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Ancora violenze sui migranti rinchiusi nel cpr di Gradisca, ma vengono censurate

Capita ormai regolarmente che durante i giorni più torridi dell’estate, quando il caldo diventa insopportabile, anche nei Centri permanenti per il rimpatrio, le tensioni perenni sfocino in uno stato di rivolta permanente. Il divieto di accesso ad osservatori esterni che non siano il Garante per i detenuti – che però entra solo dopo richiesta – o  qualche sparuto deputato, i timori connessi alla pandemia, hanno permesso di sottacere più che in passato queste condizioni insopportabili in cui si consumano soprusi. A Gradisca D’Isonzo, provincia di Gorizia, nell’ex Caserma Polonio, il Cpr ha riaperto da gennaio e, come abbiamo già ricordato, già due persone trattenute ci hanno perso la vita.

Alla vigilia di Ferragosto c’è stata l’ennesima rivolta. «Da inizio luglio – scrivono gli attivisti del gruppo Assemblea No Cpr No Frontiere Fvg – Infatti da inizio luglio all’interno del centro i detenuti hanno dato luogo a diverse rivolte, incendiando parte delle camerate e compiendo frequenti atti di autolesionismo, talvolta anche molto gravi. A queste le forze dell’ordine presenti nella struttura hanno risposto frequentemente con una repressione violenta, che, da quanto ci è stato detto dai detenuti, ha mandato alcuni di loro all’ospedale ed è avvenuta dopo aver disattivato il sistema interno di videosorveglianza o minacciando altri reclusi di ritorsioni nel caso avessero fatto uscire video o immagini da quelle mura. Frequenti sono state anche le denunce per danneggiamento o resistenza a pubblico ufficiale che rischiano di prolungare il trattenimento di queste persone nel centro. Così come in altre occasioni anche dopo i fatti del 14 agosto la maggior parte dei mezzi d’informazione ha riportato esclusivamente le versione della Questura di Gorizia, omettendo di citare la violenza subita dai reclusi, testimoniata anche da video e immagini che abbiamo pubblicato sul nostro blog».

Tanti gli elementi di criticità in una struttura accanto a cui sorge un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e in una zona fortemente interessata dagli spostamenti che interessano la rotta balcanica. Ma il Cpr è il punto in cui più si sono espresse le incompatibilità fra politiche migratorie e diritti delle persone. Fra le assurdità il fatto che dopo i fatti di Piacenza, un ragazzo marocchino che aveva denunciato abusi subiti in quella caserma nel 2017 è stato trasferito nel centro. Il ragazzo, insieme ad altri 15 trattenuti, in gran parte provenienti dal Marocco, è stato poi trasferito nel centro romano di Ponte Galeria. Uno dei 15, denunciano sempre gli attivisti della Rete friulana, è anche padre di una neonata e il suo trattenimento poteva non essere convalidato ma, utilizzando la mancanza di alcuni documenti, il giudice di pace di Gorizia competente ha negato il suo rilascio. I trasferimenti erano ovviamente congeniali anche alla ripresa dei rimpatri post Covid. Oggi la situazione a Gradisca è ancora più assurda, oltre al Cpr e al Cara è stato creato un “campo quarantene”, si tratta di due piccoli “villaggi” nei pressi dei centri, 46 persone sono distribuite in tende e 25 in moduli abitativi. Nessuna persona ancora positiva ma chi è in tali spazi sa che ha come sola prospettiva quella di tornare nei rispettivi centri.

Anche negli altri Cpr agosto si sta dimostrando insostenibile. A Ponte Galeria, sotto Ferragosto c’è stato un rocambolesco tentativo di fuga. In sei si sono introdotti nei condotti dell’aria climatizzata, sono arrivati sul tetto, hanno raggiunto il muro di cinta e sono usciti. In 5 sono stati ripresi uno è riuscito a far perdere le sue tracce. Il 17 e il 20 luglio c’erano stati altri due tentativi falliti ma non romanzeschi come questo. Gabriella Stramaccioni, garante del Comune per i diritti delle persone private della libertà personale, ha definito il Cpr un vulnus legale e dei diritti umani, ma anche per le condizioni sanitarie il centro presenta criticità gravi. Lo scorso anno una badante ucraina è stata fermata per strada e portata al Cpr dove ha perso la vita, sembra per problemi cardiaci.

Il centro non è attualmente sovraffollato – ci sono 43 uomini e 9 donne, potendo ospitare complessivamente 180 persone eppure resta una bomba ad orologeria. Secondo la Garante il centro deve chiudere, secondo gli agenti del Silp o cambiano le modalità di gestione e aumenta il personale o è impossibile garantire l’incolumità delle persone. Impossibile entrarvi con telecamere per poter documentare e denunciare le condizioni di invivibilità. Neanche gli ingressi “a sorpresa” sono permessi e le sole immagini che arrivano sono quelle inviate agli attivisti anti Cpr dai trattenuti.

Nel nuovo Cpr aperto a Macomer, nel nuorese, dove a giugno alcuni trattenuti erano arrivati a cucirsi la bocca per protesta ora da una parte sono nel caos gli uffici del Giudice di pace, oberati da pratiche e con scarso personale, dall’altra, con l’eccessiva militarizzazione, buona parte del paese chiede la chiusura della struttura. Non va meglio nel Cpr di Bari dove il 19 agosto è stato sventato l’ennesimo tentativo di fuga o negli altri rimasti attivi. In periodo post covid, dopo una fase in cui erano diminuite le persone di cui era stato convalidato il trattenimento (a maggio 2020), c’è stata una ripresa dei fermi e oggi, complessivamente sono oltre 350 le persone rinchiuse.

Il bilancio dello scorso anno, reso noto dal Viminale è dimostrazione di fallimento. Il 46,5% delle persone prese è stato effettivamente rimpatriato, gli altri o in fuga, o arrestati per le rivolte o, molto spesso liberati perché non identificati o perché il trattenimento non era stato convalidato. A fronte di un bilancio simile le proposte di riforma in materia elaborate ad oggi dal ministro dell’Interno sono unicamente di una diminuzione dei tempi massimi di trattenimento, dagli attuali 180 giorni a 120, forse a 90 eppure, come abbiamo già avuto modo di denunciare lo scorso anno col nostro libro Mai Più, sono ormai 22 anni che queste strutture ad avviso di chi scrive, illegali esistono, provocano inutili danni e sofferenze, sono spesso causa di morte, costano milioni, di euro l’anno, cambiano nome ma non sostanza ma continuano ad essere sponsorizzate come lo strumento per combattere la clandestinità e a garantire la “sicurezza”. Ma di ragioni per farla finita con questa oscenità se ne accumulano giorno dopo giorno e la sola scelta di sinistra che potrebbe essere fatta è quella di chiudere definitivamente ogni struttura simile, favorendo realmente i percorsi di regolarizzazione. Un’utopia.

Per approfondire invitiamo a leggere il nostro libro inchiesta sul tema

 

Il taglio dei parlamentari? È un attacco alla sovranità popolare e ai giovani

Group of teenagers friends at park wearing medical masks to protect from infections and diseases - Conceptual Coronavirus virus quarantine - Copy space - Multiracial people having fun together

Accentramento del potere, svilimento del ruolo del Parlamento e accentuazione di tendenze populiste della politica italiana. Solo alcuni dei rischi connessi ad un’eventuale vittoria del “sì” al referendum del 20-21 settembre sulla riforma costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari nella misura del 36,5%. Se già il dibattito pubblico su questo delicatissimo passaggio per la nostra democrazia è carente, la posizione dei giovani a riguardo, e le conseguenze su una generazione sempre più distante dalla politica sono state del tutto soprassedute. Ecco perché è nato Nostra – Comitato giovanile per il “no” al referendum. Ne parliamo con Jacopo Ricci, ventunenne e portavoce nazionale del Comitato: «L’idea di mobilitarsi – racconta – è nata da un gruppo eterogeneo di militanti del mondo politico romano, sotto la comune idea della totale avventatezza di una riforma che andrebbe ad acuire ancora di più la crisi della rappresentatività democratica di questi anni, a discapito soprattutto dei giovani».

Le ragioni di questa mobilitazione sembrano tanto ovvie quanto fondamentali. Sotto le mentite spoglie di un risparmio per i cittadini (come sappiamo l’equivalente di meno di un caffè a testa in un anno) e di un efficientamento del sistema legislativo, che secondo Ricci «non compare nel quesito referendario», si sta proponendo una riforma che avrebbe come unica conseguenza un attacco frontale alla sovranità popolare tanto cara ai nostri padri costituenti. «Per portare gli under 35 dalla nostra parte la questione è semplice: bisogna istituire un nesso tra questione istituzionale e questione sociale. Allentare il meccanismo rappresentativo comporterebbe uno sgretolarsi delle politiche di welfare e meno attenzione allo Stato sociale, con ricadute in primis su noi giovani». In questa prospettiva, dunque, il coinvolgimento e il rapporto dei giovani con il mondo della politica costituirebbe un’incognita preoccupante. «Essendo nati in un’epoca dominata dal neoliberismo, dal mito del mercato e dallo smottamento dei corpi intermedi, si è insinuata nella nostra generazione una…

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La questione immorale

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 04-07-2020 Roma Politica Piazza del Popolo - Manifestazione del centrodestra "Insieme per l'Italia del lavoro" Nella foto Giorgia Meloni, Matteo Salvini Photo Roberto Monaldo / LaPresse 04-07-2020 Rome (Italy) Demonstration of the center-right "Together for Italy of work" In the pic Giorgia Meloni, Matteo Salvini

Ma come siamo messi con la questione morale in Italia in questo momento? Meglio: cosa ci dicono i partiti italiani, come svolgono il loro ruolo propedeutico e pedagogico, come era pensato nella politica alta, quella che si prometteva di essere anche un esempio oltre che semplicemente un mezzo di governo. Come siamo messi con l’etica degli organi di rappresentanza, quelli che dovrebbero convincerci a essere migliori, a seguire le regole, a rispettarle, a chiederne la modifica se non risultano abbastanza contemporanee e rappresentative… Siamo messi male, malissimo. E siamo messi male dappertutto, a destra, a sinistra e anche nel famoso terzo polo che era quello che nelle intenzioni avrebbe dovuto spaccare tutto e invece ora come una pianta rampicante si è attaccato ai posti di comando e sembra disposto perfino a rinnegarsi pur di lasciare attaccati alcuni dei suoi. È immorale Matteo Salvini, certo, ne abbiamo parlato spesso su queste nostre pagine e non finiremo di parlarne. È immorale perfino venirci a dire che dovremmo smettere, che attaccarlo di continuo fa il suo gioco: se per un trucco di propaganda fingiamo di non vedere l’orrore che ci circonda sperando che sparisca significa che anche noi ci sdraiamo sulla strategia piuttosto che sull’etica.

L’immoralità di Salvini è un marchio di fabbrica, ce n’è una parte addirittura esibita come se fosse qualcosa di cui andare fieri. Guardate per esempio la sua ultima foto mentre visita un caseificio nel suo lungo tour da food blogger: non ha mascherina, non ha guanti, si butta su una forma di formaggio come un topo, i proprietari dell’azienda lo guardano compiaciuto e probabilmente godono nel pensare alla visibilità inaspettata che potranno avere. Là dentro c’è tutto: l’atteggiamento è quello di chi dice “me ne fotto delle regole perché sono un bullo, voi votate un bullo perché così vi sentite protetti e io raccatto i vostri voti di servi che hanno bisogno di eleggere un padrone”. Messa così sarebbe anche abbastanza ridicola se non fosse che l’immoralità della Lega, quella che Salvini invece non vuole farci vedere e di cui non vuole che si parli, sta tutta nella gestione economica rapace dei fondi pubblici di partito (c’è una condanna, definitiva, che sembra non avere colpevoli), l’immoralità della Lega è nell’avere slacciato le…

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Ma quali migranti, i contagi arrivano dai turisti

Migrants from Tunisia and Lybia are examined as they arrive onboard of an Italian Guardia Costiera (Coast Guard) boat in the Italian Pelagie Island of Lampedusa, while a beach with tourists is seen in the background, on August 1, 2020. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP) (Photo by ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images)

«Il Covid non esiste ma i migranti portano il Covid». È il messaggio che il codice comunicativo populista utilizza per affrontare le difficoltà del periodo trovando contemporaneamente tre capri espiatori: i migranti (sempre validi), il virus (da usare solo a fasi alterne) e il governo che, malgrado siano ancora in vigore le leggi prodotte dal mondo leghista, permette l’ingresso di “untori stranieri”. Per sciogliere questa intricata matassa con cui si veicolano messaggi privi di ogni minima coerenza bisogna fare passi indietro. Il divieto di ingresso su territorio nazionale per le persone provenienti da diversi Paesi extra Schengen è tutt’ora in vigore, il decreto di aprile con cui il ministro Speranza dichiarava l’Italia “porto non sicuro” a causa dell’emergenza virus non è mai stato revocato anche se, mostrando almeno buon senso, si evita di lasciare le persone in mare. Sono diminuite le imbarcazioni che partono dalla Libia, una sola l’Ong rimasta in mare e pressoché assente il soccorso marino ordinario.

Molti sono coloro che invece fuggono dalla Tunisia, destinazione Lampedusa, tentando di lasciarsi alle spalle non tanto il Covid ma i suoi effetti sociali devastanti. L’economia del Paese nordafricano è basata principalmente sul turismo, messo in crisi prima dal terrorismo e dall’instabilità politica, ora azzerato dai vincoli imposti con la pandemia. Ormai da tre anni partono dai porti tunisini piccole barche che giungono in Italia autonomamente e negli ultimi mesi il lockdown ha in qualche misura incentivato le partenze essendo divenuti impossibili i rimpatri. Ma dal 10 agosto – c’è chi afferma anche da prima – sono ripresi i voli bisettimanali che riportano le persone identificate a Tunisi. La ministra dell’Interno Lamorgese ha affermato che nessuno di loro verrà regolarizzato e che i rimpatri avverranno pure via mare dati i buoni rapporti col governo tunisino.

Sono poco più di 16 mila i migranti giunti via mare dal primo gennaio al 17 agosto. Dopo un periodo di sovraffollamento a Lampedusa sono iniziati gli spostamenti verso “navi quarantena” o centri da cui però in molti sono fuggiti. Dopo una prima fase di difficoltà dettate anche da disposizioni contraddittorie, tutte le persone che arrivano vengono sottoposte a tampone mentre un’altra nave le ospita a Gioia Tauro e le autorità cercano di sistemarle in condizioni decenti. Ma da qui le prime perplessità: tanto l’Agenzia di Sanità pubblica della Regione Sicilia, quanto il…

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Governare l’incertezza

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 20 Agosto 2020 Roma (Italia) Cronaca : Covid 19 : Test Scuola Sicura organizzati dalla Regione Lazio, insegnanti dirigenti e personale scolastico si sottopongono al test sierologico prima della riapertura delle scuole Nella Foto: il laboratorio allestito nella Casa della Salute a Torrenova Photo Cecilia Fabiano/LaPresse August 20 , 2020 Rome (Italy) News: Virus outbreak : teachers and school workers making covid test for guarantee a safe reopening of the schools In the pic : a sanitary centre in a sanitary used in covid 19 tests

La sfida è esattamente questa: governare l’incertezza. E l’incertezza è un sentimento che rende un popolo irrequieto, inevitabilmente spaventato, che rende difficili le giornate e soprattutto che rende complicata la programmazione. E questa epoca, così ferocemente incastrata al millimetro, ci chiede di essere perfettamente programmati, noi, le nostre giornate, i nostri figli, i nostri affetti, i nostri mestieri, i nostri rapporti, le nostre cose. E la sfida, lo si diceva già in tempi non sospetti, è esattamente questa.

Nel dibattito tra catastrofisti e negazionisti sembra sparita la via di mezzo: convivere con il virus, che è quello che ci continuano a ripetere, non è per niente semplice se non c’è una guida chiara con regole certe e con limiti definiti. Accade con la scuola, ad esempio: non sapere cosa accadrà a scuola e come si muoverà la scuola a poche settimane dall’inizio (ma inizierà davvero?) ripropone quello stesso sentimento che ha appiattito anche sentimentalmente e dal punto di vista vitale molte persone durante il periodo del lockdown: intorno a un figlio c’è tutta un’organizzazione famigliare che coinvolge moltissimi elementi e che modifica le proprie abitudini. E sarà così anche per il lavoro, che in questo periodo vacanziero è sparito dal dibattito pubblico e invece si riproporrà con forza: milioni di persone aspettano di sapere se avranno un rinnovo di contratto e le loro aziende cercano di leggere un mercato che rimane con la spada di Damocle del virus.

Il fatto è che ci avevano detto che avremmo dovuto imparare a convivere con il virus e invece qualcuno propone come soluzione quella di tornare esattamente come prima, come eravamo prima quando non ci ammalavamo mica se qualcuno ci respirava in faccia in un posto qualsiasi. E noi la convivenza con il virus, mesi dopo, non abbiamo ancora imparato nemmeno a immaginarla, non sappiamo darle una forma e un nome e continuiamo a aspettare che passi, banalmente, semplicemente.

Eppure governare l’incertezza e leggere il presente e il futuro è esattamente il compito della politica: è la stessa politica che ha avuto sei mesi (sei mesi) per programmare il ritorno nelle aule e che non ci ha spiegato nulla di più dei banchi, che sono ancora oggi l’argomento principe della discussione. Intanto dall’altra parte l’opposizione insiste nel dire irresponsabilmente “torniamo come prima”.

Ed è una discussione che diventa tifo, così bassa, così triste, così pericolosa.

Buon venerdì.

 

Democrazia violata

Foto Valerio Portelli/LaPresse 08-10-2019 Roma, Italia Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Politica Nella Foto: Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Photo Valerio Portelli/LaPresse 08 October 2019 Rome,Italy Flash Mob M5s Party Politics In the pic: Flash Mob M5s Party

Manca appena un mese al voto del referendum sulla riforma costituzionale e non è ancora partita alcuna vera campagna di informazione sui media mainstream. Anzi. I quotidiani a maggior diffusione fanno apertamente disinformazione dandone già per scontato l’esito, mettendo così a tacere ogni dibattito. Non si è comportato meglio il servizio pubblico. Per lunghi mesi ha dominato un silenzio assordante. Solo di recente si registra qualche tribuna elettorale in Rai ma in orari pomeridiani assai improbabili per agosto. Solo noi di Left e Radio Radicale abbiamo fatto della campagna referendaria un punto cardine, ormai da mesi, fermamente convinti che i cittadini abbiano tutto il diritto ad una corretta informazione per potersi fare una propria opinione.

Tanto più in questo caso, poiché quello di settembre è un appuntamento decisivo per il futuro della Repubblica, che è stato “camuffato”, tenuto sotto traccia, anche con l’impropria decisione di indire un Election day. Il 20 e il 21 settembre, infatti, in molte parti d’Italia gli italiani saranno chiamati a votare anche per elezioni amministrative e regionali. Senza nulla togliere all’importanza di avere buone amministrazioni locali con questo referendum (che non prevede un quorum) confermativo della legge costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari ci giochiamo qualcosa di assai diverso.

Se dovessero vincere i sì la Costituzione ne uscirebbe sfregiata e con essa il suo cardine: la democrazia fondata sulla rappresentanza. L’articolo 1 della Carta parla chiaro: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Proprio per esercitarla i cittadini votano i loro rappresentanti che devono essere in numero congruo, proporzionato alla popolazione. Se quel numero viene falcidiato, inevitabilmente, anche il diritto dei cittadini di vedere le proprie istanze rappresentate in Parlamento lo sarà.

Senza contare che il taglio lineare del numero di deputati e senatori, al di là di un risibile risparmio (pari a una tazzina di caffè all’anno per ogni cittadino) non porta alcun miglioramento alla funzionalità del Parlamento. La riforma del bicameralismo perfetto non è stata affrontata, non sono previsti al momento contrappesi e non è stata cambiata la legge elettorale in senso proporzionale come era stato annunciato, né si è previsto di cambiare i regolamenti parlamentari ecc. Le questioni irrisolte sono numerose e, ormai, difficilmente potranno essere affrontate prima del voto.

Appare dunque del tutto evidente che con questo ennesimo tentativo di controriforma della Costituzione (dopo quelli di Berlusconi nel 2006 e di Renzi nel 2016) i fautori della democrazia diretta controllata da piattaforme private sferrano un attacco violento alla centralità e alla funzionalità del Parlamento.

La riduzione del 36,5 per cento dei parlamentari determinerà una grave alterazione della rappresentanza territoriale come torna a denunciare in questo suo nuovo intervento Alfiero Grandi, già autore del volume edito da Left dal titolo La democrazia non è scontata. Questa furibonda sforbiciata alla democrazia nei fatti colpisce i cittadini, privandoli di sovranità, ma non colpisce i maggiori partiti che anzi grazie anche alle soglie di sbarramento risulterebbero rafforzati considerando che già ora sono le segreterie a decidere le candidature (non più espressione dei territori), scegliendole fra i fedelissimi. In altre parole la politica sarebbe sempre più gestita da un’oligarchia che compila le liste elettorali. Invece di essere indebolita, la cosiddetta casta risulterebbe dunque addirittura rinvigorita.

Questo tentativo di modificare in peggio la Costituzione rappresenta un primo passo verso una pericolosa deriva autoritaria, favorisce chi vuole al comando un uomo forte al posto del Parlamento, avverte il presidente emerito dell’Anpi, il partigiano e giurista Carlo Smuraglia, invitando i cittadini a reagire, votando no, per evitare questo grave vulnus alla nostra democrazia. Gli fa eco qui il costituzionalista Giovanni Russo Spena argomentando in modo autorevole e cristallino i fondamentali motivi per cui questa controriforma è da rigettare. È una battaglia trasversale che riguarda tutti coloro che credono nello Stato di diritto, laico e democratico, scrivono Maurizio Turco e Irene Testa del Partito radicale. È una battaglia da fare fino in fondo anche per far crescere la cultura politica democratica.

L’editoriale è tratto da Left del 21-27 agosto 2020

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Partigiani della Costituzione, ora e sempre

Foto Valerio Portelli/LaPresse 23-01-2020 Roma, Italia Presentazione Comitato referendario per il No Politica Nella Foto: Presentazione Comitato referendario per il No Photo Valerio Portelli/LaPresse 23 January 2020 Rome, Italy Presentation of the referendum committee for the no Politics In The Pic: Presentation of the referendum committee for the no

«Quando si vuole limitare l’importanza di un organo rappresentativo, si incomincia sempre con il diminuire il numero dei componenti». È il giudizio di Umberto Terracini, illustre presidente dell’Assemblea costituente. Ci parla della vera natura del referendum confermativo che avrà luogo il 20 e 21 settembre prossimi. Sul versante opposto potrei ricordare che, nel “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli, del 1985, il punto 6 indica «riduzione del numero dei parlamentari».

Mi addolora il fatto che, per ragioni di schieramento politicista, stiano emergendo posizioni diverse sul voto anche all’interno di quella società critica che si era battuta contro le revisioni costituzionali di Berlusconi e Renzi. Mi pare che anche stampa ed intellettualità democratica tendano a sottovalutare l’importanza della sfida, anche con una dose di qualunquismo.

Il tema vero, infatti, è il ruolo del Parlamento. Sottoposto ad attacchi strumentali e demagogici. In questi giorni, in particolare, il M5s attacc…

L’articolo è tratto da Left del 21-27 agosto 2020

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Taglio dei parlamentari, democrazia in svendita

La Corte costituzionale ha respinto i ricorsi contro l’ammucchiata elettorale del 20 e 21 settembre e quindi la strada verso il referendum costituzionale è spianata. È certo che si voterà. La decisione che uscirà dal voto sarà definitiva perché il referendum costituzionale è valido qualunque sia il numero dei votanti e non ci sono altre prove di appello. Siamo di fronte ad una scelta secca.

Votando Sì, il taglio degli eletti in Parlamento diventerà definitivo, con il risultato di scendere a 400 deputati e 200 senatori a partire dalla prossima legislatura. Votando No, il taglio del Parlamento non ci sarà e la decisione del Parlamento stesso verrà annullata dal voto popolare, esattamente come nel 2016 per la controriforma Renzi e nel 2006 per quella di Berlusconi.

Perché è auspicabile che il taglio del Parlamento venga bocciato? Anzitutto perché viene giustificato con motivazioni ridicole, come il risparmio di 50/60 milioni all’anno, come se il funzionamento della democrazia si potesse valutare sulla base del costo del funzionamento dei suoi organi. Se ne è reso conto anche chi l’ha promosso, perché Di Maio e il M5s nella sceneggiata del taglio delle poltrone davanti a Montecitorio hanno dovuto arrotondare di molto il risparmio e moltiplicarlo per dieci anni per dargli un minimo di sostanza. Senza dimenticare che l’Italia per uscire dalla grave crisi occupazionale ed economica seguita alla pandemia di Covid-19 ha bisogno di risorse ingenti, aumentando il deficit pubblico di cento miliardi di euro e con un sostegno europeo di centinaia di miliardi, cifre che mettono in ridicolo i risparmi del taglio.

Difficile sostenere seriamente l’argomento che con meno parlamentari ci Perché il M5s ha scelto dalle origini di fare coincidere i parlamentari con la casta e ha proseguito questa scelta populista e demagogica prima con la maggioranza creata con la Lega, che ha votato per tre volte il taglio del Parlamento, mentre Pd e Leu che fanno parte della maggioranza del secondo governo Conte hanno capovolto la loro precedente posizione, decidendo di votare a favore del testo M5S/Lega nell’ultimo voto parlamentare, con la motivazione che questo era indispensabile per formare la nuova maggioranza. Rendendosi conto dell’enormità del capovolgimento di fronte, che riguarda un aspetto centrale della nostra Costituzione come il Parlamento, sono stati chiesti due riequilibri: altre modifiche della Costituzione e una nuova legge elettorale. Dopo avere atteso per un anno senza alcuna novità, Pd e Leu hanno chiesto a gran voce la legge elettorale, pur sapendo che prima del 20-21 settembre è impossibile averne una nuova. Al massimo ci potrebbe essere un inizio dei lavori parlamentari. Inoltre la legge elettorale non basterebbe perché per il Senato in nove Regioni qualunque proporzionalità è impossibile. La questione più seria è come sempre il merito: per quello che dice e per quello che tace. Dice …

*-*

L’autore: Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato per il No al taglio dei parlamentari promosso dal Coordinamento per la Democrazia costituzionale, è autore del libro La democrazia non è scontata. No al taglio dei parlamentari, edito da Left 

L’articolo prosegue su Left del 21-28 agosto

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Cosa possiamo fare?

The Niederaussem power plant from RWE. Niederaussem, July 19, 2020 | usage worldwide Photo by: Christoph Hardt/Geisler-Fotopres/picture-alliance/dpa/AP Images

Mi scrive un lettore, Carlo Festa:

Ho dedicato buona parte di questa stagione estiva alla visione di innumerevoli documentari riguardanti i danni derivanti dal cambiamento climatico, oltreché le cause e le ragioni del suo avvento. Un povero stronzo come me, che scrive canzoni all’interno delle quali cerca d’incastrare un messaggio preciso per i posteri, non può che lasciarsi trascinare dalle sfumature disastrose che avvolgono il nostro intero pianeta; nella sempre vana ricerca di una curva verbale che prenda vita nel cuore di chi ascolta e si propaghi in maniera endemica nelle coscienze di ognuno.
Solo che accade che il disastro del quale vorrei parlare in  dodecasillabi mi ha totalmente ammutolito.
E il problema non è tanto il silenzio; quanto il senso d’impotenza che in questo periodo ho nutrito fatalmente.
Risparmio i soliti sermoni sulle conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai e delle elevatissime temperature registrate in Antartide, sullo sbiancamento della barriera corallina, del processo inesorabile di desertificazione di innumerevoli aree del pianeta un tempo fertili e rigogliose; e delle sempre verdi isole di plastica sugli oceani. E li risparmio non tanto perché non li leggereste – molti di voi avranno già scrollato questo post alle prime due righe -, quanto perché infondo lo ritengo, sostanzialmente e particolarmente, inutile.
L’ultimo documentario che ho visto (il terzo trattante lo stesso argomento) riguardava lo sbiancamento progressivo delle varie barriere coralline. I volti della gente impegnata nella salvaguardia del pianeta, non riescono più a simulare una smorfia serena dinanzi una telecamera; né riescono a mentire riguardo il possesso di una minima speranza verso il futuro. Il loro viso è sfigurato dal dolore.
E io non so che cavolo fare.
Sempre durante la visione di quest’ultimo documentario, sono stato come pugnalato dall’affermazione di uno degli ennesimi zucconi ostinati che pensano di poter salvare il mondo con una telecamera e qualche testimonianza scientifica, il quale disse “Sono anni che si discute di questa emergenza; ma ogni volta è come se le nostre parole fossero spazzate dal vento”. D’accordo, questa cosa è sulla bocca di tutti ormai. Ma non esibiva la tipica espressone rassegnata da boomer, sempre indirizzato al giovane spensierato/incosciente/deficiente. Aveva quella risatina nervosa tipica di chi, a telecamere spente, avrebbe spaccato l’intero mobilio entro il quale era stato invitato, forse stanco per l’ulteriore testimonianza concessa all’ennesimo, inutile, documentario.
E io non sapevo ancora che cavolo fare, seriamente.
Come alcuni di voi – confesso – anche io credo di poter diventare qualcuno che possa offrire un certo contributo alla collettività. Ma il senso d’impotenza dal quale vengo investito, ogniqualvolta realizzo nella mia mente questo disastro, è infinitamente più potente di qualsiasi altro senso di riscatto che serbo. L’abulia dei più è sproporzionalmente più violenta della solerzia dei pochi alimentati da questa comunanza di destino. E l’arroganza dei molti è infinitamente più schiacciante della conoscenza scientifica dei pochi.
Qualcuno mi chiede “come stai?”, ovviamente la mia risposta è sempre “bene”: la salute (ancora) non manca, il lavoro (anche se poco) nemmeno, gli affetti ci sono sempre. Ma quando la conversazione si fa insidiosa, cado preda di una sorta di mutismo religioso. Mi esibisco in smorfie fataliste; approssimo luoghi comuni che cauterizzino l’entità di una discussione, possibilmente interessante; evado dalle possibilità di enucleare in maniera approfondita una mia proposizione sulle cose. Perché penso quanto sia assolutamente inutile, a tratti fastidioso, parlare di massimi sistemi dinanzi un aperitivo. “E cosa dovremmo fare!?” ecco: non lo so; e non vorrei che qualcuno pensasse che stia cercando colpevoli tra i tavolini di un pub.
Mi sento soltanto smarrito, senza barca, senza remi, senza bussola e lontano dalla speranza di un pronto soccorso metafisico. Sorrido all’idea di pensarmi in un consultorio psicologico ed esordire con “Buonasera, soffro molto a causa dei cambiamenti climatici e della crisi storica che stiamo attraversando”, ma, comunque, vi sembra poco?
Non voglio dire che sto male, né voglio far credere di aver vinto un concorso pubblico come emissario comunale del malaugurio.
Soltanto che, ad oggi, non so che fare.
E ho scritto a vanvera proprio per testimoniarlo.
Cosa possiamo fare?
Come giustamente dice Carlo, cosa dobbiamo fare?
Buon giovedì.

Povera Roma. Sguardi, carezze e graffi

Dalla Borgata Finocchio all’Isola Farnese, da Castel di Guido ai filari della malvasia puntinata, dalle chiuse della Flaminia alle idrovore della Magliana, dal Mandrione al Casermone, dai boschi della Marcigliana alle spiagge di Castel Porziano, da Casal del Marmo a Casal de’ Pazzi, dai due leoni alle tre fontane, dai quattro venti, dall’acqua mariana all’acqua acetosa, dai depositi di travertino alle cave di pozzolana, dalla Valle dei Casali alla Valle dell’Inferno, da Settebagni a Settecamini a settemetri.

1. Nel 2020 Roma moderna compie 150 anni. In questo secolo e mezzo la città è cresciuta sessanta volte tanto. Ma piuttosto male, in verità. Diciamolo, non è venuta per niente bene. Il suo meraviglioso centro antico, le aree archeologiche, il reticolo medievale, le grandiosità rinascimentali, il sistema sistino, le morbidezze barocche, le chiese, le piazze, le fontane, le scalinate, Michelangelo, Bernini, Borromini, Valadier, tutto questo è ancora lì, più o meno conservato, a stento sopravvissuto a sventramenti e demolizioni. Ma quel che selvaggiamente le è cresciuto intorno, soprattutto dalla seconda metà del Novecento, è stato un susseguirsi di frettolosi riempitivi di risulta, senza garbo né slancio.

Pezzo dopo pezzo, si sono impadroniti di superfici e spazi spalmandosi informi e sgraziati come un fluido granuloso, opaco e appiccicoso. Che peraltro continua ancor oggi silenziosamente a spandersi.
Bisognava allora lasciare la città al suo destino straccione e decadente, con il papa re e le nobili famiglie del sacro soglio, con i rioni luridi e puzzolenti e la marmaglia querula e mendica? Se proprio si vuol giocare con la storia, verrebbe allora da chiedersi cosa sarebbe accaduto se la Repubblica Romana di Mazzini, Garibaldi e Ciceruacchio avesse potuto prolungare la sua rivoluzione, con Napoleone III in ritirata e il bieco Pio IX a Gaeta tra i fidi borboni.

Quel che in ogni caso si può sostenere è che se in questi centocinquant’anni le cose sono andate come sono andate, di sicuro Roma ne è stata più vittima che artefice.
Non appaia retorico il riferirsi alla storia, poiché per molti versi si è ancora alle prese con quella “questione romana” tanto controversa quanto rimossa, che sembra non aver mai soluzione né esito condiviso. Roma proclamata capitale più per impatto simbolico che per convinzione politica, più per rassegnata convenienza che per scelta strategica: più costretta che consapevole, mai del tutto riconosciuta, mai del tutto accettata.

Vogliamo per caso paragonare Roma alle altre capitali europee? La sensibilità e l’orgoglio con cui sono percepite e vissute, rispetto alla svogliata trascuratezza, se non ambigua ostilità, con cui si sopporta Roma? Oppure il rispetto e l’attenzione con cui gli stati centrali intervengono a Londra, a Madrid o dove si vuole, rispetto allo sguaiato consumo con cui s’imperversa su Roma? O ancora le ingenti risorse che altrove s’investono e qui a Roma al contrario si lesinano o addirittura si tagliano?

Capita spesso di ascoltare i racconti di chi torna da Parigi o da Berlino e ne magnifica le condizioni, i servizi, le atmosfere, o si compiace d’aver girato gradevolmente in metro o visto quella mostra, visitato quel museo. Capita poi che tali entusiasmi precipitino sulle differenze tra quelle capitali e la nostra: differenze evidenti, dolorose e a volte anche stridenti.
Per quanto un po’ irritanti i francesi e a volte noiosi i tedeschi, sono comunque più bravi di noi? Più puliti, più rispettosi, più coscienti, più colti? Seppur stuzzicante, non è questa la domanda giusta. La domanda da porre è la seguente: quante risorse riversa la Francia a Parigi e quanto v’investe direttamente, quanta autonomia amministrativa e funzionale la Germania ha trasferito a Berlino e quanto quest’ultima può decidere sui suoi assetti e sulle sue pertinenze?

2. Essere una grande capitale contemporanea non è una sterile autodefinizione da stampare sulla carta intestata, né, tantomeno, alludere a riferimenti identitari su inesistenti romanità e grotteschi e remoti fasti. È innanzitutto assicurare ai suoi abitanti benessere economico, giustizia sociale, qualità culturale. Ma più in generale, assumere un ruolo internazionale nelle grandi campagne per la pace, per l’ambiente, per la solidarietà; valorizzare il profilo civile e democratico, come esito di un nobile passato e impegno per un promettente futuro; esaltare la funzione politica di modello d’accoglienza, inclusione e fraternità tra i popoli.
Obiettivi e traguardi di notevole portata, che comportano cooperazione e partenariati internazionali, iniziative a largo raggio e un tempo non certo breve. Ma che certo non si potranno mai raggiungere senza un cambiamento strutturale, e cioè l’attuazione di una riforma che conferisca alla città un’ampia autonomia politica, istituzionale, amministrativa.

Attualmente Roma ha le stesse attribuzioni di qualsiasi altro Comune italiano, anche il più minuscolo, e più di altri subisce i vincoli amministrativi degli enti sovraordinati, lo Stato e la Regione. Riceve dal bilancio statale mediamente meno di altre città, non può contare su qualsivoglia integrazione finanziaria per le funzioni capitali che svolge, e gli stessi investimenti centrali sulla città, sui beni culturali, sulle infrastrutture, sulle opere strategiche, si riducono sensibilmente, esercizio dopo esercizio.

Non può dunque sorprendere che questo trattamento deficitario, unito all’esigenza di corrispondere a quanto la città necessitava e a quanto era d’obbligo spendere per le incombenze extra-comunali, abbia nel tempo generato una ragguardevole esposizione debitoria. Un accumulo di spesa, che si è inoltre gonfiato sia per i decenni di sprechi, disfunzioni e surplus tangentizi e clientelari, sia per realizzare tutte le urbanizzazioni a cui il Comune si costringeva per inseguire un’edilizia privata vorace e non di rado speculativa, che il Comune stesso autorizzava.
Una passività talmente cospicua, ulteriormente aggravata da reiterati mutui bancari compensativi, da diventare sostanzialmente inesigibile. Roma insomma intrappolata dai cravattari: e che di conseguenza vede ogni anno il suo bilancio decurtato in partenza dal pagamento di interessi bancari non certo indulgenti, cosa che comporta sensibili riduzioni su servizi e investimenti e più in generale una seria difficoltà nello sviluppare proprie politiche economico-finanziarie.

È una profonda lesione di quell’autonomia che la Costituzione assicura agli enti locali. Una città prigioniera del sistema bancario e di fatto sottoposta a un’amministrazione controllata da parte del governo centrale. E invece di liberarsi da queste catene e pretendere quel rispetto che la capitale richiederebbe, come pavidi questuanti, i sindaci implorano aiuti e prebende e nel contempo aumentano tasse e bollette. Alemanno prima, Marino dopo e oggi la stessa Raggi, tutt’e tre con il cappello in mano sull’uscio del Tesoro.

Ma Roma non è debitrice, bensì creditrice. E se non spezza quei vincoli finanziari che essa stessa si è ahinoi cucita addosso, se non rivendica quanto dovuto, se non si spoglia da quei panni bisognevoli e non riafferma la sua autorevolezza politica, il suo primato istituzionale, continuerà a scivolare lungo quel tragitto accidentato e miserabile che allegri creditori e politici spregiudicati le hanno cinicamente riservato. Esposta a corruzione e malaffare, preda di affaristi e faccendieri, se non proprio di stracciamutande e peracottari.
È questione centrale, quella dei poteri e delle risorse. Non si può più tralasciare, rinviare, accantonare. E condizione indispensabile per poterla affrontare e infine risolvere, è un Campidoglio forte e consapevole, con una statura istituzionale e uno spessore culturale indiscutibili, ovviamente investito dal consenso elettorale e soprattutto confortato dal sentimento popolare.

3. Ma purtroppo è tutto ciò che da tempo manca alla politica romana. Basta dare un’occhiata dalle finestre del Palazzo senatorio, per averne desolante conferma. Chi oggi governa la città è un insieme di improbabili amministratori, insicuri e presuntuosi, inadeguati e pasticcioni, ottusi e capricciosi. Arrivati su quel colle più per dispetto che per scelta: depositari di quella malintesa quanto vana speranza che potessero ridare slancio e smalto o quantomeno riordinare un po’ le cose, portar via le sparse macerie e ricominciare. Per l’evidente impresentabilità di tutti gli altri, hanno ricevuto più consenso di quanto realmente meritassero, hanno raccolto le fiduciose aspirazioni di una città esausta e maltrattata. Ma invano.

La città continua a essere sfinita e sfiduciata, anzi forse ancor di più. Schernita nelle cronache e dileggiata impietosamente: tra scale mobili che risucchiano e ascensori che s’inabissano, scrofe assassine che mordono e molesti gabbiani in picchiata, buche stradali che inghiottono, autobus che fiammeggiano, alberi che precipitano.

POVERA ROMA Sguardi carezze e graffi

Se non ci fosse, Roma sarebbe un deserto culturale, un cimitero politico. Tra le macerie ereditate e le rovine procurate, c’è invece una moltitudine di antieroi che si batte e si sbatte in ogni angolo della città.

Giorno dopo giorno percorre quel confine che separa chi ha e chi non ha, chi è e chi non è. Lotta per soddisfare bisogni e difendere diritti, seminare speranze e coltivare intelligenze, spesso isolati, contrastati, perseguitati.

Globuli rossi che scorrono nel sistema sanguigno cittadino, nutrendolo con enzimi e vitamine. Sono i ribelli consapevoli che animano la rete associativa, l’attivismo politico, la militanza sociale, la tensione civica: un’estesa movimentazione del conflitto che rivendica una città giusta e accogliente, vivace e vivibile.

Questo libro è stato scritto dalle donne e gli uomini che agiscono questo conflitto, e siamo convinti che solo con loro a Roma si potrà accendere una nuova stagione politica.

Paolo Berdini, Federica Giardini, Enzo Scandurra, Roberto Giordano, Keti Lelo, Salvatore Monni, Federico Tommasi, Giulia Rodano, Margherita Grazioli, Fabio Alberti, Ilaria Campana, Michele Citoni, Céline Menghi, Monica Di Sisto, Sandro Medici, Grande come una città, Patrizia Sentinelli, Viola Lo Moro, Valerio Giuseppe Carocci, Andrea Maccarrone, Gigliola Cultrera, Soumaila Diawara, Fabrizio Nizi, Alberto Campailla, Collettivo Angelo Mai, Chiara Franceschini, Andrea Costa, Maura Cossutta, Marilena Grassadonia, Giulia Pezzella, Anna Pizzo, Nando Simeone,
Alessandro Laruffa e Chiara Cavallaro