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Il falso mito degli Italiani brava gente – Sommario del libro di Left a cura di Giuseppe Scuto

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«Venne da noi un italiano e ci fece una dichiarazione. Ancora ricordo come disse, come se stesse parlando in questo momento: “Voi siete della Muhafiziya, voi siete mujahidin, e il Governo era intenzionato ad uccidervi. Qui morirete dieci alla volta ed il Governo non sprecherà neanche un colpo di fucile per voi”». Dalla deposizione dello haji Abd Elnebi al Shaafi, prigioniero tredicenne ad Al Agheila, raccolta nel 2008 dal Centro libico per gli Studi storici e gli Archivi nazionali, quando lui aveva novant’anni.
(La Muhafiziya era il nome con cui gli arabi definivano il movimento di resistenza: La Difesa, dal verbo Hafadha: proteggere, difendere)

 

 

3
Premessa
di Simona Maggiorelli

La memoria negata

a cura di Giuseppe Scuto

15
La cultura della negazione

22
Il negazionismo nei testi scolastici

26
I nuovi studi storici

30
La svolta degli anni Novanta

35
L’origine del “libico traditore”, Sciara Sciat

38
L’interpretazione del “tradimento”

40
Le prime forme di resistenza libica

La resistenza e la repressione fascista

a cura di Giuseppe Scuto

45
Come cambiò la politica coloniale

47
L’inizio della resistenza in Cirenaica

49
Il ruolo della Senussia in Cirenaica

51
Si forma il movimento di resistenza. Contro e dentro alla Senussia

54
Le parole dei fascisti

57
Guerra di guerriglia in Cirenaica

59
La strategia fascista di pacificazione

65
I campi di concentramento

Gli studi storici e le testimonianze della repressione

a cura di Giuseppe Scuto

73
Memoria e storia orale del Jihad

78
I risultati della ricerca storica

80
La costruzione storica della nazione

83
La Qasida di Rajab bu Hauisch

87
La Qasida (versione in italiano)

Appendice – Una selezione di articoli pubblicati su Left

107
Memorie per il futuro. Storia di un’odissea mediterranea
di Leonardo Filippi

113
I veri invasori siamo noi
di Valeria Deplano

119
Hisham Matar: L’amnesia italiana sul genocidio fascista
di Simona Maggiorelli

125
Francesco Filippi: L’Italia che non vuol fare i conti con il fascismo
di Simona Maggiorelli

133
Montanelli, cilindro fascista
di Pino Casamassima

137
Igiaba Scego: Scrivo per decolonizzare la letteratura italiana
di Angelo Ferracuti

Il falso mito degli Italiani brava gente – Introduzione al libro di Left

I partigiani che hanno lottato per la democrazia e la libertà, lasciandoci una splendida Costituzione, avevano in sé un’idea di uguaglianza, avevano il senso del collettivo, passione politica e civile. Avevano valori, ideali, coraggio che si scontravano con la logica disumana e criminale dei nazifascisti che, annullando la realtà umana degli ebrei, dei rom e degli oppositori politici li sterminavano come insetti, cercando poi di cancellare anche la memoria della loro esistenza. Rossi e neri non sono uguali. Da una parte, pur fra mille errori, c’era la lotta per la liberazione dall’oppressione, dall’altra c’era un agghiacciante progetto di morte e di distruzione. La storia è storia. Gli antifascisti hanno liberato l’Italia dal nazifascismo. Il fascismo è un crimine. È fuorilegge.

Leggi il sommario – qui

Contro questa verità si infrange il negazionismo di politici di destra come il leghista Matteo Salvini che ama citare Mussolini e, incurante del senso delle istituzioni, ha messo sullo stesso piano fascisti e partigiani disertando la festa nazionale del 25 aprile nel 2019, quando era ministro dell’Interno. Contro i cattivi maestri che vorrebbero iniettare veleno nella mente dei più giovani, contro le fake news che hanno contribuito a costruire il mito degli Italiani brava gente, contro il revisionismo che propone letture normalizzanti e auto assolutorie del fascismo proponiamo di tornare alla grande lezione dello storico e partigiano Marc Bloch, suggeriamo di rileggere i libri di Angelo Del Boca (Italiani, brava gente? Neri Pozza, 2005) e di Filippo Focardi (Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, 2013), ma anche il più recente La guerra della memoria (Laterza, 2020). Con testimonianze dirette e documenti alla mano mostrano bene come il fascismo non sia stato affatto una parata carnevalesca, sgangherata e grottesca. Il duce non fu una macchietta fanfarona. Il fascismo fu un regime totalitario e criminale, corporativo, razzista, imperialista, misogino, ottuso, violento, sanguinario, spietato. E tale fu Mussolini, al quale Hitler si ispirò.

Primo Levi diceva sempre che il cancro dei lager nazisti era nato da metastasi italiane. E allora ripetiamolo ancora: il regime fascista si rese responsabile di un genocidio in Libia, come ricostruisce Giuseppe Scuto in questo libro di Left, che ripercorre tutta la feroce vicenda del colonialismo italiano in Cirenaica e non solo. Il regime fascista, per primo, usò armi chimiche, massacrando la popolazione civile in Etiopia. Concepì e promulgò le leggi razziali che causarono deportazioni di massa e milioni di morti nei forni crematori. Si macchiò di assassinii feroci come quello del deputato socialista Giacomo Matteotti il 10 giugno del 1924. «Mussolini fu il maggior massacratore degli italiani della storia» scrive Francesco Filippi nella prefazione del suo incisivo libro che torniamo a consigliare, convinti che dovrebbe stare in tutte le scuole (e redazioni) insieme al suo Ma perché siamo ancora fascisti? (Bollati Boringhieri, 2020). «La base di un possibile futuro totalitario passa anche dalla riabilitazione del passato totalitario», avverte lo storico e presidente dell’associazione Deina che organizza viaggi di memoria e corsi di formazione. Un passaggio pericoloso in questo senso avvenne nel 1994 quando i neofascisti del Msi, confluiti dentro Alleanza nazionale di Gianfranco Fini, andarono al governo con Forza Italia di Silvio Berlusconi e con la Lega Nord. Ma allo sdoganamento del neofascismo hanno concorso anche la tv, invitando esponenti di Forza Nuova e CasaPound a parlare nei talk show, e scelte politiche come quella compiuta dal Pd che, fino al novembre 2019, aveva eliminato ogni riferimento all’antifascismo dal proprio statuto.

Anche di questo abbiamo parlato al Parlamento europeo con le eurodeputate Eleonora Forenza e Ana Miranda che, con Soraya Post, nel 2018 hanno promosso una risoluzione Ue per lo scioglimento e la messa al bando di tutte le formazioni neofasciste in Europa. Dopo quell’importante voto favorevole dell’Aula l’allora presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ebbe l’ardire di affermare che «Mussolini aveva fatto anche cose buone». Suscitando grande scandalo, tanto da essere costretto a ritrattare. E noi, con Francesco Filippi, torniamo a ripeterlo come un mantra: nemmeno i treni erano puntuali sotto il fascismo (tra le due guerre l’Italia aveva una rete ferroviaria del tutto inadeguata e arretrata). Contro le falsità che ancora girano in rete ricordiamo che il duce non ha creato le pensioni (la previdenza sociale nacque nel 1898 con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai; mentre la pensione sociale viene introdotta solo nel 1969). Né tanto meno istituì la cassa integrazione, che fu varata nell’agosto 1947. Mussolini non inventò l’indennità di malattia (fu istituita il 13 maggio 1947 e nel ’68 fu estesa a tutti i lavoratori). E ancora: Mussolini non concesse il voto alle donne che potevano esprimersi solo in piccoli referendum locali mentre erano del tutto escluse dalle elezioni politiche. La prima volta che le donne furono ammesse al voto fu al referendum del 1946. Contro le bufale che producono una pericolosa falsa memoria, contro i danni della memoria corta torniamo a studiare la storia.
Come diceva la partigiana Tina Costa: «Studiate per la libertà»!

Cronache di centinaia di morti annunciate

Members of nurse union Nursing Up wear face mask to prevent the spread of COVID-19 as they gather in Milan's Duomo square to demonstrate for better working conditions, in Milan, Italy, Saturday, July 4, 2020. Writing on signs reads in Italian "Respect." (AP Photo/Antonio Calanni)

Cristiano Romani fa l’infermiere ad Arezzo. Lavora al 118: è abituato a intervenire in casi disperati. Mai avrebbe pensato che un “caso disperato” sarebbe potuto diventare lui stesso. «Era il 21 marzo: stavo lavorando quando a un tratto ho cominciato a sentirmi poco bene. Al Pronto soccorso ho misurato la febbre: 37,5». Passa qualche ora e la temperatura sale ancora. Dopo un giorno si somma anche una pesante difficoltà respiratoria. Si rende necessario un tampone: positivo al Covid-19.

«I primi 5 giorni – racconta oggi Romani – sono stati tremendi: avevo una fortissima congiuntivite, non riuscivo a respirare né tantomeno a mangiare e avevo la febbre quasi a 40». Solo dopo dieci giorni e una lunga quarantena l’infermiere esce da quell’incubo. Romani è uno dei 49.021 casi di contagio da Covid-19 sul lavoro segnalati all’Inail. Un numero spaventoso e destinato ad aumentare dopo che l’infezione contratta sul luogo di lavoro è stata parificata a infortunio (anche se l’Istituto, dopo alcune riserve di Confindustria, è diventato molto più stringente sulle categorie ammesse a risarcimento). Accanto a questi ci sono i numeri di chi è deceduto: 236, circa il 40% dei casi mortali denunciati dall’inizio dell’anno.

Se c’è un fenomeno che non è andato in lockdown, dunque, è proprio quello delle cosiddette “morti bianche”. Morti che in realtà di candido non hanno proprio nulla. La scia di vittime è lunga e in netta crescita rispetto al passato: tra gennaio e maggio sono state 207.472 le denunce di infortuni sul lavoro, 432 delle quali con esito tragico (+10,5% rispetto al periodo precedente, quando erano stati “solo” 391). Ogni giorno che passa in media muoiono tre persone e altre 1.374 si infortunano semplicemente perché, coronavirus o no, lavorano. Una vera e propria strage che…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 17 luglio

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La Santa alleanza: Pd, Lega e Renzi coprono di milioni le scuole private

L a proverbiale inesistenza del limite al peggio trova conferma quando le forze politiche votano sul finanziamento alle scuole private paritarie. Altri 150 milioni di euro lasciano infatti le casse pubbliche per approdare a quelle delle scuole non pubbliche. Il demerito questa volta va all’inedita alleanza Lega, Partito democratico e Italia viva.

Uno stanziamento straordinario di 150 milioni era già stato concesso dalla maggioranza di governo solamente un mese e mezzo fa, cedendo alle pressioni dei vescovi e della nutrita schiera di organizzazioni cattoliche che controllano il mondo delle scuole paritarie private. Le principali sigle sono Usmi, Cism, Agidae, Fidae, Fism e Cdo; corrispondono a istituti religiosi maschili e femminili (dove gli studenti sono separati per genere), a istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica, a federazioni di scuole cattoliche, a organismi istituiti e controllati dalla Cei dedicati alle scuole materne e, per finire, alle scuole della Compagnia delle opere di Comunione e liberazione.

Queste scuole private religiose finanziate dello Stato avevano messo in campo una…

 * Roberto Grendene è segretario nazionale Uaar – Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti

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Vite senza radici ai due lati delle Ande

Considerata una delle più importanti voci latinoamericane della letteratura contemporanea, Alejandra Costamagna è tornata a fine maggio nelle librerie italiane con Il sistema del tatto, edito da Edicola ediciones, (traduzione di Maria Nicola), casa editrice che si divide tra Ortona e Santiago del Cile e che aveva già pubblicato la scrittrice cilena nel 2016 con la raccolta di racconti C’era una volta un passero. Abbiamo contattato e intervistato Alejandra Costamagna per parlare con lei del suo ultimo romanzo, una storia famigliare che coinvolge la stessa autrice, la situazione politica e l’emergenza sanitaria in Cile dovuta al coronavirus.

La sua biografia personale e famigliare è stata fondamentale per scrivere Il sistema del tatto, quali emozioni ha provato durante la stesura del libro?
Ci sono molti dettagli reali della mia famiglia nel romanzo, la sorella di mia nonna ha vissuto veramente l’esperienza che ho descritto nel libro, strappata dalle proprie radici e dagli affetti della sua terra, la mandarono da un continente all’altro dopo la guerra. Nel 1910 i genitori di mio nonno erano già in Argentina, successivamente mio padre e mia madre giunsero in Cile nel 1967 per questioni politiche. Tutti questi spostamenti mi hanno provocato una grande inquietudine. Fra tutti i personaggi del Sistema del tatto, c’è Nelida che s’impone con una forza speciale, perché ci sono silenzi e resistenze che raccontano una vita più complessa e torbida rispetto a quella che appare in superficie ed è a partire da lei che è stata costruita la trama. Durante la scrittura ho assorbito questa storia e l’esperienza del sentirsi fuori luogo, una sensazione che mi ha pervaso e scosso molto.

Una delle voci del suo romanzo è Ania; suo padre le chiede di attraversare le Ande per portare l’ultimo saluto al cugino che sta morendo in Argentina. Attraverso degli indizi rinvenuti in una vecchia scatola a Campana, città a nord ovest di Buenos Aires dove ha vissuto l’infanzia, inizia per lei un viaggio indietro nel tempo. Lei che rapporto ha con i ricordi di quando era bambina?
Gabriela Mistral diceva: «Posso correggere nel mio cervello e nella mia lingua ciò che ho appreso durante le età difficili – adolescenza, gioventù, maturità – ma non posso cambiare quello ho appreso e ricevuto durante l’infanzia»…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 17 luglio

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La lunga marcia di John Lewis, da Martin Luther King al Congresso

FILE - In this Feb. 15, 2011, file photo, President Barack Obama presents a 2010 Presidential Medal of Freedom to U.S. Rep. John Lewis, D-Ga., during a ceremony in the East Room of the White House in Washington. Lewis, who carried the struggle against racial discrimination from Southern battlegrounds of the 1960s to the halls of Congress, died Friday, July 17, 2020. (AP Photo/Carolyn Kaster, File)

Se dovessimo scegliere un’immagine per raccontare la vita di John Lewis sarebbe certamente quella di una marcia. La lotta contro il tumore al pancreas da cui era affetto e che l’ha costretto, nella notte tra venerdì e sabato, a fermarsi per sempre, è stata forse l’unica battaglia che non è riuscito a vincere. Con la sua morte se ne va un pezzo di storia degli Stati Uniti d’America, iniziato in una cittadina del Sud e terminato tra i seggi del Congresso.

John Lewis era nato a Troy, in Alabama, nel 1940 da una famiglia afroamericana. All’età di sei anni aveva incontrato solo due persone bianche. Crescendo e interagendo di più con la realtà cittadina, John ha potuto sperimentare sulla sua pelle la durissima segregazione degli Stati del Sud. Un abominio che lo spinse a trovare in Martin Luther King jr il suo ispiratore fin dall’adolescenza. Diventò il presidente della Student nonviolent coordinating commitee (Sncc) e fu tra gli organizzatori della marcia su Washington, la celebre manifestazione del 1963 in cui King pronunciò il suo famosissimo discorso «I have a dream». Lewis marciò di nuovo accanto al suo eroe, il dott. King, nella storica dimostrazione a supporto del diritto di voto degli afroamericani del 1965 che partì dalla cittadina di Selma e arrivò fino a Montgomery, sempre in Alabama. Le immagini di lui che viene picchiato dalla polizia, poco più che ventenne, hanno fatto la storia della lotta per i diritti civili, diventando a loro volta d’ispirazione per nuove generazioni di attivisti.

La battaglia di John Lewis, dall’adolescenza alla sua morte, è stata sempre la stessa: vedere riconosciuta e rispettata l’identità degli afroamericani. È stato una delle figure chiave del Civil rights movement e della lotta contro la fine della segregazione razziale, anche quella de facto che ancora affligge alcuni aspetti della vita dei neri americani (come, ad esempio, quanto concerne il diritto di voto). La speaker democratica Nancy Pelosi, annunciando la sua morte, lo ha definito «la coscienza del Congresso», un ruolo che ha ricoperto sempre con passione sin dalla sua elezione nel 1986, mantenendo vivo lo spirito che negli anni Sessanta infuocava il movimento per i diritti civili. Come ricorda il Washington Post, grazie al suo impegno nel 1991 è passato un nuovo Civil Rights act che facilita le cause legali contro i datori di lavoro che compiono discriminazioni nei confronti dei loro dipendenti. Sempre grazie alla sua tenacia, nel 2003 è stato autorizzato e costruito il Museo nazionale di storia e cultura afroamericana al National Mall, il viale di Washington dove si tenne la Marcia del 1963. Per tutta la sua carriera esemplare, nel 2010 l’allora presidente Barack Obama l’ha decorato con la Medal of freedom, la massima onorificenza civile che si può ottenere negli Stati Uniti. In occasione del suo insediamento, Obama aveva ringraziato esplicitamente Lewis per il suo impegno per il riconoscimento dei diritti degli afroamericani, dicendo che se era potuto arrivare fino alla Casa Bianca era stato solo «A causa tua».

I suoi ultimi anni, sempre al suo seggio alla Camera dei Rappresentanti come deputato della Georgia, sono stati segnati da una dura contrapposizione alla politica del presidente Donald Trump. Nel 2017 ha boicottato la sua cerimonia di inaugurazione, mentre quando si è trattato di votare per il procedimento di impeachment Lewis ha invitato i suoi colleghi a rispettare il loro obbligo di «essere dal lato giusto della storia».

Nemmeno la malattia ha fermato la sua esigenza di marciare. Una figura così importante per la battaglia per i diritti civili non poteva rimanere sorda di fronte alla morte di Geroge Floyd e al riaccendersi del movimento Black Lives Matter: la sua ultima apparizione pubblica è stata al fianco della sindaca democratica di Washington D.C., Muriel E. Bowser, nella piazza intitolata proprio al movimento Blm.

Nel 1963, durante la Marcia su Washington, John Lewis pronunciò un discorso che divenne meno celebre di «I have a dream», ma che può essere considerato un valido testamento e un invito per gli Stati Uniti del 2020 che a novembre dovranno scegliere chi sarà il loro prossimo presidente: «Svegliati, America!». Rest in power, John Lewis.

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Francesco Troccoli: Un ponte con l’altra sponda del Mediterraneo

«Sai chi era Omar el Mokhtar?». Chiede Marina, la protagonista di Mare in fiamme, ad Antonio.
Lui scuote il capo. E lei: «Non mi stupisce. Pensa che fino al 2009 il film che narra la sua storia da noi è stato censurato. Era il capo della resistenza anti italiana. Il generale Graziani lo fece giustiziare nel 1931. Per la Libia lui è…. un po’ come Garibaldi per l’Italia. Un eroe nazionale». Antonio, come molti italiani, non ne sa niente. Come è stato possibile questo enorme buco nero della memoria sulle responsabilità del feroce colonialismo italiano? In primis, risponde lo scrittore Francesco Troccoli, autore del romanzo pubblicato dall’Asino d’oro edizioni, accade «perché la scuola non tratta questi temi e la politica di qualsiasi colore, salvo rare eccezioni, li evita, e fino a un decennio fa c’è stata una vera e propria censura di stampo negazionista».

Cosa ha determinato questa auto assolutoria cancellazione della memoria storica?
A questo annullamento collettivo hanno contribuito, a mio avviso, due fattori: il primo è l’idea che il colonialismo sia un fenomeno ormai superato, e che tutti i crimini commessi sotto il suo segno appartengano al passato remoto. Idea falsa: la persistente incapacità della società italiana di prendere coscienza dei tragici fatti avvenuti in Libia e Africa orientale dimostra che si tratta di eventi non ancora “storicizzabili”. Il secondo è che si tende a considerare tutto quel che è stato fatto nel ventennio fascista come fosse stato commesso da un altro popolo. In realtà restando alla Libia, scenario di Mare in fiamme, se è vero che il maggior sforzo economico e militare (e i crimini più feroci) avvennero sotto il fascismo, va ricordato che la campagna di Libia risale al 1911 e, salvo eccezioni come Gaetano Salvemini, non fu avversata nemmeno dai socialisti, che ritenevano l’invasione un “destino ineluttabile”. In sostanza gli ideali che appena 40 anni prima avevano animato il Risorgimento e le guerre di indipendenza dall’Austria furono sovvertiti, quando non piegati, alla logica di un nazionalismo militarista (si pensi a D’Annunzio e al fatto che fra i suoi arditi c’erano anche alcuni dei nipoti di Garibaldi) che, dopo la vittoria della prima guerra mondiale, aprì la strada al fascismo. Un cortocircuito drammatico…

Il romanzo Mare in fiamme di Francesco Troccoli sarà presentato il 23 luglio alle 19 nel Parco Giordano Sangalli sul viale dell’Acquedotto Alessandrino, a Roma 

 

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 17 luglio

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L’ultimo residuo di Pinochet

Chile's President Sebastian Pinera works in his office before an interview with The Associated Press in La Moneda government palace in Santiago, Chile, Tuesday March 22, 2011. (AP Photo/Roberto Candia)

Il 2020 in Cile era iniziato con l’auspicio che, di lì a poco, si sarebbe potuto mettere un punto alla stagione di Pinochet, che tutt’ora continua a essere rappresentata dalla Carta costituzionale, promulgata proprio durante la dittatura militare senza mai essere stata successivamente modificata. Il 26 aprile si sarebbe dovuto celebrare il Plebiscito nacional, per permettere ai cittadini del Paese andino di decidere se redigere o meno una nuova costituzione e se questa dovesse essere redatta da una Assemblea costituente o una commissione mista. Tuttavia, quando a fine marzo il Covid-19 ha cominciato a diffondersi sempre più anche in America Latina, la classe dirigente cilena si è vista obbligata a posticipare il referendum di sei mesi, fissandone la data per il 25 ottobre. Quello che il virus tuttavia non è riuscito a posticipare sono quei problemi strutturali che il Cile vive da anni. Anzi, non ha fatto altro che esacerbarli. Si, perché lo scorso 4 ottobre l’aumento dei trasporti pubblici di circa 30 pesos (1,16 dollari), annunciato dal presidente della Repubblica cilena, il multimilionario Sebastian Piñera, fu solo la chispa, la scintilla.

Celebre in quei mesi era la frase «no son treinta pesos, son treinta años». Una frase breve ma che trasmetteva il significante del malcontento. Infatti, è dall’aumento del prezzo del trasporto pubblico che si sono concatenate una serie di istanze, generando una protesta del tutto inorganica. «Tutti sapevamo che il lunedì e il venerdì ci si ritrovava in piazza, non c’era nessuno partito politico, né sindacato, dietro l’organizzazione» mi dice Nicolas, giovane cileno che ha partecipato alle mobilitazioni. «Si è creata una Mesa de unidad social con l’intento di riunire centinaia di movimenti, ma non è riuscita a convocare realmente una protesta unita», aggiunge. Dalle mobilitazioni una parola è riuscita a mettere a fattor comune le diverse rivendicazioni: dignità. Per i giovani, un futuro dignitoso. Per gli anziani, delle pensioni dignitose. Per tutti e tutte un servizio sanitario e sociale pubblico e universalmente accessibile. Sono pochi esempi semplificatori ma che ci restituiscono un quadro preciso, seppur sfumato. Ma queste sfumature oggi vanno tutte prese in considerazione più che mai. Il Paese ingoiato tra le Ande e l’Oceano Pacifico è il terzo più colpito dal virus in America Latina, con circa 320mila casi…

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Dal green al cemento. Che voltafaccia, dr. Conte

urban development area of the city of Bari in the sunny morning.

La caratteristica più straordinaria, detto senza alcuna ironia, del presidente Conte è quella di saper passare con impeccabile disinvoltura dai grandi temi del futuro che affascinano le giovani generazioni al modesto cabotaggio che ci fa tornare negli anni bui di tangentopoli, del berlusconismo e dell’assalto dei centri storici. Il tutto in una manciata di mesi.

Il 25 settembre 2019, l’avvocato del popolo parla all’Assemblea delle Nazioni Unite, dominate dalla figura di Greta Thunberg e dai temi ambientali. Afferma: «Dobbiamo inserire nella nostra Costituzione la tutela dell’ambiente, della biodiversità, dello sviluppo sostenibile. Serve un cambio radicale. In Italia abbiamo inaugurato una nuova stagione di riforme per un futuro sostenibile, un progetto che mette al centro soluzioni che migliorano la qualità della vita dei cittadini e rispondono alle urgenze che assillano la società».

Passa poco più di una settimana ed eccolo ad Assisi per le celebrazioni di San Francesco. «Serve uno sviluppo che rispetti la creazione, che rispetti l’ambiente, che sia realmente umano. Sento questo impegno come cittadino, come padre. La tutela dell’ambiente è prioritario della nostra esperienza di governo». In quella sede lancia il Green new deal italiano, che rappresenta, a suo dire, un cambio di paradigma culturale.

Conte è uomo d’onore e dopo tre mesi, l’8 gennaio 2020 il governo approva il Green new deal. Le cifre non sono da capogiro, specie se confrontate con quelle che vedremo subito dopo: erano previsti 33 miliardi in quindici anni, mentre per il risanamento idrogeologico erano stanziati circa 400 milioni. All’interno del pacchetto c’erano 4 miliardi per efficientamento energetico e prevenzione del rischio sismico.  La novità culturale va comunque sottolineata: per la prima volta lo sguardo del governo era rivolto al risanamento ambientale.

Sono note le resistenze che vennero sin da subito dalle imprese e da Confindustria, in particolare contro la tassa (modestissima) sulla produzione della plastica. La pandemia Covid-19 è il cavallo di troia che spazza via ogni illusione. Alla fine di giugno 2020 arrivano in….

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Le sinistre parlamentari e il Caimano. C’è chi dice no, c’è chi dice nì

Prima l’appoggio un po’ impacciato ad un esecutivo guidato da chi, fino al giorno prima, governava a braccetto con lo statista del Papeete. Poi la discontinuità, in nome della quale è nato l’esperimento giallorosso, che tarda ad arrivare. Infine lo spettro dell’ingresso in maggioranza dell’antagonista storico della sinistra italiana a cavallo tra il II e III millennio. Il Caimano.

Per le forze progressiste che sorreggono il Conte II, dalle frange più “radicali” del Pd alle sinistre parlamentari, non sono giornate facili. Il ritorno di Silvio Berlusconi alle redini del Paese sarebbe per loro un rospo troppo grande da ingoiare, dopo i tanti maldigeriti compromessi degli ultimi mesi. Dall’inerzia su decreti Sicurezza e ius soli al populismo penale. Dai ritardi su Meridione e lotta alle disuguaglianze alla velenosa ricetta delle grandi opere contenuta nella bozza di decreto Semplificazioni.

«C’è il rischio reale di una deriva a destra. Si tratta del frutto di un conflitto molto aspro che si è aperto sulla gestione della fase post-emergenza, intorno al nodo delle risorse. È uno scontro particolarmente aspro che vede in campo la nuova Confindustria di Bonomi, assieme a destre, Italia viva, parte del Pd e dei 5S», dice a Left Nicola Fratoianni, portavoce nazionale di Sinistra italiana.

«I pericoli ora sono due – prosegue il portavoce -. Il primo è quello di uno spostamento sostanziale a destra nelle scelte politiche, in parte già avvenuto. Penso ad esempio ai 4 miliardi per tagliare l’Irap alle aziende fino a 250 milioni di fatturato, stanziati col decreto Rilancio. Il secondo è quello di una modificazione formale del quadro politico. Al netto delle smentite che arrivano da Forza Italia, è un dibattito sbagliato. Ed è del tutto inaccettabile che anche esponenti del mio gruppo aprano a questa possibilità».

Dopo il «nessun tabù su Fi» di Romano Prodi, infatti, è arrivata anche l’apertura di Guglielmo Epifani, ex segretario del Pd (e della Cgil) ora in Leu nelle file di Mdp: «Neppure per me – ha dichiarato al Foglio – esiste un tabù su Forza Italia. Penso che sia più utile e interessante discutere sulla praticabilità di un suo eventuale ingresso in maggioranza, studiarlo, tenendo conto del quadro europeo che non potrà che favorirlo».

Per Paola Nugnes, ex pentastellata ora in Senato con Leu, i motivi che “favoriscono” gli abboccamenti tra giallorossi e Cavaliere sono invece…

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