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Tengo famiglia

Franco Landella è sindaco di Foggia, mica di un paesino minuscolo e sconosciuto, e milita in Forza Italia. Anzi: militava in Forza Italia poiché ha approfittato del passaggio di Matteo Salvini per inscenare una breve conferenza stampa in cui doveva comunicare cose importanti.

Che ha detto? Ha detto che passa alla Lega. Ci sta, se ci pensate. Qualcuno può non essere d’accordo con la linea del suo partito e sentirsi rappresentato molto meglio da qualcuno altro. La politica è ricca di passaggi di casacca e molti rappresentanti politici si sono prodigati nel raccontare cosa non andasse più bene e quali fossero i motivi delle loro nuove convergenze. Ci si aspettava che Franco Landella ci dicesse una cosa qualsiasi, magari che Forza Italia è troppo morbida nelle sue posizioni contro l’Europa oppure che è davvero convinto, come Salvini che l’immigrazione sia il problema principale di questo mondo oppure che sul Mes proprio non riesce a essere d’accordo con le posizioni di Berlusconi. Una cosa qualsiasi.

E invece il sindaco ha emesso un comunicato stampa piuttosto sibillino: “Dopo 26 anni di militanza in Forza Italia sono costretto a lasciare questo partito dopo l’ennesima umiliazione; non posso continuare a subire le angherie di una classe dirigente di Forza Italia che antepone aspetti particolari ai valori della coerenza e della militanza e del consenso. Forza Italia ha favorito l’ingresso dei campioni del trasformismo rispetto alla militanza e al consenso di cui uno con una situazione giudiziaria particolare”.

Cosa avrà voluto dire? Semplice: la decisione è stata presa dopo la mancata candidatura alle elezioni regionali della cognata, la forzista Michaela Di Donna che ha trovato la porta chiusa in tutte le liste del centrodestra compresa Forza Italia. In sostanza il sindaco se ne va perché non hanno candidato la cognata. E in tutto questo c’è anche un partito che se lo prende, un politico così. E viene da pensare che forse al Landella dalle parti della Lega gli abbiano promesso di curare con attenzione il valore della famiglia. Tutto alla luce del sole.

Buon martedì.

Essere Flavio Briatore

©Manuele Mangiarotti / Lapresse 13-07-2007 Porto Cervo, Italia Spettacolo Evento estivo dell' anno apertura estiva del billionaire Nella foto: Elisabetta Gregoracci e Flavio Briatore

Io vorrei essere per qualche ora, qualche ora soltanto, nella testa di Flavio Briatore, del manager dei manager che quest’estate ci siamo dovuti sciroppare un po’ dappertutto perché la stampa qui da noi funziona così: chiami un volto noto, qualcuno che funziona, gli chiedi di spararla grossa o forse non glielo chiedi nemmeno perché gli autori del programma sanno già per certo che la sparerà grossa, e lo intervisti su tutto, lo intervisti sul virus, lo intervisti sull’economia, lo intervisti sulla politica, lo intervisti sulla società e tutto il resto.

La testa di Flavio Briatore deve essere uno spazioso loft non ancora arredato in cui si misura il resto del mondo secondo canoni tutti suoi: un piatto è buono solo se lo mangiano i calciatori, una discoteca è bella se viene frequentata da personaggi pubblici, un lido è interessante solo se è estremamente costoso e una donna è interessante solo se può essere sua. Misurare il mondo attraverso i soldi e osservare la realtà come se fosse solo un’escrescenza del proprio ego deve avere qualcosa di mistico, deve essere la stessa sensazione di un nirvana solo che questo tende verso il basso.

Così Flavio Briatore quest’estate è diventato esperto di Covid e ci ha insegnato come gestire un’emergenza. Ne è uscito alla grande. Prima se l’è presa con il sindaco di Arzachena accusato di essersi occupato della chiusura dei locali che favorivano assembramenti e contagio (“Abbiamo trovato un altro grillino contro il turismo!”, ha detto) e poi si è lanciato in una considerazione elegantissima: “A me spiace per i nostri clienti, la costa Smeralda si stava riprendendo, abbiamo portato giù i calciatori, non capisco è una vendetta? Questa è gente che non ha mai fatto un cazzo nella vita, Arzachena nessuno sa dove cazzo sia, la conoscono lui e due pecore!”. Ha portato giù i calciatori. Capito, che figo, Briatore.

Il sindaco Roberto Ragnedda, al contrario di quelli che strisciano servili ai piedi dei tanti briatori che abbiamo in giro, gli ha risposto per le rime: “questa ordinanza serve a tutelare soprattutto gli anziani come lui”. Chissà come si è sentito male Briatore, lui che la gioventù se l’è comprata via internet ma non capisce perché non gliel’abbiano ancora consegnata.

E per chiudere in bellezza la sua estate si finisce con sei suoi dipendenti positivi al Covid e qualche centinaio messi in isolamento. Chissà come sono contenti quelli di avere preso il virus in versione deluxe. E cosa ha fatto Briatore? Se n’è tornato mesto mesto nella sua Montecarlo, perché il grande vate dell’economia italiana ovviamente paga le tasse in giro per l’Europa. Qui da noi “porta giù i calciatori” e noi dovremmo volergli bene per questo.

Bene, bravo, bis.

Buon lunedì.

Ecco come l’Assemblea costituente stabilì quale doveva essere il numero dei parlamentari

25 GIUGNO 1946 - ANNI 40, L' AULA CON LE PERSONE RIUNITE PER LA PRIMA SEDUTA DELLA NUOVA COSTITUENTE, POLITICA ITALIANA, POLITICI, ITALIA, ASSEMBLEA, REPUBBLICA ITALIANA DEMOCRATICA, B/N, 03-00007690

In vista della campagna referendaria per il No al testo di legge costituzionale – pubblicato a scopo notiziale sulla Gazzetta Ufficiale del 12 ottobre 2019, n. 240 – che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, riducendo il numero dei deputati da 630 a 400 e da 315 a 200 il numero dei senatori elettivi, potrebbe rivelarsi molto utile la lettura dei passaggi più significativi del lungo dibattito, che portò all’approvazione degli articoli 56 e 57 da parte dell’Assemblea Costituente – l’articolo 59 fissa, invece, a cinque il massimo numero possibile dei senatori a vita nominati.

Come si vedrà, il dibattito sul numero dei parlamentari iniziò nella Seconda sottocommissione della Commissione per il progetto di Costituzione, presieduta da Umberto Terracini e incaricata di elaborare la parte del progetto relativa all’ordinamento della Repubblica, confluita poi nella Parte II della Costituzione, continuò nella Commissione per il progetto di Costituzione, presieduta da Meuccio Ruini, e si concluse, infine, nell’Assemblea Costituente, che, presieduta da Umberto Terracini, l’approvò nella seduta pomeridiana del 22 dicembre 1947. Firmata e promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, la Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio 1948.

Come emergerà dalla lettura dei passi tratti dai verbali originari del dibattito, l’Assemblea Costituente decise che il numero dei parlamentari variasse con il variare del numero degli abitanti, eleggendo un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazioni superiori a 40.000) e un senatore ogni 200.000 (o frazioni superiori a 100.000). Fu la legge costituzionale del 9 febbraio 1963, n. 2, a trasformare quel numero variabile nel numero fisso di 630 deputati e 315 senatori.
Buona lettura!

1. Seconda sottocommissione della Commissione per il progetto di Costituzione

4 settembre 1946

– Conti Giovanni, relatore, repubblicano, illustrando la sua relazione, dice: La Camera dei Deputati avrebbe il carattere di un organo rappresentativo della Nazione nella sua unità, cioè come collettività dei cittadini. Essa sarebbe eletta, a suffragio universale, diretto e segreto, da collegi elettorali nei quali si distribuiscono territorialmente cittadini aventi diritto al voto. Sarebbe composta di 400 membri e nominata per quattro anni.

Il sistema di elezione dei Deputati e la formazione delle liste elettorali e dei collegi elettorali sarebbero regolati dalla legge elettorale, essendo opportuno che i particolari di questa materia non siano pregiudicati da disposizioni aventi la rigidità delle norme costituzionali.
Pertanto, propone che la Camera sia “composta di 400 membri e nominata per quattro anni” e che sia “eletto un deputato ogni 150.000 abitanti”.

13 settembre 1946

– Nobile Umberto, indipendente eletto con i comunisti, si dichiara favorevole ad una norma per la quale il numero dei Deputati dovrebbe essere ridotto a circa 300.

– Cappi Giuseppe, democristiano, propone un emendamento così concepito: «Sarà eletto un Deputato ogni 100.000 abitanti». La sua proposta di accrescere il numero dei Deputati trova giustificazione in due considerazioni: anzitutto dare una congrua rappresentanza regionale; in secondo luogo utilizzare con maggiore ampiezza le capacità.

– Conti, Relatore, invita i presenti a considerare che il numero dei componenti della Camera dei Deputati deve essere commisurato alla struttura che dovrà assumere il corpo legislativo ed alle funzioni che l’Assemblea dovrà svolgere. Si richiama a quanto giustamente ha osservato l’onorevole Lussu, che, cioè, la nuova Camera dei Deputati, se veramente si vuole dare al Paese la possibilità di un sano sviluppo legislativo, dovrà essere un consesso destinato alla trattazione dei più alti ed ardui problemi. Si augura che i compilatori delle norme statutarie delle singole regioni, allarghino quanto più è possibile la competenza dei futuri organi regionali, affidando ad essi la trattazione di tutti i problemi che hanno un carattere locale e regionale; così potrà esser evitata alla Camera dei Deputati la trattazione di materie che renderebbero la sua vita assai difficile, spingendola a quelle degenerazioni parlamentaristiche delle quali la nostra Nazione ha tanto risentito in passato. Pensa che, se si riuscirà a creare un’Assemblea di alta preparazione e competenza, sarà reso veramente un grande servigio al Paese. Ora le assemblee che rispondono meglio a quelle elevate funzioni a cui sono chiamate sono appunto quelle composte di un numero ridotto di elementi. A chi considera il problema nella sua essenza crede non possa sfuggire l’enorme vantaggio di una riduzione del numero dei membri dell’Assemblea. Trecento Deputati è un numero più che sufficiente.
Questa riduzione è poi opportuna anche per un’altra considerazione. È stata prevista, infatti, l’unione delle due Camere in Assemblea nazionale. Si avrà così un consesso molto numeroso, e questo, secondo le intenzioni dei più, dovrebbe spesso riunirsi per decidere in merito ad avvenimenti di grande importanza. Ciò impone una limitazione del numero dei Deputati. Del resto in sede di coordinamento e in sede di discussione in Assemblea plenaria, tale numero, se apparisse esiguo, potrebbe essere accresciuto.

18 settembre 1946

– Fuschini Giuseppe, democristiano, propone che sia eletto “un deputato per non più di 80.000 abitanti, come è stato finora tradizionale nel nostro Paese”.

– Conti, Relatore, dichiara che gli oppositori alla restrizione del numero dei Deputati partono da un criterio non democratico, perché capovolgono la concezione del nuovo Stato che sarà organizzato con il criterio non tanto della rappresentanza al centro, quanto della rappresentanza alla periferia. Con la nuova organizzazione statale, la risoluzione di molti problemi sarà affidata alle regioni. Se non si tiene presente questo punto di vista, si torna al concetto dello Stato accentrato, affidando nuovamente tutte le mansioni dello Stato al Governo, alla Camera e al Senato.
Non è favorevole alla proposta dell’onorevole Cappi e tanto meno al concetto espresso dall’onorevole La Rocca che non si debba abbandonare l’abitudine del popolo italiano ad avere 500 e più Deputati. Il popolo italiano disgraziatamente ha una sola abitudine circa il Parlamento: parlarne male; e con la nuova Costituzione occorrerà elevare il prestigio del Parlamento, al che si giunge per una via soltanto: diminuire il numero dei componenti alla futura Camera.

– Perassi Tomaso, repubblicano, è pienamente d’accordo con l’onorevole Conti. Ha l’impressione che nelle riunioni precedenti sia largamente prevalso il concetto di ridurre il numero dei Deputati, rispetto a quello passato, per diverse considerazioni, e innanzi tutto perché si passerà da uno Stato accentrato ad uno decentrato, con tutte le conseguenze che ne derivano, fra le quali di assai notevole importanza quella per cui gli affari locali non saranno più di competenza del centro. Con ciò il campo di attività di ogni Deputato non sarà più così esteso come nel passato; onde l’opportunità di ridurre il numero dei membri della prima Camera.
Anche altre considerazioni consigliano di giungere alla riduzione, fra cui quella di carattere economico accennata dall’onorevole Nobile, che pure la sua importanza. All’opinione pubblica farebbe assai buona impressione una riduzione degli organi dello Stato, anche in riferimento alla situazione finanziaria del Paese.

– Einaudi Luigi, liberale, è d’accordo con l’onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all’opera legislativa che le è demandata.
Quanto al costo per il funzionamento del nuovo sistema rappresentativo, fa osservare che, anche se esso dovesse aggirarsi intorno ai due miliardi, non sarebbe così eccessivo come sulle prime può sembrare. Basti considerare a tale proposito che la spesa relativa dev’essere messa in rapporto al bilancio dell’esercizio in corso che, purtroppo, si aggira, secondo le previsioni, sui 500 miliardi e con ogni probabilità supererà i 600. Né è dato sperare che tale cifra possa essere suscettibile di notevoli riduzioni degli esercizi successivi.

– Terracini Umberto, presidente, sostiene: “D’altra parte il numero dei componenti un’assemblea deve essere in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale. Non è, come ha accennato l’onorevole La Rocca, che si vorrebbe conservare l’attuale numero dei deputati per rispetto ad una tradizione, ma perché la diminuzione del numero dei componenti la prima Camera repubblicana sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Quindi, se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare.
Quanto all’osservazione fatta dall’onorevole Nobile circa l’alto costo di un’assemblea parlamentare numerosa, rileva che, se una Nazione spende un miliardo in più per avere buone leggi, non si può dire che la spesa sia eccessiva, specie se le leggi saranno veramente buone ed anche se si consideri l’ammontare complessivo del bilancio in corso.
Personalmente, quindi, ritiene che il problema in questione non si sarebbe nemmeno dovuto porre: non tanto quello concernente la determinazione del numero dei componenti l’assemblea nella Costituzione, quanto quello della diminuzione di tale numero. Si sarebbe dovuto accettare ciò che poteva essere suggerito dall’attuale vita politica del Paese, vale a dire che esso assai opportunamente ha sentito la necessità di adeguare nelle ultime elezioni il numero dei suoi rappresentanti alla aumentata massa della popolazione.
Per queste considerazioni un’eventuale diminuzione del numero dei componenti la prima Camera costituirebbe a suo avviso un grave errore politico.”

Quindi, “Mette in votazione la proposta che il numero dei componenti la prima Camera debba essere indicato in rapporto all’entità della popolazione.

(È approvata).”

– Bulloni Pietro, democristiano, propone “un deputato ogni 100.000 abitanti”.

– Targetti Ferdinando, socialista, “propone di abbassare la cifra da 100.000 a 80.000.”

La proposta di eleggere un deputato ogni 100.000 abitanti viene approvata con 18 voti contro 8, favorevoli all’altra proposta e un astenuto.

27 settembre 1946

– Il Presidente Terracini dà notizia di un progetto presentato dall’onorevole Mortati, che prevede:
Art. 3. — Il Senato è composto da membri eletti dalle regioni, in numero di 300, per la durata di 5 anni.

– Il Presidente Terracini comunica che l’onorevole Fuschini ha proposto:
«Art. 2. — Il Senato è composto di 300 membri, nominati dai Collegi elettorali conformemente alla legge elettorale, aventi l’età di 40 anni compiuti.

– Grieco Ruggero, comunista, esprime infine il parere che le elezioni dovrebbero aver luogo sulla base regionale e con lo stesso sistema che per la prima Camera. Dato poi che per la prima Camera si è stabilita la proporzione di un deputato per ogni 100 mila abitanti, per la seconda consiglierebbe la nomina di uno ogni 150 mila abitanti.

15 ottobre 1946

– Cappi Giuseppe, democristiano, osserva che la formula del n. 4 del progetto Perassi è assai chiara. Se le regioni saranno 18, si avranno 90 rappresentanti assegnati alle regioni, ossia 5 rappresentanti per ciascuna regione, qualunque sia il numero dei suoi abitanti. Gli altri rappresentanti, invece, saranno distribuiti in proporzione alla popolazione. Propone frattanto che sia eletto un senatore per ogni 200.000 abitanti. Si avrebbe così un totale di 310 membri.

2. Commissione per il progetto di Costituzione

27 gennaio 1947

– Il Presidente Ruini avverte che è da prendere in esame l’articolo relativo alla elezione della Camera dei Deputati. Nel testo del Comitato di redazione esso è così formulato:
«La Camera dei Deputati è eletta a suffragio diretto ed universale in ragione di un Deputato per centomila o frazione superiore a cinquantamila abitanti».
L’onorevole Fuschini ha proposto invece una modificazione tendente all’ampliamento del numero dei deputati, portando la cifra degli abitanti da centomila a ottantamila.

– Fuschini rileva che la diminuzione del numero dei membri della Camera dei Deputati si risolve, in ultima istanza, in una diminuzione della sua autorità. È, peraltro, da considerare che in Italia il numero dei Deputati è stato calcolato sulla cifra che, come fu rilevato in seno alla Commissione per la legge elettorale della Costituente, non era mai salita al disopra di 60.000 abitanti. Tale cifra fu elevata a 75.000, in considerazione del fatto che avrebbero partecipato alla vita politica anche le donne.
Ora, in base alla cifra di centomila abitanti, come si propone nel progetto, si avrebbe una Camera di 420 a 430 Deputati. La diminuzione sarebbe, a suo parere, eccessiva. La Costituente ha avuto 556 deputati: ma anche le Camere normali non sono state mai inferiori ai 500 Deputati e si arrivò a 535, numero massimo cui si è pervenuti in periodo normale.
Propone, quindi, di portare ad 80.000 il numero degli abitanti per ogni Deputato, così da avere all’incirca una rappresentanza popolare di 500 Deputati.

– Conti dichiara di essere nettamente contrario all’aumento del numero dei Deputati e propone anzi che l’aliquota di 100.000 abitanti sia elevata a 150.000.

– Terracini accetta la proposta dell’onorevole Fuschini per tutte le argomentazioni che egli ha svolto, e desidera dire che le argomentazioni contrarie esposte dall’onorevole Conti in realtà sembra che riflettano certi sentimenti di ostilità, non preconcetta, ma abilmente suscitata fra le masse popolari contro gli organi rappresentativi nel corso delle esperienze che non risalgono soltanto al fascismo, ma assai prima, quando lo scopo fondamentale delle forze antiprogressive era la esautorazione degli organi rappresentativi.
Quanto alle spese, ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza. Del resto l’onorevole Conti, anche per la sua carica, sa bene che il bilancio dell’Assemblea Costituente si è mantenuto in cifre che stanno a provare quel principio di riservatezza che egli invoca nella soddisfazione delle esigenze dei rappresentanti popolari.
L’argomento poi della troppo numerosa schiera, che, appunto a motivo del numero eccessivo, non sarebbe in condizioni di assolvere il suo dovere, gli sembra poco solido.
In fondo le elezioni rappresentano soltanto un primo momento, quello della scelta dei responsabili della vita politica del Paese; ma è noto che nell’interno delle Assemblee elette avviene una seconda scelta, naturalmente causata dalle particolari attitudini dei componenti, via via che essi hanno occasione di mettersi in rilievo.

– Cevolotto Mario, demolavorista, si preoccupa di un altro aspetto della questione. Qualora si adotti, come pare certo, il sistema proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati, occorre considerare che la proporzionale non funziona bene se non con un certo numero rilevante di Deputati per ogni collegio; e allora, se si diminuisce il numero dei Deputati, bisogna aumentare l’estensione territoriale dei singoli collegi nei quali si svolgono le elezioni, altrimenti la proporzionale non funziona o funziona male. Questo aumento dell’estensione dei collegi, viceversa, non è opportuno, anzi l’esperienza insegna che sarebbe utile una riduzione. La diminuzione del numero di Deputati renderebbe più difficile fare poi una buona legge proporzionale.

– Il Presidente Ruini pone ai voti la proposta Fuschini di sostituire alla cifra di 100.000 l’altra di 80.000.

(La Commissione approva).

– Il Presidente Ruini avverte che la Commissione è chiamata ad esaminare il terzo comma dell’articolo relativo alla elezione della Camera dei Senatori.

29 gennaio 1947

– Grassi Giuseppe, liberale, pensa che si possa accettare il principio che ciascuna Regione elegga un numero fisso di cinque Senatori e inoltre un Senatore per 200 mila abitanti o per frazione superiore ai centomila abitanti.

31 gennaio 1947

– Il Presidente Ruini pone in votazione il principio che una parte dei senatori debba essere eletta dai Consigli regionali.

(È approvato).

Testo definitivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione:

Art. 53
La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale e diretto, in ragione di un Deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila.

Art. 55.
La Camera dei Senatori è eletta a base regionale.
A ciascuna Regione è attribuito, oltre ad un numero fisso di cinque Senatori, un Senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila. La Valle d’Aosta ha un solo Senatore. Nessuna Regione può avere un numero di Senatori maggiore di quello dei Deputati che manda all’altra Camera.
I Senatori sono eletti per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.

3. Assemblea Costituente

10 settembre 1947

– Preziosi Costantino, demolavorista. Onorevoli colleghi, io dirò poche parole soltanto su un argomento, che credo possa interessare molto l’Assemblea e soprattutto alcuni membri di essa. Parlerò brevemente del progettato metodo di formazione del futuro senato.
Comincio con l’affermare una mia opinione: il terzo dei componenti del futuro Senato non dovrebbe essere eletto, come è previsto nel progetto di Costituzione, dai membri dei Consigli regionali. A me pare gravissimo errore dare ai membri dei Consigli regionali la facoltà di eleggere un terzo dei senatori. È un errore perché l’elezione di questo terzo dei membri della seconda Camera, che nel loro complesso pare dovrebbero assommare a 311 o 315, affidata ai Consigli regionali, darebbe adito alla possibilità che una maggioranza, formatasi occasionalmente in seno ad essi, possa eleggere coloro i quali meglio potrebbero essere scelti direttamente dalla massa elettorale.

11 settembre 1947

– Jacometti Alberto, socialista. Se andiamo a vedere quale è il metodo di formazione della seconda Camera, noi — dopo aver detto e ripetuto che il principio democratico deve essere integrato e non alterato — ci troviamo di fronte a qualcosa di incongruente, direi di assurdo: il principio democratico non è mantenuto.
Intanto, la seconda Camera è eletta a base regionale. Si ha un frazionamento dello Stato. Quelle forze centrifughe, che tendono a spezzettare lo Stato repubblicano italiano, si manifestano anche qui. Ma c’è di peggio. È detto nel Progetto che ogni Regione deve avere un numero fisso di cinque senatori più un senatore per 200 mila abitanti. Qui andiamo veramente contro il principio democratico, perché c’è una disuguaglianza fondamentale tra Regione e Regione. Una Regione con un milione di abitanti verrebbe ad avere 10 senatori; una Regione con 5 milioni, invece di avere 50 senatori, verrebbe ad averne soltanto 30. Vi è una differenza che va oltre i due terzi, quasi uguale alla metà.
I senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale. Anche qui la libera espressione della volontà popolare viene alterata.
Ma vi è di più. Per essere elettori del Senato bisogna aver compiuto i 25 anni di età. Questa è una delle incongruenze, delle cose illogiche ed assurde, escogitate soltanto per capriccio e per poter affermare che fra le due Camere una differenza esiste. Non si capisce perché mentre la Camera dei deputati è eletta da elettori di 21 anni, gli elettori fra 21 e 25 siano scartati per il Senato. Essi sono capaci per una elezione, ma non per l’altra. La cosa ha i suoi riflessi e le sue conseguenze logiche. Si tende, attraverso questo metodo, ad avere un corpo elettorale scelto, di élite. Non è più il grande corpo elettorale comune, è un corpo selezionato. Ma, se si seleziona il corpo elettorale, la conseguenza che ne deriva è questa: che gli eletti della seconda Camera vengono ad essere messi al disopra di quelli della prima, considerati, ragionevolmente, un’élite. E questo significa svalutare la prima Camera nei confronti della seconda.

12 settembre 1947

Rubilli Alfonso, liberale. Ora, a me pare che questo concetto non sia stato seguito dalla Commissione; e perciò dicevo che la Commissione ha potuto forse lasciarsi alquanto impressionare da quegli apprezzamenti cui poc’anzi accennavo, sempre se si vuol tener presente il Senato di un tempo ormai sorpassato. Intanto, se, come abbiamo detto, la Camera Alta deve essere in tutto pari per dignità e prestigio a quella dei deputati, mi pare non vi sia dubbio che uguale ne debba essere anche il numero dei componenti. (Commenti). Perché infatti questo numero dovrebbe essere minore?
Una voce a sinistra. Perché l’Aula è più piccola! (Si ride).
Rubilli. Bella ragione! Se l’Aula è piccola, andranno magari all’aperto o si troveranno un’altra Aula, o un posto che sia pure capace e decoroso. (Interruzione dell’onorevole Micheli). Ebbene, anche noi nei primi tempi avevamo un’Aula piccola, e tu te ne devi ricordare, caro Micheli.
Avevamo un’Aula assai più piccola di questa e molti di noi stavano in piedi. Vogliamo scherzare un poco, e sia, ma non si opporrà sul serio la difficoltà dell’Aula.
Mentre adunque parto dall’idea di un egual numero di componenti, vedo che mentre per la Camera è stabilito un deputato per ogni 80.000 mila abitanti, per il Senato la proporzione è di uno ogni 200.000 abitanti. (Commenti). Io dico che si potrebbe ridurre pure il numero dei deputati; non vi sarebbe niente di male: i partiti potrebbero essere anche contenti se invece di dieci, ad esempio, mandassero cinque rappresentanti; potrebbero scegliere i migliori: la designazione sarà più oculata. Non so perché vi debbano essere 555 o 556 deputati; diminuitene pure il numero, se volete; l’Assemblea funzionerà lo stesso. Vedete: non funziona bene anche nella seduta odierna, quando non siamo molti poi qui riuniti? Numero ridotto ed Assemblea ugualmente perfetta: il popolo allo stesso modo ben rappresentato anche con una riduzione alla metà in questa Aula, tanto più che è il popolo medesimo che per la maggior parte dovrà eleggere i suoi senatori. Ma se volete mantenere questo numero elevato per i deputati, dovete concederlo anche al Senato. Stabilendo un deputato ogni 80.000 abitanti e un senatore ogni 200.000, avreste un Senato che per il numero dei componenti sarebbe al di sotto della metà della Camera dei deputati. Ritorneremmo così agli antichi inconvenienti, perché senza dubbio l’inferiorità di numero importerebbe una minore considerazione della seconda Camera, la quale influirebbe assai meno della Camera dei deputati, il che non è giusto, nelle vicende della vita e dell’attività parlamentare. Anche di fronte all’azione ed alle decisioni del Governo, quale importanza avrebbe una piccola Assemblea di fronte ad una grande e numerosa Assemblea? Non avrebbe mai la possibilità di determinare un voto di sfiducia efficace o una crisi qualsiasi. È più che sufficiente allora al Governo per mantenersi una buona maggioranza nella Camera dei deputati.

16 settembre 1947

– Nitti Francesco Saverio, liberale, dice: Noi potevamo fare al più un deputato per ogni duecentomila abitanti, o se vi piace, almeno per ogni centocinquantamila. Noi vogliamo fare invece un deputato per ogni ottantamila abitanti. Vi pare che non sia un eccessivo numero?
Si vogliono dare nientemeno che ad ogni Regione cinque senatori, numero fisso — e poi un senatore per ogni duecentomila abitanti. E noi facciamo di queste acrobazie, e noi pretendiamo di fare delle Assemblee serie che si reggano su questa base! E accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e di prestigio!
Sapete l’America quanti senatori ha per ogni Stato? Due. E quanti sono i Senatori? Sono 96. I Deputati invece sono 435, cioè assai meno di noi, della nostra Costituente. Dunque noi abbiamo meno di un terzo degli abitanti degli Stati Uniti e siamo qui dentro molto più numerosi dei rappresentanti degli Stati Uniti che sono soltanto 435.

19 settembre 1947

– Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione. Numero dei senatori. Ricordiamoci: non troppi. Il progetto ne assegna uno per 200.000 o frazione superiore a 100.000. Sarebbero 250 senatori; e con l’aggiunta di 5 per ogni Regione si arriverebbe verso i 300. È opinione abbastanza diffusa, io riferisco, che 500 deputati e 300 senatori (meno che nell’ex Regno) sono una cifra attendibile.
L’onorevole Nitti ha sollevata una questione sul numero dei membri del Parlamento, secondo il progetto. Troppi, ha detto; in nessun altro paese sono tanti quanti voi proponete! Non è così; ho a disposizione dell’onorevole Nitti un quadro, dal quale risulta che se i parlamentari, i politicians, sono in minor numero negli Stati Uniti (e qualcuno se ne lagna, per il carattere «professionale ed oligarchico» che ne deriva), sono di più in Francia, in Inghilterra ed altrove. L’onorevole Nitti troverà resistenza nei piccoli partiti, come il suo, se vorrà ridurre il numero. Siamo ad ogni modo d’accordo: non troppi; nel suo vivido discorso l’amico Conti ne ha detto le ragioni.
Quanti? La seconda Sottocommissione proponeva un deputato ogni 100 mila abitanti o frazione superiore a 50 mila; sarebbero da 450 a 500 deputati. In Commissione plenaria la cifra fu diminuita ad 80 mila e 40 mila abitanti; diverrebbero da 550 a 600 deputati. Un emendamento vuole risalir su, a 120 mila e 60 mila; si scenderebbe, in correlazione, a 350-400 deputati. Si noti che questi risultati valgono per la prima Assemblea; aumenteranno in seguito, i deputati, secondo i futuri censimenti, nella prolifica Italia. – A voi la scelta; forse la cifra intermedia è la buona.

23 settembre 1947

– Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, dice: In origine, la seconda Sottocommissione aveva votato il rapporto tra un deputato e 100.000 o frazione superiore a 50.000 abitanti. In Commissione plenaria si abbassò la cifra ad 80.000 e 40.000. Abbiamo ora la proposta dell’onorevole Nitti di ripristinare il numero di 100.000 e 50.000 e la proposta dell’onorevole Conti di salire a 150.000 e 75.000. Il Comitato ha ritenuto, a maggioranza, questa mattina, che sarebbe opportuno tornare alla cifra iniziale di 100 e 50 mila.

– Morelli Renato, liberale, voterà contro gli emendamenti Nitti e Conti perché, a prescindere dall’esempio di altre democrazie europee, è certo che l’aumento del numero favorisce i partiti di massa e danneggia i partiti meno numerosi; favorisce i grossi agglomerati urbani e danneggia le popolazioni rurali.

– Cevolotto Mario voterà per il numero di 100 mila, facendo presente all’Assemblea (questo non per l’interesse dei piccoli partiti, ma del sistema elettorale) che se noi facciamo le elezioni con il sistema proporzionale e riduciamo, come è nel proposito di molti, l’estensione di collegi, diminuendo il numero dei deputati, la proporzionale non funziona più. Faccio presente questo inconveniente. Noi ci troveremo con collegi che avranno cinque o sei deputati soltanto, ed in questo caso la proporzionale non raggiungerà lo scopo di dare una rappresentanza a tutte le correnti politiche.

– Togliatti Palmiro, comunista, dichiara che il suo gruppo voterà per la cifra più bassa per due motivi. In primo luogo perché una cifra troppo alta distacca troppo l’eletto dall’elettore; in secondo luogo perché l’eletto, distaccandosi dall’elettore, acquista la figura soltanto di rappresentante di un partito e non più di rappresentante di una massa vivente, che egli in qualche modo deve conoscere e con la quale deve avere rapporti personali e diretti.

– Presidente Terracini. Passiamo ora alla seconda parte dell’articolo 53:
«in ragione di un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila».
La pongo in votazione.

(È approvata).

L’articolo 53 risulta, così, approvato nel suo complesso.
Comunico che l’onorevole Giolitti, sciogliendo la sua riserva, ha fatto pervenire il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale».
Lo pongo ai voti.
(È approvato).

7 ottobre 1947

– Presidente Terracini. Dobbiamo porre adesso alla prova della votazione gli altri due ordini del giorno. L’onorevole Lami Starnuti aveva accennato, comunque, nel corso di quella lunga discussione, che egli accettava senz’altro che si desse la precedenza all’ordine del giorno Nitti. Credo perciò, che il primo ordine del giorno da mettere in votazione sia quello a firma dell’onorevole Nitti. Quest’ordine del giorno è del seguente tenore:
«L’Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale.»
«Nitti, Rubilli, Persico, Laconi, Gullo Fausto, Quintieri Quinto, Nasi, Bozzi, Grieco, Togliatti, Cifaldi, Reale Vito, Vigna, Molè, Perrone Capano, Basile, Russo Perez, Dugoni, Colitto».

– Nitti, liberale. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Nitti. Io non ho compreso bene. Noi, dunque, abbiamo votato che il Senato sarà eletto a collegio uninominale. Questo è un punto fermo. Ora ci troviamo di fronte ad una proposta, la quale vuole riportare in discussione la questione, ma in realtà non la sposta; perché, quando si dice che la base sarà la Regione, si deve intendere la Regione come divisione interna; cioè i senatori saranno eletti in ogni Regione. Ci dev’essere una base: o provinciale o regionale. Finora nelle elezioni avevano avuto la base provinciale, e nella legge del 1919 prevaleva in fondo il concetto di provincia. Ora avete voluto la Regione, cosa a cui non credo, ma a cui voi credete. Ma questo non sposta nulla, non entra nella questione. Il Senato dev’essere eletto sulla base del collegio uninominale. Vuol dire che i collegi uninominali saranno formati nell’ambito di ciascuna Regione, e voi formerete nella provincia x un collegio uninominale a seconda del numero della popolazione. Ma questo non modifica niente, perché l’ammettere che la divisione si faccia all’interno non sposta il principio che abbiamo adottato del collegio uninominale. La Regione è una circoscrizione entro cui si faranno le elezioni dei senatori. E quindi si ammette che non si possono unire arbitrariamente due Regioni per eleggere i senatori quando si è votato il criterio dell’uninominalità. Ora, noi ci dobbiamo limitare a quanto abbiamo votato già. La discussione presente non è quindi necessaria, e direi che è inutile. La Regione rimane, dal momento che l’avete votata. Vuol dire che in una Regione si faranno cinque senatori, in un’altra sei oppure sette a seconda della popolazione della Regione. Ciò che non muta è che il collegio uninominale è la base della elezione. Il resto è secondario, e non dobbiamo occuparcene.

Presidente Terracini. Mi pare che la tesi dell’onorevole Perassi avrebbe validità soltanto se noi accettassimo un criterio che personalmente mi lascia molto dubbioso, quello che i senatori possano essere eletti, da Regione a Regione, da un numero diverso di cittadini e cioè che il quoziente che stabilisce il rapporto fra il numero dei senatori e il numero dei cittadini possa variare da Regione a Regione.
Vedo che l’onorevole Perassi si mostra alquanto stupito, e tuttavia questa sarebbe la conseguenza. Di fatto, è vera l’affermazione dell’onorevole Nitti — io, almeno, la ritengo vera — che nella determinazione dei singoli collegi uninominali si eviterà naturalmente di superare i confini di ogni singola Regione, in maniera che ciascun collegio sarà contenuto nel termine territoriale di una sola Regione. A questa stregua l’affermazione del carattere regionale della Camera dei Senatori è implicita. Tutte le leggi elettorali che si sono fatte ed applicate da decenni e decenni in Italia, hanno rispettato senza dirlo questo principio. Ma ciò nonostante, nessuno ne traeva la conseguenza che la Camera italiana fosse una Camera a carattere regionale.

Perassi, repubblicano. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Perassi. Domando scusa, ma devo insistere nelle spiegazioni date prima. L’osservazione fatta dall’onorevole Nitti l’ho fatta io per primo. Dicendo che il Senato è costituito su basi regionali, e dicendo poi che i collegi sono uninominali, si esclude la possibilità di un collegio uninominale a cavallo di due Regioni. Questo è positivo.

8 ottobre 1947

– Presidente Terracini. L’onorevole Mortati ha detto di accettare la proposta della Commissione in cui si dice: «un senatore per duecento mila abitanti o per frazione superiore a centomila». Pongo ora in votazione la seguente proposizione:
«La Valle d’Aosta ha un solo senatore».

(È approvata).

Testo coordinato dal Comitato di redazione prima della votazione finale in Assemblea
e distribuito ai Deputati il 20 dicembre 1947:

Art. 56.
La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto, in ragione di un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila.
Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età.
Art. 57.
Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale.
A ciascuna Regione è attribuito un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila.
Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sei. La Valle d’Aosta ha un solo senatore.

Elezioni ad alta tensione

EL ALTO, BOLIVIA - AUGUST 14: Demonstrators hold Wiphala and Bolivian flags during a protest against Interim President of Bolivia Jeanine Añez as part of the twelfth day of protests to demand quick presidential elections on August 14, 2020 in El Alto, Bolivia. Bolivia heads for a key presidential election on October 18th, which has been delayed twice due to the coronavirus pandemic. Social organizations demand elections for September 6th and urge interim president Jeanine Añez to step down and have given a 72 hour window to meet these demands amongst others. National government ordered military forces to protect key installations and the transport of medical oxygen. (Photo by Gaston Brito/Getty Images)

Evo Morales non è più in Bolivia ormai da quasi un anno, dal novembre 2019. Il compañero presidente è lontano dal suo popolo, che retoricamente amava definire la sua “famiglia”. Ma cosa è successo in Bolivia? Perché un Presidente così amato, che ha governato ininterrottamente per quasi quindici anni, è stato costretto a rassegnare le sue dimissioni e fuggire? C’è stato effettivamente un colpo di Stato o la sua rinuncia alla carica presidenziale è il riflesso di mesi di protesta? La risposta a questa domanda è che non è tutto o bianco o nero: gli eventi che hanno preceduto la fuga di Morales dal Paese hanno rappresentato sia un colpo di Stato militare che un momento di protesta di massa, riflesso di un processo di disgregazione del suo consenso. Con le dimissioni di Morales si è dunque chiusa un’epoca nella regione latinoamericana. Quella della “marea rosa”, nata dalla volontà di cambiamento e di inclusione, che ha generato risposte radicali e diverse dalle politiche neoliberali, dal governo di Chavez in Venezuela a quello di Nestor Kirchner in Argentina.
Morales è stato uno tra i leader latinoamericani che tanto di quel cambiamento ha portato nel Paese andino. Un uomo di umili origini, di etnia aymara cresciuto nella regione del Chapare, a est delle Ande. Un cocalero, coltivatore di coca, pianta che in Bolivia ha una tradizione millenaria, utilizzata in particolare per la medicina, le cerimonie religiose e la produzione di tè. Muove i suoi primi passi nel sindacato proprio in difesa di questa pianta, contro l’eradicazione della coca, che significava al contempo l’eradicazione di usi e costumi dei popoli originari. Le battaglie indigeniste hanno costituito il perno centrale del suo impegno politico. In Bolivia, all’epoca, circa il 69% della popolazione era costituito da etnie indigene, in particolare quelle quechua e aymara.
Nel 1995 Morales ha fondato il Mas (Movimiento al socialismo), strumento politico della Confederación sindical única de trabajadores campesinos de Bolivia (Confederazione dei sindacati contadini – Csutcb). Nato da un nucleo di cooperative rurali sindacaliste e di coltivatori di foglia di coca, l’ascesa al potere del Mas è iniziata a metà degli anni Novanta. Con una forte base etnica, ma non escludente, come nel caso degli altri movimenti indigenisti latinoamericani. Infatti, il successo di questo partito è derivato dal suo carattere etnopopulista, che ha permesso di far identificare con il movimento non solo gli indigeni, ma anche l’ampio gruppo di mestizos e di bianchi, delle cui rivendicazioni si è fatto portavoce. Il leader aymara ha avuto la capacità di coniugare le lotte, dalle campagne alle città, facendo così estendere territorialmente il Mas e integrando nuovi attori sociali.
In questo senso, le mobilitazioni sociali tra il 2000 e il 2005 sono state fondamentali per accrescere la popolarità di Morales e dei movimenti sociali nel Paese. In particolare, sono state cruciali le proteste contro la privatizzazione dell’acqua nel 2000 e quelle del 2005 a favore della nazionalizzazione del gas boliviano. Le proteste di quell’anno si sono intensificate a seguito dell’approvazione di una nuova legge sugli idrocarburi che non prevedeva il controllo nazionale delle riserve di gas, come rivendicato dai leader popolari: scioperi, marce e blocchi di autostrade hanno congelato l’attività delle principali città boliviane, costringendo il presidente Mesa a fuggire dal Paese. Lasciata vacante la carica presidenziale, nel dicembre 2005 i boliviani sono stati chiamati a scegliere un nuovo presidente. Evo Morales è..

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Sacco e Vanzetti, un secolo di pregiudizi e xenofobia made in Usa

L’orologio del penitenziario di Charlestown aveva passato da poco la mezzanotte; era iniziato il 23 agosto 1927, quando la “Old sparky” (la vecchia scintillante) – affettuoso nomignolo yankee della sedia elettrica – rubava la vita a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Una delle tante battaglie del presidente Woodrow Wilson contro “il pericolo rosso”. Contro quella sovversione che dieci anni prima aveva rivoluzionato la Russia, e che come una pandemia ideologica s’era propagata fino a scavalcare l’oceano, minando la civiltà americana. Quegli Stati Uniti così faticosamente costituitisi lottando, prima, contro gli inglesi, poi, contro i nativi. Cinquant’anni dopo, il 23 agosto del 1977, il governatore del Massachusetts, Stato in cui s’erano svolti i fatti, dichiarava che ogni stigma e ogni onta dovevano essere cancellati dai nomi di quei due italiani. Dichiarazione risibile, che fa perfino giganteggiare quella di Giovanni Paolo II che nell’ottobre del 1992 ammise a suo modo che sì la Chiesa aveva commesso un erroruccio contro Galileo.

La dichiarazione di quel governatore non riconosceva infatti in modo ufficiale l’innocenza dei due italiani, coerentemente con una tradizione che vede gli Usa negare sempre la riabilitazione ai suoi giustiziati. Per loro, «cosa fatta, capo ha». E in questo sta molto della loro cifra culturale; l’essere cioè rimasti coerenti per genesi e palingenesi a un Paese di frontiera. Da Sacco e Vanzetti fino a George Floyd, quella americana è una storia segnata dal pregiudizio e dal razzismo, oltre al secolare “pericolo rosso”. L’incarnazione ideale sta nelle fattezze di Edgar Hoover, cioè il padre padrone dell’Fbi dal 1935 al 1972 («i presidenti passano, io rimango»): il funzionario a stelle e strisce che esercitava il suo potere da despota, ma che alla sera si travestiva e, con tanto di parrucca e col nome di “Jenny the blond”, partecipava a quei festini audaci che erano il suo unico svago. Fin dalla istituzione del Bureau nel 1908, essere al vertice dell’Fbi significava agire con ogni mezzo per salvaguardare l’integrità degli Stati Uniti: tutti gli Stati, da Est a Ovest. L’anarchico italiano Andrea Salsedo – la cui vicenda genera il dramma di Sacco e Vanzetti – era finito nelle grinfie dell’Fbi il primo maggio 1920. Dopo tre giorni, a conclusione dei pestaggi che gli avevano cambiato pure i connotati, era stato scaraventato dal 14esimo piano degli uffici di New York .
Il calvario di Nick e Bart inizia quando sul tram su cui si trovano salgono due agenti che li inquadrano subito come Wops (without papers: epiteto col quale più volte saranno apostrofati dal Pm durante il processo). «Forza, documenti». Saltano fuori una pistola e un volantino che annuncia un comizio contro l’omicidio di Salsedo. Portati nella locale stazione di polizia, alle accuse di detenzione illegale d’arma da fuoco e di materiale di propaganda sovversiva, si aggiunge quella, terribile e incredibile, di duplice omicidio: un cassiere e una guardia giurata che il 15 aprile precedente erano stati uccisi durante una rapina ai danni di un calzaturificio. La professione di operaio calzaturiero di Sacco sarà un’aggravante per l’emigrato foggiano, perché, come sosterrà l’accusa, conosceva i tempi dei trasferimenti di denaro dalla fabbrica alla banca.

L’America degli anni Venti è un Paese attraversato da una ondata xenofoba nei confronti delle nuove immigrazioni, soprattutto quella degli italiani. Durante il processo a Sacco e Vanzetti, al frequente insulto di Wops del Pm, si aggiungerà quello di «bastardi anarchici» del presidente della corte. Il verdetto di colpevolezza giungerà come conclusione scontata di un dibattimento segnato dal pregiudizio anche di una giuria arrivata ad accettare la deposizione di un giornalaio che aveva capito che i rapinatori erano stranieri «dal modo di camminare». I testimoni della comunità italiana – una ventina fra uomini e donne – furono screditati e derisi per l’incapacità di esprimersi correttamente in inglese, e le loro dichiarazioni furono rese nulle, comprese quelle che testimoniavano la presenza di Vanzetti altrove al momento della rapina.
Poche storie, insomma, quei due “dovevano” salire sulla “vecchia scintillante”. Era quello che voleva l’America, come emergeva…

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Storie di medici coraggiosi

Questi mesi di pandemia ci hanno inchiodato. Abbiamo chiuso tutto, ci siamo visti solo su Skype o via Zoom. I nostri argomenti di conversazione sono diventati l’uso delle mascherine o la didattica a distanza, e per diverse settimane abbiamo atteso con ansia la riapertura dei parrucchieri. E se siamo qui a parlarne significa che noi siamo quelli a cui è andata bene.
Ma non è finita, e siamo ancora spaccati in tifoserie a seconda che siamo in attesa dell’arrivo della seconda ondata (i “pessimisti”, o “catastrofisti”), che abbiamo fiducia nelle nostre autorità sanitarie e negli scienziati (gli “ottimisti”) o che abbiamo il sospetto che… virus? Quale virus? (I “negazionisti” e quelli che “è sempre colpa di Big Pharma”).
Per una come me, che di mestiere si occupa di comunicazione della salute, è interessante. Un problema sanitario è capace di fermare il mondo e noi siamo qui a litigare? Mi sono accorta, una volta di più, che molti di noi aspettano dalla medicina risposte precise. La vorrebbero un sapere granitico a cui affidarsi con serenità: lei, ancora lì col suo vecchio paternalismo, a dirci che cosa fare, così e cosà.
Invece no. La medicina è un sapere evolutivo e non deve stupirci che, per esempio, la querelle su certe terapie per Covid-19 si sia definita nel corso di questi mesi. In più, come diceva il grande Rudolf Virchow che la considerava la più alta forma di cultura umana, la medicina è una scienza sociale. Cioè: non si fa solo nei laboratori e nelle stanze di ospedale, ma è anche materia politica. Perché parla di noi come collettività.
Come tutti i saperi che hanno una storia, sono fatti di storie. Storie di uomini che fanno cose, buone e cattive, e cose tra cui anche litigi ed errori, e azioni strampalate. Così ho pensato che un modo per spiegarlo possa essere quello di raccontarle.
Per esempio. La medicina è piena di storie di scienziati che hanno fatto esperimenti (perché sì: da un certo punto in poi della storia la medicina si fa scienza sperimentale). E molti hanno fatto esperimenti su di sé. Ad alcuni è andata così bene che hanno inventato intere branche disciplinari o hanno ricevuto un Premio Nobel (sono ben cinque i Nobel che hanno fatto autoesperimenti!). Ad altri è andata così male che ci hanno lasciato la buccia. Quelli a cui è andata peggio sono stati del tutto dimenticati, e con loro ci fermiamo qui.
Ma perché l’auto-esperimento? Intanto, se il paziente sei tu, avere il consenso a fare cose spericolate è molto più facile: non c’è da convincere nessuno. Oggi i comitati etici non possono romperti le balle. Poi è più facile seguire l’esperimento nel tempo: sei sempre in tua compagnia. E tante volte è più facile capirne l’esito, per esempio se si tratta di somministrare farmaci particolari, come anestetici o ormoni, che hanno effetti sulla mente o sul dolore. Oppure lo fai perché il tuo capo ti ha ricattato, ma lasciamo perdere anche questo.
In tempi recenti, l’auto-esperimento reso pubblico può avere un significato mediatico, promozionale, anche demagogico. C’è la variante “esperimento sulla testa dei miei figli” come stiamo vedendo con i candidati vaccini per Covid-19 che in Russia si dice…

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Taglio dei parlamentari, le ragioni di un netto rifiuto

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 18-08-2020 Roma, Italia Politica Manifestazione del partito radicale - referendum taglio parlamentari Nella foto: i militanti radicali davanti alla camera dei Deputati a sottolineare il deserto dell’informazione sul prossimo referendum relativo al taglio della rappresentanza parlamentare Photo Mauro Scrobogna /LaPresse August 18, 2020  Rome, Italy Politics - Demonstration of the radical party - referendum on the reduction of the number of parliamentarians In the photo: radical militants in front of the Chamber of Deputies to underline the information desert on the upcoming referendum on the cut of parliamentary representation

Il referendum del 20 e 21 settembre è il passaggio più importante della transizione verso lo Stato di diritto e la democrazia del nostro Paese.
Si tratta infine di dire NO a chi dopo aver sottratto ai cittadini la possibilità di eleggere i propri rappresentanti li induce a farseli decurtare.
È uno snodo decisivo, storico, successivo al tentativo di Matteo Renzi di stravolgere la Costituzione, e in linea con chi la Costituzione l’ha stravolta nel corso dei decenni.
Non è un caso che i padri costituenti, proprio loro, quelli che non si perde occasione di elogiare per la loro lungimiranza, avessero ancorato la rappresentanza parlamentare al numero degli abitanti.
Basterebbe leggere gli atti della Assemblea costituente per comprendere le profonde ragioni che portarono a stabilire che il numero di abitanti congruo ad avere un rappresentante fosse di un deputato ogni 80mila abitanti (o frazioni superiori a 40mila) e un senatore ogni 200mila (o frazioni superiori a 100mila). Una delle prime “riforme” costituzionali, quella del 9 febbraio 1963, trasformò il numero variabile in numero fisso di 630 deputati e 315 senatori.
Siamo poi passati dalle leggi elettorali fondate sul mercato delle preferenze alle leggi elettorali fondate sul mercato delle oligarchie di partito. Nelle prime erano le prebende a decidere chi avrebbe rappresentato il popolo; nelle seconde sarebbe stata la fedeltà a chi avrebbe compilato le liste.
E siamo arrivati al 2020, quando la maggioranza parlamentare ha deciso che i rappresentanti del popolo devono essere tagliati, ridotti.
È credibile che chi indicherà i nuovi parlamentari voglia farsi un dispetto riducendone il numero? NO, non è credibile! Attraverso la riduzione cerca di migliorare la fedeltà degli eletti, sempre più di partito, sempre meno rappresentanti del…

*-*

Gli autori: Maurizio Turco e Irene Testa sono rispettivamente segretario e tesoriere del partito radicale

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Quante balle contro la Ru486

(7/2/2020) Sit-in in Rome, in front of the Ministry of Health, organized by the Italian Abortion Contraception Network to ask that contraception is free and accessible and access to abortion must be guaranteed for everyone (Photo by Matteo Nardone / Pacific Press/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 30185073

Tutto è partito da un eccesso di zelo, verrebbe da dire. Giovedì 11 giugno la giunta di centro destra dell’Umbria, guidata da Donatella Tesei della Lega, abrogava una precedente delibera regionale che permetteva di praticare l’aborto farmacologico in regime di day hospital. Una decisione quantomeno bizzarra in un momento in cui, a causa dell’emergenza coronavirus, la stessa Società italiana di ginecologia e ostetricia, sempre molto contenuta sulla questione aborto volontario, aveva rivolto un appello per prevedere una procedura totalmente da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina, come già avvenuto in Francia e nel Regno Unito. E che induceva il ministro della Salute Roberto Speranza a chiedere al Consiglio superiore di sanità di rivedere il precedente parere del 2010 «al fine di favorire, ove possibile, il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico, in regime di day hospital e in regime ambulatoriale, come in uso nella gran parte degli altri Paesi europei», e di «prevedere l’aggiornamento delle Linee di indirizzo sull’Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza) con l’uso di Mifepristone (Ru486) e prostaglandine, tenendo anche in considerazione la possibilità di monitoraggio da remoto attraverso dispositivi tecnologici di telemedicina».

Il Consiglio superiore di sanità (Css), nella seduta straordinaria del 4 agosto 2020, ha espresso parere favorevole «al ricorso alla Ivg con metodo farmacologico fino a 63 giorni pari a 9 settimane compiute di età gestazionale (rispetto a 49 giorni pari a 7 settimane, ndr) e presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital». Successivamente al parere del Css, L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha emanato la Determina n. 865 del 12 agosto 2020 “Modifica delle modalità di impiego del medicinale Mifegyne a base di mifepristone (Ru486)” nella quale vengono superate le precedenti limitazioni, sulla base delle quali il ministero della Salute, recependole, ha emesso le nuove “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”. Nell’articolo di Eugenia Roccella apparso sul Foglio l’8 agosto – dal titolo “Le verità scientifiche che il Parlamento non vuol sentire sulla Ru486” e sottotitolo “La balla della…

*-*

L’autrice: Medico specialista in ostetricia e ginecologia, Mirella Parachini lavora all’Ospedale San Filippo Neri di Roma. È tra i fondatori dell’associazione Luca Coscioni e cura la trasmissione Il Maratoneta su Radio Radicale

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John Fante e quella scorrettezza politica d’artista

l talento di John Fante, la sua reale statura nella letteratura americana sono stati per lungo tempo sottovalutati perché veniva sempre messo nella categoria “scrittori etnici” e questo un po’ per colpa ma anche per pigrizia. Si guardava la cosa più appariscente senza rendersi conto, senza voler rendersi conto. Ci sono anche delle ragioni di tipo editoriale, dietro, cioè di tipo economico. Forse non c’era l’interesse a farne uno scrittore americano a tutto tondo, insomma si preferiva guardare all’immagine dell’italoamericanità piuttosto che alla totale aderenza dell’opera di Fante all’epopea della letteratura americana del XX secolo, che è stata semplicemente travolgente.
Se noi siamo qui a parlare di letteratura lo dobbiamo agli americani. Loro hanno tirato la carretta della letteratura del XX secolo. Hanno fatto solo lì più che abbastanza per tutta la nostra civiltà. Tra quelli che hanno fatto il meglio c’è John Fante. Su questo io non ho dubbi proprio perché passando anche attraverso un’esperienza personale, il contatto fisico con questa origine italiana, con questo punto di fuga e di ritorno che è questo Paese, io poi sono potuto andare ancora più tranquillamente oltre la cortina dell’italoamericanità e ritrovarmi là dove ero partito…
Ecco io sostenevo che la sostanza in purezza distingueva la grandezza di John Fante dalla grandezza di altri scrittori – che magari, americani di primo livello, avevano scavato un solco anche più profondo nella tradizione, ma con altri strumenti. Citavo Faulkner, non è che citavo pizza e fichi, citavo Francis Scott Fitzgerald, cioè scrittori dell’epoca di Fante, o precedenti, oppure anche successivi, che per me – è una modesta opinione, però convinta – devono essere nominati nello stesso fiato insieme a John Fante. E dunque John Fante non è inferiore a loro come impatto, come portata storica, e soprattutto come lavoro letterario, come forza nel portare avanti la tradizione – dicevo prima: tirare la carretta -, allorché in Europa si cominciava a giocherellare, diciamo così, con le avanguardie, con i passi indietro, con la fine di questo, la crisi di quello, e dando retta a queste comunque rispettabilissime forme di pensiero evoluto la letteratura si sarebbe dovuta fermare, come del resto è successo. Per una ragione o per un’altra, se voi dovete andare a cercare la grande tradizione francese dovete retrocedere fino a Proust, e da Proust indietro nel XIX secolo, senza voler offendere nessuno. È un dato di fatto che Francia, Gran Bretagna, Germania, cioè quelli che avevano dominato la scena romanzesca dell’Ottocento, che avevano inventato il romanzo contemporaneo, il romanzo borghese, nel secondo Novecento si sono un po’ fermati. Anche la Russia si è fermata, per altre ragioni, nel portare avanti quell’opera di colonizzazione che la letteratura aveva prodotto per tutto l’Ottocento.

Perché dico colonizzazione? Perché dico che…

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Il Covid ci ha mostrato cosa significa curare

MELBOURNE, AUSTRALIA - AUGUST 17: Residents of Hambleton House are put in Patient Transport vehicles on August 17, 2020 in Melbourne, Australia. Health authorities are investigating Hambleton House in Albert Park following a coronavirus outbreak among residents. Residents at the accomodation facility which provides housing for those with mental health issues or behavioural problems are being moved as the Health Department works to contain the outbreak. Metropolitan Melbourne is under stage 4 lockdown restrictions, with people only allowed to leave home to give or receive care, shopping for food and essential items, daily exercise and work while an overnight curfew from 8pm to 5am is also in place. The majority of retail businesses are also closed. Other Victorian regions are in stage 3 lockdown. The restrictions, which came into effect from 2 August, have been introduced by the Victorian government as health authorities work to reduce community COVID-19 transmissions across the state. (Photo by Quinn Rooney/Getty Images)

Angeli ed eroi. Sono passati solo pochi mesi dalla grande paura collettiva, quando ci sentivamo indifesi e in balia di una sconosciuta e invisibile entità distruttiva che ha segnato e cambiato le nostre vite. Oggi, nel pieno di una singolare e pericolosissima amnesia selettiva quasi di massa che nega realtà oggettive, è utile fare alcune considerazioni su ciò che ci ha, ad ora, impedito di fare la fine degli Usa e del Brasile. Ovviamente, come sempre, si poteva fare meglio; errori da parte di singoli, a livello centrale, e molti in alcune regioni, sono stati commessi. Gli errori vanno però sempre rapportati alle condizioni oggettive dei soggetti e del contesto, che in questo caso è stato caratterizzato da una novità, una urgenza, una gravità e una complessità estremi. I dati di realtà ci dimostrano che, anche a livello di popolazione, ci si è mossi abbastanza bene. Molto meno ora.

Il significato dell’operare di medici ed infermieri e di come la medicina e la scienza si sono mosse e sono state viste, descritte e vissute ha una portata ben più ampia, profonda e importante, per noi stessi e la società, di quanto si possa immaginare. C’è un latente (invisibile ma agente, e volendo conoscibile) nel vissuto personale e collettivo di tutta questa situazione. Un’entità biologica invisibile e sconosciuta ha mosso anche altre nostre personalissime invisibilità profonde, divenute anche collettivamente sociali, che hanno a volte annullato, negato e distorto altre realtà, materiali e non, condizionando, quasi sempre inconsapevolmente, il vissuto ed i comportamenti personali e collettivi. Un altro “virus” invisibile che meriterebbe ricerca e riflessioni profonde.
Medici ed infermieri non sono né angeli né eroi. Perché, pur nella eccezionalità estrema della situazione, hanno tutti semplicemente fatto, e senza mai porsi il dubbio di non farlo, il proprio lavoro, dando una risposta il più possibile adeguata alle necessità che emergevano.

Come sempre; per quattro soldi, in condizioni estreme, contagiandosi e lasciandoci in tanti anche la pelle. Gli angeli (che non esistono) non c’entrano, non sono umani, hanno secondi fini dal sapore ricattatorio, farebbero cose non reali, i miracoli, e deciderebbero pure nei confronti di chi farli. La, molto umana ma non sempre sana, parola “eroe” è legata al concetto di assoluta eccezionalità di un comportamento episodico; gli eroi poi finiscono quasi sempre male. Gli “eroi” in questione sono invece esseri umani come noi; le vere eccezionalità sono la…

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