Home Blog Pagina 477

Prigionieri del passato

People, draped in Turkish flags stand outside the now closed Byzantine-era Hagia Sophia, one of Istanbul's main tourist attractions in the historic Sultanahmet district of Istanbul, Saturday, July 11, 2020. Turkey's President Recep Tayyip Erdogan formally reconverted Hagia Sophia into a mosque and declared it open for Muslim worship, hours after a high court annulled a 1934 decision that had made the religious landmark a museum.The decision sparked deep dismay among Orthodox Christians. Originally a cathedral, Hagia Sophia was turned into a mosque after Istanbul's conquest by the Ottoman Empire but had been a museum for the last 86 years, drawing millions of tourists annually. (AP Photo/Emrah Gurel)

«Hagia Sophia sarà aperta a tutti, credenti e non. I suoi storici mosaici saranno preservati così come avviene da 500 anni». Intervistato dalla Cnn la scorsa settimana, il portavoce della presidenza turca Ibrahim Kalin ha provato a tranquillizzare il mondo occidentale: la recente riconversione del famoso sito Unesco di Istanbul da museo a moschea non cambierà la sostanza dei fatti. Eppure non sarà un passaggio privo di conseguenze. Domenica la Diyanet – l’autorità religiosa in Turchia – ha fornito qualche dettaglio in più su cosa concretamente accadrà: se è vero che la moschea resterà visibile ai turisti tranne durante le preghiere quotidiane, i mosaici cristiani che sono posizionati in direzione della Mecca saranno coperti. Già, perché Hagia Sophia nacque nel 537 d.C. come cattedrale cristiana ortodossa durante l’impero bizantino di Giustiniano. Il suo status cambiò nel 1453 quando i turchi ottomani guidati da Maometto II conquistarono Istanbul e posero fine all’Impero Romano d’Oriente. Tra le prime disposizioni del sultano vi fu quella di convertire la chiesa in moschea. La storia travagliata del complesso non era però terminata: da luogo di culto dei musulmani, infatti, nel 1935 Hagia Sophia cambiò nuovamente utilizzo. All’interno del suo più ampio piano di laicizzazione e de-ottomanizzazione del Paese, il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Ataturk, decise di trasformarla in museo.

Venerdì 10 luglio, il nuovo colpo di scena: rispondendo ad un’istanza presentata da un’organizzazione religiosa turca, il Consiglio di Stato ha concluso che il complesso non può essere «legalmente» altro che una moschea. Parole che hanno fornito l’assist decisivo al presidente Erdoğan per correggere «l’errore» commesso da Ataturk, simbolo dell’oppressione e delle umiliazioni patite dai religiosi turchi per mano laica. L’appuntamento per la prima preghiera è fissato per venerdì 24 luglio. Data non scelta a caso: proprio il 24 luglio, infatti, ricorre l’anniversario del Trattato di Losanna (1923) che diede basi legali alla Turchia laica di Ataturk.
«Da decenni il complesso è ritenuto quasi una causa sacra per gli islamisti e i nazionalisti musulmani locali. Erdoğan dichiarò lo scorso anno che era una trappola convertirla in moschea. Ora sa che non lo è più: la situazione di difficoltà in politica interna, una Turchia più risoluta internazionalmente e la sua volontà di assumere la leadership nel mondo musulmano possono averlo spinto a prendere questa drammatica decisione», dice a Left l’analista turco di al-Monitor Cengiz Candar. «Nella crisi mondiale post-Covid dove manca una…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 24 luglio

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

I buoni e i cattivi

Immaginate che qualcuno compia un reato, che ne so, che rubi due mele da un fruttivendolo. Accade tutti i giorni, accade un po’ dappertutto. Quello che ruba le mele è un ragioniere e un minuto dopo il suo arresto l’associazione nazionale dei ragionieri finisce dappertutto per dire che i ragionieri non sono tutti dei ladri di mele, di non permettersi nemmeno di pensarlo e tantomeno scriverlo.

Oppure immaginatevi un idraulico che uccida una persona. Immaginate un ex ministro dell’Interno che come prima reazione rilascia una bella intervista augurandosi che l’idraulico possa dimostrare la propria innocenza ma soprattutto che ringrazi la categoria degli idraulici per tutte le volte che sono stati ingiustamente accusati.

A Piacenza per la prima volta in Italia è stata posta sotto sequestro una caserma dei carabinieri, la caserma “Levante” in centro città, e i magistrati hanno raccontato di 18 persone coinvolte nell’inchiesta con rapporti molto stretti nei confronti di alcuni spacciatori (una sorta di onorata società che vede guardie e ladri mettersi in affari) contestando una caterva di reati: traffico e spaccio di stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, peculato, abuso d’ufficio e falso ideologico. Una roba enorme. E ogni volta che si parla di carabinieri esce questo corporativismo che risulta petulante e fastidioso: se si accusa un carabiniere sembra obbligatorio doversi quasi scusare con tutti gli altri. Non conta che una persona che debba garantire la legalità abbia molte più responsabilità sociali proprio per la divisa che porta, no: accusare un carabiniere per molti significa porsi immediatamente nella parte di quelli che odiano i carabinieri, con buona pace della complessità e della percezione della realtà.

Ma c’è una spiegazione semplice semplice: i fatti come quelli di Piacenza rompono il giochetto della narrazione dei buoni e dei cattivi con cui certi superficiali propagandisti dividono il mondo. Sono gli stessi che vorrebbero classificare le persone per l’etichetta che gli si appiccica addosso e non per quello che fanno e per quello che sono. Sono gli stessi che hanno bisogno di banalizzare la realtà perché si riconoscono incapaci di coglierne le sfumature e ancora di più governarle.

Così se uno dei sicuramente buoni improvvisamente diventa cattivo credono che anche gli altri, quelli che invece sono ben consapevoli della moltitudine di sfumature della realtà, ragionino come loro e categorizzino il resto del mondo.

Buoni o cattivi. Bianco o nero. Deve apparire ben facile governare un mondo così.

Buon venerdì.

Perseverare sarebbe diabolico

Italy's Prime Minister Giuseppe Conte arrives for an EU summit in Brussels, Monday, July 20, 2020. Leaders from 27 European Union nations stretch their meeting into a fourth day on Monday to assess an overall budget and recovery package spread over seven years. (Stephanie Lecocq, Pool Photo via AP)

Parlare di perdita di posti di lavoro, disoccupazione e precariato a fine luglio, invece che di mare e vacanze, è uno degli effetti collaterali della pandemia e della crisi che si è innestata su quella mai risolta del 2008. Uno degli effetti più dolorosi. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte ai numeri che fotografano la situazione attuale e le previsioni relative alla seconda metà del 2020. Stando ai dati dell’Employment outlook dell’Ocse, come ci ricorda nella storia di copertina Roberto Musacchio, il tasso di disoccupazione in Europa è passato dal 5,2% di febbraio all’8,4% di maggio e il totale delle ore lavorate è crollato dieci volte di più rispetto ai primi tre mesi della crisi del 2008. Tra i 27 Paesi Ue, l’Italia è uno dei più colpiti, in termini sia di calo dell’occupazione che delle ore lavorate (-28%). L’Istat parla di circa 500 mila disoccupati in più e di 400 mila persone che hanno rinunciato a cercare lavoro. Lo Svimez prevede che nell’arco del 2020 solo al Sud rischiano di scomparire 380mila posti di lavoro, l’equivalente di quanto si perse in quattro anni tra il 2009 e il 2013. E i più colpiti sono coloro che hanno un contratto a tempo determinato, le donne, i giovani. Sempre secondo l’Ocse, la disoccupazione in Italia dovrebbe toccare il 12,4% a dicembre per poi rallentare e scendere entro la fine del 2021 all’11%. Questo se non dovesse arrivare la tanto temuta seconda ondata pandemica in autunno. E se dovesse arrivare?

«Per mandare mia figlia all’asilo nido rischio di perdere il lavoro». Sono alcune parole della lettera che abbiamo ricevuto da Alessandra, una nostra lettrice, che ha deciso di raccontarci uno dei tanti paradossi provocati dalla crisi. Sia lei che il marito hanno un buon reddito e Alessandra definisce la sua famiglia benestante. Per problemi di orario avrebbero potuto iscrivere la bimba a un asilo pubblico solo ricorrendo a una baby sitter che coprisse le ore mancanti. Hanno allora deciso di cercarne uno privato ma dopo il lockdown sono centinaia quelli che non sono riusciti a ripartire (il 10% secondo le stime rivelate in audizione alla commissione Affari sociali della Camera dal comitato EduChiAmo), e a settembre potrebbero diventare oltre 2.400 (sui 6mila esistenti in Italia) a dover chiudere i battenti non avendo i soldi necessari per adeguarsi alle norme anti-Covid. La scelta di Alessandra è caduta allora – seppur contro voglia «perché non in linea con le nostre scelte educative» – su un asilo di proprietà della Chiesa «che costa uno sproposito». E qui l’amara sorpresa: «In caso di chiusura per un nuovo lockdown siamo comunque obbligati a pagare la retta per tutto l’anno scolastico». Questo significa che la bimba tornerebbe a casa e oltre alla retta Alessandra e suo marito dovrebbero pagare una babysitter per almeno una decina di ore al giorno. Non resterebbe loro che un’alternativa altrettanto costosa: rinuncia di uno dei due al posto di lavoro. Di qui le sue parole iniziali. Alessandra guadagna meno del marito, e quindi sarebbe lei a dover rinunciare a un contratto a tempo indeterminato. Pertanto si chiede, e ci chiede: «Dove sono le linee guida del governo per gli asili nido? Dove sono i fondi per sostenere gli asili pubblici e fornire un servizio a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno? Dove sono le politiche di sostegno alla maternità?». Già, professor Conte, dove sono?

Andiamo oltre. L’inchiesta di Carmine Gazzanni e Stefano Iannaccone ci ricorda che la rinuncia a qualsiasi politica industriale negli anni ha portato l’Italia a perdere il 25 per cento della propria capacità produttiva. Su queste macerie, su questa crisi strutturale si è “innestata” quella provocata dalla pandemia. Così oggi sono 150 le vertenze aperte sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico e almeno 135mila persone rischiano di perdere il lavoro in pochi mesi. «L’Italia – spiega Francesca Re David, segretario generale della Fiom – è stato il Paese che più di tutti ha deciso di affidarsi al mercato», delegando in pratica alle multinazionali private le politiche del lavoro. E queste sono le conseguenze. Andiamo incontro a un destino ineluttabile? Noi diciamo di no, purché si affronti la situazione evitando di ricorrere alle stesse ricette liberiste che hanno provocato e aggravato la crisi come abbiamo documentato su Left in questi mesi. Conte è tornato dal Consiglio europeo sul Recovery fund con 36 miliardi in più a disposizione dell’Italia per organizzare il rilancio. E questa è una buona notizia. Come osserva l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, in totale ora tra fondi nazionali ed europei (Recovery fund, Bei, Sure, Mes) sono circa 380 i miliardi che potrebbero essere utilizzati per favorire la ripresa e affrontare l’autunno quando diminuiranno i sostegni ai lavoratori e alle famiglie. E anche questa è una buona notizia. Tuttavia affinché questo fiume di denaro si trasformi in una reale svolta occorre il coraggio di pensare un nuovo modello di società dove – in sintonia con i fondamenti della Costituzione – il benessere delle persone, la tutela dei diritti di tutti e le opportunità di realizzazione delle esigenze di ciascuno, a prescindere dal colore della pelle o dal sesso (o dall’età etc), non siano più subordinati alla logica disumana del profitto.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 24 luglio

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Il piano anti catastrofe

Germany's Chancellor Angela Merkel ( 2nd L) stands next to Netherlands' Prime Minister Mark Rutte (L), President of the European Commission Ursula von der Leyen (C), Italy's Prime Minister Giuseppe Conte( 2nd R) and France's President Emmanuel Macron prior the start of the European Council building in Brussels, on July 18, 2020, as the leaders of the European Union hold their first face-to-face summit over a post-virus economic rescue plan. - The EU has been plunged into a historic economic crunch by the coronavirus crisis, and EU officials have drawn up plans for a huge stimulus package to lead their countries out of lockdown. (Photo by Francisco Seco / POOL / AFP) (Photo by FRANCISCO SECO/POOL/AFP via Getty Images)

L’accordo europeo sul Recovery Fund rappresenta una svolta storica per l’Europa. Per l’Italia e, soprattutto per il premier Conte, si tratta di una vittoria netta: la trattativa si conclude con 36 miliardi in più per il nostro Paese, il 28% del totale delle risorse messe complessivamente a disposizione. La sfida, adesso, sarà quella di una efficace e tempestiva destinazione di questa enorme disponibilità finanziaria per favorire una ripresa economica che si innesti rapidamente sulla fase precedente che è stata giustamente caratterizzata dalle tutele e dagli ammortizzatori sociali.

Siamo nel pieno della cosiddetta “fase 3”, cioè due gradini oltre il lockdown e vicini alla messa a punto finale di un vaccino (anglo italiano e cinese) in grado di sconfiggere la pandemia, per il quale gli scienziati prevedono una possibile prima vaccinazione ai soggetti più a rischio entro la fine dell’anno. A livello mondiale, in alcuni Paesi, siamo ancora lontani dal picco epidemico. La sintesi estrema è che ci troviamo nel pieno della più grave crisi economico-sociale, dal dopoguerra ad oggi, creata da un virus insidioso per la sua capacità di diffusione e che ci costringerà ancora per lungo tempo ad adottare inevitabili misure di prevenzione. Misure che rendono difficile un ritorno alla normalità per molte attività imprenditoriali e commerciali ponendoci in una situazione che non ha precedenti. Di fronte a questi dati di realtà non possiamo ragionare in termini ordinari, come se dovessimo amministrare qualcosa di normale: il Covid a livello mondiale ha avuto e avrà un impatto violento sugli stili di vita, sull’economia, sull’occupazione e sulla salute delle persone. C’è dunque bisogno di una azione coordinata a livello mondiale volta a sconfiggere il virus senza distinzione tra Paese e Paese, malgrado ancora oggi ci sia chi, come Bolsonaro in Brasile e Donald Trump in Nord America, sottovaluta la gravità di quanto sta accadendo.
Ma c’è bisogno di una azione altrettanto energica per contrastare gli effetti devastanti sulle economie dei Paesi più colpiti dalla pandemia, tra i quali l’Italia. Il sentimento più diffuso, nel nostro Paese, è il timore per ciò che avverrà in autunno e quando diminuiranno i sostegni e le tutele per i lavoratori, le famiglie e le imprese. Il nostro governo ha deciso le prime deliberazioni di emergenza già a fine gennaio: l’ultima qualche giorno fa con la recente conversione del decreto Rilancio. Se proviamo a sommare le risorse destinate all’emergenza Covid, dal Cura Italia, ai decreti Liquidità e Rilancio, arriviamo alla cifra record di oltre 76 miliardi di euro a favore di imprese, lavoro dipendente e autonomo e famiglie: una cifra che non ha precedenti e che, sommata al totale delle risorse messe a disposizione dall’Europa (Recovery Fund, Bei, Sure, Mes) arriva a un totale di 380 miliardi di euro.

Lo sforzo prodotto in questi mesi ha anche mostrato alcune falle e si è scontrato con lungaggini burocratiche (ad esempio l’iter tormentato della Cassa integrazione) lasciando per mesi molte famiglie senza alcun sostegno economico e in molti altri casi le aziende davanti alla necessità di anticipare cifre enormi di Cigs con le attività ferme. La sburocratizzazione rimane uno dei nodi più aggrovigliati da sciogliere, soprattutto di fronte ad un dato che non ha precedenti: nel 2010, anno orribile della Cassa integrazione, abbiamo autorizzato 1 miliardo e 200 milioni di ore di cassa integrazione; oggi, nei primi 5 mesi del 2020, siamo già a un miliardo e 800milioni di ore che corrispondono a 2 milioni di lavoratori fuori dalla produzione dall’inizio dell’anno. Di questo stiamo parlando. Stiamo parlando della necessità di far ripartire questo Paese senza zavorre. E il duro negoziato europeo è stato l’occasione giusta ed è stato all’altezza della sfida. Stavolta sarà vietato…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 24 luglio

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Ora attenzione ai restauratori e ai roditori

Ci sono 209 miliardi sul piatto. Piaccia o non piaccia Giuseppe Conte ha fatto ciò che doveva fare e ha ottenuto ciò che doveva ottenere mentre l’Europa si è dimostrata all’altezza della situazione. L’Italia avrà 146 miliardi nei prossimi due anni e i restanti 63 miliardi arriveranno nel 2023. In mezzo ci sono da fare le riforme che l’Europa chiede da tempo e c’è da dimostrare competenza e intelligenza sulla gestione dei soldi. I precedenti non fanno ben sperare ma augurarsi il malaugurio non è una mossa intelligente.

Fantastica la reazione dell’opposizione (se così si può chiamare un centrodestra in cui ormai ognuno va per conto suo sempre intento a mangiarsi il suo alleato più vicino): Giorgia Meloni dice che si doveva fare “di più” (di più di cosa non si capisce e come si avrebbe dovuto fare non si capisce nemmeno), Salvini è praticamente impazzito accusato perfino dai suoi di essersi impegnato in panzerotti e mozzarelle mentre quelli in Europa trattavano e Berlusconi invece invoca addirittura il Mes segnato una distanza siderale rispetto alla Lega. Il caos che regna da quelle parti non si vedeva da mesi: l’opposizione è senza leader per troppo affollamento di presunti leader. A posto così.

Decidere come spendere i soldi è politica: le priorità, le promesse, gli obbiettivi e le visioni si vedono nella ripartizione dei capitoli di spesa. Non si può promettere attenzione a un settore a parole e senza finanziamenti. La ripartizione di questi soldi sarà la carta di identità di questo governo. Ma c’è un rischio, anzi due, dietro l’angolo: i restauratori e i roditori.

Dei restauratori ne abbiamo lungamente parlato nel numero di Left in edicola: sono quelli che di tutta questa storia vedono solo una marea di soldi da poter usare per i propri interessi personali, per le proprie prebende e per potere accontentare i propri gruppi di potere. L’Italia, nelle sue classi dirigenti e nelle sue lobby, è un Paese che è cambiato molto meno dei governi che si sono succeduti e l’idea di un largo governo nazionale nasconde la voglia dei soliti noti di poter mettere mani su quei soldi. Questi vorrebbero sembrare conservatori e invece sono arraffatori, semplicemente.

Attenzione anche ai roditori: sono quelli incapaci di piantare alberi che vivono per creare buchi sugli alberi degli altri e rivendere come vittorie le disfatte altrui. Non serve nemmeno fare i nomi. Anche di questo ne abbiamo parlato in un buongiorno di qualche giorno fa.

Buon giovedì.

A light and collective space

Training up the next generation of craftswomen ... Yasmeen Lari’s Zero Carbon Cultural Centre, Makli, Pakistan. Photograph: Courtesy Heritage Foundation of Pakistan

We can begin to broadly hypothesize how architecture and design will be transformed following the 2020 pandemic emergency. The crisis has highlighted the importance of distribution and functional flexibility and many temporary structures have been set up in parks and stadiums or assembled in public spaces in various cities around the world. In public debate, there are words of great encouragement for the future and for the need for sustainable interventions that will take distancing measures into account in the coming months. The main focus is the future city, and the reference to formal lightness emerges from the need to respond to the current requirements for change. Often among the various professionals are males who discuss the future of the city. This request for transformation amplified by the tragedy, however, has structured foundations in the panorama of international and innovative research in architecture.

There is already research that could support this new phase which also looks beyond hygiene, distribution standards and the necessary environmental sustainability of the project.
However, in March, in the midst of the global crisis, the 2020 Jane Drew Prize was awarded to Yasmeen Lari, a pioneer of humanitarian architecture. Yasmeen Lari, an Oxford graduate, was the first female architect in the 1960s to practice the profession in Pakistan. In an interview with Aljazeera English, she said that her professional practice changed radically following the tragic 2005 earthquake that affected the population of her country. From that moment, she began to design radically different architecture with purposes close to a collective and with a humanitarian sense of space and use of the planet’s resources. In the same interview, she had the following to say about the role of the architect: “… we are convinced that architects can use their knowledge to lift populations out of poverty. This is what I am trying to do, this means that we must democratize architecture and we must also ensure social and ecological justice.”

The responses of the architect Y. Lari, co-founder of Heritage Foundation, to issues of sustainability, social justice, urban greenery, attention to the environment and new materials to be tested for the public good, are striking. Her words, while being part of a global debate, stem from other considerations concerning ideas of equality and social justice, which makes them sound full of hope. Design should be for everyone because even the poor can appreciate it, as she explained in the interview. Some of her projects accomplished with zero carbon production, to protect the Pakistani world heritage, include: “Chulah” 2017, through which she helped many women in poor rural areas of Pakistan to build clay kitchens by themselves using ancient sustainable techniques, and Sindh Floods Rehabilitation 2011, designed following episodes of disastrous flooding which required new housing structures made of natural materials to be built in order to adapt to rising water levels.

There is also another level of architecture, which often remains in the form of drawings, images or three-dimensional models for international competitions and has seen many women architects engaging differently from in the past. This is a lesser-known practice that feeds on images of masterpieces in the history of architecture by great masters such as Eero Saarinen, Alvar Aalto, Wright and historical and contemporary artists.

It has been ten years since the Chinese Expo in Shanghai (Better city, Better Life. Shanghai 2010), the theme of which was “A better city for a better quality of life.” It involved many minor interdisciplinary design studies carried out on the borders between imagined architecture, art and the use of innovative technologies. Diversified architectural designs for public or private spaces were explored, with flexible interior design solutions, urban installations and landscape planning, not to mention possible futuristic scenarios such as research involving artists, architects, technicians and engineers to create interplanetary modules at the Media Lab Space of the M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology).

Architecture that could be defined as utopian in line with the recent global communication revolution. This peaceful revolution that has grown over the years, when applied to the various disciplines, can respond to common feelings regardless of national borders as it has granular sensitivity linked to the territory, people and communities. It explores a broader vision of the idea of being human, which underlies the creation of architecture, understood as a plasma of creativity in thought that revitalizes the design approach and the city of the future.

New York – reconnecting the city with human and environmental value in the territory.

Compared to rural areas in Asia and Africa, where humanitarian architecture mainly operates, we can consider the reality of large urban densities. In just in one of the epicenters of the pandemic, New York City, the tragedy highlighted the social injustices and problems that still exist in the megacity, mainly related to the quality of life, pollution, the conservation of urban greenery, and the distribution of resources and services in the ethnic suburbs. Most affected urban and suburban areas require creative redevelopment. To name just one: the Jackson Heights neighborhood in Queens has infrastructural barriers of railway lines and roads with which the population coexists in an unhealthy relationship filled with noise and various types of pollution.

Following the New York lockdown, the mayor of the megacity, Bill Di Blasio, among the various interventions and concrete aid for the population, made certain streets pedestrian in Manhattan to promote social distancing. This was a temporary measure that curiously implemented what many projects and interventions on the possible metropolitan future had already foreseen. However, these types of initiatives for public good, even at territorial scale, are often not promoted by official bodies, but rather are driven by private individuals, such as the well-known linear park Diller Scofidio + Renfro’s High Line 2009. The park is a paradigm of agri-tecture, a strategy for conceiving architecture and landscape design even in an urban context. Today, however, building speculation in some places overshadows its green layout along its path of industrial archeology. In our research in the suburbs and in the various New York neighborhoods we found that there are other areas that resist, such as those with urban gardens and vegetable gardens, in Brooklyn, maintained and granted to free citizens, artists and pensioners who preserve green spaces and produce the fruits of the earth, living in the metropolis according to a sustainable model. Also in this case, free initiatives connect the vertical city to the territory with small gestures that don’t seek to make a profit. Photos of the urban gardens – April 2020. Photographs by Megan Martin Photography. NY

Artistic (design, research, creative value of the line in the initial project), social and environmental sustainability.
In December 2019, we attended a review of student projects at the Department of Architectural Technology of New York City College of Technology. On Professor Rain Wang’s architecture course the students, in addition to their computer skills, learned the techniques of freehand drawing and perspective, and to create models built with their own hands, making the lines of their drawings appear in a three-dimensional construction for the tectonics of the whole and the distributive movement. This contrasts with what happens in the work sector where everything goes through standardized rational phases. Perhaps it would be desirable to deepen dynamic psychology studies to be applied also to the design of the space. The visual gaps found in many architectures built in today’s landscape could be attenuated by the designs and models.

Following this line of thought, here we participated as (q04architecture) for one of the design competitions organized by The Architectural League of New York in collaboration with the Socrates Sculpture Park. The theme of the Folly/Function 2018 included the design of urban furniture for the park, to be thought of as a module that can be assembled (the competition was won by Hannah with the RRRolling Stones project). The annual competition explores the relationship between art and architecture in a design for public use within the scope of activities in the park, which is located on a strip of land in Long Island City overlooking the East River. Thanks to a private initiative, since 1986 it has resisted speculative construction that would have turned it into a space for luxury apartments; it officially became a city park in 1998. The panoramic quality of the park means that it can accommodate many installations by artists, designers and architects. Complex issues for the planet, such as water resources or the value of new materials applied to design, are addressed each year, but the main theme is lightness and flexibility to construct the overall image. These are silent gestures that inspire the design of a city for everyone and lead us to ask, inspired by utopistic ideals, that we do not return to normal within the architectural box of profit, but that new windows can be opened that allow for creativity and artistic sustainability, also in architecture and urban design.

 

The article is part of a leaflet made up of four articles published in the Left 29 May (Authors: Simona Maggiorelli, Paola Rossi, Giulia Ceriani Sebregondi and Francesca Serri)

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Finalmente, Irene Grandi: «Noi donne dobbiamo volerci bene»

L’immagine di lei in una piazza della Signoria deserta, per l’insolito concertone del Primo Maggio, è arrivata forte. Firenze e la sua voce potente, in pieno lockdown, perché alla musica non si può, non si deve, rinunciare. «La bellezza dell’architettura fiorentina alle spalle mi sosteneva e la mia voce andava libera per le strade deserte. Un’occasione che mi ha dato una carica fortissima, è stato un riaccendermi, mi ha ripagata di tutta questa sofferenza», racconta Irene Grandi.

Rocker versatile, una voce potente, interprete dal carisma coinvolgente che vanta le più celebri collaborazioni; per lei hanno scritto i nostri migliori artisti, da Pino Daniele a Francesco Bianconi. Vasco Rossi è l’autore del pezzo che ha portato a Sanremo, “Finalmente io”. Di questi giorni, il video di “Devi volerti bene”, un altro brano che fa parte della raccolta Grandissimo, l’album che celebra i suoi 25 anni di successi. Parliamo di questi mesi, dei disagi nell’ambiente musicale, ma anche della condizione femminile per la quale l’artista fiorentina offre una riflessione intelligente, in vista del live alla Cavea dell’Auditorium di Roma (22 luglio, ore 21). Un segnale di speranza per ricominciare a vivere, a lavorare pensando alla collettività. Come fanno le donne.

Tra la partecipazione a Sanremo e quest’ultimo video c’è in mezzo una pandemia: che cosa è cambiato nella tua vita, in questi mesi?
Mi sono resa conto che tutte le certezze che diamo per scontate come il futuro, i progetti, non lo sono affatto, è stato destabilizzante. Nonostante il periodo traumatico, ho ripreso a studiare lo yoga, ho fatto riflessioni sulle persone che mi sono più care, sulle amicizie più importanti, sul valore dei viaggi. Mi sono scoperta più capace e responsabile nella vita di casa, di tutti i giorni.

Con l’idea di volerti più bene, come è il titolo del video?
Mi trovo sulla prima frase «devi volerti bene, anche quando non ti senti mai abbastanza». Io ce l’ho la tendenza a diminuire quello che ho realizzato, mentre riconoscersi le cose buone è importante come volersi bene anche nelle debolezze, che poi vuol dire essere umani. Agire per il proprio benessere psicologico coinvolge anche il bene di tutti. Suonare non solo per me, ma per tutti gli addetti ai lavori, mi fa sentire bene.

A proposito, il virus ha posto l’attenzione anche sul mondo della cultura e il suo potenziale, non solo umano, ma anche economico. Quale posizione hai preso, in questi giorni a proposito delle difficoltà vissute nell’ambiente musicale?

Ho partecipato all’appello #iolavoroconlamusica e mi sono fermata lo scorso 21 giugno. Un mondo senza musica è impensabile e non possiamo aspettare il vaccino per ricominciare a suonare. Chiudersi, terrorizzati, nelle case, non è producente; l’uomo ha bisogno di stare all’aperto, certamente in sicurezza: è un modo per stare in salute. Ricominciare a fare concerti e continuare a suonare è importante per noi artisti e per i tecnici.

Secondo te, sulla questione femminile, non solo sul problema dei femminicidi, ma sulle discriminazioni anche in ambito lavorativo, quale dovrebbe essere il cambiamento culturale da raggiungere?
Sono stata educata da una mamma casalinga, che mi ha sempre spinto a realizzare qualcosa di mio, che mi rendesse indipendente per essere più libera. La bella caratteristica delle donne è che sono concentrate sul noi, più che sull’io. Il noi è un argomento centrale, riguarda tutti, come l’ambiente. Questa è la mentalità della donna, ragionare sulla pluralità e va riscoperto.

Quale sarà la prima cosa che dirai al tuo pubblico al prossimo appuntamento romano?
Abbraccerò tutti con lo sguardo. In questi mesi, sono state tante le persone che sui social mi hanno dato la spinta per essere attiva e creativa. Mi tenevano vivace, ho sentito il loro affetto.

Il cacciatore di aquiloni

29 May 2020, Egypt, Giza: People fly a handmade kite over residential buildings at Al Munib district in Giza Governorate. Photo by: Omar Zoheiry/picture-alliance/dpa/AP Images

La credibilità di un potere si misura anche dalla portata delle sue proibizioni. Un Paese incattivito e impaurito prenderà sempre decisioni che risuonano goffe e farlocche perché si ostina a credere che i suoi cittadini siano semplicemente nemici dormienti da tenere a bada con misure sempre più restrittive. La libertà, del resto, si misura anche dai particolari.

«Era solo un sorriso, niente di più. Una piccola cosa. Una fogliolina in un bosco che trema al battito d’ali di un uccello spaventato», dice Amir nel film di Marc Foster Il cacciatore di aquiloni, tratto dal libro di Khaled Hosseini. E nell’Egitto di al-Sisi, quell’Egitto che vive sulle turpi violenze e sulle violente bugie di un potere spaventato da tutto perché incapace di governare con misura e con giudizio accade che si vieti l’acquisto e l’uso di aquiloni.

C’è il carcere per qualche giorno e l’enorme pena pecuniaria di 60 dollari (che sono moltissimo per un Paese soffocato dalla povertà) per chiunque venga beccato a fare volare leggero un aquilone, che sia un adulto o un bambino, che sia un gesto di libertà costretta in un filo e battito d’ali come accade nei quartieri più poveri d’Egitto.

L’aquilone che è lo svago di chi non ha soldi per giocattoli ma deve inventarseli, costruirseli oppure affidarsi a quelli a poco prezzo sulle bancarelle cittadine. Ebbene, quando lo fa, costui diventa improvvisamente nemico del governo. Sarà che durante la dura quarantena del popolo egiziano, quella stessa quarantena che sta mettendo in crisi la popolarità di al-Sisi, centinaia di bambini hanno trovato sfogo solo guardando il cielo trascinando un aquilone e sarà che le bancarelle hanno riscoperto questo gioco che ha dato ossigeno nel duro tempo del lockdown e sarà che molti ritrovatosi disoccupati si sono inventati disegnatori e costruttori di aquiloni: tutta questa fantasia nei cieli del Cairo ha urtato la sensibilità bellica del governo. I prepotenti, del resto, sono terrorizzati dalla fantasia poiché sono incapaci di produrla.

A scagliarsi contro gli aquiloni è stato il parlamentare Khaled Abu Talib che ha spiegato come l’aquilone sia un pericolo per la sicurezza nazionale per possibili futuri usi dell’aquilone usato come aereo-spia per fotografare siti sensibili. Dice Abu Talib che «in futuro qualcuno con intenzioni malvagie potrebbe usare bambini e giovani per atti illegali»· Abu Talib è membro del comitato parlamentare per la difesa e per la sicurezza nazionale e qualcuno deve averlo preso terribilmente sul serio.

Del resto funziona così: uno Stato di polizia vede pericoli ovunque perché è lui stesso portatore di pericolo, vede sospetti ovunque perché governa con l’arma del sospetto, si incaglia su frivolezze che lo smutandano dimostrandone tutta la presuntuosa inutilità.

Buon mercoledì.

Abbas intanto è recluso, per niente

È una storia che inizia con una pesca a strascico solo che si pescano uomini, mica pesci. L’hanno raccontata Alessia Candito e Floriana Bulfon per Repubblica e inizia a Amantea, in Calabria, dove i giorni scorsi molti cittadini sono scesi in piazza per protestare contro il trasferimento di alcuni migranti trovati positivi al Covid. Immaginate la scena: arrivano i mezzi per trasferire 11 persone da Amantea al Cara di Isola Capo Rizzuto. La struttura di Amantea è presidiata dai militari e molta gente esulta per essere riuscita a liberarsi dal peso di questi negri, sporchi e forse malati. Ma fin qui la storia non stupisce, è una storia che abbiamo già sentito in questi anni.

I militari arrivano a raccogliere le persone e a un certo punto una donna da una finestra si mette a urlare «Anche lui! Anche lui! Prendete anche lui!» e indica un altro ragazzo, lì nei pressi della struttura, anche lui nero per cui nella pesca a strascico il nero va con il nero. Prendono anche lui.

Lui è Abbas Mian Nadeem, un ragazzo pakistano con regolare permesso di soggiorno che vive da qualche anno a Amantea, si arrangia con qualche lavoretto e si trovava in quel momento in quel posto perché sa bene cosa significhi attraversare il mare e quindi aveva deciso di portare supporto e qualcosa di utile ai suoi compagni di sventura. Una persona legittimamente sul suolo italiano e legittimamente impegnata a portare solidarietà. Nel dubbio l’hanno caricato ed è finito anche lui al Cara di Isola Capo Rizzuto, una struttura in condizioni vergognose dove qualche materasso dovrebbe sembrare un letto. Il Cara di Isola Capo Rizzuto, tanto per capirsi, è lo stesso che stava nelle mani del clan di ‘ndrangheta Arena con un prete come prestanome.

All’arrivo al Cara qualcuno si accorge che le persone sono 12 rispetto alle 11 programmate, si prova a fare notare l’errore, Mian Nadeem prova a spiegarsi non accade niente. Niente. Il ragazzo, illegalmente recluso, contatta giornalisti e associazioni ma non si riesce a sbrogliare questa kafkiana situazione. Ma c’è di più: Mian Nadeem è sieropositivo e malato di epatite quindi immunodepresso e in questo momento sta con persone in quarantena per rischio coronavirus. Immaginate l’odore della paura.

Lui ha girato anche un video per mostrare le terribili condizioni in cui si ritrova ma ieri hanno tolto l’elettricità e non riesce nemmeno a caricare il suo telefono per comunicare con l’esterno. L’associazione La Guarimba Film Festival si è mossa per chiedere un intervento della Croce Rossa e della Questura. Per ora tutto tace. Abbas intanto è recluso, per niente.

Il Paese che siamo.

Buon martedì.

Quel buco nero fiscale che vorrebbe decidere dell’Europa

Dutch Prime Minister Mark Rutte, left, speaks with Luxembourg's Prime Minister Xavier Bettel, right, and Malta's Prime Minister Robert Abela, second right, during a round table meeting at an EU summit in Brussels, Saturday, July 18, 2020. Leaders from 27 European Union nations meet face-to-face for a second day of an EU summit to assess an overall budget and recovery package spread over seven years estimated at some 1.75 trillion to 1.85 trillion euros. (Francois Lenoir, Pool Photo via AP)

Era il 1994 e il sistema fiscale olandese introduce il ‘check the box’, che consente in pratica alle compagnie americane di decidere se registrare le loro operazioni locali come sussidiarie (ovvero partecipazioni in una società esterna che viene tassata a parte) o filiali (parti integranti della casa madre). In sostanza le aziende Usa potevano decidere se rendere visibili le operazioni svolte dalle loro società olandesi al fisco americano oppure no. Una furbata. Che ci costa moltissimo.

La presenza in Europa di Paesi che sono piuttosto snelli e furbi dal punto di vista fiscale permette quelle che i furbi commercialisti chiamano ottimizzazioni e che in realtà sono movimenti di denaro atti a evadere le tasse. Il più celebre fino a qualche anno fa era il “panino olandese con doppio irlandese”: un flusso di denaro passava dall’Irlanda a una società olandese che a sua volta glielo rigirava depositandolo offshore grazie a una norma della legge tributaria olandese che esentava dalle tasse anche i ‘royalty payments’ diretti verso i paradisi fiscali, per i quali l’Olanda è stata un vero e proprio buco nero aperto nel cuore dell’Europa.

Tax Justice Network di recente ha stimato che i Paesi Bassi  l’anno scorso abbiano sottratto al nostro Paese 1,5 miliardi di euro grazie alla loro aggressiva gestione fiscale. Una distorsione dell’architettura comunitaria ben conosciuta da tutti gli attori in gioco e in alcuni casi perfino rivendicata da chi se ne avvantaggia. Olanda e Lussemburgo sono i Paesi che si avvantaggiano di più impoverendo il resto d’Europa. L’Italia in totale perde qualcosa come 5,4 miliardi di euro di entrate.

E allora chissà se prima o poi l’Europa comincerà a capire che il liberismo costa moltissimo e non è strutturalmente adatto a costruire solidarietà. Chissà se la impariamo la lezione. Chissà se abbiamo il coraggio di iniziare a parlarne.

Buon lunedì.