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Stefano Valenti: Intellettuali, abbiate più coraggio

Stefano Valenti, nato nel cuore della classe operaia valtellinese, è autore di soli due libri, La fabbrica del panico e Rosso nella notte bianca, entrambi per Feltrinelli, e di alcune traduzioni dei classici, tra i quali Germinale di Zola, ma ha già una riconosciuta fisionomia di scrittore dalla postura ribelle e fuori dal coro, alla Bianciardi, e un pensiero fortemente radicale.

Tu hai pubblicato due romanzi non pacificati e di grande intensità su temi molto politici, la morte sul lavoro, quella di tuo padre, e la guerra partigiana rivisitata al presente. Esiste in Italia e in questa epoca uno spazio per la letteratura sociale e di impegno civile?
La letteratura è sociale per costituzione, lo è perfino certa narrativa ombelicale degli attuali tardo romanzisti, sebbene arcaica e dimentica delle questioni di classe. Difficile è invece rintracciare in un’unica opera attuale le tre caratteristiche da te indicate. Cominciamo dal primo dei tre termini, letteratura, e chiediamoci dunque che cosa sia. Letteratura è forma. Un romanzo redatto in forma giornalistica non è letteratura, così come, in qualche caso felice, è opera di letteratura un reportage redatto in forma letteraria. Ne deriva che non possiamo considerare letteratura buona parte degli attuali libri italiani, quantomeno buona parte di quelli celebrati e venduti. Consideriamo ora la questione dell’impegno civile, e guardiamo quindi al racconto dal punto di vista etico. Parliamo di responsabilità dell’autore. Nell’esaminare il mercato editoriale possiamo rinvenire frammenti di impegno, tuttavia disarticolati da un progetto di cambiamento. In epoca postmoderna infatti questo genere di impegno ha finito molto di frequente nell’esaurirsi in una formula di avvicendamento sul mercato editoriale. Esistono numerosi autori contestatari e ho molta simpatia nei loro confronti. Ma troppi autori contestatari non fanno letteratura. Dico dunque che è molto difficile rintracciare oggi una letteratura sociale e di impegno civile che sia al contempo letteratura, sociale e d’impegno, la quale avrebbe spazio, sebbene disincentivata dall’ideologia del mercato e quindi, nei fatti, inesplorata. Oggi nelle riunioni editoriali sono gli uomini del marketing ad avere l’ultima parola e a…

L’intervista corsara prosegue su Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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Giustizia sociale e ambientale, contro il binomio Pd-Lega

Stiamo attraversando una grave recessione causata dalla pandemia e la vecchia politica, rappresentata da Pd e Lega, non è in grado di avanzare soluzioni all’altezza del problema. L’attuale classe dirigente vaneggia, a una sola voce, di grandi opere inutili e cemento, di Olimpiadi e Formula 1, addirittura di riaprire il centro storico di una città come Firenze al traffico per favorire il commercio. Stanno riproponendo, come un disco rotto, le solite, vecchie formule che ci hanno condotto al disastro economico e ambientale.
Se guardiamo alle principali materie di cui si occupa la Regione, il candidato di Renzi, Eugenio Giani, e la candidata di Salvini, Susanna Ceccardi, sono d’accordo pressoché su tutto: sul ruolo del privato in sanità, sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, sulle mega-opere inutili e dannose come aeroporto di Peretola e nuove autostrade, sugli inceneritori o sui soldi alle scuole private.

Ma non ci troviamo davanti ad una realtà immodificabile, né è obbligatorio adattarci ad un falso bipolarismo. Noi rivendichiamo il nostro diritto alla speranza e diciamo che “un’altra scelta è possibile”. Lo facciamo con un progetto che si rivolge principalmente a chi è precario o non ha lavoro, al 50% di toscane e toscani che non vota più perché non si sente rappresentato dai principali blocchi politici, alle tante persone giovani e giovanissime che hanno già le idee molto chiare in tema di tutela dell’ambiente e della salute, diritti sociali e civili, difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici. E ci rivolgiamo alle donne, non a caso siamo il solo progetto politico ad aver scelto capolista femminili in tutti e 13 i collegi della Toscana.

Per superare la crisi senza tornare all’indesiderabile normalità pre Covid-19 è necessaria una radicale svolta verde e a favore della giustizia sociale, che significa prima di tutto creare posti di lavoro stabili e non precari. C’è dunque una prima dimensione immediata, volta a dare lavoro fin dall’autunno attraverso assunzioni di personale in settori pubblici strategici come la sanità e finanziando opere utili al territorio come gli interventi per il contrasto del dissesto idrogeologico, il raddoppio dei binari ferroviari unici, la manutenzione delle strade o dei ponti usati ogni giorno dai cittadini, prima che vengano giù.
Ma al di là dell’immediatezza, occorre dotarci di una nuova politica industriale verde, serve cioè – per parafrasare il celebre testo di Mariana Mazzucato – una Regione imprenditrice e…

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L’autore: Tommaso Fattori è candidato presidente alle regionali toscane per la lista Toscana a sinistra. È stato uno dei leader del Forum sociale europeo ed ha combattuto in prima fila la lotta per l’acqua pubblica. Ora è capogruppo di Sì – Toscana a sinistra in Consiglio regionale. Il 12 settembre alle ore 15 a Massa presso il Bar Hermes di piazza Mercurio parteciperà alla presentazione della propria candidatura organizzata dal Laboratorio politico Left Massa-Carrara

L’articolo prosegue su Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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I giallorossi sfidano Toti: con noi una Liguria green

«Volevamo una campagna elettorale con proposte concrete e senza slogan, supportata da crowdfunding e non dai grandi capitali, agita da persone nuove e non dai soliti noti, con i partiti presenti ma non in posizione preponderante. La stiamo portando avanti. Ahimè, di fronte a questa novità, qualcuno si smarrisce un po’, si disorienta, perché ancora troppo abituato ai vecchi schemi. Dobbiamo far capire il nostro messaggio, c’è bisogno di tornare a sperare». Ferruccio Sansa, candidato presidente del centrosinistra alle regionali in Liguria, restituisce a Left le proprie considerazioni a caldo sulla prima parte di campagna elettorale. Il tempo per far conoscere, e capire, il progetto politico è poco e il giornalista – prima del Messaggero, poi del gruppo Espresso e infine del Fatto quotidiano – è costretto a una maratona tra i borghi della regione. Il suo curriculum, fatto di inchieste contro la partitocrazia e la cementificazione selvaggia, è il biglietto da visita che ha impedito a Pd e M5s di non convergere, alla fine, sul suo nome. Si tratta di un esperimento unico. Un fronte inedito che va, per intendersi, dai pentastellati a Rifondazione (pur senza l’appoggio di Italia viva). In cui vengono enfatizzati i valori del Movimento delle origini, con un maggior accento di sinistra, e in cui è parzialmente frenata la propensione neoliberista dei dem. Gli ultimi sondaggi a disposizione danno Giovanni Toti, il governatore in carica riproposto dal centrodestra, in vantaggio. Ma numerosi sarebbero gli indecisi, poco meno della metà degli elettori. Convincerli significa poter ribaltare un risultato che, in ogni caso, non potrà non avere ripercussioni anche a livello nazionale sugli equilibri giallorossi. Ma partiamo dai temi.

La Liguria è in testa alla classifica tra le regioni per tasso di suolo impermeabilizzato in zone ad alta pericolosità idraulica. Ce lo ricordano, drammaticamente, le cicliche stragi legate al dissesto idrogeologico. Come immaginare uno sviluppo diverso, che metta da parte il cemento?
Il nostro mantra è “consumo del territorio zero”. Ma nello stesso tempo, dobbiamo coinvolgere le imprese del settore edile nel recupero e nella riqualificazione delle periferie e dei borghi storici. In questo modo, le aziende del territorio, spesso medio-piccole, potrebbero crescere davvero, maturando competenze da usare anche altrove in…

L’intervista prosegue su Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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La Campania che si tuffa nell’impegno sociale

Un uomo stringe premurosamente un fanciullo, caricato del peso di una enorme valigia. Lo sguardo del giovane, pieno di angoscia, punta verso un treno che ormai dev’essere vicino. Non è la scena di un film, ma il monumento all’emigrante eretto a Serino, paese di ottomila anime in provincia di Avellino. Negli ultimi anni altri ne sono stati innalzati da sindaci di diversi Comuni per omaggiare i “paesani” che, durante il XX secolo, lasciarono le proprie case per andare a cercare fortuna in città straniere, dai nomi duri come la vita che trovavano.
Nessuno di questi sindaci al momento dell’inaugurazione avrebbe pensato che, più che una finestra sul passato, questi monumenti sarebbero stati la fotografia del presente delle loro comunità.
La valigia del fanciullo di Serino è infatti la stessa che i bambini del Sannio, dell’Irpinia, del Cilento, dell’Alto Casertano o del Vallo di Diano, hanno già in mano quando oggi viene loro reciso il cordone ombelicale.

I dati di Svimez e Istat sono impietosi: negli ultimi vent’anni due milioni di figli del Sud hanno lasciato la propria terra; la metà aveva meno di 34 anni. Dalla Campania negli ultimi 10 anni ad andar via sono stati 100mila giovani under 34. Interi Comuni stanno scomparendo. A Castelnuovo di Conza, nel salernitano, negli anni è emigrato il 462,7 per cento della popolazione attuale: 598 residenti contro 2.767 emigrati. Un abominio.
Io stesso sono emigrato. Finita l’università, sono andato a lavorare a Londra nel tentativo di trovare una strada, ma poi il richiamo delle radici si è fatto troppo forte, la voglia di contribuire al riscatto della mia terra altrettanto. E così sono rientrato. Ma perché siamo così tanti a partire? Di ragioni ce ne sono troppe. Ogni emigrante ha la sua, la goccia che fa traboccare il vaso, la motivazione personale. Può essere la difficoltà di trovare lavoro in una Campania in cui la disoccupazione giovanile tocca tassi (53 per cento) da far impallidire la Grecia; o il rifiuto di dover subire il ricatto del lavoro nero/grigio e dell’economia sommersa, una piaga che vale il…

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L’autore: Giuliano Granato è candidato alla presidenza della Regione Campania per la lista Potere al popolo. Laureato in Scienze politiche all’università Orientale di Napoli, è collaboratore di Left e ha lavorato a Londra per poi rientrare nel capoluogo partenopeo. Sindacalista con l’Usb, ha denunciato di essere stato licenziato lo scorso anno dalla azienda dove lavorava a causa della propria attività sindacale

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“Dipende da noi”, un esperimento politico per scuotere le Marche

Da un anno nelle Marche è sorto il movimento “Dipende da noi”, nato dall’intuizione di donne e uomini di associazioni e reti attivi sul territorio regionale. Il loro orientamento ideale è quello di una sinistra etica, ecologista, femminista, internazionalista, impegnata nell’attuazione della Costituzione repubblicana. Le Marche hanno da tempo una grande ricchezza di soggetti sociali e culturali di base: dall’agricoltura biologica di Gino Girolomoni alla comunità di Capodarco, dalla cooperativa sociale On the road al Gruppo solidarietà di Jesi, dall’Università per la pace di Ancona alla Scuola di Economia trasformativa, in una folta rete di organismi di democrazia partecipata operante in ogni provincia. Queste persone hanno deciso di far nascere un movimento politico con lo scopo di aprire una strada. La strada tra Giunta e Consiglio regionale, da un lato, e comunità di chi vive nelle Marche, dall’altro.destra

Dopo un quindicennio di malgoverno del centrosinistra, il progetto è quello di sprigionare l’efficacia di un movimento che generi partecipazione diffusa, restituzione dei diritti, riconversione ecologica, progettazione sociale, gestione dei beni comuni, governo democratico del territorio. Dipende da noi vuole agire in modo trasformativo, là dove “trasformazione” significa la maturazione di una forma alternativa di società, di economia, di cultura nel cuore del presente. Il modo di perseguire questo progetto richiede l’allestimento di due sponde interattive: una fatta di mondi della società civile impegnati nella democratizzazione del sistema delle relazioni, l’altra fatta da una rappresentanza all’interno del Consiglio regionale. Di qui la scelta di presentarsi alle elezioni del 20 e 21 settembre con un proprio candidato alla presidenza della Regione e con i 30 candidati al Consiglio.

Lo spirito del movimento è orizzontale e dialogico, la sua forma organizzativa è semplice: c’è un gruppo di coordinamento operativo, che segue giorno per giorno le cose da fare, e c’è un’assemblea che si riunisce periodicamente e prende le decisioni di fondo. La prospettiva è notevolmente ambiziosa perché punta a far valere il metodo del prendersi cura al posto della solita, sclerotica, mortale logica del potere. Se fare politica non è comandare su qualcuno che deve subire le tue decisioni, ma è costruire una partecipazione democratica che consenta di…

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L’autore: Roberto Mancini, docente di Filosofia teoretica all’Università di Macerata, è il candidato presidente della Regione Marche  alle prossime elezioni per il movimento d’impegno civile “Dipende da noi”, di cui è tra i fondatori

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Per la scuola, una visione di lungo periodo

RINGSTED, DENMARK - APRIL 20: Children at Ringsted Lilleskole receive open-air lessons as pupils are welcomed back to school after closing for five weeks due to the coronavirus outbreak on April 20, 2020, in Ringsted, Denmark. Only pupils up to 5th grade are currently permitted to return to school as Denmark begins to ease restrictions, and higher grades must stay at home. The children must apply to strict rules regarding social distance and hygiene. (Photo by Ole Jensen/Getty Images)

L’emergenza pandemica ha messo in evidenza sia le fragilità, sia le capacità di reazione del sistema scolastico italiano, con una grande prova di dedizione e professionalità da parte del settore. Tuttavia, la sfida del nuovo anno scolastico richiede un approccio produttivo e strutturale, non solo per garantire la riapertura in sicurezza (e su questo rimangono molti interrogativi), ma anche per costruire un nuovo modello di scuola, reso indispensabile dalla pandemia, ma comunque più desiderabile dello status quo al fine di innovare modelli pedagogici, migliorare l’apprendimento e la crescita culturale delle giovani generazioni e rafforzare il contributo del capitale umano allo sviluppo del Paese.

Nel mio ruolo ai vertici politici del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ho cercato di far capire a due governi (Conte 1 e Conte 2) l’importanza che gioca la formazione come volano di crescita economica. Ho cercato, invano, di far comprendere quanto il sistema scolastico fosse vulnerabile, dopo decenni di trascuratezza e disinteresse da parte dello Stato. La pandemia ha dato sostanza ai…

 

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L’autore: Lorenzo Fioramonti è un accademico e saggista. Deputato iscritto al Gruppo misto, dal 5 settembre al 30 dicembre 2019 è stato ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca nel Governo Conte II

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Quante incognite per il 14 settembre

Tra due settimane la campanella suonerà l’inizio di un nuovo anno scolastico, il più difficile nella storia recente. Niente è più come prima, niente può tornare ad essere come prima del lockdown perché ora dobbiamo coniugare il diritto all’istruzione con il diritto alla salute. Questa è la vera sfida. Bilanciare la tutela di entrambi i diritti è l’unica strada percorribile.

Se per salvaguardare il diritto allo studio il 14 settembre tornassimo ad abitare le aule scolastiche con i tradizionali numeri di alunni, questo comporterebbe inevitabilmente maggiori possibilità di contagio. Verrebbe meno la tutela del diritto alla salute. Viceversa, se, tenendo conto dell’aumento dei numeri di contagio, si decidesse di non riaprire le scuole e continuare con la didattica a distanza, verrebbe a mancare quell’aspetto fondamentale dell’educazione scolastica che è la socializzazione, la relazione e il rapporto con gli altri, il fare insieme. 

La didattica di emergenza è stata fondamentale per tenere il rapporto con i ragazzi e paradossalmente la didattica a distanza (Dad) ha permesso ad alcuni di avvicinarsi allo studio e  sperimentare e infine trovare modalità di apprendimento personali. Un’alunna mi ha confidato che avendo avuto più tempo a disposizione e meno distrazioni, procedendo per tentativi ed errori, ha capito che…

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Ma dai? Si torna a scuola?

Europe Virus Outbreak - Education - Schools closed in Pergine Valsugana, Italy on May 7, 2020. A Pupil wearing mask and gloves is back to her school to get supplies in the schoolyard. In Italy, schools will only reopen in September to limit the pandemic of the Novel Coronavirus 2019-nCoV. (Photo by Pierre Teyssot/ESPA-Images)(Credit Image: © ESPA Photo Agency/CSM via ZUMA Wire) (Cal Sport Media via AP Images)

Eccoci qua. Mi era capitato qualche settimana fa, eravamo ancora in pieno periodo vacanziero a ricordarmi che saremmo arrivati in ritardo con le aperture delle scuole. Era scritto, del resto: nei molti mesi che ci sono stati a disposizione per ripensare la scuola e per programmarne la riapertura ci si è consumati tra le piccole guerre tra Stato e regioni e a discutere di banchi con rotelle, di plexiglas e di indecenti attacchi sessisti alla ministra. Rimanere sul punto evidentemente era troppo difficile.

Così ora si scopre che anche i professori si ammalano (i primi risultati dicono 16 professori positivi in Veneto, 12 in Lombardia tra Varese e Como, 20 in Umbria, 4 in Trentino) e che come avviene in qualsiasi luogo di lavoro forse è il caso di fare i test. A proposito di test: si rilancia la notizia che un terzo dei professori non vorrebbe sottoporsi a tampone (che il governo ha, chissà perché, reso volontario) e ovviamente tutti ora giocano al massacro: peccato che l’indagine abbia ben poco valore statistico (si sa di interviste telefoniche a qualche centinaio di insegnanti e non si sa di che regione siano) e peccato che siano moltissimi gli insegnati che invece lamentano addirittura l’impossibilità di accedere al tampone. Tra l’altro in alcune regioni il test è gratuito e in altre no, così a caso. Sia chiaro: tutto questo a pochi giorni dall’inizio della scuola.

Ma non è tutto: ora ci si accorge che i ragazzi a scuola ci devono andare e che molti ci vanno in autobus e indovina un po’? Gli autobus sono strapieni. Eh, già. Non era difficile immaginarlo, basterebbe sostare davanti a una scuola qualsiasi per accorgersene in una città qualsiasi. Fenomenale il presidente delle Marche Ceriscioli che a Repubblica dice che Burioni ha trovato la soluzione: i ragazzi nel bus devono indossare la mascherina e restare in silenzio, senza parlare. Sembra uno scherzo e invece è drammatico.

Poi ci sono i banchi: il pessimo commissario Arcuri ora parla di alcune consegne a fine ottobre e il bando di gara era talmente scritto male da dover essere corretto un paio di volte. Giunge notizia che ora il commissario stia facendo ordine a aziende extra bando. Qualcuno dice che ci vorrebbe vedere chiaro ma i costi e i contratti sono secretati “per evitare polemiche politiche” dice Arcuri, come se avesse l’autorità di decidere cosa rendere pubblico e cosa no.

Poi ci sono gli spazi: garantire distanziamento sociale in edifici che avevano già problemi di cubature in epoca pre Covid diventa una missione quasi impossibile. A tutto questo aggiungeteci il caos di un’opposizione che soffia sul fuoco piuttosto che proporre soluzioni.

Eppure proprio sulla scuola si misurerà molta della capacità di questo governo di affrontare la pandemia. Per questo vale la pena approfondire. Per questo se ne parla nel numero di Left in edicola e in digitale.

Buon venerdì.

Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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Un risarcimento necessario

L’anno scolastico che si apre porta con sé sfide di grande portata a cui non possiamo sottrarci. Stiamo caricando sulle spalle dei nostri figli e nipoti un debito pubblico di proporzioni enormi senza chiedere loro il permesso e c’è dunque un problema etico, prima ancora che politico, che riguarda un dovere di risarcimento da parte di noi adulti. E il primo e principale risarcimento non può che riguardare la qualità dell’istruzione, da decenni vilipesa nel nostro Paese. Dobbiamo pretendere che almeno il 20% del Recovery fund sia destinato a educazione, ricerca e formazione, ma sappiamo che non basta, perché spendere bene non è facile nel nostro Paese e investire in educazione non è come costruire un ponte. Comporta trasformazioni umane complesse e una crescita di attitudini alla ricerca e alla formazione permanente che contempli cura e attenzione alle fragilità, insieme alla capacità di rimetterci continuamente in gioco. Paragonando lo Stato a un corpo, Pietro Calamandrei riteneva che la scuola ne fosse l’organo ematopoietico, cioè il luogo dove si forma il sangue necessario a nutrire ogni cellula della società.

Da noi la dispersione scolastica è risalita al 14% e siamo tra gli ultimi in Europa quanto a iscritti all’Università. La triste primavera di non scuola ha accentuato le discriminazioni. Oltre un milione di bambini e ragazzi sono rimasti isolati ed esclusi da ogni proposta didattica e a essere maggiormente penalizzati sono stati gli alunni portatori di disabilità, i figli di immigrati, coloro che vivono in aree interne isolate e nelle periferie più degradate o appartengono alle sempre più numerose famiglie che stanno scivolando nel baratro della povertà assoluta.

Ci sono dunque scompensi da recuperare che riguardano gli apprendimenti, ma anche un sentimento di appartenenza da ricucire perché talvolta lacerato. Va ricostruito con pazienza, attraverso un lavoro di ascolto e condivisione, un tessuto di memorie d’un tempo fuori dall’ordinario, che è stato per tutti ricco di…

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L’autore: Franco Lorenzoni è stato maestro elementare per 40 anni. Nel 1980 ha fondato la Casa-laboratorio di Cenci ad Amelia: un luogo di ricerca educativa che promuove campi scuola e stage residenziali di formazione per insegnanti su tematiche ecologiche, scientifiche e interculturali. Nel 2020 ha ricevuto la Laurea honoris causa dall’Università Bicocca di Milano. Sabato 12 settembre (ore 21:30) al festival Convivere di Carrara, Lorenzoni dialogherà con la sociologa Chiara Saraceno nell’incontro dal titolo “I doveri degli adulti e della scuola per garantire i diritti dell’infanzia”, coordinato dal direttore di Left, Simona Maggiorelli.
Info e prenotazioni su www.con-vivere.it

 

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Immaginare una nuova scuola

FILE - In this May 14, 2020 file photo, schoolchildren raise their fingers to answer their teacher Sandrine Albiez, wearing a face masks, in a school in Strasbourg, eastern France. Just days after around a third of French schoolchildren went back to school, ended the gruelling coronavirus-linked lockdown, there has been flare up of about 70 cases with coronavirus in classes. (AP Photo/Jean-Francois Badias, File)

Delle discoteche forse possiamo fare a meno. Non ce ne vogliano i gestori. Ma delle scuole no. Il diritto allo studio e alla conoscenza è prioritario. La scuola è in debito con i ragazzi che, a causa della pandemia, si sono visti privati di un’offerta formativa ampia e articolata, pur essendosi cimentati con grande responsabilità e impegno con la didattica a distanza. Ma quel che è ancora più grave è che non tutti abbiano avuto accesso a questi strumenti, non avendo a casa sufficienti dispositivi e rete veloce. La scuola è aperta a tutti dice la Costituzione. Ma così non è stato. Il diritto alla formazione e alla conoscenza è stato negato a intere fasce di giovani. Il dramma della dispersione scolastica, che era già grave in Italia, durante la crisi sanitaria si è accentuato e ora è arrivato al 14 per cento. Un’enormità.

Già prima di marzo denunciavamo che oltre un milione di bambini in Italia versavano in povertà assoluta, condizione che si traduceva in povertà formativa. Durante il lockdown con la chiusura delle mense quei bambini non hanno neanche potuto fare una pasto proteico decente, come ha rilevato Chiara Saraceno che con più associazioni si occupa di lotta alle disuguaglianze nelle scuole. Il danno che questi ragazzi hanno subito è gigantesco. Non si può più attendere. Le aule devono riaprire il 14 settembre. La scuola non può essere il fanalino di coda della ripartenza. Non possiamo deludere e affossare un’intera generazione privandola del diritto all’istruzione, sarebbe un crimine. E un danno incalcolabile per il futuro del Paese.

Banchi con le rotelle o meno, la scuola deve riaprire in sicurezza, tutelando la salute di studenti, docenti, personale scolastico. Non possiamo non rispondere alle fiduciose richieste che arrivano dagli studenti. Diamo loro voce in questa storia di copertina mentre sui giornali mainstream si continua a parlare di loro senza ascoltarli, senza interpellarli, senza conoscerli, stigmatizzandone i comportamenti, talora, addirittura additandoli come untori, come scriteriati portatori di contagio in famiglia dopo notti di movida. Lo hanno fatto con anatemi degni di Savonarola autorevoli opinionisti. Al pari dei migranti i giovani sono stati guardati storto, sono diventati il nuovo capro espiatorio di un Paese conservatore che ha paura del vento delle idee nuove (vedi Fiori Nastro, D’orzi e Grimaldi su Left del 21 agosto), quando proprio dai giovani invece viene una sensibilità nuova, per esempio verso la salvaguardia dell’ambiente e la transizione ecologica; da loro viene la richiesta di ripensare l’economia, per una società più giusta e inclusiva, per città a dimensione umana.

Pensiamo ai Fridays for future ma anche ai giovani che fanno politica a scuola nelle rappresentanze studentesche e che, in vista del ritorno in classe, chiedono formazione, ma anche spazi di socialità dove poter fare assemblee in sicurezza. Da loro in primis, come leggerete in questo numero, viene la proposta di un radicale rinnovamento dell’insegnamento, gettando il cuore oltre l’ostacolo di questo dramma, per far sì che la crisi che stiamo attraversando sia un’occasione di sviluppo. È urgente invertire la rotta rispetto a decenni di definanziamento e depotenziamento della scuola che, invece, come propone il maestro Lorenzoni può diventare luogo di costruzione culturale e fucina di nuove idee.

La scuola che i ragazzi si aspettano il 14 settembre prevede distanziamento, igiene, ma anche una nuova didattica in relazione a nuovi spazi. Una scuola in cui ci sia un corpo docente numericamente rafforzato e preparato, in cui ci siano medici scolastici, più insegnanti di sostegno e sportelli psicologici per il benessere psico-fisico di tutti. Le idee non mancano. L’ex ministro Lorenzo Fioramonti in queste pagine lancia delle concrete proposte a partire da una nuovo modello di scuola di prossimità, fatta di classi piccole, in spazi disseminati nei quartieri e nei territori in modo da essere facilmente raggiungibili, senza auto. Certo per fare questa rivoluzione occorrono investimenti. Ci aspettiamo che i soldi del Recovery fund siano utilizzati in questa direzione. Che rilanciare la scuola e l’università sia un’esigenza fondamentale e prioritaria pare averlo chiaro questo governo. Il premier Conte se ne è assunto la responsabilità, anche convocando un vertice dei ministri per affrontare la questione.

Se le parole della ministra Azzolina sui sindacati additati come fronte della conservazione sanno di stantio evocando anni passati di pericolosa disintermediazione, ancor peggio suonano tuttavia le voci che si rincorrono riguardo ad un possibile rimpasto dopo le elezioni del 20 e 21 settembre: in pole position per sostituire Azzolina ci sarebbero le renziane Ascani e Boschi. Ma circola anche il nome dello psicoanalista Massimo Recalcati. Dalla padella alla brace, insomma. Il tentativo è riesumare la famigerata e contestata Buona scuola di Renzi. Sicuramente il presidente Conte ricorderà che quella riforma che prevedeva incarichi a chiamata, alternanza scuola lavoro e valutazione delle competenze (a scapito del senso critico e della conoscenza) costò a Renzi moltissimo in termini di consenso e ne preparò la dipartita da Palazzo Chigi. Il mondo della scuola è vitale, preparato ed esigente, non ammette passi indietro e controriforme.

L’editoriale prosegue su Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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