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Imprese miracolose: le scuole private cattoliche

Ci risiamo: la Conferenza episcopale italiana batte cassa perché ulteriori soldi pubblici vengano versati alle sue scuole private, e il governo di turno non solo glieli concede, ma raddoppia lo stanziamento straordinario già inserito nel decreto Rilancio, portando a 150 i milioni da girare agli istituti paritari. Il 2020 sarà così l’anno di un triste primato, quello dello sfondamento del tetto del miliardo di euro di spesa pubblica destinato a tenere in piedi le scuole private cattoliche, che da sole già ricevono annualmente 430 milioni dallo Stato e 500 milioni dalle amministrazioni locali.
È da vent’anni, dal varo della famigerata legge 62/2000 sulla parità scolastica, che ai contribuenti tocca mantenere le scuole private cattoliche. Un sistema in costante crisi i cui sostenitori, con una certa sfrontatezza, chiamano pubblico. Di pubblico, onestamente parlando, ha solo i tanti finanziamenti. Sono invece platealmente privati la proprietà, la gestione, la scelta degli insegnanti e soprattutto il progetto educativo proposto, che i genitori-clienti sono obbligati ad accettare nella domanda di iscrizione. Progetto educativo che, facendo riferimento alla dottrina cattolica, oltre che di parte è di retroguardia. Per dirne una che dovrebbe interessare il ministero per le Pari opportunità e la famiglia, la Chiesa colloca la donna in un ruolo di inferiorità nell’organizzazione ispiratrice del progetto.

Le preoccupazioni della ministra Elena Bonetti, stando a un’intervista rilasciata al Giornale il 20 maggio scorso, sono invece planate su altri fronti. Curiosamente sovrapponibili a quelli rivendicati dai vescovi: quello di dare soldi pubblici alle famiglie perché possano far frequentare ai loro figli scuole non pubbliche, quello di far intervenire lo Stato al posto dei rispettivi proprietari per ristrutturare immobili di proprietà privata adibiti a scuole paritarie. Dopo questa rivisitazione in salsa clericale delle pari opportunità, Bonetti ha concluso l’intervista dicendosi esplicitamente d’accordo con un’altra richiesta della Cei, quella di poter utilizzare l’8×1000 a scopi educativi.
Crediateci o no, su quest’ultimo punto anche la Uaar si è detta d’accordo. Per dimostrare che noi atei non ci siamo bevuti il cervello, occorre chiarire i termini della questione. Il giorno precedente l’Ansa riportava che per il portavoce e sottosegretario della Cei, don Ivan Maffeis, «la scuola paritaria non vuole soldi dallo Stato». Fin qui si fiuta lontano un miglio la excusatio non petita, accusatio manifesta. Ma andando oltre leggiamo che la richiesta della Cei è di «usare per il sostegno alle scuole paritarie la quota del suo 8×1000». I vescovi vogliono usare fondi che giacciono nelle loro casse per finanziare le loro scuole private? Ben venga, è proprio questa la direttrice che deve governare il sostentamento delle scuole che non sono pubbliche. È smaccatamente capziosa la lamentela di Maffeis sulla legge 222/1985, la cui formulazione impedirebbe che l’8×1000 incassato dalla Chiesa possa essere utilizzato per le scuole di sua proprietà. Davvero vuole farci credere che la Chiesa ha le mani legate? Che vorrebbe tanto finanziare il sistema educativo cattolico ma le viene impedito proprio dalla legge che, regolando il perverso meccanismo dell’8×1000, le garantisce di ricevere un miliardo l’anno alle spalle dei contribuenti? No, la Chiesa non ha affatto le mani legate: usi depositi sui suoi conti correnti, dismetta una piccola frazione del suo impero immobiliare, venda colossi di cui è proprietaria come ad esempio la Faac, quotata sul miliardo e mezzo. Finanzi le scuole private che portano avanti il suo progetto educativo utilizzando una piccola parte delle sue immense ricchezze.

Scuole private, sponsor privati. Un semplice principio che deve emergere, sgombrando il campo da imbrogli lessicali che, con termini più presentabili come “paritarie” e “sussidiarietà”, vogliono far passare per pubblico ciò che è privato, per bene comune ciò che è interesse di parte religiosamente orientato. Complementare al precedente, c’è il principio di fondo: il finanziamento pubblico deve essere destinato alla scuola aperta a tutti, per renderla più moderna, all’avanguardia e laica. Per istituirla dove, nel terzo millennio, la scuola pubblica addirittura non esiste, come nei tanti comuni in cui i genitori sono costretti a iscrivere i figli alla scuola materna parrocchiale perché la Repubblica, contravvenendo al dettato costituzionale, non garantisce la scuola dell’infanzia statale, preferendo finanziare la scuola parrocchiale.

Roberto Grendene è segretario nazionale della Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar)

L’articolo è stato pubblicato su Left del 5 giugno 2020

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Prove tecniche di riapertura

Foto Fabio Ferrari/LaPresse 26 Maggio 2020 Ivrea, Italia News Emergenza COVID-19 (Coronavirus) - Fase 2 - Ivrea riapre le scuole: via libera all'attività all'aperto. Scuola all’aperto a Ivrea per aiutare le famiglie nel post lockdown. L’idea dell’amministrazione comunale che sperimenta il servizio per i bambini residenti in città tra i 3 e i 6 anni. Il progetto si svolge nei giardini delle scuole, Don Milani e Sant'Antonio. È prevista un’area triage dove effettuare il controllo della temperatura per consentire l’accesso in sicurezza dei bimbi, seguiti dalle insegnanti degli asili nido comunali a gruppi di cinque.  Photo Fabio Ferrari/LaPresse May 26, 2020 Ivrea, Italy News COVID-19 emergency (Coronavirus) - Phase 2 - Ivrea reopens schools: green light for outdoor activities. Outdoor school in Ivrea to help families in the post lockdown. The idea of ​​the municipal administration that tests the service for children living in the city between 3 and 6 years old. The project takes place in the school gardens, Don Milani and Sant'Antonio. A triage area is provided for temperature control to allow safe access for children, followed by the teachers of the municipal nursery schools in groups of five.

Una prova generale per l’apertura della scuola? Chissà. Si chiamano centri estivi ma in effetti sembrano essere dei veri e propri laboratori in cui si sperimenta lo stare insieme, minori e adulti, in vista del rientro nelle aule a settembre. Solo che in questo 2020 segnato dal Covid-19 non è facile organizzare le cosiddette attività ludico-ricreative per bambini e adolescenti. Per molti motivi: la necessità di sicurezza per i minori e gli adulti da assicurare attraverso spazi ad hoc, dispositivi di protezione individuale e distanziamento fisico, ma anche la necessità di professionalità da parte degli operatori soprattutto quando gli ospiti dei centri sono bambini e adolescenti che durante il lockdown sono rimasti indietro o si sono persi del tutto, nel flusso della didattica a distanza.

Fatto sta che l’apertura dei centri estivi per i minori dai 3 ai 17 anni, attorno al 15 giugno a seconda delle regioni, si carica di tensioni, di conflitti sotterranei tra ministeri, di responsabilità che gravano sulle spalle di chi poi i centri li deve gestire e controllare. Le famiglie poi si troveranno di fronte a quote raddoppiate se non triplicate, come racconta l’assessora alla Scuola di Padova Cristina Piva: «I costi aumenteranno per via dei dispositivi di sicurezza e del servizio di pulizia e per l’aumento del personale che serve per garantire il triage e l’arrivo e l’uscita scaglionati e con distanziamento dei genitori». I fondi a disposizione per tutto il Paese sono i 150 milioni stanziati nel decreto Rilancio del 19 maggio, oltre al bonus baby sitter che può essere impiegato nei centri estivi. È evidente poi che ci si è mossi in ritardo, visto che le linee guida emanate dal ministero della Famiglia sono del 15 maggio. Con così poco tempo a disposizione le amministrazioni locali sono state messe a dura prova.

«La difficoltà dei Comuni è quella di riuscire a dare una risposta concreta alle persone che utilizzano una normativa che a volte sembra lontana dal bisogno concreto delle persone», sintetizza Marta Nalin, assessora alle Politiche sociali di Padova che insieme alla collega Piva si occupa dell’organizzazione dei centri estivi del comune veneto guidato dal 2017 dal centrosinistra. Attorno ai centri estivi ruotano molti soggetti: gli enti locali, le cooperative sociali, le associazioni, i gestori privati. Insomma, un mondo, e adesso, in questa situazione, i nodi al pettine sono molti.

Le linee guida varate dalla ministra della Famiglia Elena Bonetti «per la gestione in sicurezza di opportunità organizzate di socialità e gioco per bambini ed adolescenti nella fase 2 dell’emergenza Covid-19», pur redatte d’intesa con i ministeri del Lavoro, Istruzione, Salute, Politiche giovanili e anche con Anci e Conferenza delle regioni e con le raccomandazioni del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile, sono apparse…

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 5 giugno

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Il rosso non è il nero, lo sgombero di CasaPound sia solo un inizio

«Ora però tocca ai compagni» titola il Giornale coerentemente con le dolorose righe di Libero, che lamenta la disparità di trattamento riservata ai centri sociali. Dolori provocati dal provvedimento di sgombero per la sede romana di CasaPound, cioè dei «fascisti del terzo millennio» come loro stessi si qualificano. Dei dettagli sono piene le cronache e qui ci limitiamo al minimo per ragionare d’altro. «A conclusione di una indagine condotta dalla Digos della Questura di Roma – batteva una agenzia della Adnkronos della mattina di giovedì 4 giugno – la Procura della Repubblica capitolina ha chiesto e ottenuto dal gip un sequestro preventivo, con riferimento al reato di occupazione abusiva, dell’immobile in via Napoleone III, sede di CasaPound». I suoi dirigenti sono inoltre indagati per istigazione all’odio razziale e occupazione abusiva di immobile. A latere, ma non troppo, la Corte dei Conti chiede un risarcimento di 4.6 milioni di euro per omessa disponibilità del bene immobile e la mancata riscossione dei canoni da parte del Demanio. La promessa dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini di far sgomberare «tutti gli stabili occupati di Roma» ha infine trovato applicazione – ovviamente – non sotto il suo regno, ché qualche tartaruga aveva nel frattempo ricordato al papetiano che in quei «tutti» ci sarebbe stato anche lo stabile «storico» di via Napoleone III, ma sotto quello di Virginia Raggi, che un anno fa, per portarsi avanti col lavoro, fece rimuovere la scritta CasaPound dallo stabile nero. Un provvedimento, quello del Gip, che ha scatenato un putiferio dai caratteri però surreali alla luce di quella Costituzione secondo cui «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Pare chiaro, no? No.

Le gazzette di destra mettono infatti sullo stesso piano organizzazioni neofasciste e centri sociali. Eppure, la Costituzione vieta la riformazione del partito fascista, non demonizza opposti speculari. Esempio: quando il calciatore Lucarelli esultava col pungo chiuso non rischiava di commettere un reato diversamente da Di Canio col saluto romano (in base non alla Costituzione, questa volta, ma alla Legge Scelba, che considera reato anche il solo parlare del fascismo e/o dei suoi esponenti in termini positivi ). Ora, delle due l’una: o cambiamo la Costituzione o dichiariamo – coerentemente – fuori legge (nel senso di banditi, proprio) quei partiti/movimenti/organizzazioni/formazioni che si richiamano al fascismo. Per coerenza – nel caso in cui si modificasse la Costituzione togliendo quella sua «fastidiosa» cifra antifascista – andrebbero azzerate le leggi Scelba e Fiano.

Negli anni sessanta avevano una certa fortuna «telefilm» della serie «Ai confini della realtà». Serie che riavrebbe successo se riproposta ispirandosi a quanto succede a volte in questo – strano – paese in cui si promulgano le Costituzioni fra le più belle del mondo e leggi contro il fascismo, l’odio razziale, la discriminazione, e poi ci si infila in dibattiti surreali relativamente alla loro applicazione. Stando quindi alla Costituzione e alle leggi in vigore, organizzazioni – orgogliosamente – fasciste quali CasaPound, non hanno possibilità d’esistenza, al pari di tutte le altre nei cui petti battono cuori repubblichini non repubblicani: dal Fronte Nazionale a quella Forza Nuova cui diversi dispiaceri ha recentemente dato la trasmissione di Rai 3 Report con una inchiesta sui finanziamenti e i collegamenti politici internazionali. In coda, ma ugualmente meritorie di un ban sociale oltre che una dannazione politica, altre formazioni, come il Movimento Fascismo e Libertà (che ossimoro!), e quei Fasci italiani del Lavoro capaci di esprimere nel 2017 una consigliera comunale a Sermide e Felonica, paese della bassa mantovana: tale Negrini Fiamma (quando si dice il nome…), poi destituita dal Tar di Brescia per appartenenza a un movimento di palese ispirazione fascista. Le summenzionate grida di dolore pro CasaPound non meravigliano se arrivano da ambienti con loro compiacenti (anche perché CasaPound significa un serbatoio di voti non trascurabile), meravigliano invece assai quando alte, sonanti (e fastidiose) arrivano da quelle gole che hanno – da tempo – ingoiato e poi espulso ogni residuo ideologico, ché il termine stesso ormai (ideologico) li manda in crisi respiratoria.

Dalla caduta del Muro in avanti s’è andata infatti espandendo una pandemia revisionista dal respiro corto, il cui contagio non ha risparmiato nemmeno certe intelligenze della sinistra italiana. E se non c’è da meravigliarsi se a sostenere le ragioni delle tartarughe nere è un filosofino pret-a-porter da tv talk col ditino similislamista sempre alzato, visto che, non casualmente, scrive per Il Primato Nazionale, il quotidiano sovranista di CasaPound, petulando senza vergogna la bestemmia del marxismo sovranista, si resta perlomeno perplessi di fronte alle levate di scudi da parte di chi un tempo raccomandava un «antifascismo militante» unitamente a una perenne «vigilanza». C’è da chiedersi insomma cosa significhino ormai queste parole, ché, in buona sostanza, sono state dismesse, mentre quella «appartenenza» che faceva (e per me continua a fare) da spartiacque fra un pensiero e un altro, una cultura e un’altra, una politica e un’altra, è stata infiltrata da pensieri che confliggono col «pensiero partigiano» di Gramsci. (E sarebbe legittimo se ci fosse l’onestà di dichiarasi da esso ormai lontani). Ideologia è diventata anche per costoro blasfemìa. E demonizzati sono i sostenitori della persistenza della «ideologia», che però non è una brutta parola (per conseguenti brutte azioni) ma il termine col quale prima il filosofo Destutt de Tracy indicava l’antimetafisica della coscienza, e poi Marx l’insieme delle convinzioni d’ordine confessionale, politiche, morali espresse nella Storia dalle diverse classi sociali. Orbene, «l’ideologia» cui ci sentiamo di appartenere contrasta in modo speculare con quella che pervade il pensiero delle tartarughe destinatarie di quel provvedimento di sgombero che tanto clamore ha suscitato anche fra molti dei suddetti «ex».

Vitalizi in Calabria. E si arrabbiano pure

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 18-02-2020 Roma Politica La Governatrice della regione Calabria Jole Santelli nomina Capitano Ultimo assessore all'Ambiente Nella foto Jole Santelli Photo Roberto Monaldo / LaPresse 18-02-2020 Rome (Italy) The Governor of the Calabria region Jole Santelli appoints Capitano Ultimo Assessor for the Environment In the pic Jole Santelli

I consiglieri regionali della Calabria fanno marcia indietro sul privilegio per loro stessi introdotto all’unanimità pochi giorni fa. Ma non chiedono scusa, anzi

In piena crisi pandemia il Consiglio regionale calabrese ha definito una fondamentale priorità: la modifica dell’articolo 7 comma 4 della legge regionale numero 13 del 2019 con cui si abolivano i vitalizi per i consiglieri regionali. Con la modifica, un consigliere regionale che decade per qualsiasi motivo, anche con un solo giorno di legislatura, si guadagnerebbe un trattamento di fine mandato. In sostanza si ottiene un trattamento pensionistico anche senza avere maturato contributi e solo per avere ricoperto una carica. Non lo vogliono chiamare vitalizio ma è un vitalizio, de facto, una vincita al lotto, una garanzia per la vecchiaia.

Interessante anche come sia stata votata la legge: Giuseppe Graziano dell’Udc (sì, da queste parti esiste ed è viva l’Udc) alla richiesta del presidente Domenico Tallini di spiegare la norma prima di metterla ai voti, ha risposto: «Si illustra da sé». Voto all’unanimità. Due minuti in tutto.

Qualcuno fa notare che in quella legge c’è qualcosa che non va. I politici calabresi come prima cosa, accade spesso quando fai notare a un politico di avere fatto una cretinata, negano: sulla Gazzetta del Sud il presidente del Consiglio Domenico Tallini spiega che «i vitalizi in Calabria sono stati aboliti da tempo. Non vedo dov’è lo scandalo: a fronte di 38mila euro di contributi versati in una legislatura, si maturerebbe un’indennità di fine mandato, a 65 anni, da 600 euro netti al mese» dimenticandosi che si sta parlando di quelli che decadranno dal mandato. I consiglieri del Pd parlano di tempesta in un bicchiere d’acqua.

Poi? Poi fanno marcia indietro, ovviamente. Quindi evidentemente avevano ragione quelli che criticavano la scelta, uno si aspetta che chiedano scusa e invece niente. «Solo ai calabresi dobbiamo delle scuse per l’errore commesso» dice Tallini di Forza Italia. Secondo lui quelli che hanno criticato sono «ex candidati a presidente della Regione, paladini dell’antipolitica, nostalgici della prima Repubblica, antimeridionalisti a pagamento» e «giornalisti che si cimentano in fantasiosi racconti e gialli su manine che fanno proposte e poi scompaiono». Gli altri dicono di avere votato una proposta che era diversa da quella che gli era stata illustrata: hanno votato a loro insaputa, insomma. Il consigliere del Pd Nicola Irto è più o meno sulla stessa linea: «Qui resta un fatto, tra populismo e verità io scelgo sempre la verità e la trasparenza. Comprendo la reazione di molti calabresi. Non giustifico gli attacchi e il clima di odio».

Intanto il privilegio viene abrogato. E loro si lamentano pure.

Buon venerdì.

È il momento di ascoltare gli studenti

Nei primi giorni della Fase 2, chi si aggirava per le città avrà visto un fenomeno particolare: in quelle piazze e in quelle strade in cui eravamo soliti incontrare turisti, code di visitatori e passanti frettolosi si sono riversati bambini, donne con neonati e ragazzetti che corrono felici dietro a un pallone o sulle biciclette. Come se quei luoghi fossero diventati parchi – alcuni ancora chiusi – o enormi braccia pronte ad accogliere chi in questi lunghissimi mesi sembrava sparito, scomparso alla vista e dalle bocche di coloro che rincorrevano le notizie, la conta dei morti, le curve in salita e in discesa del contagio. Bambini, adolescenti e giovani sono sgattaiolati fuori appena si è potuto, come a gridare la loro presenza e a richiedere quell’attenzione che il nostro governo non ha voluto prestare loro.

In questa Fase 2 tutto ha riaperto, tranne la scuola. Il motivo è di ordine sanitario: le scuole sono potenziali luoghi di contagio, ad altissimo rischio, soprattutto in Italia dove la media di età dei docenti è assai alta e le classi sono molto affollate, a causa della scarsa metratura e dei numeri degli allievi.

Dal 5 marzo neonati, bambini e ragazzi hanno dovuto interrompere tutto: dai processi di conoscenza, alle relazioni sociali e amicali che popolavano le aule. Gli insegnanti – specie delle superiori – hanno subito attivato la fatidica Dad – didattica a distanza – ma seguendo tempi e modalità che hanno allontanato sempre più, via via che i giorni e i mesi passavano, quell’ideale di uguaglianza a cui la scuola è votata.

La didattica digitale funziona per davvero soltanto in quelle famiglie che possono permettersi una buona connessione, più computer a persona, metri quadrati che consentono un certo livello di privacy e in quelle scuole con un corpo docente giovane o comunque disposto a cimentarsi con le nuove tecnologie. Molto è stato demandato alla buona volontà di docenti e dirigenti scolastici. Se è possibile poi parlare di apprendimento online per gli adolescenti e forse per i ragazzini delle medie, come si può pretendere di insegnare a leggere e scrivere in questa modalità ad un bambino in prima elementare?

È parecchio diverso stare al computer e concentrarsi per un giovane di quindici anni e per un bambino di 6-7 anni. Quest’ultimo ha bisogno di essere seguito molto di più di persona, così come ha bisogno maggiormente dell’interazione con i compagni e di quella fisicità che gli garantisca la reale presa di coscienza degli apprendimenti. E che dire di quei piccoli che andavano all’asilo? Come è possibile intrattenerli con l’uso dello schermo? Ci sono state delle maestre che comunque ci hanno provato.

Nel nostro Paese è regnato un silenzio assordante su tutta una serie di questioni che riguardano il mondo dell’infanzia, dell’adolescenza e della scuola. Basti pensare che ad Alitalia è stato dato più del doppio di finanziamenti che a scuola e università. Gli obiettivi economici hanno fatto scendere scuola e giovani in secondo piano – come se non fossero una delle risorse principali per il nostro Paese. L’assenza di soluzioni variegate, che rispondessero alle diverse realtà scolastiche, è la conseguenza di un’assenza di pensiero a monte.

Per esempio non ci si è mai preoccupati di comunicare l’emergenza pandemica e le misure di controllo e distanziamento a giovani e bambini. Questi ultimi hanno visto attuare i vari decreti senza che una voce si rivolgesse loro e motivasse le decisioni prese. Nessuno si è mai interrogato su che cosa volesse dire annullare l’agognato viaggio di istruzione, la recita di fine anno, la festa per l’ultimo giorno di scuola, o interrompere l’amore iniziato tra i banchi. Gli insegnanti, specie delle superiori, che hanno mantenuto con loro uno stretto rapporto nonostante la distanza, hanno potuto registrare tristezza, ansie o anche una troppo pacata tranquillità d’animo, una sorta di rassegnata apatia, a cui forse ha contribuito anche questo fatto di non sentirsi considerati, contemplati nell’agenda politica – a parte gli exploit del tutto a sproposito della ministra Azzolina. In molti Paesi del mondo (Francia, Germania, Danimarca, Finlandia – per fare alcuni esempi) non si è mai cessato, durante tutto il lockdown, di parlare ai e dei giovani perché essi rappresentano la speranza di una società, quella risorsa di energia vitale senza la quale un popolo muore. E se si parla di giovani si parla anche di scuola.

È giunto il momento quindi di metterci a ragionare sulle esigenze del mondo scolastico e di quello infantile, giovanile, adolescenziale e provare a immaginare una ripartenza delle scuole per i mesi che verranno (in questi giorni si profila una riapertura soltanto per scuole medie ed elementari; per le superiori ancora si parla di lezioni online e di entrate scaglionate, ma non ci sono indicazioni precise). È evidente a tutti che una scuola a distanza può essere solo emergenziale – ne hanno sofferto anche gli stessi docenti, costretti a fare lezione spesso di fronte a telecamere spente o con connessioni deboli e ballerine che facevano saltare la spiegazione o l’interrogazione, per citare solo un paio di difficoltà incontrate. È altrettanto lampante che la scuola italiana ha bisogno di cambiamenti sostanziali, altrimenti a settembre ci ritroveremo da capo: con classi pollaio, un corpo docente tra i più anziani d’Europa, edifici fatiscenti e assenza totale di tablet, pc e banda larga.

Il momento durissimo – lo hanno detto in molti – può divenire occasione di riscatto, ripensamento, nuovo inizio, soprattutto per la scuola e la ricerca. La pandemia ha evidenziato le falle e i danni che istruzione e sanità hanno accumulato in anni di politiche liberiste fondate su tagli e logiche del profitto – di qui l’accorpamento di più istituti scolastici, i tagli di ore e di insegnanti, l’aumento degli alunni per classe.

Per un verso la soluzione è semplice: basterebbe fare tutto il contrario di quello che è stato fatto fino ad ora. Sogniamo una “Fase 3” in cui si cambi passo. Di qui la centralità di istruzione e di sanità pubbliche, con una scuola disseminata nelle periferie, nei piccoli centri, raggiungibile dai cittadini, recuperando spazi al chiuso e all’aperto, selezionando docenti giovani, preparati e motivati, formando classi di 12-15 alunni. E tutto questo indipendentemente dal virus. C’è bisogno di ripensare ai giovani con fantasia, affetto, speranza. I giovani hanno ascoltato tutti i giorni il bollettino delle 18 della Protezione civile, sarebbe l’ora che ascoltassimo loro ed elaborassimo risposte.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 5 giugno

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«Democracy and freedom», l’utopia degli studenti di piazza Tienanmen

Per tutti noi cinesi all’estero la data del 4 giugno è diventata una ricorrenza, un momento per ripensare alla nostra storia personale e alle vicende del nostro Paese, ma per quelli di noi, assai pochi, che erano su quella piazza in quella buia notte, il 4 giugno di ogni anno si riapre una ferita che forse non potrà mai rimarginarsi. I nostri occhi diventano rossi, le gambe perdono di forza e le piante dei nostri piedi riprovano quella vaga sensazione di mollezza provocata dai corpi calpestati; le orecchie risentono il rumore assordante e ritmico dei cingolati: sembriamo rivivere ancora una volta quegli istanti che ci hanno tolto per sempre la giovinezza.

Eravamo ragazzi, molti di noi appena adolescenti, studenti nelle migliori università della Cina. A Pechino, Shanghai e in tante altre città, avevamo appena sentito la brezza fresca che entrava dalle porte che la Cina aveva – dopo molti decenni – riaperto al resto del mondo.

Sentivamo, in alcuni casi per la prima volta, parlare di Europa, Stati Uniti, Francia, ecc. Alcuni di noi avevano incontrato degli europei nelle strade delle città, ma soprattutto nelle università dove studiavano ormai decine di studenti internazionali, che erano diventati la nostra porta sul mondo. I colori sgargianti dei loro vestiti, paragonati al blu e verde delle nostre casacche tutte uguali, i loro capelli lunghi o mossi, una certa libertà nei comportamenti, tutto ci faceva immaginare che venivano da un mondo diverso dal nostro, Paesi di cui avevamo sentito parlare poco o soprattutto male, ma erano le terre di origine di quegli scrittori che avevano per primi risvegliato la nostra fantasia: Shakespeare, Balzac, Dante e tanti altri. Erano autori a tutti noi noti, li avevamo letti e riletti, magari perfino alla luce fioca dei lampioni di strada, non avendo a tarda notte la luce nei nostri affollati dormitori.

Il 15 aprile di quel 1989 si sparse rapidamente la notizia della morte improvvisa dell’ex segretario generale del partito comunista Hu Yaobang che per molti di noi, ma soprattutto per quelli più grandi di noi che avevano vissuto le violenze della Rivoluzione culturale, aveva incarnato la possibilità di superare gli orrori di quel periodo. Egli infatti era stato il primo ad avviare una vasta campagna di riabilitazione di tante persone ingiustamente perseguitate durante il decennio 1966-1976 terminato con la morte del presidente Mao. Venimmo a sapere che potevamo andare a manifestare il cordoglio per la sua morte a Tian’anmen, l’unica grande piazza di Pechino, città fatta di incroci, in cui questo enorme spazio, più grande di 50 campi da calcio, fu costruito nel 1949 per le grandi parate del regime socialista. Una piazza in cui ogni mattonella quadrata era numerata e quando venivamo portati a vedere le parate eravamo assegnati a stare in piedi, possibilmente fermi, su una di esse. Nei giorni seguenti la piazza si continuava a riempire di giovani, soprattutto studenti, forse senza accorgercene stavamo diventando strumento di una lotta di potere, che si svolgeva fuori della piazza, dietro le mura della nuova città proibita del potere comunista. Zhao Ziyang, il nuovo segretario del partito, che aveva sostituito Hu Yaobang nel 1987, voleva accelerare il processo delle riforme e dell’apertura, una politica ideata da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao e da lui sostenuta negli anni successivi.

In quei palazzi imperiali si svolgeva una lotta di potere e noi ne eravamo le ignare pedine. Dal 15 al 17 maggio arrivò a Pechino Michail Gorbaciov, il primo segretario del Pcus che veniva in visita in Cina; il suo viaggio doveva sancire il riavvicinamento definitivo fra Russia e Cina dopo trent’anni di divisione dall’epoca della destalinizzazione, mai accettata dai cinesi. La piazza dove si sarebbe dovuta svolgere la cerimonia degli onori militari era ormai occupata da decine di migliaia di studenti che chiedevano apertura, riforme e trasparenza. Quando Gorbaciov era a Pechino le parole d’ordine erano diventate perestroika (riforme) e glasnost (trasparenza), che si erano unite a democracy and freedom. Gli studenti cinesi volevano che il mondo entrasse in Cina.Il governo tentò strade impensabili ed inimmaginabili nella millenaria storia cinese: un gruppo di studenti, sporchi e con le scarpe stracciate dopo settimane di occupazione della piazza, fu introdotto nelle inaccessibili sale del potere ed incontrò alcuni dirigenti del partito. Ma anche questa mossa non convinse i ragazzi a sloggiare. L’atto finale fu quando il segretario del partito Zhao Ziyang, vestito in abiti normali con un microfono in mano che parlava con gli studenti nell’unico ricovero di fortuna immaginato, un autobus portato in gran fretta nella piazza; accanto a lui Wen Jiabao, il capo della sua segreteria, che sarebbe poi diventato un amatissimo primo ministro dal 2003 al 2013.

Tutti questi avvenimenti avevano per un mese cambiato il volto della Cina, i giornali ospitavano commenti e lettere degli studenti e dei loro genitori, radio e televisione organizzavano dibattiti circa la situazione e la correttezza o meno delle richieste degli studenti volte ad accelerare le riforme delle Cina. Intellettuali e dirigenti ad ogni livello si schierarono per il gruppo legato al segretario Zhao Ziyang, facendo vivere alla stampa cinese una brevissima stagione di inimmaginabile – ora più di allora – pluralismo politico.

Ma la situazione era ormai fuori controllo, fallito l’estremo tentativo di mediazione di Zhao Ziyang, Deng Xiaoping scelse l’opzione militare. A metà maggio le truppe di stanza a Pechino furono poste in stato di allerta e iniziarono ad avvicinarsi alla zona centrale della città. Ma la gente comune scese in strada, i miei parenti ed amici, come quelli di tanti di noi si mobilitarono per bloccare pacificamente i mezzi leggeri che iniziavano ad arrivare in centro. La città di Pechino era paralizzata, ovunque mezzi militari bloccati dalla folla, giorno e notte, la società civile sembrava voler proteggere i propri ragazzi, che ormai avevano scelto anche la protesta dello sciopero della fame. Seguirono giorni di blocco, durante i quali andavamo avanti e indietro dalla piazza, giravamo la città a piedi o in bicicletta riportando indietro storie avvincenti di resistenza pacifica, mentre ormai le truppe solidarizzano con la popolazione. Tutto sembrava fermo, ma al tempo stesso pieno di fermento rivoluzionario. Complice il cielo sempre azzurro di Pechino pensavamo davvero di scrivere una pagina nuova nella storia millenaria del nostro Paese: cambiare era possibile.

Deng Xiaoping fece appello alle sue truppe più fidate, quelle della lontana regione del Sichuan, che arrivarono rapidamente a Pechino. Non parlavano la lingua della città, non avevano mai visto una città così grande, erano ben formate e pronte a tutto. Chiusero le grandi strade che arrivano nella piazza ad ovest e a sud, lasciando aperto solo il lato orientale. Era notte fonda, senza luna, alcuni di noi dormivano sotto la luce dei lampioni, quando improvvisamente si spensero. Il rumore assordante dei cingolati riempì l’aria. Passarono alcuni minuti nel buio e nel rumore. Poi iniziò anche il suono dei fucili automatici. Presi a correre verso l’unico lato libero, insieme a me tanti altri, chi più veloce, chi più lento: cingolati, proiettili e piedi che incontravano ostacoli ormai molli. Una corsa senza fine, che mi ha permesso di scappare lontano, prima a Pechino, poi in Cina e ancora lontano dal mio Paese.

All’alba di quel 4 giugno la piazza fu sigillata. Nulla si sa più di quelli che rimasero lì. La legge marziale fu imposta. La città fu avvolta in un’aria spettrale. Carri armati e autoblindo presero a presidiarla. Molti stranieri furono raccolti dalle loro ambasciate, che organizzarono voli speciali perché lasciassero il Paese. I più partirono e la Cina restò – ancora una volta – sola, abbandonata al proprio destino millenario. Nessun ragazzo cinese oggi ha mai sentito parlare di questa storia della quale è stata cancellata ogni memoria, nessun motore di ricerca internet in Cina permette la ricerca della parola Tian’anmen associata a questa data, ma la storia millenaria della Cina non dimentica e un giorno farà tornare il ricordo e il cielo azzurro splenderà ancora sulla città proibita.

Il reportage di Mah Sileih da Pechino è stato pubblicato sul libro di Left Il giro del mondo in 15 reportage


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L’epidemia di Covid-19 ha dimostrato la grande forza del nostro sistema scolastico, ma anche le sue inerenti debolezze. Ci siamo confrontati con questo nuovo fenomeno della didattica a distanza, sicuramente utile per mantenere un livello di contatto e di apprendimento in questi mesi difficili, ma per certi versi pieno di carenze e di inefficienze. Sia chiaro: questi problemi non li abbiamo affrontati soltanto noi in Italia, ma sono comuni a tutto il mondo. Qualche settimana fa parlavo con dei colleghi di governi scandinavi, dove le società sono molto più digitalizzate della nostra e quasi tutti hanno accesso alla banda larga. Eppure, anche in quei contesti, ci sono state molte difficoltà. Una recente analisi dimostra che la didattica a distanza raggiunge un risultato di apprendimento che è solo il 40% di quello della didattica in presenza.

Sono quindi sollevato dal fatto che il ministero dell’Istruzione abbia favorito la didattica in presenza per il rientro a settembre. Tanti aspetti, però, sono piuttosto preoccupanti. Come coordinare tutti gli alunni in presenza, in condizioni di sicurezza, nei grandi plessi scolastici da oltre mille studenti? Questi sono complicati da gestire in circostanze normali, figuriamoci in un contesto di pandemia globale. Abbiamo bisogno invece di una scuola distribuita sul territorio, una scuola di prossimità, fatta di tanti piccoli plessi scolastici. Tante piccole aule, magari collegate in rete tra di loro, perché la didattica a distanza può essere una grande risorsa se condotta in questa modalità integrativa.

Immagino piccoli nuclei di studenti, sotto la supervisione di un insegnante di sostegno, di un insegnante di potenziamento, di un educatore, che a rotazione si collegano alla lezione in classe. Questo è realizzabile attraverso un…

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SOMMARIO

La giustizia sociale non è un tic

Protesters briefly stop outside Downing street in London, Wednesday, June 3, 2020, over the death of George Floyd, a black man who died after being restrained by Minneapolis police officers on May 25. Protests have taken place across America and internationally, after a white Minneapolis police officer pressed his knee against Floyd's neck while the handcuffed black man called out that he couldn't breathe. The officer, Derek Chauvin, has been fired and charged with murder. (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)

Il trucco è sempre lo stesso: qualcuno chiede giustizia sociale (soprattutto chi di ingiustizia sociale ci muore e si marcisce) e quegli altri rispondono che è un tic. Una volta sono gli antifascisti, una volta sono i giovani mai contenti, una volta sono le femministe nevrotiche, una volta sono i neri che vorrebbero essere bianchi, una volta sono gli stranieri che vogliono solo diritti, una volta sono i comunisti che vogliono dignità salariale, una volta sono i poveri che pretendono di essere ricchi, una volta sono i lavoratori che pretendono una giusta paga, una volta sono gli omosessuali che vorrebbero essere come gli altri, una volta sono i laici che pretendono troppo di essere laici, una volta sono i garanti che pretendono garanzie anche per gli assassini. È tutto così: chiedi un diritto e vieni etichettato come fronda, vieni messo nello scaffale di qualche associazione di idee e di persone e la richiesta di giustizia sociale viene trattata come il solito refrain da tralasciare com’è sempre stato tralasciato.

Il trucco è sempre lo stesso: normalizzare la mancanza di diritti come una situazione a cui non si può porre rimedio e come una conseguenza naturale di un modello che è l’unico possibile. Così mentre accade che negli Usa gli stranieri siano stanchi di un razzismo che oggi si è trasformato in profanazione socio economica qui da noi i subappaltatori dei rider di UberEats hanno l’impunità di dirci che i loro lavoratori  «sono africani perché gli italiani vogliono 2 mila euro al mese. Basta retorica del ‘poverini». Retorica dei poverini, eccolo il tic. E lo stesso vale per quelli che raccolgono la frutta nei campi.

La giustizia sociale non è un tic, no. E non è qualcosa che può essere coperta ogni volta invocando una guerra o una ribellione pericolosa. Quando negli Usa hanno ucciso George Floyd i bianchi vedendo le immagini hanno sospirato “oh, no” mentre i neri hanno pensato “è successo ancora”. Se avete la sensazione che su alcuni diritti “si continui a parlare sempre delle solite cose” è perché le solite cose non si sono mai risolte e sono ancora lì, a gridare vendetta.

Reclamate il diritto di essere perseveranti, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Qualcuno vi additerà come noiosi e invece siete solo fedeli a voi stessi.

Buon giovedì.

Lockdown Capitale

Via della Conciliazione e vista di della basilica di San Pietro. © Renato Ferrantini
Via della Conciliazione e vista di della basilica di San Pietro

Vi proponiamo una raccolta di immagini raccolte a Roma tra il 25 aprile e il Primo maggio, in una metropoli eccezionalmente deserta, durante il periodo di quarantena imposta dal governo per arginare la pandemia di coronavirus. Gli scatti sono opera del fotografo freelance Renato Ferrantini.

 

Via della Conciliazione e vista di della basilica di San Pietro. © Renato Ferrantini
Via della Conciliazione e vista di della basilica di San Pietro

Via del Tritone © Renato Ferrantini
Via del Tritone

Piazza di Spagna © Renato Ferrantini
Piazza di Spagna

Piazza Venezia e il passaggio di una donna in bici © Renato Ferrantini
Piazza Venezia e il passaggio di una donna in bici

Vista di Piazza di Spagna da via della Cuccagna con un lavoratore © Renato Ferrantini
Vista di Piazza di Spagna da via della Cuccagna con un lavoratore

Vista della Basilica di San Pietro © Renato Ferrantini
Vista della Basilica di San Pietro

Vista del Pantheon con un lavoratore © Renato Ferrantini
Vista del Pantheon con un lavoratore

© Renato Ferrantini

Piazza San Giovanni e dettaglio su Desireè © Renato Ferrantini
Piazza San Giovanni e dettaglio su Desireè

Vista parziale del Colosseo © Renato Ferrantini
Vista parziale del Colosseo

Via Luigi Petroselli dal Teatro di Marcello © Renato Ferrantini
Via Luigi Petroselli dal Teatro di Marcello

Piazza Campo de' Fiori © Renato Ferrantini
Piazza Campo de’ Fiori

Vista di Fontana di Trevi dall'alto © Renato Ferrantini
Vista di Fontana di Trevi dall’alto

Fontana di Trevi © Renato Ferrantini
Fontana di Trevi

Basilica di San Pietro con passaggio di una donna © Renato Ferrantini
Basilica di San Pietro con passaggio di una donna

© Renato Ferrantini
Piazzale Ostiense

Dettaglio di Fontana di Trevi con i dissuasori per l'ingresso© Renato Ferrantini
Dettaglio di Fontana di Trevi con i dissuasori per l’ingresso

Fanno baccano e la chiamano politica

The League party leader Matteo Salvini takes a selfie as he attends an anti-government protest in Rome, Tuesday, June 2, 2020 on the day marking the 74th anniversary of the Italian Republic. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Bastava vedere le facce di quelli di Forza Italia: il corteo di ieri per il 2 giugno organizzato dal centrodestra e cavalcato dalla solita destra fascista (e ora anche arancione) che si imbuca dappertutto è stato il gran baccano che ci si aspettava, tutto grida e poca politica, condito da un ripetuto «Conte, Conte, vaffanculo» che è risuonato per tutta la giornata. Del resto sfanculare gli avversari come modalità politica dalle nostre parti funziona, almeno all’inizio.

Ovviamente niente mascherine, non sia mai. Questi che si fiondano contro il governo alla fine vorrebbero anche accontentare coloro che vivono di complotti facili per avere qualcuno da odiare e quindi era inevitabile che il non indossare la mascherine divenisse chissà che forte gesto di ribellione.

Poi ci sono i selfie. Tanti, tantissimi selfie con Salvini e Giorgia Meloni: la politica dell’avanspettacolo che ha bisogno dell’immagine da condividere su Facebook. Fotografarsi con il caro leader belli abbracciati e violando le regole di sicurezza li fa sentire tutti Don Chisciotte che vanno alla conquista della Mancia.

“Questo non è il mio centrodestra”, ripetono gli elettori di Forza Italia. Tajani è più che perplesso. Ora provate a fare un riepilogo della giornata: violazione delle norme di sicurezza, assembramenti, vaffanculo e selfie. Lo spessore di certa destra italiana è tutto qui, tutto così, proprio nel giorno in cui Mattarella dalla martoriata Codogno invoca responsabilità istituzionale.

Fanno baccano e la chiamano politica. Non si registra una proposta che sia una: la distruzione dell’avversario (e la creazione di un nemico immaginario quando serve) è la pratica social e anche sociale, in piazza.

Fanno baccano e la chiamano politica. Finché funziona. Finché qualcuno non si fa male. I venti americani ci dicono che è un gioco pericoloso e non solo per la democrazia: ci muoiono le persone a soffiare sempre e solo sulla propaganda.

Buon mercoledì.