei nonni che se ne sono andati. Sarà che il caso ha voluto che fossi nel mezzo della pandemia eppure il Ferragosto qui, più di tutto, sono i genitori anziani e i nonni che mancano al pranzo di Ferragosto, quelli che se ne sono partiti senza l’occasione di salutare, quelli che avrebbero tenuto il vino buono in fresca, quelli che avrebbero preparato il piatto che ti piace tanto e che invece adesso sono un posto lasciato vuoto, un piatto e un bicchiere in meno.

Il duemila e venti è l’anno degli spazi che si stringono e pare che qualcuno voglia rimuovere il lutto e lo sfacelo come se fosse una pellicina disturbante sopra un dito. Il Ferragosto dedicato ai genitori che devono spiegare ai propri figli la partenza del nonno o della nonna che sono partiti senza una ciao, incellophanati come nei film, tornati a casa solo a forma di un tetro certificato.

Un Ferragosto dedicato a chi aveva pensato che questo Ferragosto forse avrebbe potuto ritagliarsi qualcosa che somigliasse a una vacanza e invece conta le macerie. Lavoratori e professionisti che stanno in bilico davvero, che assistono sgomenti alle discussioni di questo giorno mentre si aggrappano e continuano a aggrapparsi consapevoli che a settembre scivoleranno. Sono molto più di quelli che si raccontano, anzi a guardare bene non li racconta nessuno e invece ne siamo pieni. Sono sopravviventi che non rientrano nelle statistiche finché non mollano la presa.

Un Ferragosto dedicato alle coppie che sono scoppiate, le famiglie che questo Ferragosto pensavano di meritarsi un po’ di tranquillità e invece raccolgono i cocci. Un Ferragosto dedicato ai disabili che hanno passato mesi ancora più da invisibili. Un Ferragosto dedicato ai malati bloccati, quelli che hanno dovuto aspettare mentre la loro malattia non aspetta mica.

Un Ferragosto dedicato a quelli che scelgono di non rimuovere e invece vivono tutto, se lo vivono addosso, con tutti gli attrezzi per costruirsi speranza tutti i giorni.

Buon Ferragosto.