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Il virus in Lombardia è l’amministrazione di Attilio Fontana

Foto Claudio Furlan - LaPresse 29 Giugno 2020 Milano (Italia) News Conferenza stampa Attilio Fontana su insediamento comitato saggi per evoluzione sistema sanitario Photo Claudio Furlan - LaPresse 29 June 2020 Milano (Italy) Attilio Fontana press conference on setting up the wise committee for the evolution of the health system

Nuova puntata delle incredibili avventure del signor Fontana che sta piano piano logorando la Lombardia seduto sul trono di presidente di Regione e del suo compagno di brigata Matteo Salvini che ormai rimpiange quelle belle estati in cui l’errore era semplicemente quello di bere troppo Mojito sulla spiaggia del Papeete.

Mettere in fila tutte le bugie della storia dei camici che non lo erano, che erano una donazione che non lo era, di cui sapeva e che non sapeva è qualcosa che provoca le vertigini. In piena emergenza Covid Regione Lombardia acquista mezzo milione di euro di camici da una società che appartiene alla famiglia della moglie di Fontana. La cosa, scoperta dalla trasmissione Report, risulta piuttosto inopportuna poiché l’acquisto di quei camici non avviene con una normale gara pubblica ma con una trattativa privata: viene quasi il dubbio che gli affari della Regione, per di più nel drammatico momento della pandemia, avvenissero nel salotto di casa.

Il cognato di Fontana, raggiunto dai giornalisti, dichiara di avere commesso un errore formale e che quella fornitura di camici era semplicemente una donazione. Toh, guarda che bravo, che cuore d’oro. Accade anche che venga emesso uno storno della fattura prodotta dall’azienda (in effetti era strano il modo di regalare fatturando, in effetti) e si pensa che la storia finisca lì. E invece la Procura decide di volerci vedere chiaro.

E Fontana? “Non ne sapevo nulla e non sono mai intervenuto in alcun modo”, disse lo scorso 7 giugno in un’intervista del Corriere della Sera. E invece mentiva. Eh, sì. Fontana con parte dei soldi di un conto in Svizzera a suo nome (nel 2015 aveva “scudato” 5,3 milioni detenuti fino ad allora da due trust alle Bahamas) il leghista cercò di effettuare già il 19 maggio, proprio nei giorni della famosa intervista di Report, un bonifico sospetto da 250mila euro in favore della Dama spa del cognato e, per il 10%, della moglie Roberta. Il bonifico viene bloccato per le norme antiriciclaggio e così viene scoperto.

Questa è la storia. Quella stessa storia che Salvini vuole derubricare come inchiesta a orologeria (ha imparato la frasetta dal suo padrone Berlusconi). Poi, volendo andare a parlare di politica sarebbe anche curioso sapere cosa siano quei 5,3 milioni di euro nascosti nelle Bahamas e recuperati con lo scudo fiscale.  Insomma tutta la storia fa acqua da tutte le parti.

Ma davvero in Lombardia ce lo meritiamo, Fontana?

Buon lunedì.

Alla scoperta dei festival dell’estate, uno splendido viaggio nella musica

In questo tempo di pandemia fra le tante sofferenze sociali, quella relativa alla musica dal vivo è stata molto sentita. Pertanto data la gravità della situazione, non era auspicabile soprattutto in tempi brevi che si potesse tornare a fare musica dal vivo. Questo significava, oltre alle perdite delle fondazioni liriche, la chiusura, l’annullamento di tutta una serie di festival che d’estate portano nella nostra nazione il meglio delle produzioni musicali nell’ambito del linguaggio classico. Ridisegnati molti cartelloni se non addirittura annullati, mentre un direttore come Daniele Gatti ha cercato di dare segnali di ripresa da subito prima grazie all’Opera di Roma che ha permesso ad una compagine non numerosa di musicisti d’esibirsi davanti al presidente Mattarella e poi nel Rigoletto verdiano al Circo Massimo (con una fortissima regia di Damiano Michieletto).

Ma non solo, Gatti non ha rinunciato a tenere i suoi corsi in una delle accademie più prestigiose d’Italia che è la Chigiana di Siena dove i corsi estivi sono diretti e organizzati da Nicola Sani che nel giro di qualche anno ha trasformato sia la scena dell’apprendimento che quella dei concerti. Quest’anno Sani, compositore e studioso, ha dovuto approntare un programma di tutto rispetto nel quale ha cercato di convogliare la gran parte dei corsi previsti ma ha dovuto rimodulare grandemente il calendario dei concerti. È nato quindi Oursound 2020 «che è un festival in parte live e in parte digitale e quindi non è una versione ridotta della Chigiana ma è proprio un’altra cosa (i concerti d’archivio sono visibili su www.chigiana.org e Chigiana Radio Arte) . Consideri che noi eravamo pronti a fine febbraio a presentare il cartellone estivo ma siamo stati bloccati dalla pandemia quindi abbiamo dovuto pensare ad una forma che potesse farci essere presenti e allo stesso modo creare qualche cosa di significativo. Poi abbiamo sfruttato l’enorme catalogo sonoro a disposizione della Chigiana che consiste in tantissime registrazioni del passato che fanno parte del palinsesto estivo del canale radio web della nostra istituzione».

Nicola Sani ha quindi pensato ad un festival in linea con i tempi dove il virtuale si intreccia alla dimensione live. «I corsi sono stati confermati tutti e abbiamo aggiunto una serie di Stage. Anche qui abbiamo usato il virtuale, ad esempio per il corso di quartetto d’archi tenuto da Clive Greensimth (14/28 luglio), il quale non potendo venire dall’America farà lezione usando la nostra piattaforma virtuale che è nata apposta per la Chigiana. Abbiamo avuto oltretutto la conferma delle iscrizioni da parte degli studenti che sia in presenza che in streaming potranno seguire le lezioni. Abbiamo dovuto ripensare al concerto finale di ogni classe che saranno anch’essi in streaming. Non abbiamo rinunciato alla classe di direzione d’orchestra con Daniele Gatti e con l’Orchestra Giovanile Italiana (27 luglio/6 agosto) . Dal concerto dedicato a Sepulveda in Piazza Grande (5 luglio) a La serva padrona (8 agosto) in piazza Jacopo della Quercia per ridisegnare anche lo spazio live all’aperto».

Anche a Montepulciano per lo storico Cantiere internazionale d’arte creato e fortemente voluto da Hans Werner Henze c’è stata una forma di ripensamento che non significa annullare o cambiare il festival ma solo ripensarlo per adeguarlo alle condizioni sanitarie attuali: «La nostra programmazione era pronta già a dicembre e a gennaio avevamo già presentato il programma estivo del festival che prevedeva 50 eventi». È Roland Boer ad esprimere il suo pensiero quale direttore artistico del Cantiere: «Ho dovuto riprogrammare il tutto per ben 5 volte tenendo conto che non avremmo potuto avere l’orchestra di Manchester che da anni veniva in residence al Cantiere». Caos e Creazione Scienza Arte Utopie è il titolo della 45esima edizione del Cantiere che comunque mira a mettere assieme tutti gli ideali del suo fondatore. «Ho dovuto tener conto – dice ancora Boer – delle numerose cancellazioni degli artisti stranieri che non potevano giungere in Italia pertanto ho dovuto rinunciare a diversi concerti. Non è un Cantiere d’emergenza, è un po’ più piccolo; abbiamo usato gli spazi all’esterno ma non abbiamo rinunciato al Teatro Poliziano dove si terrà il primo agosto Fuga a 3 voci messo in scena da Marco Tullio Giordana».

Anche per Alessio Vlad direttore artistico del Ravello Festival le cose non sono state semplici: «Ho dovuto escludere la presenza di alcuni interpreti stranieri e soprattutto quella delle grandi orchestre. Ma ho cercato di tenere a mente cinque punti da rispettare per poter organizzare un cartellone messo su in un mese, ovvero: internazionalità degli interpreti, eccellenze italiane, eccellenze campane, esigenza di connettersi in una rete di festival di qualità, non rinunciare a produrre». Spazio alla musica barocca con una presenza importante come quella di Cecila Bartoli: «È una nostra coproduzione con il Festival di Salisburgo e quello di Lucerna il progetto What passion cannot music raise di Cecilia Bartoli (18 agosto) mentre abbiamo prodotto il concerto di Daniele Gatti con l’Orchestra Mozart (5 settembre), il Dido and Aeneas di Purcell della Cappella Neapolitana di Florio (1 agosto) e l’omaggio a Charlie Parker diretto da John Axelrod (29 agosto) nonché il concerto inaugurale Morricone dirige Morricone ovvero Andrea Morricone a capo della Roma Sinfonietta con le musiche del padre e non mancherà Riccardo Muti (5 settembre) ».

Francesco Lanzillotta, direttore artistico del Macerata Festival ci dice: «Tosca avrebbe dovuto aprire il Festival, poi Don Giovanni (dal 18 luglio all’8 agosto) e Trovatore (25 luglio e 2 agosto). In realtà siamo riusciti a mantenere molte delle idee, anche del Festival off:  Bia (andata in scena il 20 e 21 luglio ndr) , l’opera contemporanea vincitrice del concorso Macerata 4.0. Tosca sarebbe stata impossibile, per le masse coinvolte, il numero di orchestrali di coro. Trovatore invece sarà eseguito sotto forma di concerto».

Hanno mantenuto comunque l’impegno della presenza il Puccini Festival  di Torre del Lago (17 luglio/ 23 agosto) , il Rossini Opera Festival di Pesaro (8/22 agosto) e il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca (14 luglio-2 agosto) che sono in scena con un numero di spettacoli ridotti; mentre l’Arena di Verona ha programmato una serie di concerti tematici e il Gianni Schicchi (25 luglio /29 agosto). La buona notizia è che a settembre il Festival verdiano di Parma (24 settembre/18 ottobre) sarà programmato cercando di mantenere quello che era già stato pensato e con l’aggiunta di una rarità come la versione francese del Macbeth verdiano che da tantissimo tempo non veniva rappresentata.

Fare figli è una scelta, non un destino

Ai dati sulla denatalità della popolazione italiana che ci sono stati comunicati da poco dall’Istat si è aggiunto il rapporto del Centro internazionale studi sulla famiglia, il Cisf, che ha redatto una riflessione sociale e antropologica sullo stato di salute della famiglia in Italia. Già il primo rapporto Cisf del 1989 segnalava tendenze allarmanti, previsioni che sono diventate attualmente realtà. Le famiglie sono sempre più piccole con uno o due componenti e il 36% dei giovani non vuole sposarsi, mentre il 40% non vuole avere figli. Ci sono stati alcuni interventi a commento dei risultati dello studio sopracitato sia sul settimanale Famiglia Cristiana che sul quotidiano Avvenire nella versione cartacea e online.

Il Covid, afferma il sociologo Pierpaolo Donati, che cura l’elaborazione dei rapporti del Cisf, «ha accelerato processi già gravissimi», dovuti, a suo dire, «alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie sia in ambito mediatico che biologico», come l’ingegneria genetica, la riproduzione artificiale e la maternità surrogata, che in futuro ci faranno affrontare scelte drammatiche su come trattare le nuove configurazioni familiari “ibride”. Secondo il sociologo, la società «post-familiare» si costituisce con profili diversificati di nucleo familiare che si allontanano da quella «naturale»: le dinamiche relazionali sono interpretate in modo sempre più variabile e sganciate dai «modelli istituzionali forti».

I rapporti familiari sono diventati liquidi e fluidi determinando un crollo assai grave del tasso di natalità. La cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del «valore prodotto dalla famiglia per la società». Pierpaolo Donati continua affermando che se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato, il «genoma familiare» che comprenderebbe, secondo lui, anche la generatività evaporerebbe. Il rapporto Cisf 2020 prevede fra qualche decennio un esaurimento dell’istituzione famiglia con effetto domino: l’intero tessuto sociale italiano sarebbe trascinato nella distruttività, determinando fenomeni difficilmente governabili. Ne sarebbero influenzati negativamente il sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, ma cosa ancora più grave, la disgregazione dell’istituzione famiglia porterebbe ad un aumento della violenza domestica, dei femminicidi e degli abusi sui minori.

Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, in un’intervista sulle pagine dell’Avvenire afferma che siamo di fronte ad una crisi di civiltà, ad una svolta epocale, come se il «genoma familiare», asse portante della sua identità, fosse costretto a rivalutare alcuni tra i suoi fondamenti. Non è una questione di destra o di sinistra, aggiunge, e non è solo una questione di soldi e di sgravi fiscali, seppur necessari, è una questione di civiltà: questo calo di natalità è il segno di una crisi culturale che ha radici profonde nel nostro recente passato. Per il cardinale, in Italia e in tutto il mondo occidentale, i figli e la famiglia sono considerati un intralcio all’arricchimento personale, alla carriera e all’autodeterminazione del singolo. Per il presidente della Cei la vita è fonte talvolta di ricchezza spirituale, relazionale e morale, ma anche di ricchezza concreta che implica uno scambio solidale fra generazioni, una necessità di produzione, uno sviluppo dei consumi e un dinamismo economico. Sono molte le riflessioni che potremmo sviluppare sia sui dati statistici che sui commenti che sono derivati dalla loro interpretazione sui media.

Nella cultura greca-romana il matrimonio era combinato dai padri degli sposi per motivi sia economici che politici come alleanze tra famiglie e unione di patrimoni: il consenso dei giovani non era necessario, in quanto il matrimonio assicurava la continuità del nome e la legittimità dei figli. La donna passava come una proprietà dal padre al marito, che aveva un potere sulla moglie pari a quello esercitato sui figli e sugli schiavi. I bambini, pur nascendo all’interno del matrimonio, dovevano essere accettati dal padre che poteva decidere della loro vita o morte in base ad un calcolo razionale come il numero di eredi a cui affidare il patrimonio dopo la sua morte o le possibilità economiche per mantenerli o dare un’istruzione. Fino all’adolescenza il figlio non era considerato un essere umano avente diritti. Negli ultimi tempi della Repubblica romana il matrimonio non si basava solo sul diritto naturale, cioè sull’unione sessuale di un uomo ed una donna, ma prevedeva il consenso degli sposi e il divorzio. Tuttavia, anche in questo caso la donna si trovava ad avere la peggio sia dal punto di vista sociale che economico. Il celibato era punito con la perdita dei diritti civili e con un’ammenda pecuniaria. La procreazione veniva incentivata dallo Stato per garantirsi un potenziale umano da investire nelle campagne di conquista territoriali.

La Chiesa cristiana, pur riconoscendo le unioni secondo il diritto romano, rese il matrimonio un sacramento e in quanto tale sacro e indissolubile: ben presto esso entrò nel diritto canonico. Il concilio di Trento nel 1563 definì la natura sacramentale del matrimonio in opposizione alle dottrine protestanti che l’avevano negata. Nei Paesi cattolici l’unione matrimoniale è stata di competenza del diritto canonico fino alla rivoluzione francese che ne affidò gradatamente in tutta Europa la pertinenza al diritto civile. Solo in Italia si è dovuto aspettare il 1865 perché fosse reintrodotto nel Codice civile, ma nel 1929 con i Patti Lateranensi è stato riconosciuto effetto civile anche ai matrimoni celebrati in chiesa. Sia i dati dell’Istat che il Rapporto Cisf colgono un cambiamento culturale nella nostra struttura sociale che non è solo italiana. È presente un rifiuto «dell’istituzione famiglia» come ci è stata culturalmente tramandata che aveva come fine preservare dei ruoli storicamente stabiliti all’interno di essa.

La donna aveva come unico destino la procreazione e nessuna legge che ne preservasse i diritti, a favore esclusivo dell’uomo. Il voto le è stato concesso in un passato recente: è a questo passato che si riferiscono gli interpreti del rapporto Cisf? È passato recente il diritto allo studio per le donne: solo dopo la metà del secolo scorso in numero sempre maggiore riuscivano a frequentare studi superiori e universitari. L’istruzione è stata sicuramente la svolta per avere una maggiore consapevolezza della propria identità non solo sociale ma anche umana. Procreare è diventata una scelta non un destino. «Nell’istituzione famiglia» così tanto declamata è insita una violenza culturale che ci portiamo dietro da secoli. Solo di recente i femminicidi e la violenza domestica sono arrivati alle cronache grazie alle associazioni che ne difendono i diritti, ma le leggi sono ancora inadeguate e le donne continuano a morire anche se denunciano.

Nel silenzio e nell’omertà maschilista le donne subivano in silenzio sia violenze fisiche che psichiche, non avevano scelta, quello era il loro destino. Chi si ribellava veniva rifiutata dalla società, fuori dalla cosiddetta “famiglia” il destino era o suora o prostituta o malata di mente. I casi di abusi sui minori da parte del clero cristiano…

*-*

La neonatologa, pediatra e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti è docente della scuola di psicoterapia psicodinamica Biospsychè

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Gli Uffizi, Ferragni e la funzione dei musei

L’epifania di Chiara Ferragni agli Uffizi ha generato una cascata di reazioni presto polarizzate intorno alla figura dell’influencer e alle sue iniziative (con intervento a sua difesa dello stesso Fedez), complici approssimazione, qualunquismo e dipendenza da social che spesso ammorbano il giornalismo italiano quando deve occuparsi di patrimonio culturale. Al centro del dibattito non dovrebbe stare, infatti, il diritto di Chiara Ferragni di fare il suo mestiere e di andare liberamente in tutti i musei che vuole, quanto certe modalità di comunicazione che devono indurci a riflettere su funzione e missione dei musei, tanto più in una fase storica difficile come quella che stiamo vivendo.

Ferragni ha posato per un servizio di Vogue nell’ambito di una prassi ormai consolidata da anni, per cui musei e luoghi monumentali ospitano set di ogni genere dietro pagamento di un canone, in genere fuori dal normale orario di visita. Piaccia o no, questa formula permette al museo di recuperare risorse e farsi promozione. Se talvolta hanno fatto discutere aperture per matrimoni e compleanni, è indubbio che un video musicale possa far scoprire il museo a un pubblico diverso da quello tradizionale (che a sua volta è già diversificato: un mito da sfatare sarebbe quello che ai musei siano interessati soltanto pochi parrucconi misoneisti che stanno legati alla sedia come Alfieri).

Si parla ora di Mahmood al Museo Egizio di Torino, come se fosse qualcosa di innovativo e trasgressivo. Ma ricordiamo che Jovanotti aveva girato il video dell’“Ombelico del mondo” nella Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova già nel 1995, e nessuno l’ha denunciato per vilipendio di Giulio Romano. E davanti a un capolavoro ambientato nel Louvre come “Everything is Love” di Beyoncé e JayZ c’è da riflettere sulle notevoli potenzialità espressive di forme d’arte che inducono davvero a rileggere i “classici” secondo prospettive diverse, a scoprire qualcosa che non avevamo mai visto, magari a venire più volte al museo. Semmai è discutibile che queste riprese avvengano in luoghi celeberrimi, che non dovrebbero aver bisogno di soldi né di pubblicità. Per restare a Firenze, se quel servizio si fosse svolto tra…

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Costanza Quatriglio: Non chiamateli film impegnati

VENICE, ITALY - AUGUST 31: Director Costanza Quatriglio poses during the 'Con Il Fiato Sospeso' portrait session as part of the 70th Venice International Film Festival on August 31, 2013 in Venice, Italy. (Photo by Franco Origlia/Getty Images)

Costanza Quatriglio è uno dei maggiori talenti del nuovo cinema documentario italiano, con una produzione filmica di rara intensità e coerenza, con un taglio estetico originale e profondo, ma anche sempre con una forte partecipazione emotiva. Siciliana, direttrice artistica della sede di Palermo del centro sperimentale di cinematografia, due volte Nastro d’Argento nella categoria miglior documentario con Terramatta, nel 2013, e Triangle, nel 2015, con 87 ore, dedicato alla tragica morte del maestro anarchico Mastrogiovanni, sempre nella categoria documentari, ha ottenuto il Premio speciale 2016. Nel 2018 ha presentato al Festival di Locarno il film Sembra mio figlio, vincitore, tra gli altri, di un Ciak d’Oro, e nello stesso anno ha ricevuto il Premio Visioni dal Mondo.

Tu fai un cinema della realtà e hai raccontato anche storie dolorose con molta partecipazione, penso a 87 ore sulla morte del maestro anarchico Mastrogiovanni, e l’ultimo Sembra mio figlio, la vera storia di Mohammad Jan Azad, che scappa dalla guerra in Afghanistan e poi torna nella sua terra alla ricerca della madre. Il documentario, tra l’altro è qualcosa che cresce sul campo, è un cinema vivente. Come costruisci i tuoi film insieme alle persone?
L’incontro con le persone è fondamentale. L’ascolto è qualcosa di generante e rigenerante. Nel cinema documentario ricevere l’ascolto favorisce il narrarsi; è un mutuo riconoscimento: tu riconosci me che sto cercando di comprendere, e io riconosco te in un processo che dura nel tempo. L’incontro è un affidarsi reciproco. Mi piace dire che si tratta di una postura, quella dell’attenzione, che ha a che fare con un ascolto che non si stanca, non consuma. Sembra mio figlio è del 2018, e nasce dalla storia che mi è stata raccontata da Mohammad Jan Azad, molti anni dopo esser stato tra gli adolescenti migranti protagonisti del mio documentario Il mondo addosso, realizzato tra il 2005 e il 2006. Jan è stato anche colui che mi ha portato a conoscere qualcosa che trascende la sua stessa vita e che riguarda il popolo Hazara, costretto alla diaspora dalle persecuzioni perpetrate dai talebani in Afghanistan e in Pakistan. Per raccontare tutto questo c’è voluto un attraversamento della vita di Jan e l’andare nel territorio della finzione. Lui stesso ha collaborato alla…

L’Intervista corsara prosegue su Left in edicola dal 24 luglio

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La vergogna dei lager finanziati dall’Italia

TOPSHOT - An Illegal migrant looks towards the camera as she carries a child in the Libyan city of Benghazi, before being repatriated, on January 2, 2018. / AFP PHOTO / Abdullah DOMA (Photo credit should read ABDULLAH DOMA/AFP via Getty Images)

Qualche anno fa avremmo potuto dire di non sapere. Oggi no. Oggi sappiamo che dire Guardia costiera libica significa dire traffico di esseri umani … Finanziarla significa finanziare chi stupra, tortura e uccide». L’intervento dell’ex presidente Pd Orfini alla Camera, con cui ha ribadito quella che ormai è una verità sotto gli occhi di tutti, non è bastato a far invertire la rotta al proprio partito. Nonostante l’indecenza del supporto italiano a milizie che deportano e usano violenza contro esseri umani colpevoli solo di essere profughi, il rifinanziamento della missione in Libia, dopo l’ok al Senato, è stato approvato il 16 luglio anche nell’altro ramo del Parlamento, con il Pd che, a parte alcune defezioni, dice sì unendosi ai voti del M5s e delle destre, confermando una sostanziale omogeneità sul fronte delle politiche migratorie. Mentre Leu si oppone e Italia viva esce dall’aula. Alla fine i favorevoli sono 401, 23 i contrari, 2 gli astenuti.

La risoluzione impegna l’Italia a stanziare oltre 58 milioni di euro per l’operazione militare che porta avanti in Libia, di cui 10 destinati alla missione bilaterale di assistenza alla sedicente Guardia costiera libica. Una cifra maggiore di tre milioni rispetto al budget dello scorso anno. Parliamo di attività di formazione e addestramento.

«Con tali fondi – ricorda in una nota l’Arci – si arriva a una cifra di oltre 22 milioni spesi dalla firma del Memorandum nel 2017 direttamente in supporto alla Guardia costiera libica, a cui si devono aggiungere quelli stanziati nell’ambito delle altre missioni. Il risultato fino ad oggi è stato l’intercettazione da parte delle autorità libiche di oltre 40 mila persone in fuga, portate di nuovo nell’inferno dei campi di detenzione libici (5.427 secondo i dati disponibili all’Unhcr nel 2020)».

«In aggiunta – prosegue l’Arci – quest’anno, alcuni dei 39 membri della Guardia di finanza e 8 dell’Arma dei carabinieri (operativi in Libia nella missione bilaterale, ndr) saranno impiegati nella costruzione di un cantiere navale e di una mini scuola nautica in territorio libico, su cui ad oggi non si ha alcuna informazione». Nel dossier parlamentare sulla proroga delle missioni internazionali 2020, in effetti, le due infrastrutture vengono citate en passant, senza aggiungere dettagli.

Proseguono, dunque, gli effetti nefasti del patto Italia-Libia sottoscritto il 2 febbraio 2017 a Roma da Al-Serraj e Gentiloni, sulla «cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere». L’accordo si è rinnovato automaticamente il 2 novembre 2019, in assenza di un impegno italiano per la sua interruzione, nonostante le numerose richieste della società civile e le testimonianze drammatiche che arrivano quotidianamente dalla Libia. «Il presidente Serraj mi ha consegnato la proposta libica di modifica del Memorandum» ha dichiarato il ministro Di Maio all’Ansa a fine giugno, annunciando per il 2 luglio l’avvio dei relativi negoziati. I cui risultati, al momento, latitano.

L’intesa militare, ad ogni modo, è solamente uno degli aspetti della collaborazione Roma-Tripoli inaugurata tre anni fa. Nel Memorandum si parla anche dei «centri di accoglienza» per «migranti illegali», i famigerati lager libici, e dell’impegno dell’Italia ad «adeguarli», «finanziarli» e formare il personale libico che li mantiene operativi.

I fondi per realizzare tali specifici interventi rappresentano una voce del Fondo Africa, un piano affidato dal 2017 alla Farnesina e rinnovato ogni anno per “supportare” i Paesi più interessati dal fenomeno migratorio. Sino ad oggi per le attività nella sola Libia sono stati destinati 60 milioni di euro. Ed una parte di questa cifra, negli anni, è stata affidata – tramite bandi predisposti dalla sede di Tunisi dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, l’Aics – ad Ong, formalmente al fine di migliorare le condizioni di vita nei vari lager per migranti presenti nel Paese.

Sin da subito, la sinistra e gli attivisti in difesa dei migranti definirono queste gare “bandi della vergogna”, per i rischi palesi che potessero finire col favorire e perpetuare un sistema di detenzione che calpesta ogni principio di umanità. Diverse inchieste giornalistiche hanno confermato nel tempo che tale ipotesi non era campata in aria. E adesso un dettagliato report dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) fornisce ulteriori, preziosi, elementi sul tema.

Il focus dell’approfondimento verte su tre bandi finanziati dall’Aics nel 2017, per un valore totale di sei milioni di euro, che avevano come obiettivo una serie di interventi nei lager libici. Si parla di «cure mediche», «acqua e igiene», «counseling psico-sociale», di «alimenti e generi di prima necessità». E – come vedremo – non solo.

«Dalla nostra analisi emerge una notevole quantità di dubbi sull’efficacia di questi interventi – dice Salvatore Fachile, avvocato Asgi che ha curato il report nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka -. La domanda che viene naturale è: queste attività riescono a controbilanciare in modo significativo quelli che l’Italia considera “effetti collaterali” dell’operazione di esternalizzazione delle frontiere in Libia che porta avanti da anni?»

«Ebbene – prosegue Fachile – il quadro che tracciamo indica che, a prescindere dalla volontà delle singole Ong, la loro capacità di incidere nel miglioramento del benessere dei migranti è assai bassa, e al contempo c’è il rischio concreto che il flusso di denaro che viene materialmente gestito da personale locale, visto che la situazione di sicurezza non consente la presenza di personale italiano in loco, sia del tutto incontrollabile e possa finire col rafforzare gli scopi criminali di milizie che quotidianamente compiono crimini contro l’umanità».

Le criticità rilevate nel report di Asgi sono molteplici. Innanzitutto, nei bandi stessi gli interventi delle Ong vengono definiti come risorse «in grado di supportare un governo in difficoltà nel fornire assistenza volta a salvare vite delle persone più vulnerabili», quando è ormai chiaro che lo stato dei lager libici è legato a precise decisioni politiche di Tripoli. Alcune attività di supporto sovvenzionate dall’Italia, inoltre, sono specificamente indirizzate a donne e bambini presenti nei lager, ma i bandi non prevedono alcuna misura per tentare di evitare o ridurre la loro detenzione. Più in generale, ad oggi, «non si è mai registrata alcuna richiesta o pressione da parte del governo italiano come contropartita degli interventi finanziati dall’Aics». Infine, alcuni interventi finanziati non solo non rispondono ad alcun bisogno essenziale dei detenuti, ma incidono addirittura sulla capacità strutturale del centro di ospitarne altri in futuro. Ad esempio, tra le attività finanziate dall’Italia nel centro di Tarek al matar si contano il rifacimento di muri e pavimenti, la costruzione di un bagno, l’istallazione di caldaie. Ma c’è di più. Rovistando tra i rendiconti finanziari delle Ong aggiudicatarie dei progetti, salta fuori che tra le attività foraggiate per i lager di Al Judeida (un quartiere di Tripoli) e Khoms (100 km a est della capitale, in entrambi le condizioni di vita sono terribili) c’è anche la «riabilitazione di infrastrutture di base», quali «aerazione, recinzione, copertura, cancelli». Aerazione a parte, le altre infrastrutture hanno una funzione «sia protettiva che contenitiva» sottolinea Asgi. Per queste attività era previsto un budget di 75mila euro, dal rendiconto intermedio fornito da Aics al 18 marzo 2019 risultano spesi solo 10.695,18 euro.

«Ciò che abbiamo ulteriormente chiarito è che con questi bandi l’Italia sovvenziona interventi che rafforzano la capacità delle milizie libiche di detenere migranti e mantenerli in prigionia. È un fatto grave», dice ancora Fachile a Left.

«Nel periodo in cui l’Italia ha formalmente finanziato, tramite le Ong, attività di assistenza medica nei lager di Tarek al Matar e Triq al Sikka abbiamo ritrovato i nomi di sei persone morte di Tbc in questi centri, morte sul pavimento di queste strutture, senza che abbiano potuto ricevere neanche una aspirina. Abbiamo ricevuto testimonianze di chi ha visto coi propri occhi questa tragedia. Mentre a Tajoura ho parlato con i migranti che sono stati costretti a scaricare i camion delle Ong italiane: Ahmed, che si è rifiutato di farlo, è stato ucciso», racconta a Left Sarita Fratini, scrittrice e animatrice del collettivo Josi & Loni project impegnato nel fermare le deportazioni verso la Libia.

Per Ahmed, e per tutte le vittime del sistema disumano di internamento etnico in Libia, abbiamo ora a disposizione un ulteriore tassello di verità. Adesso il governo non può più fare finta di niente.

L’inchiesta è tratta dal numero di Left del 24 luglio 2020

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Non è solo colpa del coronavirus

C’è l’ex Ilva, con ArcelorMittal che ancora non rende noto un piano industriale condiviso con i sindacati. C’è l’eterna vertenza Whirlpool, che minaccia il futuro di centinaia di persone a Napoli. E ci sono delle new entry, come la chiusura dello stabilimento di Roberto Cavalli che si è abbattuta come una mannaia sui dipendenti di Sesto Fiorentino. La miccia della crisi occupazionale e sociale è già accesa: nei prossimi mesi potrebbe arrivare l’esplosione, come denunciano le parti sociali. La conseguenza è davanti agli occhi di tutti: la polverizzazione di migliaia di posti di lavoro. Da Nord a Sud sono esattamente 135mila lavoratrici e lavoratori in bilico nelle varie vertenze. E chiedono a gran voce che, prima o poi, entrino di peso nei primi punti dell’agenda di governo.

Parliamo di lavoratrici e lavoratori distribuiti su un totale – secondo quanto apprende Left dal ministero dello Sviluppo economico – di 150 tavoli aperti nel mese di giugno. Un numero preoccupante che peraltro non vede esclusivamente la crisi post-coronavirus tra le cause principali. Se è vero infatti che, stando all’allarme lanciato dalle organizzazioni sindacali, la pandemia rischia di far perdere 300mila posti di lavoro, è altrettanto noto che molti tavoli sono stati aperti per crisi causate e create unilateralmente. Ben prima del Covid-19 e spesso per responsabilità delle multinazionali che, nel corso degli anni, hanno imperversato indisturbate sul nostro territorio, dilapidando un patrimonio di competenze.

«L’Italia – spiega Francesca Re David, segretario generale della Fiom – è stato il Paese che più di tutti ha deciso di affidarsi al mercato, rinunciando completamente a un qualsiasi tipo di politica industriale». Il risultato è che nel corso degli ultimi anni abbiamo perso il 25% della capacità produttiva installata. Un’ecatombe. Il caso più eclatante è senza ombra di dubbio quello tarantino dell’ex Ilva. Mentre leader e ministri di ogni partito sfilano annunciando soluzioni a portata di mano con le elezioni regionali all’orizzonte, i fatti dicono che dopo l’accordo del 6 settembre 2018 siglato tra governo, organizzazioni sindacali e ArcelorMittal, è sopraggiunta una nuova intesa il 4 marzo scorso tra lo Stato e la proprietà indiana, il cui piano industriale prevede…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 24 luglio

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Prima che sia troppo tardi

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 09-04-2011 Roma Interni Manifestazione contro il lavoro precario Nella foto Un momento della manifestazione Photo Roberto Monaldo / LaPresse 09-04-2011 Rome Demonstration against precarius work Nella foto A moment of demonstration

E alla fine dal Consiglio europeo, dopo un’estenuante trattativa, arriva l’accordo. L’immagine complessiva, a colpi di frugali contro spendaccioni, non è stata esaltante. La sostanza è quella costruita sin dall’inizio da Merkel, che aveva incardinato il Recovery fund col bilancio, aprendo quindi a un mercato di do ut des. In pratica lo scontro è stato sul mix tra sussidi, prestiti, sconti e livello dei controlli. Si vedrà quali saranno i particolari concreti, le letture e le dinamiche che si apriranno nella Ue e nei vari Paesi.
Certo questo modo di essere dell’Ue, nei contenuti e nelle forme, non sembra ciò che serve. L’impatto della crisi è drammatico e richiederebbe un vero cambio di passo, e di paradigma. La spada di Damocle del ritorno del Patto di stabilità può trasformare gli aiuti in un piatto avvelenato, rendendo impossibile l’uscita dalla crisi e il rilancio dell’economia.

Si conferma che le basi dell’Ue, Maastricht, sono un problema perché riducono una Unione politica a un’area di mercato più il dogma di bilancio. Senza una effettiva politica comune e con un sovrapporsi di Stati e strutture di governance che cortocircuitano.
Per questo sarebbe bene rifondarsi, come qui proponiamo, non più su mercato e bilancio ma su ciò che serve, e cioè, in primo luogo, il lavoro. E naturalmente la democrazia.

L’Employment outlook 2020 dell’Ocse dice che la pandemia ha già portato in questa area un calo del Pil quasi del 15% solo nel primo trimestre del 2020. Il tasso di disoccupazione è passato dal 5,2% di febbraio all’8,4% di maggio e il totale delle ore lavorate è crollato dieci volte di più rispetto ai primi tre mesi della crisi del 2008. L’Italia è uno dei Paesi più colpiti, sia in termini di occupati in meno che di calo delle ore lavorate, diminuite del 28%. Stiamo parlando secondo l’Istat di circa 500 mila disoccupati in più e di 400 mila che hanno rinunciato a cercare lavoro. I più colpiti sono coloro che hanno un contratto a tempo determinato, le donne e i giovani. La disoccupazione nei Paesi Ocse dovrebbe toccare un livello record entro la…

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Come si fulmina un sessista

«Questo episodio non è stato un incidente. Si tratta di un problema culturale. È una cultura di impunità, di accettazione della violenza e di un linguaggio violento contro una donna. C’è un’intera struttura di potere che supporta tutto questo». Così Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata di New York al Congresso statunitense, ha raccontato l’aggressione verbale di cui è stata vittima martedì 21 luglio.

Ocasio-Cortez si stava recando alla Camera per svolgere il suo lavoro. Improvvisamente, da un angolo sono spuntati il deputato repubblicano della Florida Ted Yoho e il suo collega del Texas Roger Williams. Yoho ha iniziato a insultarla, continuando a farlo a fine seduta del Congresso, quando di fronte ai giornalisti si è riferito a lei chiamandola «a fucking bitch», «una fottuta puttana». L’episodio, ovviamente, ha suscitato clamore, spingendo il deputato Yoho a chiedere scusa ad Aoc per «l’atteggiamento sgarbato», aggiungendo poi comunque di non potersi scusare «per la propria passione politica o per amare Dio, la patria e la famiglia». Yoho avrebbe insultato Aoc dopo che la giovane deputata aveva ribadito che l’impennata di crimine a New York si leghi alla crescita della povertà.

La risposta di Alexandria Ocasio-Cortez è stata assai pertinente ed esaustiva.

Durante l’intervento di ieri alla Camera, Ocasio ha sottolineato che episodi come quello che l’ha coinvolta siano all’ordine del giorno per le donne americane (e non solo). Nella sua carriera di cameriera, mestiere che svolgeva prima di entrare al Congresso, molte volte è stata aggredita verbalmente da uomini che, come lei stessa ha detto, utilizzano un linguaggio «deumanizzato» per rivolgersi alle donne. «L’onorevole Yoho ha dimostrato che non basta avere una moglie e due figlie per essere un uomo perbene. Utilizzare quel linguaggio contro di me significa autorizzare qualcun altro ad utilizzarlo contro le sue figlie» ha continuato Ocasio-Cortez.

Non c’è pretesto che possa giustificare le azioni del deputato Yoho, men che meno la passione. Alexandria Ocasio-Cortez stava semplicemente camminando, saliva le scale che la portavano al suo posto di lavoro. Yoho si è sentito autorizzato ad urlarle che era una pazza, fuori di testa e senza controllo, per poi rincarare la dose all’uscita. Nel momento preposto alle scuse, ha tentato di far passare il suo comportamento come qualcosa di normale.

L’abuso verbale è un problema non solo statunitense, ma mondiale: quasi ogni donna è stata vittima almeno una volta nella sua vita di un commento non richiesto a sfondo sessuale, magari per la strada, il cosiddetto catcalling. Secondo una ricerca della National Public Radio (Npr), una no-profit che riunisce oltre 900 stazioni radio americane, il 77% delle donne statunitensi ha ricevuto molestie verbali, più di tre donne su quattro.

«I commenti del deputato Yoho non mi hanno colpita più di tanto. Ho fatto in passato un lavoro “normale” e ho preso la metropolitana a New York, non era la prima volta che mi succedeva» ha detto Alexandria Ocasio-Cortez nel proprio discorso. Quando però Yoho invece di scusarsi ha preso tutt’altra strada, la deputata del Bronx ha scelto di non rimanere in silenzio. In un sistema di potere fortemente patriarcale come quello statunitense, non stupisce che più di qualche uomo non abbia digerito che una donna con un’identità così forte come Ocasio-Cortez, che per di più si autodefinisce socialista, sia riuscita a imporsi con i suoi metodi all’interno del panorama politico. Metodi che non comprendono insultare i suoi colleghi, ma portare idee nuove, chiare e concrete nelle aule del Congresso. Con la risposta data a Yoho, Ocasio ha dimostrato ancora una volta che il suo ruolo da deputata non è solo un impiego di prestigio, ma un modo concreto per cambiare gli Stati Uniti dall’interno.

Già il presidente Donald Trump l’aveva attaccata lo scorso anno, invitandola a «tornare al suo Paese» (la madre di Aoc è originaria di Puerto Rico). Forse pensare che sia la sua identità di donna e politica a disturbare così tanto uomini come Yoho e Trump non è un’ipotesi così lontana dal vero.

Fabrizio Barca: Dobbiamo dare ai giovani le chiavi per uscire dalla crisi

Il ministro dell’Interno Lamorgese ha preconizzato un autunno caldo di proteste sociali, come conseguenza della pandemia che ha acuito le disuguaglianze.
Proprio di lotta alle disuguaglianze si occupa il Forum guidato dall’economista ed ex ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca che nel libro Un futuro più giusto, curato con Patrizia Luongo, avanza un ventaglio di precise proposte.

Professore, come legge questa congiuntura di crisi e cosa ci aspetta in autunno?
La pandemia ha avuto effetti asimmetrici allargando la faglia di disuguaglianze già esistenti. C’è chi ne è stato colpito e chi no. Oltre il 70 per cento degli italiani non ha avuto una caduta di reddito, dice l’Istat. Il che vuol dire che tutto si è rovesciato sul restante 27-28 per cento. Inoltre, come è accaduto in precedenti pandemie e nel caso dell’uragano Katrina nel 2005, i provvedimenti presi possono aver acuito le disuguaglianze. In questi mesi la disattenzione verso gli ultimi, verso i lavoratori irregolari e a tempo determinato si è tradotta in risposte non adeguate e insufficienti che possono addirittura aver aggravato la situazione. Il ministro Lamorgese ha parlato di proteste sociali, esse sono l’anima della democrazia. È augurabile che servano a realizzare provvedimenti migliori, magari anche ad indirizzare i fondi che arriveranno.

Il centrosinistra al governo rischia molto in questo scenario: se non sarà in grado di rispondere al disagio sociale, l’eventualità molto concreta è l’avanzamento delle destre populiste. Vede margini per trasformare la rabbia in conflitto?
Se le proteste non diventano conflitto sociale e non hanno obiettivi strategici di cambiamento allora sì rimangono solo rabbia pronta ad essere cavalcata dalla destra autoritaria.

Aprire a Berlusconi e alle larghe intese, dal nostro punto di vista, è una proposta irricevibile, non solo per il giudizio politico che diamo su quella stagione, ma anche perché significa riproporre la ricetta neoliberista che è stata alla base della crisi del 2008. Qual è il suo punto di vista?
Purtroppo la ricetta neoliberista non è stata solo di Berlusconi ma è stata ampiamente condivisa dal centrosinistra. E questo ha aggravato le conseguenze della crisi. Berlusconi comunque è un’altra stagione, un’altra storia. Ma veniamo al sodo: se dietro a…

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