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Vuole il processo e poi frigna

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-07-2020 Roma Politica Senato - Voto su autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini in relazione alla vicenda Open Arms Nella foto Matteo Salvini si commuove dopo l'intervento in aula Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-07-2020 Rome (Italy) Senate - Vote on authorization to proceed against Matteo Salvini In the pic Matteo Salvini

La tattica di capitan Coniglio è sempre la stessa: provare a scappare dal processo e poi frignare per il processo e provare a utilizzarlo a proprio favore. Ieri ci ha detto che dovrà spiegare a suo figlio di non essere un delinquente e in questa frase c’è tutta la sua retorica: usare i figli per muovere la compassione è una mossa da spot di merendine, qualcosa di talmente basso che si prova orrore solo a scriverlo e se non è riuscito in tutti questi anni a capire che a processo non ci vanno i delinquenti ma ci si va perché si è accusati di qualcosa e si ha l’occasione di dimostrare la propria innocenza allora non c’è più speranza.

Eppure se Salvini fosse furbo potrebbe usare questo processo a suo favore non tanto frignando quanto piuttosto raccontandoci bene come siano andati i fatti, quali siano stati i suoi intendimenti e quali siano stati i suoi risultati. Tutto questo brutto balletto ci sarebbe risparmiato e si potrebbe parlare di politica.

A proposito di politica: ma siamo sicuri che Salvini fosse solo nel prendere quelle decisioni? Dico, al di là della questione meramente burocratica, ve lo ricordate con chi andava a braccetto mentre chiudeva i porti? Vi ricordate chi esultava con lui? Vi ricordate chi si faceva fotografare sorridente dopo l’approvazione dei decreti sicurezza? E, soprattutto, lo sapete che il secondo decreto sicurezza è stato ulteriormente peggiorato dai molti emendamenti del Movimento 5 Stelle?

E vi ricordate l’abrogazione della Bossi-Fini che non è mai arrivata? l’abrogazione dei decreti sicurezza? L’avete letto del rifinanziamento dei torturatori libici da parte del governo italiano?

Così, tanto per non perdersi troppo sul processo di Salvini.

Buon venerdì.

I trafficanti di morte dettano legge in Italia

CAIRO, EGYPT - JUNE 8: Egypt's new President Abdel-Fattah al-Sisi reviews the honor guard during the handover ceremony in front of the Ittihadiya presidential palace in eastern Cairo, Egypt on June 8, 2014. Al-Sisi, Egypt's former defense minister, was sworn in by the Supreme Constitutional Court as the country's new president after winning last month's presidential poll. (Egyptian Presidency/Pool/Anadolu Agency/Getty Images)

Sono trascorsi trent’anni dall’entrata in vigore, il 9 luglio 1990, della legge n. 185 che ha stabilito “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. La legge fu approvata con un’ampia maggioranza dopo cinque anni di intensi lavori durati due legislature. Una normativa fortemente voluta da un ampio movimento dell’associazionismo anche a seguito delle inchieste sui traffici di armi dell’Italia durante gli anni ottanta. Da allora sono trascorsi esattamente trent’anni. Cosa è rimasto della legge? Come è stata applicata? E, soprattutto, è stata in grado di prevenire esportazioni di armi a regimi repressivi e a Paesi in guerra?

Intanto va detto che nonostante le modifiche apportate nel corso degli anni allo scopo di aggiornarla «al ruolo dell’Italia nel nuovo quadro internazionale» e alle «mutate esigenze del comparto della difesa», ha mantenuto le sue caratteristiche originarie e dunque, risulta ancora valida per un efficace controllo dell’export. Ma è per lo più inapplicata. O meglio, è stata e viene tutt’ora applicata dai governi badando soprattutto a non incorrere in plateali violazioni degli embarghi di armi e in sanzioni internazionali, invece che a metterne in atto i principi ispiratori ed i rigorosi divieti. Per esempio, sebbene la legge stabilisca che l’export debba essere conforme «alla politica estera e di difesa dell’Italia», i numeri sull’export mostrano invece che nell’ultimo decennio i principali destinatari di sistemi militari non sono stati i Paesi dell’Unione europea e della Nato, ma quelli al di fuori delle nostre principali alleanze politico-militari. Nell’ultimo quinquennio più del 56,3% è stato destinato a Paesi extra Ue ed extra Nato (24,8 miliardi) a fronte dei 19,2 miliardi indirizzato agli alleati Ue-Nato. Quanto e come tutto questo sia conforme alla politica estera e di difesa non è mai stato spiegato al Parlamento e dunque ai cittadini.

Non solo. La legge vieta espressamente l’export «verso i Paesi in stato di conflitto armato», «i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani» e «verso Paesi la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione». Tra i maggiori destinatari dell’ultimo quinquennio per i quali c’è stata l’autorizzazione governativa all’export spiccano invece le…

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Non è una mela a esser marcia

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 13 Maggio 2020 Ciampino (Italia) Cronaca Ciampino, sparatoria con omicidio in una zona residenziale Nella Foto : i carabinieri e la scientifica sul posto Photo Cecilia Fabiano/LaPresse May 13, 2020 Ciampino (Italy) News Shooting in Ciampino city (near Rome) in a residential neighborhood In the pic: police and forensic on the place of the Shooting

L’ordinanza è stata firmata 19 luglio, anniversario della morte del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. «Servitori dello Stato che persero la vita compiendo il proprio dovere – scrive il gip -. A loro si dedica questo atto di giustizia». L’atto in questione è quello relativo agli arresti dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza. Un episodio (l’ultimo, per meglio dire, in ordine temporale) che getta ulteriore fango su quelle forze di polizia ormai al centro di una discussione mondiale dopo l’omicidio di George Floyd, e che arriva contestualmente al rinvio a giudizio dei carabinieri imputati come responsabili dell’uccisione di Serena Mollicone. Affidare tutto alla magistratura perché la giustizia faccia il suo corso sarebbe operazione pilatesca perché non va alla radice di un problema che si ripropone ciclicamente («Quanti sono i cesti pieni di mele marce?» ha dichiarato la mamma di Federico Aldrovandi).

È giunto cioè il momento che l’opinione pubblica spinga per una rivoluzione culturale di rifiuto della violenza che dall’inizio di questo millennio, invece di scemare parallelamente alla crescita di una ultramodernità dai molteplici effetti speciali e dai notevoli vantaggi, è andata crescendo anch’essa nel nome di una supremazia familiare (vedi i tanti femminicidi), sociale (vedi i rapporti servo-padrone oggi così vigorosamente “rinfrescati”), statale (vedi appunto i troppi casi di violenza esercitata dalle forze dell’ordine, ponendo come anno zero il 2001 di Genova).

Il modello autoritario – non autorevole, ahimè, ché quello si conquista, non si riceve – delle forze di polizia (intendendo per esse sia quelle del ministero dell’Interno, che della Difesa) trasluce quei segni dei…

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Divise senza fascino

21.07.2001 GENOVA INTERNI G8 NELLA FOTO: FERMATI © MAURO SCROBOGNA LAPRESSE

Le forze dell’ordine italiane sono proprio come sembrano. Chiuse, autoreferenziali, insofferenti alle critiche, strutturalmente incapaci di rendere conto dei propri errori, correggerli e quindi prevenirne di ulteriori. In questi giorni colpiscono le notizie riguardanti la caserma “gomorrista” dei carabinieri di Piacenza, tali e tanti sono gli abusi messi a nudo, l’arroganza dimostrata dai protagonisti, le complicità esplicite e implicite di cui hanno goduto per mesi, se non per anni. Si può restare colpiti, ma non sorpresi, perché i precedenti sono numerosi. Basti pensare all’inchiesta sulla caserma dei carabinieri di Aulla, in Lunigiana: anche lì storie di violenze e violazioni di legge. O alla tragica vicenda di Stefano Cucchi, un caso di tortura, di menzogne, di falsi, di depistaggi venuto infine alla luce non certo per un impulso autocritico dell’Arma.
Si potrebbero citare altri casi, ma tanto basta a chiarire i termini della questione: le forze dell’ordine, in Italia come in tutto il mondo, sono esposte al rischio dell’abuso di potere. Ciò che differenzia un Paese dall’altro, è negli anticorpi etici e professionali di prevenzione e negli strumenti tecnici e giuridici previsti per garantire risposte adeguate una volta denunciato o accertato un abuso. L’Italia, sotto questo profilo, non è all’avanguardia, per usare un eufemismo. Per farsi un’idea della strutturale incapacità delle nostre forze dell’ordine di punire e prevenire gli abusi, si può leggere la sentenza di condanna per l’Italia pronunciata nel 2015 dalla Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, una clamorosa vicenda di violenze, falsi e menzogne durante il G8 di Genova del 2001 riguardante il vertice della polizia di Stato. La Corte definì le violenze alla Diaz un caso di tortura – come in Italia nessuno aveva osato fare, nonostante l’evidenza – e indicò una per una le gravissime mancanze del nostro sistema istituzionale: le inchieste della magistratura «ostacolate impunemente» dai vertici di polizia; le condanne faticosamente inflitte ma con pene lievi e addirittura coperte in buona parte dall’indulto; la mancata individuazione dei responsabili dei pestaggi (non identificabili, in assenza di codici di riconoscimento sulle divise); l’assenza di procedimenti disciplinari per i funzionari e i dirigenti sotto inchiesta e le mancate destituzioni a condanne avvenute; il vuoto legislativo in materia di tortura.

Il G8 di Genova è stata una caporetto per le forze dell’ordine italiane, il cui discredito interno e internazionale è cresciuto, anziché diminuire, negli anni successivi ai fatti. Tutto ciò è accaduto perché i deficit etico-professionali e normativi affondano nella storia dei …

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Articolo di Lorenzo Guadagnucci, Comitato verità e giustizia per Genova

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Vivere in un mondo senza polizia

In this June 3, 2020, photo, protesters rally Wednesday, June 3, 2020, in Phoenix, demanding that the Phoenix City Council defund the Phoenix Police Department. Key Democrats, including presumptive presidential nominee Joe Biden, are rejecting liberal calls to “defund the police” as President Donald Trump and his allies point to the movement as a dangerous example of Democratic overreach.(AP Photo/Matt York)

È veramente necessario vivere in Paesi in cui una parte consistente dell’erario viene destinata a mantenere apparati polizieschi sempre più imponenti? È possibile immaginare forme di convivenza civile e democratica in assenza di forze dell’ordine? Dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, l’escalation di proteste (e di violenze) negli Usa e il dilagare nel mondo del movimento Black lives matter, tali domande si sono fatte ogni giorno più insistenti nell’opinione pubblica degli States e parzialmente in quella europea. Se a Minneapolis il consiglio comunale sta lavorando alla proposta di sostituzione del dipartimento di polizia con un dipartimento «per la sicurezza della comunità e la prevenzione della violenza», in Francia a giugno l’ex ministro dell’Interno Castaner era stato costretto a promettere di affrontare il tema del razzismo nelle forze dell’ordine e di proibire la tecnica del ginocchio sul collo, la medesima con cui è stato ucciso Floyd (seppure poi il cambio di governo abbia rimesso in discussione le cose). E in Italia? Poco o nulla. Nemmeno i «reati impressionanti» addebitati dalla Procura di Piacenza ai carabinieri della caserma Levante hanno, al momento, sollevato un reale dibattito su una radicale revisione delle divise italiane.

E allora, anche per questo motivo approfondire le istanze sviluppatesi oltreoceano, quelle “riformiste” – di chi propone di decurtare i fondi per la polizia – e quelle “abolizioniste” – di chi vorrebbe proprio farne a meno – può fornire spunti preziosi. Innanzitutto, su due tesi entrambi gli schieramenti concordano. La prima è che la criminalità non sia un fatto innato, un atteggiamento “naturale” degli esseri umani, bensì il prodotto di condizioni materiali e mentali delle persone, alle quali si può porre rimedio investendo in servizi sociali, sanitari e nell’istruzione. Facendo prevenzione. La seconda è che la…

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Rifiutare la violenza, riformare le forze dell’ordine

The hat of Carabinieri paramilitary police officer Andrea Varriale is seen on a table in the courtroom during the trial of two American tourists accused of killing Varriale's colleague Carabinieri police officer Mario Cerciello Rega, in Rome, Thursday, July 16, 2020. Two tourists from California are accused of murdering the officer during a summer vacation in Italy in July 2019. (AP Photo/Riccardo De Luca, Pool)

Nel dicembre del 1938 alcune scoperte della fisica aprirono la strada alla fissione dell’atomo. Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassman a Berlino aprirono l’era del nucleare, come ricostruisce Peter Watson nel libro Fallout: Conspiracy, Cover-Up and the Deceitful Case for the Atom Bomb, basato su documenti de-secretati e che riporta alla luce la cruda verità. Ovvero che la corsa all’atomica non era affatto scontata, molti scienziati erano contrari come si evince anche da numerose lettere. Il “Progetto Manhattan” fu dunque una scelta lucida fatta a tavolino, quando gli Usa già prevedevano che il Giappone si sarebbe presto arreso. E fu una corsa in solitaria per realizzare la bomba. Nel 1942 il Terzo Reich aveva abbandonato la ricerca dopo una riunione segreta a cui aveva partecipato anche il fisico Werner Heisenberg. Dopo quaranta anni di Guerra fredda, solo nel 1987 Gorbaciov e Reagan firmarono un accordo per porre fine a quella pazza sfida. Che non è ancora terminata, come denuncia il fisico Angelo Baracca su questo numero che esce in occasione del 75esimo anniversario delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki (6-9 agosto 1945). Una delle pagine più buie della storia dell’umanità, su cui torniamo a riflettere denunciando le responsabilità di chi frena il disarmo, oltretutto, per calcoli di cinico profitto. Non sono confortanti le notizie che riporta il fisico e attivista, e neanche ciò che scrive Giorgio Beretta sull’Italia che continua a fare affari con la vendita di armi, vendendo a Paesi totalitari come l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Come sempre non ci bastano la cronaca e la dura disamina dei fatti e, con Romina Perni autrice con Roberto Vicaretti del libro Non c’è pace, il discorso si allarga a una riflessione più ampia sulla piena applicazione dell’articolo 11 della Costituzione, sulla storia del pacifismo, che è diventata carsica, e sul cambiamento radicale di paradigma che offrirebbe una cultura della non violenza, dell’incontro, dell’interesse verso l’altro, della conoscenza. Siamo certi che l’essere umano sia violento e omicida come ci hanno fatto credere la Bibbia e tanti filosofi? La moderna psichiatria ci dice che la violenza e la distruttività non sono innate, sono sintomi di malattia che può essere prevenuta e curata. La dinamica vita mea mors tua non è la verità umana, scrive la storica della filosofia Elisabetta Amalfitano. Semmai è la visione ideologica e oppressiva che la destra vorrebbe imporci. Il nostro destino non è, ab origine, quello di Caino.

Così come non sono un destino ineluttabile la guerra, la corsa alle armi o derive autoritarie. Con coraggio, a partire da una visione antropologica libera dal dogma e basata sulla conoscenza della realtà psichica, vogliamo proporre qui di riflettere su alcuni temi brucianti che attraversano la cronaca provando a guardarli da una prospettiva inedita. Che cosa accadrebbe, per esempio, se le forze dell’ordine fossero formate alla non violenza? Ci sarebbero stati l’assalto violento e le torture inflitte ai manifestanti pacifisti nella scuola Diaz di Genova nel 2001? Cosa accadrebbe se la catena di comando avesse ben presente che l’onore dell’Arma non è l’omertà? Di certo non ci sarebbero voluti dieci anni per avere verità e giustizia per Stefano Cucchi, massacrato da chi avrebbe dovuto invece proteggerlo. E ancora: cosa accadrebbe se abolissimo esercito e corpi di polizia? Il tema non è utopistico né tantomeno astratto. Dopo l’uccisione di George Floyd e di altri cittadini afroamericani se ne discute molto negli Usa, dove la violenza razzista è un fatto annoso e strutturale nelle forze dell’ordine. «In America, i neri sono intimiditi, picchiati, molestati, fermati e perseguitati dai poliziotti. Il loro timore di dover interagire con le forze dell’ordine è motivato. E questa paura è reciproca», dice a Libot e Fargnoli l’attivista Mumia Abu-Jamal, in carcere dal 1982 per l’omicidio di un agente di polizia, e che si è sempre detto innocente. Al tema del de-finanziamento e addirittura dell’abolizione della polizia la rivista The Nation ha dedicato un’intera copertina. Se ne è occupato il New yorker e ferve sul New York times, non solo nelle riviste più di sinistra, come ci racconta Leonardo Filippi.

E ancora: davvero non si può vivere senza esercito? Il Costa Rica lo ha abolito, ci spiega Simone Careddu invitandoci a conoscere più da vicino questo piccolo e pacifico Paese. Che certo non ha molti emuli. Molti di più sono infatti i casi di segno opposto, basta pensare all’Egitto e alla Turchia sempre più militarizzati. Ci occupiamo qui anche della drammatica metamorfosi che ha subito la Thailandia, sempre più simile a uno Stato di polizia come scrive Francesco Radicioni da Bangkok. La questione del controllo da parte delle forze dell’ordine, del proliferare di strumenti di videosorveglianza e della limitazione della libertà di movimento si è fatta, come è noto, ancora più stringente in tempi di pandemia. E se è vero – come abbiamo denunciato con inchieste – che si sono registrati alcuni abusi, in linea di principio la limitazione delle libertà individuali per ridurre i rischi di contagio ci pare, invece, incontestabile. Curiosamente proprio in nome di una malintesa idea di libertà si ritrovano sullo stesso fronte i negazionisti leghisti e di destra e pensatori esistenzialisti come Giorgio Agamben. Su questo punto non ci sono equivoci e ad entrambi rispondiamo: non esiste la libertà di far ammalare, rifiutiamo anche questo tipo di violenza.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 31 luglio

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Il sottovuoto in cui stiamo

Ieri una leader del centrodestra ha urlacciato alla Camera per fare sentire più forte le proprie idee. L’hanno chiamata tenacia e invece è solo un volume alto, un volume di voce alto è solo un volume di voce alto e chi urla lo fa perché ha paura che le sue idee non siano abbastanza pesanti e quindi ha bisogno di scagliarle perché si notino di più. Buon per loro, male per noi.

Però analizziamo il momento politico, sul serio, per favore.

Proviamo a togliere i migranti, togliamoli dal tavolo della polemica politica. Non rimane niente, niente di niente.

Si sta parlando del prolungamento di stato d’emergenza di un Paese i cui molti bighellonano tra discoteche e mercatini e spiagge senza nessuna protezione, senza nessuna mascherina e intanto urlano alla dittatura. Una dittatura in cui va di moda non seguire nemmeno le regole basilari è una delle dittature meno credibili che si sia mai vista in giro.

Si sta discutendo di quelli per cui il Covid non esiste. Fermi tutti: quelli per cui il Covid non esiste sono gli stessi che urlacciano contro i migranti che porterebbero il Covid. Un tilt di ragionamento che farebbe sbiellare chiunque e che invece qui viene rivenduto come fosse normale.

Si sta parlando di scuola (e ce ne sarebbe tanto bisogno di parlare di scuola) discutendo solo di banchi a rotelle. Solo di questo.

Si sta parlando dei soldi dell’Europa mica decidendo come spenderli ma discutendo del fatto che l’Europa sia sporca e cattiva. Proposte su come spendere i soldi, per ora, niente.

Si sta discutendo di lavoro con le due fazioni che si dicono, entrambe, che bisogna rilanciare il lavoro e nessuno capisce come si debba fare.

È la stagione del sottovuoto spinto. Della politica che urla di tutto e parla di niente. Sì, lo so, accade spesso, ma non trovate che sia insopportabile questa leggerezza vacanziera su quello che accade? Ma lo sentite il disagio di una discussione così?

Buon giovedì.

Arturo Salerni, avvocato Open Arms: Non basta abrogare i decreti di Salvini per restituire ai migranti i loro diritti

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-07-2020 Roma Politica Senato - Voto su autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini in relazione alla vicenda Open Arms Nella foto Matteo Salvini Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-07-2020 Rome (Italy) Senate - Vote on authorization to proceed against Matteo Salvini In the pic Matteo Salvini

Giovedì 30 luglio il Senato si deve pronunciare sull’autorizzazione a procedere richiesta dal tribunale dei ministri di Palermo nei confronti di Matteo Salvini per il caso della nave ong Open Arms. Per 19 giorni nell’agosto del 2019 l’allora ministro dell’Interno negò lo sbarco nel porto di Lampedusa dei 164 migranti soccorsi nel Mediterraneo, tra cui molti minori. Il leader della Lega rischia il processo per sequestro di persona e abuso di ufficio. Due mesi fa la Giunta per le immunità del Senato ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere. Per parlare di questa situazione e delle questioni irrisolte legate alla gestione politica dell’immigrazione, abbiamo incontrato l’avvocato Arturo Salerni, avvocato della Open Arms e presidente dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild).

Avvocato Salerni, come descriverebbe in generale la situazione attuale dei migranti?
Dal ’98 in poi, con la legge Turco-Napolitano, si è inserita nel nostro sistema una pratica di privazione della libertà sganciata dalla commissione di un reato. E oggi la situazione non è certo favorevole. Il sistema si basa su una rigidità e automaticità normativa che risponde a istanze diffuse nell’opinione pubblica. Pertanto vi sono centri di accoglienza funzionali a un rimpatrio che non può avvenire, ma che agli occhi della società almeno contiene il problema. I tempi di permanenza di queste persone all’interno dei Cpr, allungati e ristretti dai vari decreti sull’immigrazione, sono assolutamente sproporzionati.

Una privazione che peraltro non risponde ad alcuna base legale.
La privazione della libertà in questi casi non è in alcun modo funzionale rispetto all’obiettivo del rimpatrio ed appare dubbia rispetto alle previsioni costituzionali. C’è poi il problema delle proroghe, di un meccanismo privo di difesa per il cittadino straniero e di una attribuzione delle competenze ai giudici di pace piuttosto opinabile. Qui c’è tutto un sistema che non regge, bisognerebbe individuare forme alternative alla detenzione amministrativa per coloro che si trovano nel nostro Paese in una situazione di irregolarità non sanabile. Obiettivamente la possibilità di privare una persona della propria libertà personale, indipendentemente da un reato commesso, è una pratica assurda che va abolita quanto prima.

Lei è anche avvocato della ong Open Arms. Come ha vissuto da questo punto di osservazione le restrizioni negli arrivi durante e dopo il lockdown?
Il problema è stato questo: ad un certo punto era tutto bloccato, e anche gli ingressi hanno avuto delle difficoltà. C’è stata la necessità di mettere in quarantena chi arriva dall’estero, pratica che però si è innescata sul problema generale degli sbarchi, per cui si è fatto di tutto per impedire le attività di soccorso delle Ong. Con il decreto del 7 aprile sono state interrotte le possibilità di soccorso senza che fosse stata data un’alternativa valida ai migranti: si tratta evidentemente di una strumentalizzazione della crisi, di un’ennesima interpretazione dei migranti come una minaccia. Dopo restrizioni nei confronti delle Ong e conseguenti proteste da parte nostra, a cinque giorni dal decreto sono ricominciati i programmi di ricollocamento.

Nello stesso periodo c’è stata la sanatoria…
Esattamente. In Italia ci siamo trovati con una platea di 600mila persone irregolarmente presenti sul territorio nazionale, cui si doveva garantire, almeno nel periodo di emergenza più alta, distanziamento sociale e sicurezza. Così si è sentita l’esigenza di una regolarizzazione, che si è alla fine manifestata nella forma dell’emersione. Colgo l’occasione per sottolineare un punto: la contrapposizione ontologica che si fa tra regolari e irregolari non sussiste, in quanto i regolari di oggi sono gli irregolari di ieri, e i regolari di oggi sono in grandissima parte passati attraverso sanatorie. La più grande è quella che ha accompagnato la legge più restrittiva, la Bossi-Fini, che nel 2002 ha regolarizzato 647mila persone: 580mila regolarizzazioni ottenute spesso inventando rapporti di lavoro fittizi, come in parte sta avvenendo adesso; e circa 60mila attraverso vertenze nei confronti dei datori di lavoro.

Quali sono allora gli elementi di maggiore criticità di questa ultima sanatoria?
Oltre alla limitazione dei settori lavorativi in cui essa è consentita – agricoltura, assistenza alla persona e lavoro domestico -, che esclude in tal modo un sommerso enorme, quello dell’edilizia e del commercio, che invece necessiterebbe di emersione, c’è la limitazione temporale, ovvero la presenza ininterrotta dall’8 marzo o permesso scaduto dal 31 ottobre. Qua si innesca una falla grave nel sistema: se un cittadino straniero ha fatto richiesta per protezione internazionale, nel periodo intercorrente tra la richiesta e la decisione del Tribunale ha ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo, durante il quale ha potuto essere regolarmente assunto. Ora, questa tipologia non rientra nell’ipotesi del primo comma dell’art. 103 del decreto Rilancio che prevede la richiesta di emersione da parte del cittadino straniero.

E cosa dovrebbe fare questa persona?
Appunto. Per caso dovrebbe rinunziare alla richiesta di protezione internazionale, facendo scadere il permesso di soggiorno ad essa legato dopo il 31 ottobre, e ottenendo così un permesso temporaneo di sei mesi in cui trovare lavoro? Ovviamente solo nei tre settori produttivi indicati dalla norma, perché se sei ingegnere nucleare no… sono porte strettissime è chiaro.

Le sanatorie dunque non sono una soluzione…
La sanatoria purtroppo rappresenta (e ha rappresentato negli anni) l’unica soluzione: la storia della normativa sull’immigrazione italiana coincide con la storia delle sanatorie. Adesso hanno trovato questo compromesso, pessimo tecnicamente, ma capace di regolarizzare un buon numero di irregolari. O cambi la legge, instituendo un permesso per ricerca di lavoro, o la sanatoria continuerà ad essere l’unica soluzione.

Dando vita a un “mega decreto flussi”?
Il decreto flussi alla fine è esso stesso una sanatoria, il concetto è lo stesso. L’uscita è una sola, concedere permesso per richiesta di lavoro, in maniera onesta e trasparente. Finché non si cambia il sistema, a livello nazionale come a livello europeo, la regolarizzazione, oltre al ricongiungimento e alla protezione internazionale, rimarrà l’unico mezzo.

Così però non si fa il gioco di coloro che, per l’appunto, vogliono strumentalizzare il problema?
Purtroppo la condizione di emergenzialità è connaturata alla natura giuridica di queste regolarizzazioni, che trova la sua fonte nello strumento del decreto legge. Il titolo è sempre “immigrazione e sicurezza”, anche per quanto riguarda il decreto Salvini. Laddove invece parliamo di quasi un decimo della popolazione italiana, sia pure con un numero in calo negli ultimi anni. Dal 2008, con la crisi, la migrazione economica è diminuita, e nonostante le tante persone provenienti dalla Libia che chiedono protezione umanitaria, i numeri sono considerevolmente più bassi rispetto a 20 anni fa.

Perché allora l’immigrazione continua a essere trattata come un’emergenza?
Perché lo straniero ci ruba il lavoro e le donne, pure il sangue ci toglie….

Una questione di mentalità “culturale”.
Oltre a essere, come dicevamo prima, strumento di battaglia politica. Quando la politica non riesce a dare risposte sull’espansione del sistema economico e di welfare vi sono due elementi che vengono strumentalizzati: uno è lo straniero, l’altro è la criminalità. Se consideriamo che i tassi di penalizzazione e carcerizzazione sono aumentati negli ultimi 30 anni, quando tutti i reati vanno costantemente a diminuire – da un migliaio di omicidi volontari a 300 circa l’anno, gran parte per violenza familiare e motivi di lavoro – si capisce che non c’è un nesso tra gravità del fatto e risposta normativa. Per esempio, perché gli ergastoli, stando a questi dati, si sono triplicati nello stesso lasso di tempo?

Più volte questo governo ha annunciato di voler intervenire sui decreti sicurezza di Salvini. Lei cosa si aspetta?
Sicuramente ritornerà l’accoglienza per i richiedenti asilo negli Sprar, e l’ultima sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale la mancata registrazione all’anagrafe dei richiedenti asilo apre uno spiraglio a un qualche miglioramento. Poi probabilmente, supplendo a una parte lasciata scoperta dalla sanatoria, vi sarà la possibilità di conversione in permesso di lavoro per i casi cosiddetti speciali, tra i quali moltissimi sono braccianti che potranno così rientrare nella categoria.

Per quanto riguarda il sistema di soccorso in mare che aspettative ha?
Una delle riforme sarà proprio quella di abbassare le sanzioni nei confronti delle Ong che non rispettano il decreto interministeriale di divieto di ingresso nelle acque territoriali o di sbarco nella misura che era stabilita originariamente dal secondo decreto Salvini, e che nella conversione in legge ad agosto 2019 furono aggravate terribilmente.

Proprio quando la Open Arms era pronta ad attraccare sulle coste italiane…
Per questo abbiamo provato in tutti i modi ad attraccare prima che il decreto fosse convertito, ma purtroppo non è stato possibile. Dopo l’ordinanza del Tar Lazio, la nave si è diretta a Lampedusa con i migranti a bordo; lì Salvini li ha bloccati, ed è dovuta intervenire la Procura di Agrigento per lasciarli entrare. Su questo fatto il Tribunale dei ministri di Palermo ha chiesto l’incriminazione di Salvini per sequestro di persona e abuso di ufficio. Il 30 voterà l’aula del Senato, non resta che aspettare.

Alla luce di quanto detto finora, le persone che sbarcano in Italia si possono sentire “al sicuro”?
Torniamo alla radice del problema, ovvero la politica. Se pensiamo ai decreti Minniti o al blocco del programma Mare Nostrum nel 2014, dobbiamo purtroppo constatare che, con la giustificazione di non farsi sottrarre voti dalla destra, la sinistra ha messo in atto misure che, almeno teoricamente, non appartengono ai suoi programmi. Ed anche in questo caso abbiamo avuto lesioni importanti dei diritti umani in una rincorsa della destra che rende tutto lo scenario più cupo.

Discorso estendibile al contesto europeo.
La Ue dovrebbe governare i flussi in maniera più seria. L’Italia è un Paese che si spopola, è difficile vedere bambini: non capiamo le opportunità che scaturirebbero da una gestione coerente della questione immigrazione. La differenziazione degli strati popolari e dei lavoratori sulla base della nazionalità o della regolarità del soggiorno non fa che rafforzare il fronte datoriale. L’unità sindacale era quella che ti permetteva di avere contratti migliori, mentre adesso c’è una corsa al ribasso nel mondo del lavoro, esacerbata da una politica miope, esemplificata dai suddetti decreti sicurezza, e da una mentalità culturale incomprensibile.

Chiedere semplicemente scusa

Pensate come sarebbe facile, chiaro, lineare:

«Scusatemi, no, non è vero che sono stato frainteso, ho detto così perché sono stato vigliacco, capita a tutti di essere vigliacchi e a volte di non volere riconoscere i propri errori, sarà che in fondo siamo tutti figli di quest’epoca in cui l’errore è un’onta da cui sembra impossibile riabilitarsi, sarà che ci vorrebbero convincere tutti che la vera vittoria sta nel non sbagliare mai quando invece sbagliare è nell’ordine naturale delle cose, sbagliare e rialzarsi e poi una volta in piedi sbagliare di nuovo e anche se ci mettiamo in testa di imparare dai nostri errori è talmente ampio il ventaglio degli sbagli possibili nella vita che alla fine non li impareremo mai tutti e ogni mattina ci sarà uno sbaglio nuovo che ci aspetta dietro la porta, che ci frega di nuovo e forse sarebbe il caso che la smettessimo di voler apparire invincibili e che dicessimo, che ce lo dicessimo, che sbagliamo e continueremo a sbagliare. Semplicemente sbaglieremo meglio, promesso».

Pensate che rivoluzione.

Pensate se Bocelli ci dicesse che è stata una tentazione irresistibile andare a fare la sua comparsa in Senato e poi è successo come succede a tutti di farsi trascinare un po’ troppo dalla compagnia dal bar ed è finito a fare il gradasso. «Ho sbagliato e occhio alle cattive compagnie», potrebbe dire. E chiusa lì.

Pensate se Salvini confessasse di dire semplicemente il contrario di quello che dicono gli altri perché gli conviene ed è per questo che dice tutto e il contrario di tutto: «Ogni tanto mi sbaglio perché anche quelli dicono tutto e il suo contrario e io per fare il contrario inevitabilmente mi contraddico». Bon, finita lì.

Pensate se i direttori di Libero e de Il Giornale avessero il coraggio di ammettere di cercare ogni giorno di vincere la gara a chi la spara più grossa e per questo spesso finiscono nell’incredibile. Bene, lo sappiamo, discorso chiuso.

Immaginate Zingaretti se avesse il coraggio di dire che i Decreti Sicurezza non li può cancellare perché il suo presidente del Consiglio li presentava in pompa magna con i clap clap del Movimento 5 Stelle e adesso non può rimangiarsi tutto. Lo sappiamo, bene, ok.

Immaginate se la Meloni dicesse che deve fare la fascista ma prova a farla in modo più furbo di Salvini senza esporsi troppo ma leccando i fascisti di nascosto. A posto così.

Chiedere semplicemente scusa.

Dico, sarebbe un mondo bellissimo, no?

Buon mercoledì.

I maestri della “vita reale”

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 09-06-2014 Roma Politica La7 - Trasmissione tv "L'aria che tira stasera" Nella foto Flavio Briatore Photo Roberto Monaldo / LaPresse 09-06-2014 Rome (Italy) Tv program "L'aria che tira stasera" In the photo Flavio Briatore

Ieri è rimbalzato in rete un video di un maestro di vita reale, non so se ne conoscete qualcuno, sono quelli che hanno un’opinione di tutto perché trattano tutte le sfumature e tutte le situazioni della complessa realtà come fosse un unico blocco di cemento, immodificabile e inamovibile, e di solito sputano sentenze inappellabili accusando gli altri di essere “fuori dal mondo”, dicono proprio così, come se ci fosse un mondo in cui stare dentro e uno in cui stare fuori. I maestri della vita reale di solito hanno il vizio di categorizzare il mondo in buoni e cattivi, ricchi e poveri, lavoratori e nullafacenti, belli e brutti, bianchi e neri, comunisti e liberal (dicono così) e poi tutto un resto di etichette che non vale nemmeno la pena trascrivere tutte per non rubare troppo spazio a questo articolo e alla vostra mattinata.

Il maestro della vita reale del video che girava ieri era Flavio Briatore che tutto baldanzoso dichiarava: «Quelli al governo vivono in una bolla, non hanno idea della vita reale!» e poi dava tutto un elenco di consigli su come governare l’Italia, come fare funzionare questo Paese e come rendere felici tutti gli italiani. La cosa curiosa è che i maestri della vita reale vengono invitati più o meno sempre negli stessi programmi e piacciono più o meno sempre agli stessi politici. Briatore è un imprenditore con sede legale a Londra, sede fiscale a Dublino, produzione in Pakistan, residenza a Montecarlo ed è molto curioso che ci dia lezioni sulla “vita reale” in Italia dall’alto delle sue bollicine extra lusso. Ti aspetteresti che un maestro di vita reale sia qualcuno che fatica, che si porta addosso le sue cicatrici, che riconosce di avere compiuto errori e cose buone e invece i maestri di vita reale che ci propinano sono quelli che vorrebbero convincerci che nella vita o si vince o si perde e chi perde è un fardello di cui bisogna liberarsi.

Facciamoci un favore, curiamo l’ecologia sociale, liberiamoci dei maestri di vita reale e occupiamoci della nostra vita che, reale o no, è quello di cui ci dobbiamo occupare.

Buon martedì.