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Gli impresentabili candidati

È il 28 ottobre 2019. Ad Acquasanta, comune in provincia di Ascoli Piceno con poco più di 2mila cittadini, Fratelli d’Italia organizza una cena. La data non sembrerebbe casuale: era il 28 ottobre 1922 quando le camicie nere marciarono su Roma. Forse per questo, durante la cena, accanto ai loghi del partito di Giorgia Meloni, trionfavano dappertutto fasci littori, immagini del Duce (anche sul menù) e motti del ventennio. Tra i commensali c’era anche il deputato Francesco Acquaroli. Uno scandalo, secondo alcuni. Un merito, secondo altri. Tanto che oggi Acquaroli è il candidato presidente del centrodestra alle prossime elezioni regionali nelle Marche. L’allora coordinatore regionale di FdI, Carlo Ciccioli, commentò laconicamente: «Una cena è una cena e un menu è un menu. Non sono entrambi documenti politici». Adesso chissà quali saranno i «documenti politici» che i due produrranno, dato che pure Ciccioli ha deciso di scendere in campo.

Forse più che in altre circostanze, questa volta tra i candidati alle urne di settembre (si vota in sei regioni e in oltre mille comuni) spunta un orizzonte variegato. Indagati come il meloniano Michele Schiano (per voto di scambio), che dovrebbe essere candidato in Campania; voltagabbana come la pugliese Adriana Balestra (appena eletta col centrosinistra a Brindisi, partecipò a una manifestazione con Salvini: si giustificò precisando di essere stata eletta in una lista civica che «fin dall’inizio è stato definito come un fritto misto») o come la marchigiana Daniela Tisi (ex 5Stelle, oggi in campo con la Lega); “parenti di” come Vincenzo Forte, genero del ras di Fratelli d’Italia in Veneto e oggi eurodeputato Sergio Berlato (nella lettera inviata ai soci vicentini dell’Associazione cacciatori, che presiede, ha scritto: «Vincenzo Forte oltre che essere un nostro iscritto ed un dirigente di partito è anche marito di mia figlia Sara, la qual cosa lo rende ancora più affidabile rispetto ad altri possibili candidati»). Spunta poi una lunga schiera di nostalgici di ogni tipo e politici che guardano con una certa simpatia alla destra più estrema. Nelle Marche, per dire, a sostenere Acquaroli ci sarà anche…

L’inchiesta prosegue su Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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Il taglio dei parlamentari è un ulteriore regalo alla Casta

Foto Valerio Portelli/LaPresse 08-10-2019 Roma, Italia Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Politica Nella Foto: Flash Mob M5s per taglio Parlamentari con Luigi Di Maio Photo Valerio Portelli/LaPresse 08 October 2019 Rome,Italy Flash Mob M5s Party Politics In the pic: Flash Mob M5s Party on cutting the number of representatives in the country's upper and lower houses

L’esito del referendum sul taglio del numero dei Parlamentari, previsto per il 20-21 settembre, è diventato contendibile. E quando il piatto è ricco i duri cominciano a giocare. Il piatto è la gestione della ricostruzione dalle macerie della crisi pandemica con i soldi Ue (del Recovery fund in primis), tra prestiti a basso interesse e contribuzioni a fondo perduto – a cui io ritengo si aggiungerà fatalmente il Mes – ed è una guerra che lascerà vincitori e vinti, non di breve, ma di lungo periodo.

Se mi è consentito un paragone, accosterei questo periodo al Secondo dopoguerra italiano: tra la svolta di Salerno (1944), il governo di unità nazionale, il referendum per la Repubblica (1946), la scelta di campo occidentale, l’estromissione di socialisti e comunisti dal governo (1947), il Piano Marshall (nome ufficiale “European recovery program”) e le prime elezioni politiche, entrambi del 1948.

La parola chiave era all’epoca, ed è anche oggi, “ricostruzione” (recupero, recovery in inglese). Parola che la Presidente uscente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha associato alla Costituzione, nella Lectio degasperiana 2020, che ha tenuto a Pieve Tesino (Tn), luogo natale di Alcide De Gasperi nel 1881, lo scorso 18 agosto.

Come nel dopoguerra, anche questa partita si gioca in quattro anni: l’arco di tempo che divide le elezioni del 4 marzo 2018 e la fine del mandato del Presidente della Repubblica in carica nel febbraio del 2022. Ma il risultato del match, in buona parte, si deciderà in due giorni, il 20 e 21 settembre, quando si andrà alle urne per decidere quale sarà l’assetto del Parlamento. Un appuntamento non preceduto da una campagna informativa all’altezza dei problemi. Non a caso.

Si vorrebbe infatti che il popolo legislatore costituente, come corpo elettorale massa, agisca pavlovianamente, non come soggetto cosciente ed informato. Nella misura in cui dal 2005 il popolo non può scegliere, cioè eleggere, i parlamentari con un voto libero, segreto, uguale e personale (art. 48 Cost.), sarebbe assurdo che possa adesso decidere liberamente in quale Repubblica voglia vivere. Gli italiani, come i loro parlamentari nominati dalle oligarchie politiche (nel migliore dei casi, quando non sono scelti dal capo-proprietario del partito), possono solo ratificare le decisioni di un Parlamento telecomandato dall’esterno.

D’altronde, ridurre i parlamentari significa ridurre i rischi di nomine sbagliate: ci saranno sempre degli ingrati che penseranno che ognuno di loro rappresenti la Nazione, cioè il popolo sovrano, senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.) e che si debba esercitare il mandato con disciplina (rigore morale, non ubbidienza) e onore (art. 54 Cost.). Con il voto referendario il popolo deve solo reagire alle proprie frustrazioni e farsi guidare dalle proprie paure punendo la Casta, o meglio pensando di farlo, dato che i suoi capi sono comunque al riparo, perché nella legge elettorale, maggioritaria o proporzionale che sia, le candidature sono, comunque, bloccate, comprese quelle nei collegi uninominali.

Questo il quadro attuale. C’è però una grande differenza rispetto al Secondo dopoguerra: l’assenza di grandi personaggi, come Nenni, Togliatti e De Gasperi, non soli nei grandi partiti ma anche nei piccoli, come Luigi Einaudi, liberale, o Piero Calamandrei, azionista liberal-socialista. Inoltre, gli eredi di Togliatti e De Gasperi sono nello stesso partito, e nel Parlamento non sono adeguatamente rappresentati gli eredi di Nenni, Einaudi e Calamandrei.

Ora, il primo messaggio subliminale trasmesso dagli ambienti che sostengono il Sì è stato “inutile opporsi, i Sì stravincono”, ma di fronte all’assenza di argomenti razionali e convincenti a favore del taglio del Parlamento, oltre che quelli di bassa demagogia, il messaggio è stato modificato con “le vere questioni sono altre, votare Sì o No è la stessa cosa”. Secondo un illustre giurista democratico, infatti, il popolo si troverebbe nella posizione dell’asino di Buridano. Oppure, altro messaggio dei sostenitori del Sì: “Non servono correttivi, come un nuova legge elettorale”, che paradossalmente per altri motivi sarebbe anche vero, perché sarebbe con soglia di sbarramento al 5% (trattabile) e con liste bloccate (immodificabile).

Il popolo deve esser espropriato dalla Casta che fa finta di combattere la casta dei parlamentari da essa nominati, per non individuare i responsabili della pauperizzazione delle classi popolari, con la disoccupazione femminile e giovanile, la precarizzazione dei posti di lavoro, la destrutturazione del welfare State a cominciare dal Servizio sanitario nazionale e dall’istruzione pubblica, da quella elementare a quella universitaria, che non riduce le diseguaglianze dei punti di partenza e non è un efficace strumento di ascensione sociale.

Una volta spettava alle elettrici e agli elettori “tagliare” i parlamentari, decidendo chi rieleggere e chi no, individualmente, uno per uno, non del 36,50% come previsto dalla legge costituzionale in questione, tranne che per quanto riguarda i senatori del Senato nel Trentino-Sudtirolo ridotti del 14,28% a spese della rappresentanza in Senato di Umbria e Basilicata ridotta del 57,14% o del Friuli-Venezia Giulia ed Abruzzo del 42,85%.

Finora nessuno dei sostenitori del Sì, o dei laudatori delle decisioni di inammissibilità dei ricorsi contro il taglio dei parlamentari operate dalla Corte costituzionale, ha mai spiegato a lombardi, campani e calabresi perché sono necessari rispettivamente 313mila, 320mila e 327mila loro cittadini per ottenere un senatore, mentre se sei un trentino-sudtirolese ne bastano 171.500.

Nella battaglia referendaria si scontrano due mondi. Da un lato, chi ritiene pericoloso rompere il patto costituzionale compresi i suoi “principi supremi”, tra i quali primeggia quello di uguaglianza dei cittadini (art. 3), del voto (art. 48) e di candidatura (art. 51) secondo quanto enunciato nella sentenza n. 1146/1988 della Corte costituzionale. Dall’altro, chi pensa invece che non è vero che – come recita proprio quel pronunciamento della Consulta -: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».

Il primato appartiene alla politica e la scelta di non creare problemi al governo è la Suprema lex, ma non la Salus rei publicae. Siamo in un momento di crisi non solo politica, ma istituzionale. Il Parlamento si è auto-delegittimato e gli organi di garanzia costituzionale, frutto contingente di un pluralismo di formazione ancora operante, sono paralizzati dalle troppe zone d’ombra dei controlli di costituzionalità. Pur deluso dalle sue ultime decisioni, rimpiango che i membri di questa Corte, senza eccezione alcuna, non siano stati nominati a vita come quelli della Corte Suprema degli Stati Uniti.

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Alle solite: il fascista che scappa

Sui suoi profili social si definisce “naziskin, negazionista, omofobo, xenofobo, antidemocratico, anticostituzionale, anticomunista e antisemita”. Proprio così, letterale. Anzi, si definiva, perché Christian D’Adamo, candidato al consiglio comunale di Fondi, in provincia di Latina, come fanno poi tutti i fascisti appena è stato beccato da alcuni giornalisti si è preso subito la briga di scappare e nascondersi rendendo privati i suoi profili social. È la solita legge non scritta: non tutti i vigliacchi sono fascisti ma tutti i fascisti sono vigliacchi.

Il 32enne è in lizza per le prossime amministrative nella lista civica “Giulio Mastrobattista sindaco” che è una delle tre liste in supporto al candidato sindaco Mastrobattista, uomo di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni che si indigna se si parla di fascismo di ritorno e che accusa noi di vedere fascisti dappertutto mentre lei semplicemente si occupa di detergerli per renderli un po’ più presentabili. Con D’Adamo la missione non è riuscita perché il candidato ha infarcito il suo diario Facebook con foto di magliette raffiguranti Benito Mussolini, con citazioni come “AvantiLazio, Dvce Dvce Dvce”e perfino il suo account su Twitch riporta una svastica come sfondo. Tutto alla luce del sole.

Geniale il candidato sindaco che a Repubblica risponde così: «Non conoscevo questa persona e abbiamo già lanciato l’hashtag #nessunovotid’adamo. Per quanto riguarda la candidatura dovrebbe rinunciare lui, ma stiamo verificando se lo stesso responsabile della lista sia legittimato ad estrometterlo. Intanto io e tutti i candidati stiamo appunto lanciando l’hashtag». La sua azione politica è stata quella di creare un hashtag, nessuna responsabilità ovviamente sull’avere candidato un personaggio del genere. Attenzione perché quelli che riescono a candidare gli impresentabili poi sono gli stessi che si augurano un taglio dei parlamentari: sono quelli che giudicano le lunghezze perché non hanno i parametri per giudicare la qualità.

Continuiamo così, impuniti alla luce del sole. Che poi, ovviamente, se la danno a gambe.

Buon giovedì.

Taglio lineare dei parlamentari, anatomia di una “riforma” populista

Foto LaPresse/Nicolò Campo 28/05/2018 Torino (Italia) Politica La maggioranza non si presenta in Consiglio Comunale in segno di protesta Nella foto: i banchi vuoti Photo LaPresse/Nicolò Campo May 28, 2018 Turin (Italy) Politic The majority does not appear in the City Council in protest In the picture: empty desks

Taglio lineare dei parlamentari “Sì”, taglio lineare dei parlamentari “No”? Al di là delle motivazioni populiste e demagogiche, ci sono valide ragioni per dire “sì” alla riforma costituzionale che i cittadini sono chiamati a votare al referendum del 20-21 settembre? E, poi, inefficienza del sistema politico italiano, radicalizzazione del “noi” contro “loro”, il peso del neoliberismo, l’ombra dell’“uomo forte”, l’insicurezza sociale. Per un voto consapevole e ponderato al referendum costituzionale non è possibile prescindere da tali questioni. Ne parliamo con Paolo Mattera, storico, esperto di politica, e docente presso l’Università di Roma Tre.

La riforma costituzionale era uno dei perni dell’accordo di governo M5s-Lega, due forze politiche a chiara trazione populista. Se approvata dai cittadini al prossimo referendum, comporterebbe un drastico taglio lineare del numero dei parlamentari (-36,5%). Lei cosa ne pensa? Ritiene che sarebbe svilita la funzione del parlamento?

Questa riforma, per come è stata concepita e viene presentata, appare in effetti ispirata ai valori del populismo, su cui può essere utile spendere qualche parola. Infatti, i movimenti populisti degli ultimi decenni, pur nelle loro diversità, presentano degli elementi in comune. In primo luogo una visione dicotomica “noi-loro”. Per “noi” si intende il popolo virtuoso e laborioso, spesso identificato con una comunità che condivide origini, cultura e tradizioni; con “loro” ci si riferisce invece ai componenti “esterni” alla comunità (stranieri, immigrati), nonché alle oligarchie economiche che sfruttano le ricchezze prodotte dal popolo virtuoso e che, attraverso le loro attività sovranazionali, appaiono inafferrabili e sfuggenti. Il tutto ruota intorno al nemico per eccellenza: i politici, accusati di non fare gli interessi dei cittadini, di essere asserviti agli interessi economico-affaristici esterni, e infine di essere dei parassiti che sfruttano i sacrifici della gente comune orientandoli unicamente a proprio beneficio. In questo quadro, i rappresentanti delle istituzioni finiscono con l’apparire un “costo” che va ridotto. È questa la cornice concettuale e teorica in cui è stata collocata la decisione di ridurre il numero di parlamentari. E non è casuale che nella campagna per il referendum l’argomento-chiave impiegato per sostenere la riforma sia proprio quello dei costi che verrebbero diminuiti, ottenendo così dei risparmi da orientare a beneficio della gente comune.

Riferendosi al clima politico che ha preceduto l’era Craxi alla presidenza del Consiglio, in un saggio dal titolo “L’ellisse. Società e politica dal Riflusso a Tangentopoli” lei ha scritto: «Gli italiani desideravano una politica meno ideologica e più pragmatica, volta a garantire la tranquillità e il benessere individuale». Dando per scontato che questa esigenza sia rimasta invariata, ritiene che questa riforma sia stata concepita per soddisfarla?

Sin dalla fine degli anni Settanta nell’opinione pubblica era ormai forte l’insofferenza verso le inefficienze del sistema istituzionale. Perché non sono state risolte? Per comprenderne le ragioni bisogna fare un passo indietro. I nostri “padri costituenti” negli anni Quaranta avevano due preoccupazioni: erano traumatizzati dall’esperienza del fascismo e perciò temevano l’idea dell’uomo solo al comando; in più erano preoccupati dall’avvento della Guerra fredda e perciò temevano che i vincitori delle elezioni avrebbero represso gli sconfitti. Concordarono quindi nel ridurre i poteri del governo e aumentare le competenze del parlamento. Risultato: le capacità decisionali del sistema ne furono, se non compromesse, certamente diminuite. Se quelle caratteristiche avevano un senso nel clima degli anni Quaranta, cominciarono a mostrare i loro limiti negli anni Settanta. I problemi erano sempre due, strettamente collegati. Le procedure e le capacità d’azione del sistema politico istituzionale erano lente, lunghe, spesso inefficaci, mentre la società evolveva molto velocemente e richiedeva risposte rapide; inoltre quel sistema, fatto di continue negoziazioni e compromessi al ribasso, favoriva la selezione di un personale politico abile nella gestione clientelare del consenso, più che nella rappresentazione di idee. Negli anni Ottanta si cercò di intervenire (e Craxi all’inizio diede voce a quell’esigenza), con delle proposte di riforma istituzionale. Ma senza successo: le riforme andavano approvate da quel Parlamento, con quelle procedure, e dai quei rappresentanti, che non ne avevano alcun interesse. Insomma: il sistema funzionava male e aveva bisogno di una riforma, ma proprio perché funzionava male non riusciva a produrne una. Quando, con la fine della Guerra fredda vennero meno le ragioni che avevano creato quel sistema, l’insofferenza popolare divenne esasperazione e si arrivò al crollo con “Tangentopoli”. Ma il cambio degli attori politici non ha portato ad affrontare i nodi strutturali, che sono ancora lì: inefficienza decisionale e bassa qualità del personale.

Una delle peculiarità degli ultimi decenni è poi la personalizzazione, mista a spettacolarizzazione, della politica: tra le principali conseguenze vi è una tendenza dei cittadini, e dunque dei giovani, ad identificarsi con l’uomo forte, vincente e di successo. Ad oggi, dove e come possiamo ravvisare tale fenomeno?

Propongo di tenere distinti i fenomeni della personalizzazione e dell’“uomo forte”. La personalizzazione della politica si è verificata sostanzialmente in tutto il mondo (sebbene con tempi e modi differenti). Perché? Intendiamoci: la politica di massa ha sempre avuto una dimensione teatrale e spettacolare. Ciò che si aggiunge negli anni ’80 e ’90 è il dominio della logica delle Tv commerciali, fatta propria anche dalle emittenti pubbliche: attrarre gli spettatori-consumatori per vendere spazi agli inserzionisti pubblicitari. E cosa attrae gli spettatori? Lo spettacolo, la drammatizzazione. Da qui la personalizzazione: un politico deve sedurre più per le sue caratteristiche personali e meno per le sue idee, più per i suoi atti spettacolari e meno per i suoi progetti concreti. Le campagne elettorali diventano così più sfide tra persone e meno dibattiti fra idee. La fascinazione verso l’“uomo forte” nasce invece dal senso di insicurezza e dal desiderio di protezione.

Qual è l’innesco?

Una crisi. E infatti la recessione economica del 2008-2009 e poi la paura creata dalla globalizzazione (che sembra sfuggire al controllo) hanno portato al successo in tutto il mondo leader che promettevano di affrontare i draghi della disoccupazione, della perdita di benessere, della mancanza di sicurezza. La personalizzazione offre ovviamente il terreno favorevole per l’emergere di politici che si presentano come “forti”, capaci di difendere gli elettori dai pericoli. Ne è la premessa, ma non la causa. Ciò che caratterizza gli ultimi anni, in conclusione, non è tanto la personalizzazione, che c’è da decenni e non scomparirà, bensì la fascinazione per gli “uomini forti”, che si ridurrà solo se i fattori di crisi saranno risolti.

Da storico ed esperto di politica italiana, a quali scenari potrebbe dunque condurre un’eventuale vittoria del Sì al Referendum?

Più che scenari (che potrebbero essere drasticamente contraddetti tra pochi giorni), forse è più utile proporre degli spunti di riflessione. Proviamo a usare una metafora medica. Nel sistema politico italiano ci sono sicuramente da decenni due gravi patologie che (ricordiamolo) sono l’inefficienza decisionale e la bassa qualità del personale politico. Ebbene: la terapia proposta guarisce queste patologie? Fuor di metafora: dobbiamo domandarci se la riforma renderà più efficiente la nostra democrazia, se permetterà di velocizzarne l’attività, se in questo modo consentirà di soddisfare in modo più efficace le esigenze dei cittadini. Inoltre ci dobbiamo chiedere se avvicinerà gli elettori alle istituzioni e ai candidati, migliorando così i meccanismi di selezione e la qualità dei rappresentanti. Per tornare nella metafora, ci dobbiamo insomma domandare se il farmaco e la terapia proposti siano efficaci per curare le patologie, oppure facciano correre il rischio di peggiorarle.

Insieme a Christian Uva, lei ha curato il volume Anni Ottanta. Quando tutto cominciò. Realtà, immagini e immaginario di un decennio da ri-vedere (primo numero della rivista Cinema e storia). Il libro esprime a pieno il senso di questo binomio: cinema per raccontare la storia e storia per interpretare il cinema. Quanto è stata importante allora la funzione di questo medium e quanto è e sarà importante la funzione dei social network per interpretare l’attuale periodo storico?

La risposta a entrambe le domande è: sicuramente molto. Il cinema è stato e continua ad essere un potente “agente di storia”. Vale a dire uno di quegli organi (come la Chiesa o i partiti di massa) che influenzano l’immaginario e la mentalità delle persone. Perché così importante? Per la ragione cruciale che le persone prendono le loro decisioni pratiche (tra le quali anche votare) in base ai propri schemi di valore e alle proprie mentalità. Comprendere questi meccanismi sarà quindi sempre un compito fondamentale per gli storici.

E i social network?

Siamo nel presente e quindi diventa più difficile esprimere una valutazione storica in prospettiva. Però non è difficile prevedere che anche i social network stiano svolgendo un ruolo cruciale nell’orientare le scelte di milioni di persone e quindi saranno di grande interesse per gli storici del futuro. Può bastare un dato, che permette di collegarsi anche ad alcune domande precedenti chiudendo il cerchio: i recenti movimenti populisti e i alcuni leader che si presentano come uomini forti sono accomunati dalla duplice strategia di fare leva sulle passioni popolari e di gettare discredito sui sistemi esistenti. I social network offrono uno strumento potentissimo, perché hanno costruito dei modelli di business ben precisi: più un tema è controverso, più mobilita le passioni, più genera traffico. Capire questi meccanismi sarà fondamentale per gli storici del futuro (lo sarebbe anche per noi ora), così da coglierne e spiegarne in modo approfondito gli effetti.

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L’ordinanza di Musumeci sui migranti creerà una nuova emergenza

È scaduto il termine previsto dall’ordinanza del governatore della Sicilia Musumeci secondo cui «tutti i migranti negli hotspot e in ogni centro di accoglienza devono essere improrogabilmente trasferiti e ricollocati in altre strutture fuori della Regione siciliana». Nulla è successo però, dal momento che non sono arrivate direttive chiare dal Viminale, che ha competenza in materia.

Un’ordinanza (su cui è previsto il ricorso al Tar firmato da Conte ndr) che ha aperto  una forte contrapposizione tra il governo regionale e il Ministero in materia di tutela della salute pubblica e di gestione degli sbarchi vista la modalità con cui è stata emessa e la mancata chiarezza sulle realtà a cui si rivolge. Questo testo infatti comprende tutte le persone immigrate ad oggi presenti nella regione, anche coloro che sono presenti sul territorio da uno o due anni. Uomini e donne integrati, coinvolti in percorsi di istruzione, inclusi nel tessuto sociale delle comunità di riferimento.

Dialogando con gli addetti ai lavori, coloro che gestiscono i Cas, ovvero Centri di accoglienza straordinaria, e centri di seconda accoglienza emerge innanzitutto la confusione mista a sgomento per un’ordinanza che – se si rivolgesse davvero a tutte le tipologie di strutture che gestiscono migranti – implicherebbe il ricollocamento di migliaia di persone e si trasformerebbe quindi in una mossa per cacciare i migranti dall’isola.

Ci dovrebbe essere un arrivo oltre che una partenza, ci dicono. Dove dovrebbero andare le persone? E come? Un’operazione di spostamento di persone richiede un’organizzazione che non si crea in 48 ore e che rischia soltanto di creare una nuova emergenza in un momento già complesso anche per gli spostamenti ordinari in altri Stati.

Ciò che emerge è che la criticità reale da un punto di vista di sicurezza sanitaria si presenta nelle gestione degli arrivi nelle strutture presenti nelle aree più soggette a sbarchi, gli hotspot, che hanno una capienza messa a dura prova in questo periodo in cui anche le condizioni climatiche favoriscono gli arrivi. Le prime strutture di accoglienza poi, i Cas, seguono un protocollo di sicurezza che prevede un doppio tampone e un periodo di quarantena all’arrivo che avviene in isolamento. Si tratta infatti di strutture che gestiscono numeri minori e che riescono quindi a distanziare le persone in tale fase. Questo iter di controlli riprende poi dopo lo spostamento nella struttura che li ospiterà in modo continuativo.

I centri di seconda accoglienza, gli Sprar, adottano invece quotidianamente le misure di controllo quali la misurazione della temperatura e controlli medici, prevedendo periodi di quarantena per coloro che si sono spostati. In queste strutture, in cui ovviamente ci sono spazi di convivenza, si trovano persone che lavorano o fanno tirocini in aziende locali, adulti e minori che frequentano la scuola, che sono coinvolti in percorsi vari di integrazione. Una parte di popolazione che fa parte della comunità, non a contatto diretto con i nuovi sbarchi, e che all’improvviso dovrebbe abbandonare la propria vita, non presentarsi più sul posto di lavoro, senza sapere dove e come andare e creando così un danno alla persona e a tutti le fasce della società coinvolte.

AGGIORNAMENTO DEL 26 AGOSTO ORE 19.33

Il governo e il Viminale hanno impugnato l’ordinanza del governatore della Sicilia Nello Musumeci che aveva disposto lo sgombero di hotspot e centri di accoglienza migranti dell’isola. L’impugnativa è in corso di deposito al Tar della Sicilia. L’ordinanza, secondo il ricorso, “interferisce direttamente e gravemente con la gestione del fenomeno migratorio che è materia di stretta ed esclusiva competenza dello Stato”. Inoltre nonostante sia stata motivata come misura anti Covid, sempre secondo il ricorso, “interferisce sul fenomeno migratorio e produce effetti diretti a carico di altre regioni” (Adnkronos).

Referendum sul taglio lineare dei parlamentari, vademecum per gli indecisi

Foto Valerio Portelli/LaPresse 23-01-2020 Roma, Italia Presentazione Comitato referendario per il No Politica Nella Foto: Presentazione Comitato referendario per il No Photo Valerio Portelli/LaPresse 23 January 2020 Rome, Italy Presentation of the referendum committee for the no Politics In The Pic: Presentation of the referendum committee for the no

Lo Statuto del Regno
Il 4 marzo 1848, Carlo Alberto, re di Sardegna, duca di Savoia, principe di Piemonte etc., rinunciando al proprio potere assoluto, “con lealtà di Re e con affetto di Padre” concede ai propri sudditi uno Statuto fondamentale, cioè una costituzione, che istituisce un Parlamento bicamerale, formato da due Camere, il Senato del regno e la Camera dei deputati, che condividano con lui il potere legislativo, così che, per diventare legge, una proposta dovrà prima essere approvata dalle due Camere e poi avere la sanzione finale del re.

Il 17 marzo 1861, quando Vittorio Emanuele II, figlio e successore di Carlo Alberto, assume il titolo di Re d’Italia, lo Statuto albertino fu esteso a tutto il nuovo regno, che perciò ebbe anch’esso un Parlamento bicamerale, con un Senato e una Camera, che avevano le stesse funzioni e gli stessi poteri del Parlamento subalpino istituito da Carlo Alberto, con i senatori nominati a vita dal re in numero non limitato e i deputati eletti invece per cinque anni dai cittadini in numero proporzionato al numero degli abitanti del regno. Così, nel 1861, quando questi erano 22 milioni, furono eletti 443 deputati, mentre nel 1921, quando erano diventati 39 milioni, ne furono eletti 535.

Ma nel gennaio del 1929, per aumentare ancor più il potere del proprio Governo, diminuendo ulteriormente quello del Parlamento, Mussolini ridusse il numero dei deputati a soli 400 – il numero cui si vuole ridurli oggi! Dieci anni dopo, nel 1939, egli stabilizzò il regime fascista, abolendo la Camera dei deputati e sostituendola con una Camera dei fasci e delle corporazioni, di cui facevano parte di diritto e in numero non limitato soltanto i membri dei principali organi del regime fascista. A ragion veduta, dunque, Umberto Terracini, che aveva passato undici anni nelle carceri fasciste, il 18 settembre 1946 diceva alla Costituente: “Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni.”

La Costituzione della Repubblica
Finita la seconda guerra mondiale, in cui Mussolini aveva precipitato l’Italia, domenica e lunedì 2 e 3 giugno 1946, tutti i cittadini maggiorenni, comprese per la prima volta le donne, furono chiamati a votare sia per scegliere tra monarchia e repubblica sia per eleggere i 556 deputati dell’Assemblea Costituente, che ne avrebbero scritta la Costituzione.

Per evitare di “mettersi sul piano inclinato del governo d’assemblea” monocamerale – il pensiero andava alla Convenzione e al Terrore della Rivoluzione Francese – la Costituente decise di ricostituire un Parlamento bicamerale perfetto, come quello del Regno d’Italia, sostituendo però il Senato del Regno nominato dal re con un Senato della Repubblica eletto dai cittadini e perciò dotato degli stessi poteri della Camera dei deputati. Poi, per valorizzarli e distinguerli senza farne dei doppioni, fu deciso che la Camera fosse eletta per cinque anni su base nazionale e il Senato per sei anni su base regionale, e che l’età necessaria per eleggere ed essere eletti alla Camera fosse inferiore a quella necessaria per eleggere ed essere eletti al Senato. Inoltre, fu deciso che il numero dei deputati e dei senatori fosse proporzionato al numero degli abitanti, eleggendo però un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazione superiore ai 40.000) e un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazione superiore ai 100.000). Così, nel 1948, quando gli italiani erano circa 45 milioni, per il primo Parlamento della Repubblica Italiana furono eletti 574 deputati e 237 senatori; nel 1953, furono eletti 590 deputati e 237 senatori; e nel 1958, furono eletti 596 deputati e 246 senatori.

Ma il 9 febbraio 1963, cioè tre mesi prima delle nuove elezioni politiche, considerato da un lato che gli italiani erano già diventati 50 milioni e che la popolazione da oltre un secolo continuava a crescere, e dall’altro lato che i senatori erano troppo pochi per assolvere agli stessi compiti, cui i deputati assolvevano essendo in numero quasi triplo, il Parlamento, revisionando gli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione, uniformò a 5 anni la durata massima delle due Camere; fissò il numero futuro dei deputati a 630, numero risultante dal censimento del 1961; infine, aggiungendo 68 unità ai 247 senatori, risultanti da quello stesso, ne aumentò e fissò il numero a 315, cioè alla metà dei deputati, migliorando così l’efficienza e la rappresentatività del Senato.

La deforma del M5S
Dopo la vittoria elettorale del 4 marzo 2018, il M5S si accordava con la Lega, formando un governo presieduto da Giuseppe Conte e basato su un Contratto, che al punto 20 prevedeva la rapida attribuzione dell’autonomia differenziata alle Regioni richiesta dalla Lega e la “drastica riduzione del numero dei parlamentari: 400 deputati e 200 senatori” richiesta dal M5S. Grazie a questa riduzione, si legge nel Contratto, “diverrà più efficiente l’iter di approvazione delle leggi, senza intaccare in alcun modo il principio supremo della rappresentanza, poiché resterebbe ferma l’elezione diretta a suffragio universale da parte del popolo per entrambi i rami del Parlamento”, rendendo “in tal modo possibile conseguire anche ingenti riduzioni di spesa, poiché il numero complessivo dei senatori e dei deputati risulterà quasi dimezzato”: da 945 a 600.

L’8 agosto 2019, quando la legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari sta per essere approvata per la quarta e ultima volta, come richiesto dall’art. 138 della Costituzione, la Lega, forte del grande consenso ottenuto alle elezioni europee, esce dalla maggioranza e chiede nuove elezioni politiche. Per evitarle, il M5S, che invece era in forte caduta di consensi, propone al PD, anch’esso in difficoltà elettorali, di formare un nuovo governo presieduto da Conte. Per evitare le elezioni e tornare al governo, pago della promessa fattagli dal M5S di approvare una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5% e alcune altre modifiche alla Costituzione – abbassare l’età necessaria per eleggere ed essere eletti al Senato, portandola a 18 e 25 anni, come per la Camera; eliminare la base regionale per l’elezione del Senato, eleggendolo su base nazionale, come la Camera; ridurre da 3 a 2 i delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica – che avrebbero limitato i danni prodotti dalla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, contro cui aveva votato per ben tre volte, il PD accetta la proposta e l’8 ottobre 2019, rovesciando la propria posizione politica, vota a favore della “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, che il M5S gli ha posto come conditio sine qua non per tornare al governo.

Alcuni senatori, contrari alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, raccolgono allora le firme necessarie per chiedere che il testo approvato dal Parlamento sia sottoposto al referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione. Convocato per il 29 marzo 2020 e poi rinviato a causa della pandemia da Covid 19, il referendum è stato ora fissato per il 20 e 21 settembre 2020, insieme alle elezioni amministrative di alcuni Comuni e alcune Regioni. Sì che, in quei giorni, mentre sarà ancora in corso l’emergenza sanitaria da Covid 19, che il Governo ha ritenuto inevitabile prolungare fino al 15 ottobre 2020, tutti i cittadini maggiorenni saranno chiamati a dire SÌ o NO al testo della legge costituzionale, che, modificando gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, riduce da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 il numero dei senatori elettivi, stabilendo inoltre che il numero dei senatori a vita di nomina presidenziale in carica non dovrà mai essere superiore a 5.

Risparmio
Secondo i capi del M5S, questa “drastica riduzione del numero dei parlamentari” produrrà un risparmio per le casse dello Stato di circa 100 milioni di euro l’anno, pari a circa 1,60 euro per ogni abitante – cifra che molti ritengono largamente arrotondata per eccesso e comunque ben lontana dalle “ingenti riduzioni di spesa”, di cui parla il Contratto M5S-Lega. Confrontati con i quasi 900 miliardi, cui ormai ammonta il bilancio annuo dello Stato italiano, questi pochi milioni, 100, 70 o 50 che siano, tanto vantati dalla propaganda cinquestelle, ricordano piuttosto la metafora della montagna, che tra grandi dolori e lamenti finisce per partorire un topo ridicolo. Un risparmio reale e prezioso in tempi di vacche tanto magre per le casse dello Stato e ancor più per milioni di cittadini, ma che certo non meritava che si cambiasse addirittura la Costituzione per realizzarlo, tanto più che esso inizierebbe tra alcuni anni, poiché il numero dei parlamentari sarebbe ridotto soltanto con le prossime elezioni, previste per il 2023. In verità, se quel modesto risparmio fosse stato il vero scopo della “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, si sarebbe potuto ottenerlo già due anni fa, riducendo dello stesso 36,5 % non il numero dei parlamentari, bensì i loro compensi, portandoli dagli attuali 14.000 euro mensili a 10.000, cifra che sarebbe stata ancora superiore al compenso medio dei parlamentari degli altri Paesi dell’UE e addirittura il doppio dei 5.000 euro, cui il M5S prometteva di ridurre il compenso massimo di ogni pubblico dipendente.

Se poi, per qualche arcano risvolto della ideologia cinquestelle, il Parlamento dimezzato fosse stato ritenuto indispensabile, si sarebbe potuto dimezzare il numero dei deputati, da 630 a 315, senza toccare il Senato, che, se ridotto a 200 membri, perderà sicuramente efficienza, visto che nel 1963 fu necessario aumentare i senatori da 247 a 315 proprio per ragioni di efficienza.

Efficienza
Dai resoconti del Comitato per la legislazione di Camera e Senato risulta che negli ultimi 12 anni il Parlamento ha approvato 818 leggi: oltre 68 leggi l’anno. Ora, se efficienza è fare presto e bene il proprio dovere, e il primo dovere del Parlamento è fare le leggi, il Parlamento, almeno per farle presto, è certamente efficiente, perché fa più di una legge a settimana; cosa che gli è resa possibile dal suo bicameralismo perfetto, che, contrariamente a quanto in genere si dice e si scrive, non raddoppia, ma quasi dimezza i tempi di approvazione delle leggi, perché permette alle due Camere di lavorare non in successione, ma in parallelo, cioè in contemporanea, su disegni di legge diversi, scambiandosene poi i testi, per fare un controllo incrociato sul lavoro che esse hanno fatto, sì che il testo finale risulterà, se non altro, più ponderato.

Il Parlamento, dunque, di leggi ne fa tante. Le fa anche bene? Non potendo né dovendo qui addentrarci in un’analisi qualitativa delle diverse leggi approvate dal Parlamento italiano, diciamo soltanto che, secondo noi, potrebbe farle anche meglio, se per circa l’80 % esse non fossero proposte e spesso imposte dal governo di turno, che sempre più spesso prima le emana come decreti legge, contenenti anche centinaia di articoli di argomento molto diverso tra loro, validi per 60 giorni, durante i quali poi riesce a farle trasformare in leggi, ricattando i parlamentari, con il porre su di esse la questione di fiducia: se non l’approvate, il governo si dimette, si torna alle urne e chi ha votato contro la fiducia sarà espulso dal partito o comunque non sarà ricandidato.

Con questi ricatti nei confronti del Parlamento – ricatti incostituzionali, perché l’art. 94 della Costituzione dice che il Governo è fiduciario, non proprietario, delle due Camere – i governi sono riusciti a far credere a molti cittadini, soprattutto a quelli che conoscono meno la Costituzione e le diverse funzioni dei poteri dello Stato, che l’inefficienza, con cui ci scontriamo in tutti gli uffici pubblici, dove non funziona mai niente come dovrebbe, sia colpa del Parlamento, che non farebbe le leggi. Mentre, in verità, la colpa è semmai del Governo, che da un lato lascia gli uffici pubblici – su cui il Parlamento non ha alcun potere, perché essi fanno parte della Pubblica Amministrazione, che, secondo il Titolo III della Parte II della Costituzione, fa parte del Governo – senza il personale e i mezzi necessari, e dall’altro lato spesso non emana neppure i decreti attuativi, senza i quali gli uffici o non possono o non sanno come devono applicare le leggi approvate dal Parlamento, che pertanto vengono applicate solo in parte o in ritardo o rimangono addirittura lettera morta, mentre i governi, anziché governare, passano il tempo a fare nuove leggi e a cambiare la Costituzione.

Chi, dunque, volesse risolvere il problema dell’inefficienza dei pubblici uffici, che tanta fatica e rabbia procurano a chiunque abbia a che fare con essi, non dovrebbe preoccuparsi dell’efficienza del Parlamento, che di leggi ne approva anche troppe, ma dell’inefficienza del Governo e della Pubblica Amministrazione, cioè degli uffici pubblici, che non applicano le leggi approvate dal Parlamento. Ridurre, poi, il numero dei parlamentari per aumentare l’efficienza del Parlamento, dando, così, altro potere al Governo, è come dare più potere a un amministratore, che, invece di attuare le delibere dell’assemblea dei condomini, ne attua soltanto le parti che gli sono gradite.

Rappresentanza
Secondo il Contratto firmato dal M5S e dalla Lega, “la drastica riduzione del numero dei parlamentari” produrrebbe risparmio ed efficienza “senza intaccare in alcun modo il principio supremo della rappresentanza, poiché resterebbe ferma l’elezione diretta a suffragio universale da parte del popolo per entrambi i rami del Parlamento”. 

Ora, se è vero che l’elezione è necessaria per garantire la legittimità dei rappresentanti, è anche vero che da sola essa non basta per garantirne la rappresentatività, perché questa non dipende dalla legittimità, ma dalla qualità e dalla quantità degli eletti. Per questo e per favorire il più possibile la partecipazione dei cittadini alla gestione della Repubblica (res publica), la Costituente volle che i membri del Parlamento fossero il più numerosi possibile – il detto “pochi, ma buoni” va bene per le oligarchie, non per le democrazie – e in numero proporzionato al numero degli abitanti, sì che, crescendo il numero dei rappresentati, crescesse anche quello dei loro rappresentanti. Anche perché, disse, il 27 gennaio 1947, il presidente Terracini: “In fondo le elezioni rappresentano soltanto un primo momento, quello della scelta dei responsabili della vita politica del Paese; ma è noto che nell’interno delle Assemblee elette avviene una seconda scelta, naturalmente causata dalle particolari attitudini dei componenti, via via che essi hanno occasione di mettersi in rilievo.” Così, ridurre il numero dei parlamentari significa escludere a priori eventuali nuovi talenti, cosa che nessun allenatore sportivo farebbe, convocando il minor numero di atleti possibile.

Nessun dubbio, perciò, che “la drastica riduzione del numero dei parlamentari” produrrebbe una grave riduzione della rappresentatività del Parlamento, che ridotto a 400 deputati, meno dei 443 che aveva nel 1861, quando gli abitanti erano 22 milioni, rappresenterebbe assai male – come una foto a bassa risoluzione – i 60 milioni di abitanti attuali, che pertanto avrebbero sempre più difficoltà ad accettare e rispettare le leggi di un Parlamento, in cui si riconoscono poco o non si riconoscono affatto. Una riduzione di numero e di rappresentatività che colpirebbe in particolar modo il Senato, che, ridotto a 200 senatori, cioè a meno dei 247 che nel 1963 fu necessario aumentare a 315, non potrebbe più adempiere in maniera efficiente agli impegni, cui la Camera adempirebbe invece con 400 deputati. Una riduzione numerica, poi, gravemente ingiusta per Regioni come la Calabria, che con 2 milioni di abitanti, eleggerebbe 6 senatori come farebbe il Trentino – Alto Adige, che ha 1 milione di abitanti, sì che, violando l’art. 48 della Costituzione, secondo cui tutti i voti sono uguali, cioè hanno valore uguale, il voto dei trentini e degli altoatesini varrebbe il doppio del voto dei calabresi. Così dalla “legge truffa” del 1953 si giunge alla deforma truffa del 2019.

Elezione
L’art. 48 della Costituzione, parlando degli elettori, dice che “il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Gli articoli 56, 57 e 58, invece, parlando di Camera e Senato, dicono che i deputati sono 630 e i senatori 315, che 12 deputati e 6 senatori sono eletti nella circoscrizione Estero e che la Camera dei deputati e i senatori sono eletti “a suffragio universale e diretto”. Quanto alla legge elettorale, con cui essi avrebbero dovuto essere eletti, avendo scelto il bicameralismo perfetto, la Costituente, per differenziare ulteriormente le due Camere e rispettare meglio la diversità di opinioni, che sui sistemi elettorali esisteva anche allora tra i costituenti e tra i cittadini, decise che le due Camere fossero elette con due sistemi elettorali diversi.

Il 23 settembre 1947, infatti, su proposta di Antonio Giolitti, comunista, essa approvò il seguente ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale.» Poi, il 7 ottobre, su proposta di Francesco Saverio Nitti, liberale, e di altri 18 deputati, tra cui Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, essa approvò il seguente ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto col sistema del collegio uninominale.» Ma il 20 gennaio 1948, quando, a Costituzione ormai promulgata, si trattò di stabilire la legge con cui sarebbe stato eletto il Senato – la Camera sarebbe stata eletta con il sistema proporzionale, con cui era stata eletta l’Assemblea Costituente – nel fissare il quorum maggioritario, la Costituente approvò l’emendamento di Giuseppe Dossetti, democristiano, che propose di sostituire le parole «metà più uno» della proposta governativa con «settantacinque per cento», quorum altissimo, che la successiva legge elettorale 6 febbraio 1948, n. 29, sostituì con «un numero di voti validi non inferiore al 65 per cento dei votanti», stabilendo, inoltre, che gli altri seggi spettanti alla Regione rimasti vacanti sarebbero stati assegnati alle liste e ai candidati in proporzione ai voti ottenuti.

Con questo sistema elettorale, proporzionale non soltanto per la Camera, ma, di fatto, anche per il Senato, gli italiani hanno votato dal 1948 al 1992, quando, in seguito agli scandali partitocratici di tangentopoli e ai referendum elettorali di Mario Segni, nel 1993 esso fu sostituito dal mattarellum, che assegnava il 75 % dei seggi con il sistema uninominale e il 25 % con il proporzionale. Nel 2005, il mattarellum fu sostituito dal porcellum, con cui fu rinnovato per tre volte il Parlamento, ma che, avendo liste bloccate e premio di maggioranza senza soglia, fu dichiarato incostituzionale nel 2014 e sostituito nel 2015 dall’italicum, dichiarato incostituzionale nel 2017, prima ancora di essere applicato, e perciò subito sostituito dal rosatellum, un sistema elettorale misto, che assegna il 37 % dei seggi con il sistema uninominale, il 61 % con il sistema proporzionale e ne riserva il 2 % agli italiani residenti all’estero, senza comunque permettere ai cittadini di eleggere con voto “personale e diretto”, come volle la Costituente e vuole la Costituzione, la persona in cui essi meglio si riconoscano. Sì che gli eletti, anziché preoccuparsi dei propri elettori, che neppure conoscono, si preoccupano dei capipartito, che li hanno messi in lista, in posizione utile per essere eletti.

Così, mentre il Governo resta in mano ai partiti, che in 72 anni non hanno ancora attuato l’art. 49 della Costituzione, che pretende da essi il rispetto del metodo democratico, da cui essi rifuggono, il Parlamento, stretto tra le pretese dei partiti e i ricatti del Governo, perde rappresentatività, prestigio e autostima, fino a essere considerato pletorico e nullafacente da molti cittadini, e ad autoinfliggersi la “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, che costituisce la prima ganascia del progetto eversivo della Repubblica, progettato dal M5S e dalla Lega; la seconda è l’autonomia differenziata.

Autonomia
Come abbiamo accennato al punto 3. di questo Vienimecum, oltre alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, il punto 20. del Contratto, firmato dal M5S e dalla Lega nel maggio 2018 davanti a un notaio, prevedeva anche, sotto il profilo del regionalismo, l’impegno “di porre come questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle competenze necessarie per un autonomo esercizio delle stesse”.

Il 6 febbraio 1947, nella Relazione al Progetto di Costituzione, Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75, che l’aveva elaborato, scriveva: “L’innovazione più profonda introdotta dalla costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese.” In effetti, nel rifiutare la repubblica federale proposta da Emilio Lussu e Piero Calamandrei, azionisti, l’Assemblea Costituente non intendeva ribadire il centralismo prefettizio dello Statuto albertino, aggravato dalla dittatura fascista, ma intendeva valorizzare al massimo le autonomie locali, secondo i principi del regionalismo autonomista. In questo senso, autonomia regionale nell’unità statale, l’art. 5 della Costituzione proclama che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”. Se il compromesso costituzionale, che aveva prodotto questo Stato regionale, fosse stato subito attuato e lealmente applicato, l’autonomia, come scriveva Ruini, avrebbe potuto avere davvero una “portata decisiva per la storia del Paese”; in senso migliorativo s’intende. Ma la Costituzione rimase per decenni inattuata e dimenticata; e quando, negli anni Ottanta, cominciò a tornare al centro del dibattito politico, vi tornò perché chi l’aveva per decenni tradita cominciò a denigrarla come vecchia e bisognosa di aggiornamenti, che furono tentati più volte negli anni Novanta e che nel 2001 portarono alla deforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, voluta soprattutto dai partiti che sostenevano il governo dell’Ulivo.

A seguito di questa sciagurata deforma voluta dai partiti dell’Ulivo, per sottrarre consensi alla Lega Nord, che poneva con forza e successo l’aut-aut federalismo o secessione, il terzo comma del nuovo art. 116, richiamato dal Contratto M5S-Lega, prevede che alle Regioni, che le richiedano, lo Stato può attribuire “forme e condizioni particolari di autonomia” in ben 23 materie, articolate in circa 130 funzioni, che toccano tutti gli aspetti della vita sociale ed economica dei cittadini: dal lavoro, alla sanità, alla scuola, all’ambiente, ai trasporti, alle infrastrutture (strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti), alla giustizia di pace. Ora, poiché le maggioranze politiche di destra e di sinistra, susseguitesi dopo il 2001, anziché curare l’attuazione del Titolo V deformato, si sono dedicate a deformare altre decine e decine di articoli della Costituzione, finendo però sconfitti nei referendum oppositivi del 2006 e del 2016, oggi, a 72 anni dall’approvazione della Costituzione e a quasi 20 dalla deforma del Titolo V, ci troviamo ancora a dovere difendere l’unità e indivisibilità della Repubblica dalla secessione regionalista promossa dalla Lega, ma anche dal PD, a favore di Regioni, che peraltro hanno dato pessima prova di sé nella pandemia da Covid 19.

Altri
Un argomento del tutto assente nel Contratto M5S-Lega, ma molto presente, invece, nella propaganda politica dei sostenitori del SÌ alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, è il confronto tra il numero dei parlamentari italiani e il numero dei parlamentari di altri Paesi, vicini e lontani, federali e unitari, dalla Francia, all’India, agli Stati Uniti d’America.

Questo modo di argomentare per una riduzione del numero dei parlamentari non è né nuovo né profondo. Convinto che il numero dei parlamentari previsti dalla Commissione dei 75 fossero troppi, il 16 settembre 1947, parlando alla Costituente, Francesco Saverio Nitti disse: “Accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e di prestigio! Sapete l’America quanti senatori ha per ogni Stato? Due. E quanti sono i Senatori? Sono 96. I Deputati invece sono 435, cioè assai meno di noi, della nostra Costituente. Dunque noi abbiamo meno di un terzo degli abitanti degli Stati Uniti e siamo qui dentro molto più numerosi dei rappresentanti degli Stati Uniti che sono soltanto 435.” Ma tre giorni dopo, il 19 settembre, Meuccio Ruini, presidente e portavoce della Commissione dei 75, che aveva preparato il Progetto, su cui allora l’Assemblea Costituente discuteva, disse: “L’onorevole Nitti ha sollevata una questione sul numero dei membri del Parlamento, secondo il progetto. Troppi, ha detto; in nessun altro paese sono tanti quanti voi proponete! Non è così; ho a disposizione dell’onorevole Nitti un quadro, dal quale risulta che se i parlamentari, i politicians, sono in minor numero negli Stati Uniti (e qualcuno se ne lagna, per il carattere «professionale ed oligarchico» che ne deriva), sono di più in Francia, in Inghilterra ed altrove. L’onorevole Nitti troverà resistenza nei piccoli partiti, come il suo, se vorrà ridurre il numero. Siamo ad ogni modo d’accordo: non troppi”.

Conosciamo la decisione presa in merito dalla Costituente, sappiamo come essa fu modificata nel 1963, aumentando il numero dei senatori, e come è stata cambiata nel 2019, riducendo i deputati a 400, lo stesso numero cui li aveva ridotti nel 1929 Mussolini, che dieci anni dopo, nel 1939, abolì le elezioni e la Camera dei deputati, dichiarando un anno dopo, il 10 giugno 1940, guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, precipitando così l’Italia nella seconda guerra mondiale, senza che nessuna autorità costituita avesse o trovasse la forza di opporsi a tale follia. In ogni caso, quando oggi si fanno questi confronti, bisogna distinguere almeno tra Stati federali, come USA e Germania, che oltre a un Parlamento federale hanno anche un Parlamento per ognuno degli Stati federati, e Stati unitari, come Francia e Italia, che hanno soltanto il Parlamento nazionale, costituito da un numero di membri necessariamente superiore a quello di un Parlamento federale. Così, per esempio, il Parlamento dell’Unione Europea è costituito da 705 deputati, benché i suoi abitanti siano quasi 450 milioni e gli Stati membri 27, ciascuno dei quali, però, ha almeno un Parlamento nazionale, oltre agli eventuali parlamenti degli Stati federati. Senza tenere conto se non altro di queste grandi differenze istituzionali, che sono il risultato delle storie diverse dei vari Paesi, ridurre il numero dei nostri parlamentari, perché quelli di qualche altro Paese sono di meno, sarebbe come accorciare i pantaloni dei watussi, perché i pigmei li hanno più corti.

Del resto: quanti e quali sono gli altri Paesi che, con tutti i problemi che abbiamo e che hanno, stanno spaccandosi per ridurre il numero dei loro parlamentari?

NO e poi NO La lettura attenta del punto 20 del loro Contratto dimostra che M5S e Lega mirano a cambiare, con “alcuni interventi limitati, puntuali, omogenei” sulla nostra Costituzione, sia la forma di governo, rovesciando il rapporto di priorità tra Governo e Parlamento, sia la forma di Stato, spostando potere dallo Stato alle Regioni, mutando così radicalmente i delicati equilibri di potere stabiliti dall’Assemblea Costituente, unica ad averne storicamente e giuridicamente il potere e il diritto, poiché il popolo italiano l’aveva eletta con questo specifico scopo.

Con la “drastica riduzione del numero dei parlamentari” il Parlamento perderebbe efficienza e rappresentatività, e i parlamentari sarebbero ancora più esposti ai ricatti del Governo, che si serve della questione di fiducia per ottenere l’approvazione delle leggi che pretende, e alle pressioni dei capipartito, che li espellono o li mettono in lista secondo l’obbedienza dimostrata alle loro direttive. Con l’autonomia regionale, invece, differenziata in base ai desiderata delle Regioni, recuperando tacitamente l’emendamento Caronia, che voleva esentarle dall’obbligo di rispettare le leggi dello Stato, ma che la Costituente bocciò seccamente il 3 luglio 1947, la Repubblica “una e indivisibile”, proclamata dall’art. 5 della Costituzione, finirebbe frantumata staterelli regionali, così che l’Italia prederebbe anche l’unità politica conquistata prima con il Risorgimento e le guerre d’indipendenza, e difesa poi con la Resistenza e la guerra di liberazione dal fascismo e dall’occupatore nazista

Per questi motivi, chi ama la Costituzione – “Quanto sangue, quanto dolore, per arrivare a questa Costituzione!” diceva, il 26 gennaio 1955, Piero Calamandrei agli studenti milanesi – dovrebbe respingere il progetto eversivo del Contratto M5S-Lega, prima votando NO alla “drastica riduzione del numero dei parlamentari”, pretesa dal M5S, e poi dicendo NO all’autonomia differenziata, pretesa dalla Lega, ma anche dal PD, che porterebbe a un’ulteriore e forse definitiva spaccatura tra il Nord più ricco del Paese e il Sud più povero, con una vera e propria “secessione dei ricchi”.

NO e poi NO a codesta deforma.

*-*

L’autore: Carlo Corsetti è saggista specializzato in storia moderna, già docente di storia e filosofia

Per approfondire:  “La democrazia non è scontata”

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SOMMARIO

Buona guarigione, Briatore

Giusto qualche giorno fa proprio su queste pagine mi è capitato di contestare Flavio Briatore per le sue idee e per la superficialità con cui ha affrontato il tema dei rischi Covid e la superficialità con cui ha invocato il liberi tutti in nome del fatturato del suo locale che proprio in questi giorni si è rivelato un pericoloso focolaio con ben 63 positivi su 90 tamponi fatti.

Flavio Briatore è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano (tra l’altro in un reparto che non è attrezzato per il Covid e dove, pagando, ha deciso di stare) perché anche lui è positivo e intorno, ovviamente, si sono avventati un po’ tutti, anche chi con un certo sprezzo del senso di umanità sta augurando all’imprenditore la peggior sorte in nome di una giustizia vendicativa che dovrebbe servirgli da lezione. Beh, qui si augura a Briatore di guarire presto (del resto le notizie dicono che le sue condizioni siano stabili e buone, niente di preoccupante al momento, così dice il comunicato ufficiale del suo staff) però alcune considerazioni meritano di essere fatte.

Come scrive giustamente Massimo Mantellini: «Immaginare di sterilizzare la discussione che lo stesso Briatore ha scatenato, ora che è malato della stessa malattia che negava, e questo in nome dell’umana pietà che dobbiamo riservare a tutti, è semplicemente ridicolo». Briatore, come molti altri, ha insistito nel negare il pericolo e negare la pericolosità del virus (e con lui lo stesso primario Zangrillo che ora se lo ritrova in reparto) e forse, una volta guarito, in quanto personaggio pubblico (e usato spesso dalla politica come profeta, sui social della Lega sono state rilanciate di gran voga le sue dichiarazioni) dovrà spiegare questa sua superficialità, ci dovrà spiegare come sia successo che la sua discoteca abbia numeri di contagio che sono ben superiori a quelle delle altre discoteche e dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo, a tanti dei suoi dipendenti e dei suoi ospiti. Perché, come dice spesso lo stesso Briatore, «le parole stanno a zero e contano i fatti». E infiammare gli animi finisce sempre per rivoltarsi contro, sempre.

Per quanto riguarda i complottisti invece non c’è speranza: comincia già a girare la fake news che Briatore sia stato “infettato dal sistema”. Pensate un po’.

Buona guarigione.

Buon mercoledì.

Taglio dei parlamentari, una scelta sbagliata e pericolosa

Premessa
Il Parlamento ha un ruolo centrale nell’assetto istituzionale democratico previsto dalla nostra Costituzione che – come è noto – è stata approvata sulla spinta della Liberazione dal nazifascismo ed è entrata in vigore il 1° gennaio 1948. In precedenza il fascismo aveva soppresso, nel 1939, la Camera dei deputati, trasformata in Camera dei fasci e delle corporazioni che non era più eletta dai cittadini. In pratica era subalterna al governo fascista che racchiudeva in sé anche gran parte della funzione legislativa. Al superamento del Parlamento si è arrivati per gradi ma il risultato finale fu un accentramento autoritario di poteri negli organi del regime fascista, in particolare nelle mani del suo capo che era anche capo del governo e in questa veste aveva il potere di decidere quando e cosa discutere nella Camera dei fasci e delle corporazioni, i cui componenti erano sostanzialmente rappresentanti del partito fascista e delle altre organizzazioni fasciste, che avevano gradualmente occupato lo Stato fino a impadronirsene.

Nella concezione moderna della democrazia i poteri debbono essere ben distinti.

Il legislativo pur avendo il potere di concedere o togliere la fiducia al governo mantiene una sua netta caratterizzazione, approva le leggi che costituiscono i binari su cui il governo deve muoversi e ne controlla comportamenti ed atti. Il governo a sua volta ha funzioni rilevanti perché dirige l’amministrazione pubblica e propone scelte al Parlamento. Infine il potere giudiziario. Per preservarne l’autonomia ci sono precise tutele costituzionali che gli altri poteri non possono invadere e ha la garanzia di sistemi di accesso attraverso concorsi liberi e verificabili.

I costituenti sono stati attenti a creare un equilibrio di poteri e di contrappesi per evitare che in futuro la libertà potesse di nuovo essere messa in discussione come è accaduto con il fascismo.

L’elezione da parte dei cittadini dei parlamentari, la conferma con il voto da parte del Parlamento della fiducia al governo nominato dal Presidente della Repubblica, che è il garante dell’equilibrio tra i poteri, l’accesso per concorso pubblico alla magistratura sulla base di requisiti stabiliti dalla legge, che ne prevede anche i comportamenti successivi a cui attenersi, è l’equilibrio dei poteri previsto dalla nostra Costituzione. Quando si interviene per modificare qualche aspetto del ruolo di questi pilastri dell’assetto democratico previsto dalla nostra Costituzione, nel caso del taglio dei parlamentari ci riferiamo al ruolo del Parlamento, occorre avere sempre presente che le conseguenze possono arrivare a squilibrare il sistema democratico, fino a farlo entrare in crisi.

Sondaggi recenti dicono che una quota rilevante di cittadini sarebbero favorevoli a ricorrere al ruolo del cosiddetto “uomo forte”, che accentra i poteri su di sé per risolvere i problemi. I problemi da risolvere certamente esistono ma non è con un accentramento di poteri che si possono risolvere. Tuttavia se questa deriva politica è cresciuta vuol dire che si è persa – almeno in parte – la consapevolezza sia di quanto sia costato all’Italia arrivare ad un sistema democratico compiuto, sia di quali pericoli si corrono quando attraverso la personalizzazione della politica si giunge a nuove forme di accentramento salvifico, o presunto tale, in poche mani e ancora peggio nelle mani di un uomo solo al comando, o donna – il discorso non cambierebbe.

Non sono stati forse chiesti da Salvini pieni poteri per decidere senza troppi intralci? Si tratta solo di facile demagogia che accompagna promesse a valanga? Sarebbe un errore sottovalutare queste pulsioni autoritarie, che in questa fase si intrecciano con risorgenti pulsioni neofasciste, razziste, antiebraiche. Non ci possiamo permettere di sottovalutare questi segnali perché sappiamo che hanno già portato lutti e dolori all’Italia. Questa che a qualcuno può sembrare una novità ha in realtà un sapore antico, di cose già viste e sgradevoli.

So bene che persone degne di stima, perfino amici, penseranno che queste preoccupazioni siano esagerate, che ridurre il numero dei parlamentari non porterà a queste conseguenze, anzi i più spericolati diranno che così il Parlamento potrebbe addirittura funzionare meglio. Premesso che quanti hanno cercato di capire come potrebbe funzionare un Senato di 200 componenti hanno toccato con mano difficoltà di non poco conto, che implicherebbero uno stravolgimento dell’attuale funzionamento, o per lo meno l’approvazione a tambur battente di un nuovo regolamento per l’Aula, per il quale di solito occorrono un paio di anni.

Ma la vera motivazione di chi propone la riduzione del 37% del Parlamento non riguarda il miglioramento del suo funzionamento, che sarebbe del resto impossibile con tale riforma, ma solo e soltanto il risparmio dei costi. Non a caso ogni confronto sul migliore o peggiore funzionamento del Parlamento è stato ignorato ed è stato inoltre gravemente sottovalutato il fatto che agli occhi dell’opinione pubblica il solo Parlamento viene presentato come responsabile del malfunzionamento di tutte le istituzioni del nostro Paese. In caso di approvazione della riforma, in sostanza, il Parlamento pagherebbe per conto di tutti: partiti, governo, altre istituzioni, ecc. Come potrà in questo modo essere migliorato, rilanciato e valorizzato il suo ruolo?

1) Le motivazioni del taglio dei parlamentari rivelano le pessime intenzioni dei proponenti

Vediamo anzitutto le motivazioni portate per il taglio del 37 % dei parlamentari. Essenzialmente sono legate al risparmio di soldi. Quindi il lavoro parlamentare è visto come uno spreco di risorse, una spesa inutile e per questo riducibile. Si dirà che si tratterebbe solo del 37 % di parlamentari in meno, è vero, per ora, ma cosa impedirà prossimamente alle tendenze più autoritarie di sostenere che il Parlamento è uno spreco di risorse in sé? E se queste tendenze diventassero maggioranza parlamentare in costanza delle attuali regole per modificare la Costituzione (articolo 138), che erano state immaginate dai Costituenti per un Parlamento eletto sostanzialmente con un sistema proporzionale ?

Sono evidenti le conseguenze negative di un’eventuale maggioranza in grado di modificare da sola la Costituzione.

Nel frattempo, Salvini e la destra stanno insistendo per andare ad elezioni anticipate. Anche perché nel 2022 ci sarà l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica che – sia pure con poteri limitati – esercita un ruolo di equilibrio tra i poteri ed è titolare di alcune nomine dirette (nomina senatori a vita e giudici costituzionali, presiede il Consiglio superiore della magistratura, ecc). Finora, il Presidente della Repubblica non è mai stato il capo di una parte soltanto del nostro Paese. Finora.

In realtà tutta la discussione sulla riduzione dei parlamentari è stata affrontata sottovalutando colpevolmente – anche a sinistra – che il Parlamento è l’architrave del nostro sistema democratico e che – anche se apparentemente il taglio del 37 % appare come una modifica puntuale e precisa – non si può negare che con questa decisione la funzione del Parlamento così viene gravemente svalutata. Infatti il Parlamento viene presentato come una mera somma di poltrone, che quindi possono essere tagliate per risparmiare. Naturalmente ci sono anche responsabilità dei parlamentari perché i loro comportamenti spesso lasciano a desiderare per qualità e per scarsa coerenza. Troppe volte i parlamentari hanno subito imposizioni che potevano respingere, naturalmente correndo qualche rischio per il proprio futuro.

Resta il fatto che tagliare le poltrone è esattamente il contrario di quello che occorrerebbe fare. Si dovrebbe partire da un’analisi spietata delle ragioni che hanno portato il Parlamento a questa caduta drammatica di credibilità tra i cittadini ma per invertire la tendenza, per ridargli credibilità. L’obiettivo dovrebbe essere ricostruire la credibilità del Parlamento, rilanciandone la funzione centrale ed insostituibile di rappresentanza che dovrebbe svolgere.

Se il Parlamento funziona male la soluzione non è il taglio di una parte dei suoi componenti, dando l’impressione che siano “poltrone” inutili – mentre sono i rappresentanti di una parte del nostro Paese – che il loro lavoro sia almeno in parte superfluo. Come non ricordare la comparsata di Di Maio e dei dirigenti del M5s che in piazza Montecitorio, dopo l’approvazione alla Camera in quarta e ultima lettura della legge di revisione costituzionale, hanno schierato davanti a Montecitorio delle poltrone (di carta) e le hanno tagliate in segno di soppressione, di riduzione, di spregio. Anche senza attribuire a questa evidente mossa propagandistica, di cattivo gusto, significati ulteriori, già in sé manifestava un evidente disprezzo per il ruolo del Parlamento, o per lo meno una colpevole sottovalutazione.

Perché tanta veemenza non è stata impiegata nel tagliare i posti di governo? Perché non è stata detta la verità sulle responsabilità dei partiti, delle altre istituzioni della Repubblica? Perché solo il Parlamento è stato messo nel mirino?

Infatti, a parte il ridimensionamento del Parlamento gli altri livelli istituzionali e di responsabilità sono rimasti esattamente come prima. Perché tanta foga non è stata messa nell’ammettere onestamente, ad esempio, che se il Parlamento ha perso vigore, qualità, forza, credibilità presso gli elettori lo si deve ai partiti che sono oggi l’ombra di quello che furono, compreso il M5s che tante speranze aveva raccolto e oggi paga pesantemente una delusione di massa.

I partiti si sono trasformati ormai in partiti personali, fino al punto che Salvini decide di fare in prima persona la campagna elettorale in Umbria e poi in Emilia. Il capo della Lega, o «capitano» come si fa chiamare, forse per esorcizzare in anticipo appellativi più compromettenti con il passato, è il punto più alto raggiunto dalla deriva personalistica della politica italiana. Iniziata con il nome di Berlusconi sulla scheda, più di due decenni fa, senza che nessuno si opponesse con la forza che meritava questa scelta anticostituzionale e contro la legge elettorale vigente all’epoca. Infatti il nome scritto sulla scheda inganna perché può dare all’elettore l’impressione di votare direttamente per il Presidente del Consiglio che però nel nostro sistema non può essere eletto direttamente.

Ci sono persone in perfetta buona fede, talora amici di tante battaglie per i diritti, che questa volta sono perplessi, si chiedono e ci chiedono perché scaldarsi tanto per la riduzione dei parlamentari. In fondo i parlamentari con i loro comportamenti via via hanno contribuito ad affossare la credibilità del loro ruolo di rappresentanti della nazione, come recita la Costituzione all’articolo 67: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Un compito da fare tremare per la grande responsabilità che fa a pugni con quanto spesso accade e che non a caso si accompagna con l’attribuzione di una libertà di comportamento dei parlamentari nelle scelte delicate e di coscienza, che ha come presupposto una fiducia riposta in buone mani, quelle che appunto rappresentano la nazione.

Tagliare del 37% i parlamentari significa ledere pesantemente questa funzione, ridurla, farne inevitabilmente oggetto di scherno, del tipo “se ne può fare a meno”, “i parlamentari sono troppi”. Questo è uno svilimento del ruolo del Parlamento, che diventa in un sol colpo l’unico responsabile della frattura tra istituzioni e cittadini. La frattura esiste ed è grave, ma non esiste solo per responsabilità del Parlamento. Semmai oggi occorre un rilancio del ruolo del Parlamento, obiettivo che dovrebbe incontrare un impegno forte e corale per risalire la china, perché ormai anno dopo anno al Parlamento sono state sottratte funzioni, poteri, è stato reso in buona parte subalterno al governo, che invece dovrebbe attuarne gli indirizzi ed essere sotto il suo controllo.

2) Il referendum è una conseguenza del taglio del Parlamento

Non c’è ragione di non riconoscere la difficoltà di rispondere con un Sì o con un No ad una domanda che richiederebbe una risposta articolata, produttiva, ragionata, ma ormai non è possibile sottrarsi alla scelta tra il Sì e il No perché la decisione di tagliare i parlamentari del 37% è già stata presa dal Parlamento dopo ben quattro votazioni, cioè la ben nota doppia lettura del Senato e della Camera. Non votare No al referendum il 29 marzo automaticamente aiuterebbe chi ha voluto questa scelta, in un modo o nell’altro.

Le responsabilità a questo punto non sono sullo stesso piano. C’è chi ha voluto votare la scelta in Parlamento ad ogni costo e malgrado tentativi di fare arrivare proposte alternative, di sottolineare il pericolo traumatico di una simile decisione, ha preferito procedere comunque. Perfino il cambio di maggioranza dal governo Conte 1 al governo Conte 2 è diventato l’occasione per insistere su questo tasto grazie al capovolgimento di posizione delle sinistre che sono entrate nella nuova maggioranza e che prima avevano votato contro per tre volte. Senza neppure sentire l’esigenza di spiegare le ragioni di questo capovolgimento di posizione. Non era scontato che questo avvenisse, ma il cambiamento clamoroso di posizione ha dato via libera al taglio del Parlamento.

La decisione parlamentare c’è e potrebbe entrare in vigore: l’unico modo rimasto per fermarla – piaccia o non piaccia – è la vittoria del No al referendum costituzionale del prossimo 29 marzo. Altrimenti il taglio del Parlamento entrerà in vigore e avremo due camere ridotte di un terzo, risultato che inevitabilmente rilancia gli argomenti di alcuni che preferirebbero avere almeno una Camera intera anziché due mutilate, in modo da potere rappresentare al meglio il Paese.

In sostanza c’è un prima, il voto parlamentare, e c’è un dopo, il referendum, come unica via per ribaltare la decisione, nella speranza che quando si riparlerà del Parlamento il discorso sia maggiormente fondato e meno approssimativo, tenendo anche conto delle conseguenze su tutto il sistema istituzionale.

È falso dire che se viene bocciata questa proposta non cambierà più nulla. Premesso che è meglio nessun cambiamento che un cattivo cambiamento, evitare un cattivo cambiamento lascia impregiudicata la possibilità di affrontare la questione del ruolo e della funzionalità del Parlamento con la serietà che merita. Del resto la sconfitta nel 2016 della controriforma Renzi non ha impedito di arrivare a questo tentativo di taglio dei parlamentari, che solo la vittoria del No può fermare. Invece se passerà il taglio questa scelta diventerà definitiva per molto tempo.

La vera sostanza del quesito referendario è se sia giusto scaricare sul ruolo del Parlamento, riconquistato dopo la Liberazione dal nazifascismo, la responsabilità delle difficoltà della democrazia attuale o se invece non convenga fare perno proprio su un rilancio del ruolo del Parlamento per riaffermare il valore di una democrazia viva e più adeguata alle esigenze di un Paese in crisi economica e sociale ormai da quindici anni e che non ha ancora recuperato i livelli di prima della crisi. Naturalmente c’è anche bisogno di mettere al centro le riforme istituzionali che possono aiutare la crescita della rappresentanza sociale e associativa, che malgrado i suoi acciacchi continua ad essere un patrimonio decisivo per la nostra democrazia.

3)La Costituzione è ancora un bene comune o no?

Fu definita la Costituzione «più bella del mondo» e se lo è ancora oggi è perché il referendum del 4 dicembre 2016 ha bocciato le modifiche della Costituzione targate Renzi. Malgrado questo passaggio storico sono arrivate all’inizio della attuale legislatura diverse nuove proposte di modifica della Costituzione di cui francamente non si sentiva la necessità. C’è un virus che colpisce chi entra a palazzo Chigi?

La verità è che la fragilità politica dei governi spesso si scarica sulla Costituzione a cui vengono attribuiti difetti che sono tutti politici, di chi dovrebbe governare e non ci riesce come dovrebbe e quindi trova più comodo scaricare su presunti blocchi istituzionali le sue responsabilità.

Senza poi tacere delle ambizioni dei nuovi apprendisti costituenti, che farebbero bene a rileggere con attenzione la Costituzione italiana prima di avventurarsi in nuove modifiche e dovrebbero anzitutto tentare di imitarne la qualità, evitando di sostituire testi brevi, incisivi e chiari con testi lunghi e confusi, confondendo Costituzione e leggi ordinarie.

L’Italia è in recessione da 15 anni con brevi pause di impercettibile crescita. I governi dovrebbero dedicarsi ad affrontare questo grave problema per rimettere seriamente in moto il nostro Paese, mentre le difficoltà economiche si combinano con una crisi delle nascite che sta diventando un secondo fattore di grave instabilità per l’Italia.

Invece i governi pensano a modificare la Costituzione, quasi fossero in cerca di uno strumento di distrazione di massa. Le difficoltà nascono da qui, affrontiamole e andrà meglio. La Costituzione c’entra ben poco. Anzi modifiche come il taglio dei parlamentari rischiano di aprire la strada ad altri e ben più pesanti rivolgimenti del nostro assetto costituzionale.

La riduzione dei parlamentari è motivata solo con la diminuzione dei costi, mentre il punto principale dovrebbe essere il ruolo di rappresentanza delle elettrici e degli elettori che il Parlamento deve svolgere. Senza dimenticare che la maggioranza gialloverde ha la responsabilità di avere usato senza tregua decreti e voti di fiducia come i tanto criticati predecessori e perfino di avere costretto deputati e senatori a votare la legge di bilancio senza conoscerla e tanto meno poterla modificare. Il governo Conte 1 aveva aperto un aspro conflitto con la Commissione europea sulla legge di bilancio e all’improvviso ha deciso un repentino dietro front, cambiandola in profondità per adeguarla all’accordo con la Ue, costringendo il Parlamento a votare il nuovo testo concordato senza leggerlo né modificarlo, in pratica votandolo a scatola chiusa. Pure in quel caso, i parlamentari hanno subito il diktat del governo, perché in realtà sono sostanzialmente nominati dall’alto. Non rispondono del loro operato ai cittadini ma ai capi a cui debbono la loro elezione.

L’attuale governo Conte 2, dal canto suo, non ha cambiato granché nelle modalità di rapporto con il Parlamento. Anche l’ultima legge di bilancio è stata approvata nel vivo di un grave disagio parlamentare. Per questo la priorità da affrontare avrebbe dovuto essere semmai la legge elettorale, che dovrebbe essere rivoluzionata, restituendo ai cittadini il diritto di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento.

La riduzione del numero dei parlamentari avrebbe come conseguenza anche di alzare di molto la soglia per eleggere i parlamentari, facendo strage delle formazioni più piccole, lasciando milioni di elettori senza rappresentanti, riducendo insieme alla rappresentanza la qualità dei componenti del Parlamento.

4) L’autonomia regionale differenziata voluta dalla Lega può minare l’unità dell’Italia

Va sempre tenuto presente che la Lega preme per una versione dell’autonomia regionale differenziata che rischia seriamente di essere l’anticamera della secessione delle regioni più ricche, interpretando la nuova versione del Titolo V, approvato nel 2001, sulle regioni e sulle autonomie nel modo più estremo e peggiore possibile.

La Lega ha imposto alla maggioranza gialloverde, che sosteneva il governo Conte 1, di attuare una forma di decentramento di poteri e soldi dallo Stato alle Regioni che potrebbe arrivare a compromettere diritti costituzionali fondamentali come il diritto all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla previdenza, alla tutela del territorio, ecc. Diritti che, al contrario, debbono essere uguali per tutti in Italia.

Un articolo del Sole 24 Ore ha fatto i conti e il risultato è stato illuminante. L’articolo analizzava i risultati dal punto di vista di chi come la Lega vuole un decentramento di poteri molto spinto, quasi secessionista e infatti ha calcolato in 10 miliardi di euro le minori risorse per la sola Lombardia a causa del blocco delle decisioni sull’autonomia differenziata causato dalla crisi del primo governo Conte, che ha provocato l’interruzione del percorso iniziato. Curioso che l’articolo abbia trascurato di ricordare che la responsabilità della fine del governo Conte 1 è tutta della Lega.

Tenendo conto che il vincolo posto dal ministero dell’Economia è l’invarianza complessiva della spesa, la domanda che sorge è: chi pagherebbe per queste risorse in più attribuite alle regioni più forti, Lombardia, Veneto, in parte Emilia Romagna ed altre a seguire? Ovviamente dovrebbero pagare le altre regioni, in particolare quelle più deboli, perché come diceva Totò è la somma che fa il totale, che in questo caso non può cambiare.

Abbiamo fatto bene ad avviare una decisa campagna contro…

La premessa di Alfero Grandi prosegue sul libro “La democrazia non è scontata”

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SOMMARIO

La democrazia non è scontata. No al taglio dei parlamentari – Sommario del libro di Left

Sommario

09 Premessa

TAGLIO DEL PARLAMENTO, UNA SCELTA SBAGLIATA E PERICOLOSA

di Alfiero Grandi

12 La motivazioni rivelano pessime intenzioni

16 Il referendum

18 La Costituzione è ancora un bene comune?

20 L’autonomia differenziata minaccia l’unità d’Italia

23 Il referendum del 2016 è già stato dimenticato?

27 La funzione del Parlamento è centrale nella Costituzione

28 Distinguere i ruoli di governo e Parlamento è indispensabile

30 La riduzione dei parlamentari è l’opposto del rilancio del Parlamento

33 Presidenzialismo e accentramento dei poteri: un pericolo reale

35 La Costituzione è sotto attacco

37 «La sovranità appartiene al popolo»

40 La stagione dei partiti personali

43 Il referendum sulle modifiche della Costituzione è sempre opportuno

47 Tre voti contro, perché nel quarto le sinistre hanno votato a favore?

49 Il referendum del 2016 e quello del 2020

51 La proposta: rafforzare il Parlamento

51 Conclusione: opporsi al populismo è investire sul futuro

56 Allegati

APPENDICE

Selezione di articoli pubblicati su Left

77 Un attacco alla rappresentanza di Giovanni Paglia

81 Rapinatori di democrazia di Checchino Antonini

87 Diamo pieni poteri al Parlamento di Giovanni Russo Spena

91 Una sforbiciata alla democrazia di Roberto Musacchio

95 Un atto sovversivo di Maurizio Turco

99 Come ti sovverto la democrazia di Giulio Cavalli

103 Quando la cura è peggio della malattia di Domenico Gallo

107 Tanta libera Chiesa in poco libero Stato di Andrea Maestri

111 Basterebbe applicare la Costituzione di Francesco Laforgia

115 Ipocrisia in Movimento di Irene Testa e Maurizio Turco

119 Un voto contro l’antipolitica di Paola Nugnes

121 I nemici della democrazia parlamentare di Maurizio Acerbo

123 La rinuncia alla libertà di Carla Corsetti

127 Pronto il ricorso alla Corte Costituzionale di Felice Besostri

131 La democrazia vale più di un caffè al bar di Gabriele Beccari

141 Perché no! di Maurizio Brotini

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LEGGI LA PREMESSA

Tengo famiglia

Franco Landella è sindaco di Foggia, mica di un paesino minuscolo e sconosciuto, e milita in Forza Italia. Anzi: militava in Forza Italia poiché ha approfittato del passaggio di Matteo Salvini per inscenare una breve conferenza stampa in cui doveva comunicare cose importanti.

Che ha detto? Ha detto che passa alla Lega. Ci sta, se ci pensate. Qualcuno può non essere d’accordo con la linea del suo partito e sentirsi rappresentato molto meglio da qualcuno altro. La politica è ricca di passaggi di casacca e molti rappresentanti politici si sono prodigati nel raccontare cosa non andasse più bene e quali fossero i motivi delle loro nuove convergenze. Ci si aspettava che Franco Landella ci dicesse una cosa qualsiasi, magari che Forza Italia è troppo morbida nelle sue posizioni contro l’Europa oppure che è davvero convinto, come Salvini che l’immigrazione sia il problema principale di questo mondo oppure che sul Mes proprio non riesce a essere d’accordo con le posizioni di Berlusconi. Una cosa qualsiasi.

E invece il sindaco ha emesso un comunicato stampa piuttosto sibillino: “Dopo 26 anni di militanza in Forza Italia sono costretto a lasciare questo partito dopo l’ennesima umiliazione; non posso continuare a subire le angherie di una classe dirigente di Forza Italia che antepone aspetti particolari ai valori della coerenza e della militanza e del consenso. Forza Italia ha favorito l’ingresso dei campioni del trasformismo rispetto alla militanza e al consenso di cui uno con una situazione giudiziaria particolare”.

Cosa avrà voluto dire? Semplice: la decisione è stata presa dopo la mancata candidatura alle elezioni regionali della cognata, la forzista Michaela Di Donna che ha trovato la porta chiusa in tutte le liste del centrodestra compresa Forza Italia. In sostanza il sindaco se ne va perché non hanno candidato la cognata. E in tutto questo c’è anche un partito che se lo prende, un politico così. E viene da pensare che forse al Landella dalle parti della Lega gli abbiano promesso di curare con attenzione il valore della famiglia. Tutto alla luce del sole.

Buon martedì.