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Non c’è un giudice a Strasburgo?

Tocca parlare ancora di Turchia, perché i diritti sono sempre quelli degli altri e perché la finta contrizione per la morte di Ebru Timtik sembra non avere insegnato nulla, niente.

L’avvocato Aytaç Ünsal, collega di Ebru Timtik e anche lui al suo 214° giorno di sciopero della fame, anche lui condannato per terrorismo e ovviamente sottoposto a un processo farsa, ha rischiato di fare la stessa fine della sua collega e di altri che in questi mesi stanno protestando contro il governo di Erdogan e che sono accusati in modo strumentale per essere messo fuori gioco.

Nelle scorse ore, fortunatamente, la Corte di Cassazione di Ankara ha deciso la sua immediata scarcerazione per motivi di salute. I giudici hanno stabilito che l’avvocato 32enne debba essere “immediatamente liberato” a causa del “pericolo che rappresenta per la sua vita la permanenza in prigione”. Nei giorni scorsi, i sanitari avevano lanciato l’allarme sul deterioramento delle sue condizioni di salute.

Ma solamente due giorni fa, il 2 settembre, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) aveva bocciato il ricorso per la scarcerazione di Ünsal confermando la decisione della Corte costituzionale turca dello scorso 14 agosto. E già questo dovrebbe porre delle domande poiché giuristi di tutta Europa stavano sottolineando l’iniquità della giustizia turca nei confronti degli avvocati. Giusto per capire a che punto siamo arrivati basti pensare che il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, ha definito una «terrorista» l’avvocata morta, e ha denunciato l’ordine degli avvocati di Istanbul per averla commemorata. In Turchia sono vietate anche le lacrime.

Ma non è tutto, no: il presidente della Cedu, Robert Spano, è in questi giorni in Turchia per ricevere una Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza a Istanbul e poi tenere, ad Ankara, una Lectio Magistralis presso l’Accademia di Giustizia turca. L’Università statale di Istanbul è stata al centro di una massiccia epurazione dopo il fallito “colpo di Stato” del 2016: furono licenziati 192 accademici. Quell’università è il simbolo dell’opera di pulizia da parte di Erdogan e che un giudice super partes decida di esserne ospite accende più di qualche dubbio.

Lo scrittore Mehmet Altan ha scritto a Spano: «Non so come si possa essere fieri di essere membri onorari di una università che condanna alla disoccupazione, alla povertà e al carcere centinaia di docenti solo per il loro pensiero e i loro scritti». Altan è un accademico di fama mondiale ed era stato espulso da quella università per le sue idee e fu tra i primi intellettuali arrestati nella repressione post-golpe. L’accusa, tanto per chiarire di cosa stiamo parlando, sarebbe quella di avere mandato “messaggi subliminali” durante un programma televisivo. Altan è stato poi prosciolto ma non è mai stato reintegrato all’università, marchiato come traditore.

In tutta la Turchia pendono qualcosa come 60mila richieste di reintegro da parte di lavoratori che hanno perso il proprio lavoro per le loro idee politiche. E sapete chi vaglierà quelle richieste? Robert Spano, quello che in questi giorni è in gita d’onore proprio in Turchia.

E questo per oggi è tutto.

Buon venerdì.

Romina Perni: Il potere della non violenza

PERUGIA, ITALY - OCTOBER 07: People march from Perugia to Assisi with a 25 metre peace flag during the 25 kilometre walk on October 7, 2018 in Perugia, Italy. The first march occured in 1961 when 20,000 people marched and today more than 100,000 people took part. (Photo by Awakening/Getty Images)

All’inizio degli anni Duemila, nell’ambito del Social forum, l’idea di un movimento pacifista, internazionalista, era molto presente. Era un orizzonte concreto. Sembrava a portata di mano per tanti di noi che all’epoca eravamo New global e che partecipammo al Social forum di Firenze con un rifiuto profondo della violenza subita a Genova nel 2001. Poi, nonostante tutto, qualcosa si è perso. Quel movimento è diventato carsico, come scrivono Romina Perni e Roberto Vicaretti in Non c’è pace (People edizioni). La macelleria della Diaz, conseguenza anche della militarizzazione delle forze dell’ordine di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze, fiaccò il movimento. Ma forse c’erano anche debolezze interne, di pensiero, questioni più profonde con le quali oggi potremmo e dovremmo fare i conti. Anche sotto questo riguardo l’appassionata e rigorosa disamina di Non c’è pace offre molti spunti di approfondimento, in un confronto dialettico con una pluralità di voci che permettono di ricostruire la storia, la crisi e l’evoluzione del movimento pacifista in Italia. «All’inizio degli anni Duemila, periodo d’oro del pacifismo, ha preso avvio un movimento strutturato di massa con numeri significativi che teneva insieme tante anime diverse», ricostruisce Romina Perni, assegnista di ricerca di scienze politiche all’Università di Perugia e autrice del volume insieme a Vicaretti (giornalista di Rai news e conduttore di Agorà estate su Rai3). «Da lì è partito il nostro lavoro di ricerca. Quelli erano gli anni non solo delle grandi manifestazioni che le cronache ancora ricordano, ma anche di un lavoro costante di attivismo quotidiano, che merita di essere studiato».

Un futuro di pace pareva realizzabile in quel momento?
La sensazione era che fossimo in un momento di svolta. Sembrava che la parola pace e un certo modo di intendere i rapporti internazionali potessero dar vita a un progetto politico diverso. C’erano tante aspettative. Dopo diversi anni oggi notiamo una realtà molto diversa, non ci sono più le mobilitazioni di una volta e non si parla proprio più del tema della pace.

Per quale motivo?
Ci siamo interrogati a lungo su questo punto. A bene vedere è stata una metamorfosi. Non possiamo dire che non esista più un movimento contro la guerra o per la pace. Esistono tante associazioni, ma hanno un ruolo molto diverso rispetto ad allora quando la loro attività andava di pari passo alla critica di un certo modello economico.

Costruire la pace, come dite nel libro, è un movimento attivo che va anche oltre il ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Carta.
Il tema è necessariamente più ampio. Quando si parla di pace si parla di lotta alle disuguaglianze, di lotta alla povertà, ecc… temi che stavano insieme e che in quel momento sembrava si potessero saldare. Nel frattempo il mondo è cambiato, c’è stata la crisi economica, la lotta al terrorismo, c’è stato soprattutto un collasso di partecipazione democratica. Per cercare di analizzare questi aspetti, in Non c’è pace, abbiamo intervistato numerosi attivisti, politologi, studiosi.

Le loro voci risuonano nella trama del libro, accanto a quelle di protagonisti assoluti del movimento per la pace come Capitini. Ma lui, Bobbio ed altri sono rimasti grandi intellettuali isolati?
La cultura politica del pacifismo è fatta da grandi figure. Aldo Capitini, ad esempio, ha incarnato quel pensiero sul piano educativo e nel lavoro con le istituzioni. Forse anche per ragioni di contesto storico non ha avuto lo spazio che meritava e poi non c’è stato un ricambio generazionale.

Ha contato anche il fatto che il centrosinistra, su molti temi, si sia spostato sul terreno della destra? Già nel 1999 il governo D’Alema aveva varato la missione in Kosovo, partecipando al bombardamento di Belgrado…
Personalità politiche che avrebbero dovuto tradurre in politica quelle istanze pacifiste, per prendere delle decisioni nelle sedi istituzionali, di fatto non l’hanno fatto, così si è creato un corto circuito. Negli anni Duemila c’era la grande mobilitazione ma poi venivano finanziate missioni che venivano chiamate di pace, ma era solo un modo per non usare la parola guerra.

Per approfondire le questioni di pensiero: pacifismo e non violenza sono due concetti che non coincidono completamente?
La non violenza è il portato più radicale del pacifismo. Ha a che vedere con un modo alternativo di rapportarsi fra persone. Porsi in un’ottica non violenta obbliga a rivedere alcuni paradigmi che sono quelli dell’imposizione e del dominio. È un modo diverso di intendere il modo di stare al mondo, che comincia dalla dimensione personale, da quella apparentemente più piccola, ma che potrebbe avere un esito enorme. Il cambiamento inizia anche da un modo di rapportarsi non violento nell’incontro con l’altro, sconosciuto. Questo può essere un modo molto bello di affrontare il tema per esempio dell’emigrazione con tutto ciò che vi è legato.

Pensiamo anche a quanto sarebbe rivoluzionario se le forze dell’ordine avessero una formazione improntata alla non violenza…
Quando parliamo di pacifismo ci sono vari livelli da considerare, quello teorico è importante, ma anche quello dell’educazione lo è, così come quello istituzionale. Era il senso del movimento iniziale: tenere insieme l’ambito dell’educazione, della scuola, della cooperazione internazionale. Se agisci su quel piano poi hai su tutta una serie di ricadute importanti.

Il pacifismo fa riferimento a valori umani universali, scrivete nel libro. Dunque necessita di una nuova antropologia, di un nuovo pensiero sulla realtà umana, diverso dalla visione hobbesiana che la descrive come naturalmente aggressiva e violenta?
Sì, sicuramente, lo sforzo della cultura pacifista è stato anche questo: offrire un nuovo modello anche da un punto di vista antropologico. Anche se poi non è stata percepita come una visione compiuta e questo è stato un punto di debolezza. Eppure semi in questo senso se ne trovano molti. Pensiamo per esempio a ciò che diceva Ernst Bloch. Ogni individuo può attingere all’energia che trova dentro di sé che non è legata alla violenza; rivolgerla verso l’altro diventa anche un potere di agire insieme. Ci sarebbe da fare anche una riflessione sul potere che non è necessariamente legato alla violenza, seguendo Hannah Arendt. Il problema è che quello che vediamo in atto in molti ambiti è ben altro modello. Se guardiamo, per esempio, alle forze dell’ordine traspare un modello di dominio. La sfida era ed è pensare un altro modo di vedere le relazioni sociali, politiche. Ribadisco la cultura pacifista ha tante sfumature all’interno, i riferimenti possono essere tanti e diversi e si sarebbe potuta costruire una visione “altra” veramente compiuta, ma la curvatura della storia è andata da un’altra parte…

Romina Perni e Roberto Vicaretti presentano Non c’è pace (People edizioni) il 3 settembre, ore 18, a Colleferro, presso i giardini Placido Rizzotto di via Giotto, nel rispetto delle norme anti Covid. L’incontro è promosso dalla sezione Anpi di Colleferro “La Staffetta Partigiana” e Retuvasa (Rete per la Tutela della Valle del Sacco“. Oltre agli autori partecipano Amalia Perfetti, presidente Anpi Colleferro e Alberto Valleriani, presidente Retuvasa

L’intervista di Simona Maggiorelli a Romina Perni è tratta da Left del 31 luglio 2020

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47Soul: Il nostro canto libero della terra di Levante

Il loro nome è simbolo della libertà di movimento e della Palestina libera. Sono i 47Soul, band di origine palestinese, i cui musicisti, quando il gruppo è nato, si trovavano tra la Palestina, la Giordania e gli Stati Uniti. In occasione dell’uscita del nuovo disco Semitics, (Cooking Vinyl/Egea Music/The Orchard) il 21 agosto, siamo tornati a incontrarli.

Per chi non vi conoscesse ancora: come è nato il gruppo 47Soul e qual è il significato del nome?
Abbiamo collaborato con il rapper iracheno-britannico Lowkey per la nostra canzone “Hold Your Ground”. Dato che ognuno aveva passaporto e carta di identità diversi, uno dei pochi Paesi arabi dove potevamo trovarci tutti insieme era la Giordania, dove il gruppo è nato nel 2013, ma dove non potevamo sostare a lungo. Allora la band si è spostata a Londra e lì abbiamo lavorato per cinque anni. Il nome 47Soul si riferisce all’ultimo anno in cui erano ancora aperte le frontiere tra Palestina, Libano, Giordania e Siria, il territorio che si chiama Bilad Al Sham o il Levante. L’occupazione della Palestina è cominciata nel 1948. Ci piace mantenere almeno le nostre anime libere dall’occupazione.

Dove avete lavorato insieme prima delle restrizioni dovute al Covid-19? E come siete riusciti a continuare il vostro lavoro con le restrizioni?
Fino all’inizio del 2020 e per i cinque anni precedenti, lavoravamo a Londra. Stranamente, anche prima di Covid-19 la band aveva deciso che non era più necessario stare nella stessa città, dato che potevamo sempre lavorare online e incontrarci nei tour. La pandemia ha anticipato il nostro piano, costringendoci a concentrarci più sullo scrivere che sull’andare in giro, ma essendo una band itinerante con un forte stile dal vivo misto alla danza, l’andare in tour ci manca e abbiamo bisogno di poterlo fare di nuovo. I musicisti sono tra le persone che la passano peggio in quarantena. E un’intera estate senza tour è una grande sorpresa.

La musica permette la comunicazione al di là dei confini. Questa è la ragione, credo, per cui i giovani, come quelli che ho incontrato diverse volte a Gaza, la amano così tanto. Qual è il messaggio che volete trasmettere ai giovani nella regione e in tutto il mondo?
Il nostro messaggio ai giovani, in ogni luogo, è lo stesso: la nostra storia come Palestinesi è il riflesso di molte idee, filosofie, politiche, versioni diverse della storia. È quasi come una storia antica che si ripete, e accade adesso. È la storia in cui siamo nati. Certo, siamo sotto l’occupazione militare di una forza mondiale enorme e influente ma questo non è tutto. Se vogliamo essere liberi la conoscenza è la nostra arma e la conoscenza la si può trovare in viaggi di diverso tipo; perfino nella danza e nel canto, da qualche parte nel tuo percorso troverai più risposte. La musica ShamStep è musica dance di Bilad Al Sham, ma per noi è la colonna sonora della breve vita vissuta da Basel al-Araj, uno scrittore e attivista della nostra generazione: quasi tutti noi eravamo suoi amici o avevamo amici comuni su Facebook. Basel incoraggiava la conoscenza e la ricerca. Anche lui come giovane palestinese si è interrogato sulle basi della libertà per il proprio popolo e per l’umanità. Può essere questa la ragione per cui le forze occupanti israeliane lo hanno ucciso (nel 2017 ndr). Ed è anche il motivo per cui la sua memoria fa paura alla leadership araba: scuote la loro moralità, in quanto sono coloro che hanno contribuito all’ignoranza, sostenuta dall’impianto coloniale occidentale delle terre in cui si parla arabo. Perché devi sollevare questioni così profonde!

La resistenza anticoloniale e/o la resilienza dei popoli nei vostri rispettivi Paesi fanno parte del vostro lavoro. Considerate la musica tradizionale palestinese e irachena la radice della vostra?
Dal punto di vista musicale e sonoro, sì, usiamo ritmi di Bilad Al Sham come la base principale del pomodoro per la nostra pizza, ma sopra ci mettiamo cose diverse. C’è molta musica africana, una vibrazione africana naturale, perché crediamo che lì ci sia una antica connessione di ritmo e canto e perché la sola via per andare dall’Asia occidentale all’Africa è passare per Gaza in Palestina. Per quanto riguarda i temi che scegliamo, penso che le nostre canzoni, come altre del passato nella regione Sham, parlino organicamente del dolore di essere un popolo colonizzato, privato del diritto di scegliere il proprio destino. Questo non significa solo giocare a colpevolizzare le potenze occidentali o soprattutto l’alleanza sionista-americana che influenza pesantemente l’Europa. C’è anche una grande responsabilità della leadership araba nell’assassinio di una certa filosofia islamica inclusiva che avrebbe almeno reso la divisione molto più difficile. Sappiamo tutti che “divide et impera” sono i migliori amici di un colonizzatore. Anche il nostro marxismo è sionista, almeno nei risultati…

Sia in Iraq che in Palestina, in tutta la regione Bilad al Sham, ci sono aree dove violenza e conflitto si verificano quotidianamente. Pensate che la musica possa contribuire a recuperare pace e giustizia?
Sì, naturalmente. Per fare un esempio: nella festa ufficiale per la liberazione della Palestina… quando tutti i rifugiati torneranno in un unico Stato e dopo la redistribuzione della ricchezza, possiamo ottenere due speaker e un piccolo mixer e prenotare una band!

Il vostro nuovo disco, in uscita il 21 agosto, si chiama Semitics. Perché? Oggi l’accusa di antisemitismo è spesso mossa contro attivisti (perfino in Israele) impegnati nella solidarietà con la Palestina. C’è in qualche modo, nel vostro disco, l’intenzione di opporsi a questo tipo di accuse?
Sì. L’hai capito e speriamo che sia chiaro a tutti. Siamo semiti, e non è una razza! Parliamo lingue semitiche, legate a una filosofia abramitica unitaria, che puoi anche chiamare filosofia greco-semitica, e gli arabi ne sono molto coinvolti, specialmente durante i tempi del Califfato Abasside nel XIII e XIV secolo. Questo è ciò che intendiamo quando diciamo che ai giovani palestinesi oggi spetta la responsabilità di parlare attraverso una filosofia alta perché è usando filosofie “superiori”che ogni giorno viene rubata la nostra terra per la quale i giovani muoiono e vanno in prigione quotidianamente, per difendere cioè un bisogno fondamentale.

L’intervista di Alessandra Mecozzi è stata pubblicata su Left del 7 agosto 2020

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Cosa significa vaccino?

Cells seen through the eyepiece of a microscope, that Paul Rogers a research technician counts in the laboratory at Imperial College in London, Thursday, July 30, 2020. Imperial College is working on the development of a COVID-19 vaccine. Scientists at Imperial College London say they are immunizing hundreds of people with an experimental coronavirus vaccine in an early trial after seeing no worrying safety problems in those vaccinated so far. Dr. Robin Shattock told the Associated Press that he and colleagues had just finished a very slow and arduous process of testing the vaccine at a low dose in a small number of participants and would now be expanding the trial to about 300 people, including those over 75. (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)

Oltre 25 milioni di contagiati e quasi un milione di morti ufficiali nel mondo, con un trend di crescita ancora incontrollato in moltissimi Paesi, tra cui gli Stati Uniti con la loro costosissima sanità. Danni economici, sociali e personali incalcolabili, sovente irreversibili. Cicatrici profonde e indelebili nel vissuto di tutti e nella psiche di troppi. La separazione ormai nettissima e irreversibile tra un prima della pandemia da Sars-cov2, che non potrà più esserci, e la diversità ancora incerta di oggi. Affrontare bene la realtà profonda di questa lacerante separazione è fondamentale per il futuro personale e collettivo. Per fermare questa spesso drammatica situazione, che sa ancora di irreale, serve il vaccino; una parola intrisa di aspettative a volte non reali, che non regalerà impossibili miracoli ma, se intelligenti, ci aiuterà ad essere diversi.

Il vaccino è l’arma finale e definitiva contro questo nuovo coronavirus. Genialmente inventato da Jenner alla fine del ‘700 per debellare il vaiolo, è una delle più grandi scoperte della medicina perché ha letteralmente cambiato il corso della storia dell’uomo. È di questi giorni l’annuncio dell’Organizzazione mondiale della sanità che finalmente anche in Africa è stata ufficialmente eradicata la poliomielite; in realtà è l’annuncio di una clamorosa…

 

*-*

L’autore: Quinto Tozzi è cardiologo; già responsabile di terapia intensiva cardiologica e già direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas)

L’articolo prosegue su Left del 4-10 settembre

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Nascere e morire. A Verona

«Il tempo per piangere c’è stato, ora è il tempo della giustizia. Chi ha sbagliato deve pagare. Alice poteva essere qui con me, che almeno la morte di mia figlia serva a qualcosa», sono le parole di Elisa Bettini, mamma di Alice, una dei neonati morti a Verona a causa del Citrobacter, intervistata da La Stampa. Dice Elisa: «Mi dicono che Alice ha la febbre, meningite da Citrobacter. Chiedo se ci sono o ci sono stati altri casi, mi rispondono di no. Nella stanza tiralatte, parlando con le altre mamme, scopro che non è  vero, e che di casi ce ne sono almeno cinque, Alice compresa, e che se ne verificano almeno dal dicembre precedente. Ci dimettono il 22 maggio. Il 12 giugno, Francesca (Frezza, la madre che ha fatto scoppiare lo scandalo, ndr) denuncia la situazione con un’intervista a L’Arena, il giornale di Verona. Ci troviamo con lei e con altre mamme, contiamo i casi di cui siamo a conoscenza, in totale sono una trentina, mentre qui continuano a parlare di dieci o dodici. Adesso veniamo a sapere che sono 96».

Lunedì è stata depositata la relazione stilata dalla Commissione istituita dal presidente del Veneto Luca Zaia per indagare sul caso di infezioni causate dal batterio Citrobacter koseri nei reparti di Terapia intensiva neonatale e pediatrica nell’Ospedale Donna e Bambino di Borgo Trento, a Verona. I risultati mettono i brividi: dall’apertura della struttura (era il 4 aprile del 2017) «sono stati identificati 91 soggetti positivi per Citrobacter», 9 neonati «hanno sviluppato una patologia invasiva causata da Citrobacter koseri» e tra questi 5 hanno riportato gravi lesioni cerebrali e 4 sono morti.

A giugno di quest’anno ci si è accorti che il batterio stava su alcuni rubinetti delle terapie intensive neonatale e pediatrica e sulle superfici interne ed esterne dei biberon utilizzati da due neonati risultati positivi. Molto probabilmente si tratterebbe di latte per neonati preparato con acqua infetta. Acqua del rubinetto. La struttura sanitaria non avrebbe mai comunicato nulla alla Regione e nemmeno all’ente che amministra la sanità veneta. Alice è morta il 16 agosto, dopo giorni di atroce sofferenza. Elisa adesso vuole sapere chi ha sbagliato: «Non tollero che neghino l’evidenza», dice: «Se faccio tutto questo, è perché io non voglio che succeda a un altro bambino».

È una storia che si porta un enorme carico di dolore.

Buon giovedì.

Grazia Guazzaloca: Il diritto allo studio e alla salute non vale per tutti?

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 31 Agosto 2020 Roma (Italia) Cronaca : Apertura scuole post covid 19: sistemazione dei banchi singoli nelle aule Nella Foto: il liceo Newton Photo Cecilia Fabiano/LaPresse August 31 , 2020 Roma (Italy) News: Post covid 19 school opening: school workers placing school desk in the classroom In the pic : newton high school

«La salvaguardia della salute della collettività e il diritto allo studio sono due cose che devono andare di pari passo, non nella direzione opposta». Grazia Guazzaloca, fondatrice del comitato Diritto alla scuola, si batte sin dal primo lockdown affinché la ripartenza dell’anno scolastico possa avvenire in sicurezza e nel rispetto dei diritti di tutti. Tuttavia, dopo sei mesi e a pochi giorni dall’inizio delle lezioni si naviga ancora a vista. Non si è ancora del tutto sciolto il nodo legato all’uso della mascherina e anche il distanziamento dei banchi crea diversi problemi. La distribuzione delle “postazioni” monoposto è in corso ma è materialmente impossibile che tutte le regioni ne possano usufruire contemporaneamente e in egual misura. Per esempio, la Sicilia e la Campania hanno richiesto un ricambio complessivo rispettivamente del 69 e 61% dei banchi, il Veneto 16.

Uno dei problemi cruciali, la cui soluzione sembra ancora molto lontana, è poi costituito dalla procedura da seguire in caso una persona venga rilevata positiva al Covid-19. Stando a iuna nota del Miur i casi verranno valutati di volta in volta a seconda della loro entità e del ruolo della persona contagiata (docente, alunno, personale ATA), con la messa in quarantena solamente della classe colpita. Soluzione che non convince Guazzaluca: «Abbiamo bisogno di un sistema di tracciamento e di prevenzione completo e duraturo, non della “semplice” quarantena che per gli insegnanti significherebbe non poter insegnare. A mio parere, il personale scolastico dovrebbe essere equiparato per importanza e rischio di trasmissione del virus a quello sanitario, il che equivarrebbe a test periodici e continuo monitoraggio». Proprio un secondo lockdown è l’ipotesi che più spaventa Diritto alla scuola, gruppo da una forte connotazione femminile e attento alle istanze di madri e famiglie. E, pertanto, particolarmente sensibile alla questione degli asili nido e dei bambini nella fascia di età tra i zero e i sei anni, «i primi ad essere penalizzati da una ripartenza disorganizzata», ribadisce la fondatrice. «È un problema totalmente ignorato da parte del governo e invece di fondamentale importanza: una seconda chiusura, seppur temporanea, comporterebbe danni ingenti sul tessuto sociale ed economico del paese».

A queste incertezze si aggiunge inoltre uno dei dilemmi del sistema scolastico, nonché sanitario, in Italia: l’autonomia. Strumento a doppio taglio, che, se da una parte garantisce flessibilità e margini di iniziativa, dall’altra, in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo, porta incertezza e smarrimento. Fin da maggio, con il Decreto rilancio, il Miur sostiene che il reperimento degli spazi per le aule e, strettamente connessa, la gestione delle assunzioni, devono essere gestiti dai singoli istituti. Tuttavia, «un’eccessiva autonomia contribuisce al perdurare delle diseguaglianze. Lo Stato non può “concedere” questa autonomia se poi alcune scuole funzionano bene e altre per niente. Il Paese è uno, e uno solo deve essere lo standard qualitativo, che non può essere assicurato solo dove gli enti locali riescono a lavorare meglio».

E il maluomo non s’armolada

Panorama from the summit of Marmolada with skiers getting ready and Mount Sella on the background on a beautiful sunny day, Dolomites, Italy

Marmolada è diventato un verbo, un verbo di distruzione, un verbo di irresponsabilità, un verbo che dovrebbe ricorrere nei discorsi perfino quelli del bar, quelli che si fanno con leggerezza e che ultimamente sono abbastanza ingolfati di presunti vip fieri di essere infettati e di chiacchiericcio di fondo.

Secondo uno studio del Centro nazionale delle ricerche tra 25-30 anni il ghiaccio della Marmolada non esisterà più. Nel dicembre del 2019 gli studiosi scrivevano che in soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%. Il ghiacciaio, un tempo massa glaciale unica, è ora frammentato e suddiviso in varie unità, dove in diversi punti affiorano masse rocciose sottostanti. I terreni carsici, come la Marmolada, sono irregolari e costituiti da dossi e rilievi. Se il ghiaccio fonde gradualmente, le aree in rilievo affiorano, diventando fonti di calore interne al ghiacciaio stesso.

Ora un nuovo studio dei glaciologi dell’Università di Padova dicono che il Cnr probabilmente è stato fin troppo ottimista. «Negli ultimi 70 anni – afferma Aldino Bondesan, coordinatore delle campagne glaciologiche per il Triveneto – ha ormai perso oltre l’80% del proprio volume passando dai 95 milioni di metri cubi del 1954 ai 14 milioni attuali. Le previsioni di una sua estinzione si avvicinano sempre di più: il ghiacciaio potrebbe avere non più di 15 anni di vita». «Se estendessimo il trend di riduzione di superficie degli ultimi 100 anni (3 ettari/anno) – spiega Mauro Varotto – la fine del ghiacciaio è fissata per il 2060; se consideriamo il trend di contrazione degli ultimi 10 anni (5 ettari/anno), la fine viene anticipata al 2045. Ma il trend degli ultimi 3 anni è ancora più allarmante (9 ettari/anno) e potrebbe portare alla scomparsa di buona parte del ghiacciaio già nel 2031».

E non si tratta di un caso isolato: l’aumento delle temperature hanno ridotto nell’ultimo secolo del 50% i ghiacciai e il 70% di questo 50% è avvenuto negli ultimi 30 anni.

Marmolada è diventato un verbo. M’armolada molto che se ne parli solo negli articoli considerati scientifici come se non fosse un tema fortemente politico. M’armolada che nella campagna elettorale in corso non ci sia un solo accenno. M’armolada che i segretari di partito non sprechino mai una parola, non abbozzino mai una soluzione ogni volta che esce una notizia di questo tipo. M’armolada che quelli che promettono di spostare le montagne non si accorgono della loro sparizione. M’armolada che ancora si scriva e si dica del presunto maltempo senza capire che non è mai il tempo a essere malo ma tutto quello che accade è colpa piuttosto di un maluomo.

E il maluomo non s’armolada, continua a arrovellarsi sui problemi (reali e spesso inventati) che interessano il presente.

Buon mercoledì.

E i decreti sicurezza?

Centinaia di migranti sbarcati a Pozzallo, dopo esser stati salvati dalla Guardia Costiera Pozzallo Sicile Italie. Des migrants, qui ont quitté l'Afrique clandestinement, ont été secouruS en pleine mer par un navire de guerre italien et ont été débarqués dans le port de Pozzallo en Sicile pour ensuite être répartis dans des bus afin de rejoindre différents camps. A total 220 migrants are on their way to Pozzallo after they were rescued by two Italian coastguard patrol boats. photo : Olivier Corsan © MaxPPP LaPresse -- Only Italy

Conviene ricordarlo perché fa bene a noi e fa bene anche a loro, loro che sono al governo e che ci avevano garantito che sarebbe stato il governo della discontinuità, ci avevano rassicurato che si sarebbe cambiata rotta. E il bello è che continuano a dircelo ancora, insistono nel tranquillizzarci chiedendoci ancora pazienza. State buoni, abbiate fiducia, ora facciamo tutto.

I decreti sicurezza. Quei decreti sicurezza voluti con tanto ardore da Matteo Salvini e controfirmati da Luigi Di Maio e dal presidente del consiglio Giuseppe Conte, quei decreti sicurezza che in nome della discontinuità sarebbero stati abrogati e poi invece ci siamo dovuti accontentare che fossero modificati. Badate bene: della promessa che fossero modificati. Siamo sempre nel campo delle promesse. Sono passati 362 giorni dall’insediamento del governo Conte 2 e i decreti sicurezza continuano a restare là dove sono e, dalle notizie che girano dalle parti del governo, sembra che se ne riparli dopo le elezioni regionali, a ottobre. Vi ricordate la promessa che sarebbero stati all’ordine del giorno nel primo Consiglio dei ministri di settembre? Beh, scherzavano, non è così.

Le parole migliori le ha espresse Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) a Redattore Sociale: «Questo rinvio è l’ennesimo gioco della paura: si rinuncia a presentare agli italiani la propria visione diversa e nuova sulle migrazioni per paura di perdere consenso. E’ ormai un circolo vizioso costante dal quale però bisogna uscire, soprattutto in un momento in cui bisognerebbe spiegare le proprie idee agli elettori. Quei decreti non vanno bene, perché non spiegare che i grandi centri creati da Salvini stanno creando problemi con l’emergenza sanitari di Covid-19? Che serve reintrodurre una forma di protezione? Così rimane solo l’impianto ideologico della destra. Se poi il rinvio significa che il voto influenzerà le modifiche, potremmo avere una crisi di quell’accordo che abbiamo raggiunto a fatica, c’è addirittura lo spettro di non fare nulla».

E così siamo alle solite: una politica che decide di non decidere sperando di continuare a galleggiare, come se niente fosse. Un centrodestra che può continuare a sparare a palle incatenate e intanto un centrosinistra che non ha nemmeno il coraggio di proporre un’alternativa. Qui ormai siamo oltre all’egemonia culturale della destra: qui siamo nel deserto di idee e di coraggio. Lo so, ancora, è sempre la solita storia.

Buon martedì.

Morti di fame

È una storia che gocciola sangue anche se non c’è sangue in giro perché qui i morti muoiono per consunzione. Giovedì sera a Istanbul è morta Ebru Timtik, avvocata che da 238 giorni era in sciopero della fame nelle prigioni turche per chiedere un processo equo per sé e per 17 colleghi che erano accusati di legami con il Fronte rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp/C), un gruppo di estrema sinistra considerato formazione terroristica dal governo.

Timtik aveva 42 anni e si occupava di diritti umani da sempre, era stata condannata nel 2019 a 13 anni e sei mesi di carcere, il suo accusatore è stato ritenuto non credibile, lei contestava l’iter giudiziario che l’aveva portata alla condanna. In Turchia Erdogan da anni, graziato dal silenzio dell’Europa, utilizza l’accusa di terrorismo per fare piazza puliti degli oppositori ritenuti scomodi al governo. Timtik faceva parte dell’associazione contemporanea degli avvocati, specializzata nella difesa di casi politicamente scomodi, “se l’era andata a cercare”, come commenterebbe qualche pavido nostrano che insegna e ci vorrebbe insegnare che per non avere problemi conviene sempre farsi “i fatti suoi”. Ebru Timtik aveva difeso anche la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente vittima delle ferite riportate durante le proteste antigovernative a Gezi Park nel 2013.

Un mese fa il tribunale di Istanbul aveva negato la richiesta di scarcerazione di Ebru Timtik dichiarando che era “in salute” e perfino la Corte Costituzionale aveva negato, qualche settimana fa, la scarcerazione. Con Timtik in sciopero della fame c’era anche il suo collega Aytaç Ünsal, anche lui incarcerato, che con un filo di voce dal letto di ospedale ha detto di essere ancora più convinto di quello che sta facendo e della sua lotta, che vorrebbe che la battaglia di giustizia continui, anche lui è in pericolo di vita. Sono 18 gli avvocati condannati per un totale di 159 anni, un mese e 30 giorni di reclusione: tra le accuse nei loro confronti c’è anche quella di avere parlato con i loro clienti. Accusati di avere fatto il proprio lavoro. I testimoni del processo erano tutti anonimi e in carcere, evidentemente ricattabili. A maggio tre musicisti membri del gruppo Grup Yorum, anche loro accusati di terrorismo, si sono lasciati morire d’inedia per protestare contro Erdogan.

È una notizia enorme, enorme per l’altezza del pensiero di chi muore per degli ideali ancora nel 2020, qui vicino a noi, in un Paese con cui tutta Europa briga fingendo di non vedere, ed è enorme perché è una lezione di difesa della giustizia anche di fronte alla legge. Morti di fame per difendere i propri diritti, sembra una storia che arriva dal secolo scorso. Durante il funerale di Ebru Timtik sono stati sparati lacrimogeni contro i giovani che vi partecipavano.

Accade qui, vicino a noi. Lo sentite questo fragoroso silenzio?

Buon lunedì.

Altro che “discotecari irresponsabili”

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 05-06-2020 Roma , Italia Cronaca Coronavirus, protesta maturandi Nella foto: Ministero Istruzione, momento della protesta organizzata nelle città italiane degli studenti che dovranno sostenere gli esami di maturità Photo Mauro Scrobogna /LaPresse June 05, 2020  Rome, Italy News Coronavirus outbreak: In the picture: ministry of education, moment of protest organized in Italian cities by students who should take the final exam of secondary school

Biasimati da media mainstream e dalla (peggiore) politica quando si aggirano per le discoteche. Ignorati quando si impegnano per realizzare una scuola che funzioni e forme di socialità alternative e responsabili. È il triste destino dei giovani in Italia. Una prospettiva di fronte alla quale, però, gran parte di loro non si arrende. E anzi si batte quotidianamente contro pregiudizi e gerontocrazia, per il diritto allo studio e a un tempo libero che non sia solo vagare tra consumifici: bar, locali, templi sacri dell’industria del divertimento. Ne abbiamo parlato con alcuni ragazzi dell’Unione degli studenti (Uds), associazione che sin dall’inizio dell’emergenza Covid si è attivata per risolvere le straordinarie difficoltà degli alunni delle scuole superiori.

«Qui a Monza ad esempio, dove la situazione è stata particolarmente drammatica, è mancato e manca tutt’ora un adeguato servizio di supporto psicologico, di cui tanti ragazzi e ragazze avrebbero assai bisogno», dice a Left Ludovico Di Muzio. «Inoltre – prosegue lo studente – a due settimane dalla prima campanella, ancora non sappiamo se potranno essere garantite lezioni in presenza per tutti». I problemi sono – anche – strutturali. «L’edilizia scolastica qui era messa male già prima della pandemia – aggiunge Di Muzio -. Nell’anno scolastico 2018-2019 si son verificati 16 crolli nelle…

L’inchiesta prosegue su Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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