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Perché il dibattito su Immuni è salutare per la nostra democrazia

Young caucasian beautiful woman with medical mask taking a bus ride and using her phone while riding.

Il dibattito che si è sviluppato su Immuni, la app per tracciare i contagi da Covid-19, si presta a una riflessione sul rapporto tra i cittadini, lo Stato e le aziende, sia in tempi normali che in un contesto emergenziale.

Sulla app Immuni (presente dal 1° giugno negli store digitali, ndr) si è detto tutto e il contrario di tutto. I sostenitori la presentano come un proverbiale deus ex machina, l’arma per sconfiggere la diffusione del virus ma soprattutto il lockdown generale. I contrari gridano al totalitarismo, al Grande fratello (quello del libro, per carità, non il reality), alla dittatura delle multinazionali dell’Internet. La battaglia tra le due fazioni viene combattuta prevalentemente sul web, a suon di post e tweet.

Per esempio, in un tripudio di superbia e mancanza di conoscenza della materia informatica, un noto medico ha accostato su Twitter coloro che si oppongono alla app agli anti-vax, con tanto di soprannome accattivante, anti-trax, immediatamente adottato dai suoi seguaci. O ancora, su Facebook è diventato virale un post che taccia chi è contrario all’app di incoerenza perché “tanto poi acconsentono alla geolocalizzazione per fare il test su quale verdura sei”. Una frase simile, che poteva essere al massimo un jingle, uno sketch superficialotto e niente più, è stata presa sul serio e condivisa dai tanti che evidentemente non hanno ben chiara la differenza tra tecnologia Gps e Bluetooth, ma sono comunque convinti di saperne degli altri.

Gli oppositori oltranzisti della app non sono riusciti a coniare nomignoli accattivanti, ma si sono profusi in un mare di post che propevano le analisi di sedicenti super tecnici/livello hacker enfant prodige oppure di complottisti puri, che arrivavano a chiamare in causa la massoneria o spiegazioni di fanta-diritto e strafalcioni sui diritti umani e del cittadino.

Nel mezzo di questa, passatemi il termine, caciara si sono ritrovati i cauti, quelli che volevano capire esattamente cosa avrebbe fatto la app, e gli ignari, i non “so/non rispondo”.

Sarebbe semplicistico ridurre questo scontro a presunte tendenze italiche alla polemica, alla scissione, o alla mancanza di fiducia nelle istituzioni (attendo con ansia uno studio che riveli se davvero siamo così polemici e sospettosi per cultura o se ormai questa è solo una scusa che usiamo per litigare con estranei su Internet senza sensi di colpa).

Il dibattito Immuni Sì/No è, in primis, la manifestazione più recente di una serie di posizioni filosofiche e sociali riguardanti il ruolo e gli effetti delle nuove tecnologie nella società. Può apparire un dibattito faceto, ma offre la preziosissima occasione per avviare una riflessione più approfondita a livello di opinione pubblica, ed assumere una prospettiva più ampia.

Torniamo indietro di qualche mese.

Une delle prime reazioni all’epidemia è stata lo sgomento. La nostra convinzione di essere ormai una specie diversa, l’homo technologicus, si è scontrata con la realtà, mostrando tutta la nostra hubris: tutte le scoperte e i passi in avanti fatti dalla medicina non bastano, siamo ancora in alcuni casi in balia della natura. La prima reazione di molti, specialmente delle varie Silicon valleys e società informatiche sparse per il mondo, è stata quella di ricondurre questa anomalia sotto l’ala della scienza e della tecnologia. Ci deve essere qualcosa, qualche scoperta o invenzione, in grado di arginare il virus. La tecnologia ci salverà.

Questo è senza dubbio in parte vero. La scienza medica ed il progresso tecnologico ci permettono una qualità della vita e delle cure mai raggiunte prima. Ma questo non vuol dire che qualsiasi intervento tecnologico sia adatto o auspicabile. L’idea di base è che il progresso scientifico e tecnologico sia inevitabile, sia il fine ultimo dell’avanzare dell’umanità. Anzi, che sia proprio l’essenza stessa dell’umanità. La visione che ne deriva è che il progresso non sia più un mezzo per rendere migliore la vita degli uomini, no, il progresso è il fine stesso dell’uomo. Seguendo questa visione, a volte detta tecno-determinismo, l’umanità diventa il mezzo attraverso cui ottenere il progresso. Ne deriva che saremmo destinati a perpetrare un susseguirsi di balzi in avanti, con nuove scoperte e tecnologie che risolveranno uno ad uno tutti i problemi del mondo, costi quel che costi per la società, per gli individui.

Questo tipo di visione, assimilata inconsciamente da tutti noi negli ultimi duecento anni, generazione dopo generazione, ha due risvolti. Da un lato stimola l’umanità a osare sempre di più, a superare limiti considerati prima invalicabili. È vitale e costruttiva. Dall’altro rafforza l’idea che ci sia una soluzione tecnologica semplice, geniale, piccola e veloce a qualsiasi problema. Ed è qui che le cose si fanno complicate e si apre spesso la via a fallimenti catastrofici o a vere e proprie truffe.

Basti pensare al caso di Elizabeth Holmes, studentessa della prestigiosa università statunitense di Stanford. Dopo il primo anno di università Holmes, stanca di vedere i professori tarpare le ali ai suoi progetti, molla gli studi e fonda una start-up di nome Theranos. Obiettivo di Theranos è democraticizzare la sanità americana, creando un macchinario grande poco più di un trolley con cui effettuare analisi del sangue per decine di patologie usando solo poche gocce di sangue e ottenendo i risultati in poche ore. Un sogno meraviglioso! In pochi mesi Theranos raccoglie finanziamenti nell’ordine delle decine, poi addirittura centinaia, di milioni. Naturalmente, però, il macchinario immaginato dalla Holmes non è realizzabile. Il sogno resta tale. Come previsto dai suoi ex professori, la sua visione era semplicemente distaccata dalla realtà, irrealizzabile. Theranos è finita così, con una accusa di truffa ed una causa interminabile. Casi come quello di Theranos ci ricordano che una visione esageratamente tecno-determinista ci può ingannare e rende inaffidabile lo sviluppo tecnologico. Che le soluzioni semplici e veloci a volte non esistono.

Cosa ancora più importante, qualsiasi intervento tecnologico porta con sé un costo a livello personale e sociale. Per questo vanno in ogni caso valutati accuratamente prima di essere messi in pratica. Non ha senso, infatti, usare una tecnologia solo perché è stata sviluppata (o è possibile da sviluppare), se poi i vantaggi che porta sono incerti, e il costo in termini di diritti fondamentali dei cittadini è elevato. Bisogna fermarsi, respirare, prendere le distanze dalle promesse del tecno-determinismo e chiedersi se davvero sia possibile ottenere il risultato promesso, e quanto saremmo disposti, come società, a pagarlo.

Nel caso di Immuni il costo più evidente è quello della nostra privacy. E qui è necessario soffermarsi un attimo sul tema. Immuni, almeno in base a quanto reso noto fino ad ora, adotta una serie di accorgimenti tecnici (low energy Bluetooth, protocollo decentralizzato, pseudonimizzazione con variazione randomica dell’Id, pubblicazione del codice sorgente) che fanno avvicinare l’app quanto più possibile ad un livello elevato di protezione dei dati personali degli individui che decideranno di scaricarla ed usarla. Questo tipo di misure rendono Immuni non tanto una app di tracciamento, quanto una app per segnalare l’avvenuta esposizione ad un individuo contagiato. Da questo punto di vista lo sforzo degli sviluppatori è encomiabile (anche se è bene ricordare che Immuni non è perfetta e molti problemi permangono, primo fra tutti l’affidabilità del Bluetooth per determinare il contatto tra due smartphone).

La “protezione dei dati personali”, però, non è la stessa cosa della “privacy”. I due concetti sono in parte sovrapposti, hanno una intersezione, come i diagrammi che abbiamo imparato a disegnare a scuola. Proteggere i dati personali aiuta a proteggere la privacy, permette agli individui di gestire quali informazioni vengono condivise con gli altri, le proiezioni verso l’esterno della propria identità. La privacy è anche altro, però. È la possibilità di non essere soggetto costantemente ad una analisi inquisitoria della propria personalità, gusti, preferenze, conoscenze, idee. La possibilità di limitare l’accesso al proprio corpo, ai propri pensieri, alla propria sfera privata, ai propri spostamenti. Proteggere la privacy significa proteggere la possibilità di sviluppare la propria persona senza doversi limitare e controllare per paura di conseguenze indesiderate. È per questo che la sorveglianza, sia essa da parte dello Stato o delle società di marketing, affligge la nostra privacy, il nostro sviluppo personale.

La sorveglianza è più ovvia nel caso di una app di tracciamento ma permane, anche se in forma meno intensa, anche nel caso di app che segnalano l’esposizione al virus come Immuni. Gli effetti di questo monitoraggio dipendono anche molto da come viene interiorizzato dai cittadini. Anche se i nostri dati sono pseudonimizzati e corredati di adeguate tutele, la app può comunque avere un effetto sui cittadini, che potrebbero cambiare il loro comportamento sentendosi osservati. Questo fenomeno, indicato col termine chilling effect, è ben conosciuto dagli esperti. E se vogliamo pensar male, le autorità in parte ci sperano anche nel chilling effect. Le app di tracciamento/esposizione possono infatti avere l’effetto collaterale di farci pensare due volte prima di uscire. Così, il governo coglie due piccioni con una fava.

Ora, non tutti gli interventi che limitano la privacy sono inaccettabili. Quando è giustificata da una buona ragione (e vengono create determinate protezioni e valvole di sicurezza), la limitazione della privacy diventa un sacrificio calcolato, un prezzo da pagare per un certo obiettivo.

È questa idea di sacrificio, questo tipo di rischio che incombe sulla propria sfera privata, che ha spinto gli anti-Immuni ad allarmarsi. D’altronde non possiamo pretendere che il prezzo da pagare per utilizzare l’app vada bene a tutti. Specialmente per le minoranze, sistemicamente discriminate, e per le fasce deboli della società, la sorveglianza ha di solito un costo altissimo in termini di diritti fondamentali. Il “rapporto qualità-prezzo” stabilito dallo Stato per l’adozione della app non è stato accettato da tutti, specialmente a fronte delle incertezze sui reali benefici. Non è chiaro, infatti, se la app avrà davvero un apporto positivo alla lotta al Covid-19. Non c’è modo di saperlo in anticipo. E sì, forse tra chi è contrario alla app ci sono anche utenti di Facebook che han dato via i propri dati per poter fare il test “Quale verdura sei?”.

Ma una domanda nasce spontanea: e quindi? Vista da un’altra prospettiva, è una cosa positiva che si sia creata in questi utenti una maggiore consapevolezza del valore della propria privacy e dei propri dati personali. Storicamente il diritto alla privacy si sviluppa come protezione dalle interferenze delle autorità pubbliche. È solo recentemente, negli ultimi venti anni, che si è andata creando una maggiore consapevolezza sugli effetti indesiderati della sorveglianza da parte delle multinazionali. È normale che alcuni cittadini siano guardinghi e restii ad usare una app simile, gestita in parte dallo Stato e in parte dalle società. Eh già, in parte da l’uno e in parte da l’altro.

Anche su questo andrebbe fatta una riflessione. Lo Stato è sempre più esautorato dalla sfera tecnologica. È una tendenza globale quella per cui le autorità pubbliche non hanno né le competenze né le capacità per sviluppare e gestire nuove tecnologie, e ricorrono ai privati, quasi sempre multinazionali con i profitti annuali pari a quelli di una nazione medio-piccola. Queste tecnologie, però, hanno effetti molto diretti sui cittadini e sui loro diritti. Siamo davvero sicuri di volere dare questo tipo di potere a società private? Dov’è la legittimazione democratica? E dove ci porterà questa integrazione tra Stato e multinazionali? L’offerta di Google ed Apple di costruire un Api per facilitare l’integrazione di app di tracciamento/esposizione ha un carattere politico. C’è parecchio al riguardo nella letteratura cyberpunk e di science fiction, forse possiamo prendere spunto da lì e mettere qualche paletto, prima che sia troppo tardi.

A queste considerazioni se ne aggiunge un’altra. Immuni, come qualsiasi altra tecnologia, non esiste nel vuoto, ma verrà inserita in un complesso scenario sociale, politico, ed economico. Quando Immuni comincerà ad essere in uso si creerà un sistema sociotecnico. Vale a dire che l’interazione tra la app, i cittadini, e le autorità creerà una situazione nuova e ulteriore rispetto a quella creata dalla mera esistenza dell’app. Mentre molti effetti di questa interazione saranno banali e prevedibili, altri potrebbero essere imprevedibili o indesiderati.

La non obbligatorietà della app, per esempio, potrebbe declinarsi in maniera molto diversa nella realtà. Cosa succederà in quelle comunità medio-piccole dove la pressione sociale e i possibili abusi delle autorità hanno una maggiore capacità di danneggiare i singoli cittadini? Basteranno gli strumenti contro l’abuso di potere a proteggere i cittadini dal sindaco, dall’esponente delle forze dell’ordine, dal gestore di supermercato che, magari credendo di essere nel giusto, si facessero sceriffi e imponessero l’uso della app a qualche cittadino?

Il governo, del resto, sembra consapevole di questi problemi e dei vari elementi in gioco nel rapporto tra tecnologia, individuo e società. L’implementazione di Immuni è regolata dall’articolo 6 del Decreto Legge 30 aprile 2020, n. 28. Nell’articolo si fa esplicito riferimento alla necessità di proteggere i dati personali. Emerge dall’articolo la consapevolezza della necessità che l’intervento tecnologico sia democratico e proporzionale, e che vengano messe in atto adeguate misure di salvaguardia della privacy degli individui. L’articolo include anche delle norme sulla non-obbligatorietà e sulla necessità di creare meccanismi adeguati di difesa contro possibili abusi perpetrati ai danni dei cittadini da qualsiasi ente pubblico o privato.

Anche in questo caso, sulla carta le buone intenzioni ci sono tutte. È lodevole, è un bene, ed è rassicurante vedere come il governo abbia interpellato non solo le società di informatica, ma anche l’Autorità garante per la privacy. Tutto ciò, però, non toglie il fatto che c’è sempre il rischio che le buone intenzioni espresse sulla carta si traducano poi in rischi per i cittadini, specie in situazioni particolari come questa, con la costante pressione generata dalla minaccia della pandemia. Se poi, a seguito dell’imminente voto parlamentare per la conversione del Decreto Legge, l’art. 6 dovesse venire emendato in negativo, i rischi potrebbero aumentare in maniera significativa.

In questo senso è importante prendere una posizione chiara: rendere Immuni obbligatoria è una mossa pericolosa per i diritti fondamentali dei cittadini, anche se ci troviamo in una situazione d’emergenza.

Questo non è il momento per cercare di far contenti tutti, di non sbilanciarsi. Durante una udienza di fronte alla Commissione Giustizia avvenuta lo scorso 19 maggio, prima del voto parlamentare, per esempio, sono state fatte dichiarazioni ambigue circa l’opportunità o meno di rendere la app obbligatoria. In maniera sorprendente, alcuni degli esperti interpellati hanno infatti affermato che nonostante l’app sia una grave interferenza con i diritti fondamentali dei cittadini, il fatto che non sia obbligatoria rappresenterebbe comunque un problema alla luce della lotta al Covid. Dopo tutto il lockdown è una interferenza anche peggiore, è stato detto.

Tre dei quattro esperti, durante l’udienza, hanno mantenuto un perfetto equilibrio tra il dire ed il non dire, non sbilanciandosi mai chiaramente a favore della non-obbligatorietà. Tutto ciò evidentemente ignorando la posizione del Garante della privacy, oltre venti anni di dottrina e giurisprudenza in materia di privacy. Una presa di posizione più netta in favore dei diritti fondamentali dei cittadini sarebbe stata auspicabile, specialmente di fronte alla Commissione Giustizia.

L’ideale, quando ci si trova davanti a tecnologie capaci di interferire profondamente con i diritti dei cittadini, sarebbe fermarsi e analizzare dettagliatamente tutti i possibili risvolti. Senza fretta, ma anche senza tergiversare.
Sfortunatamente il tempo è un lusso che non ci possiamo permettere quando siamo di fronte ad una pandemia. Questo rischia di farci sottovalutare i problemi connessi con l’uso della app di tracciamento/esposizione, ma la protezione dei diritti fondamentali deve rimanere il centro focale di qualsiasi intervento, sia esso tecnologico o legislativo. Se una nuova tecnologia interferisce con i diritti fondamentali non sono questi ultimi a dover essere cambiati. È la tecnologia a doversi adattare.

Anche per questo il dibattito tra pro e anti-Immuni è importante. Non escludo che sia proprio a seguito del dibattito che gli sviluppatori abbiano optato, per esempio, per un protocollo decentralizzato invece che centralizzato, come era stato paventato all’inizio. Potrà aver assunto a volte toni grotteschi, ma il dibattito è una manifestazione importante della nostra democrazia in un momento di profonda crisi. Ha aperto la strada ad una discussione più consapevole su sorveglianza, privacy, ruolo delle società private, coinvolgendo l’opinione pubblica su un problema attuale e concreto. Forse ci aiuterà anche a sviluppare gli anticorpi necessari a difenderci alle mutazioni dannose del tecno-determinismo, dalle logiche estreme di mercato.

In altre parole, il dibattito “Immuni Sì o Immuni No” è salutare per la nostra democrazia.

Caro dottor Davigo, in un Paese civile bisogna “aspettare le sentenze”

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-03-2017 Roma Politica Trasmissione tv "Night Tabloid" Nella foto Piercamillo Davigo Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-03-2017 Rome (Italy) Tv program "Night Tabloid" In the photo Piercamillo Davigo

Giovedì scorso il programma Piazza Pulita ha avuto tra gli ospiti il dottor Piercamillo Davigo, magistrato e ormai volto noto nella tv italiana, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali ed il giornalista Alessandro De Angelis, Huffington Post.
La discussione riguardava lo scandalo Palamara, che sta scuotendo la magistratura, tema che ha fatto da spunto a riflessioni più ampie, e non sono mancate affermazioni discutibili.

Alla denuncia dell’avvocato Caiazza secondo cui l’Italia sarebbe un Paese giustizialista in cui si giudicano le persone dalle indagini e non dalle sentenze, il dottor Davigo ha ribattuto che «l’errore italiano è stato quello di dire sempre: Aspettiamo le sentenze». Per supportare questa affermazione, ben strana perché fatta da un magistrato, ha utilizzato degli esempi che potremmo definire “ad effetto”: se un amico invitato a cena lasciasse la nostra casa trafugando l’argenteria, tanto basterebbe per non invitarlo più. E ancora, rincarando la dose: se una persona venisse condannata in primo grado per pedofilia, tanto basterebbe per non fargli più affidare un bambino. Va riconosciuto che il dottor Davigo sa perfettamente quali tasti toccare – chiunque di noi prova ribrezzo pensando alla pedofilia – ed ha capito come far passare un certo pensiero senza destare scandalo negli ascoltatori poco attenti.

Ma se si presta attenzione, salta subito agli occhi che un magistrato, e non una persona qualunque, ha affermato in televisione, e non nel suo privato, che per esprimere un giudizio di colpevolezza non serve aspettare la sentenza. Il dottor Davigo sembrerebbe così avallare l’idea che la condanna sociale debba avvenire prima della sentenza definitiva, e che a tal fine basterebbero dei semplici indizi, un pensiero che rischia di intossicare la già sfiancata cultura civile del nostro Paese.

Nessuno vuol privare il dottor Davigo della propria personale opinione, ma non ci si può dimenticare che egli è un magistrato che viene invitato in televisione per il ruolo che ricopre e che in quel momento rappresenta la magistratura. Bisogna ribattere fermamente che “attendere le sentenze” significa applicare il principio di non colpevolezza sancito dalla nostra Costituzione, secondo cui l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, uno dei principi cardine di un Paese civile, la cui negazione spalanca le porte al giustizialismo e alla giustizia “fai da te”.
Inoltre, legittimare la condanna di una persona prima della sentenza definitiva, oltre a invalidare la funzione giudicante della magistratura, rischia di incentivare il triste fenomeno della gogna mediatica al quale troppo spesso assistiamo.

Ci sono argomenti troppo importanti per non usare tutte le cautele necessarie, soprattutto in un Paese in cui l’opinione pubblica difficilmente aspetta le sentenze prima di giudicare il prossimo.
Lasciamo che siano i Tribunali a giudicare le persone con le sentenze emesse dai giudici, che dovrebbero essere il più possibile imparziali, e difendiamo i principi cardine della nostra Costituzione.
È una questione di civiltà. È una questione di umanità.

Federica Farina, avvocato

«Non riesco a respirare»

Il 17 luglio 2014, a Staten Island, l’agente Daniel Pantaleo afferrò per il collo fino a soffocare Eric Garner. «Non riesco a respirare», urlava disperato Garner. Morì senza respiro. George Floyd ha ripetuto «non riesco a respirare» negli otto minuti e 46 secondi in cui il poliziotto Derek Chauvin gli premeva il ginocchio sulla gola. I due si conoscevano, erano stati colleghi come buttafuori in un nightclub. Anche questa volta c’è un video che lascia pochi dubbi e che mostra i fatti. Poi c’è la macchina giudiziaria e quella, quando si tratta di forze dell’ordine, si inceppa in declinazioni mostruose: “Non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”, dice il referto dell’autopsia, “gli effetti combinati dell’essere bloccato dalla polizia, delle sue patologie pregresse e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo hanno probabilmente contribuito alla sua morte”. Alla fine sarà morto di droga. Sembra una storia già vista, eh?

I neri vengono ammazzati, preferibilmente se adolescenti: nel 2012 il 17enne Trayvon Martin in Florida, nel 2014 il 18enne Michael Brown a Ferguson, Missouri, finisce sempre così: i poliziotti assassini sono assolti, scoppiano le rivolte razziali, arriva la Guardia nazionale e comincia il coprifuoco. Secondo uno studio della National Academy of Sciences in Nord America la sesta causa di morte tra gli uomini di età tra i 25 e i 29 anni è un arresto di polizia per gli appartenenti a uno stesso nucleo etnico: rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.

Ma non è tutto. Fatal Encounters è un sito fondato e diretto dal giornalista D. Brian Burghart che attraverso un’accurata rassegna stampa anche di testate minori e locali, ha raccolto in un database gli estremi di oltre 24.000 uccisioni effettuate dalla polizia dal 1° gennaio 2000 ad oggi: alla data del 6 gennaio 2019 venivano elencate 1810 vittime della polizia colpite tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2018. Questo significa che la polizia, prima ancora di un processo, ha ucciso 72 volte più persone di quante ne siano state messe a morte a seguito di una procedura giudiziaria.

Poi c’è il resto: un presidente incendiario che con il sorriso di Nerone osserva le proteste blindato nel suo ufficio spargendo parole di odio e di fuoco. Il mandante morale e morbido dello scontro ha gli occhietti iniettati di Trump.

Poi ci sono gli italiani che si dimenticano i nostri morti che non riuscivano a respirare: «mio figlio Federico è morto nello stesso modo di George Floyd. Schiacciato sotto le ginocchia e il peso di un poliziotto mentre chiedeva aiuto e diceva “non riesco a respirare”», ha scritto Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovrandi. Urlava la stessa frase Riccardo Magherini, morto la notte del 3 marzo 2014 quando venne fermato dai carabinieri.

Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Buon lunedì.

Melania Mazzucco: Plautilla Bricci e il coraggio di dirsi architettrice

È un potente affresco di storia del Seicento, ma è soprattutto un ritratto profondo di una donna, Plautilla Briccia (1616-1705) architettrice, come lei stessa si firmava. Dare un nome alle cose. Avere la consapevolezza e il coraggio di rivendicare una propria identità, che era del tutto inedita per quel tempo. Il romanzo L’architettrice (Einaudi) di Melania Mazzucco ci fa scoprire l’arte ma anche il complesso mondo interiore di Plautilla Bricci (1616-1705). Nata nei quartieri poveri di Roma, riuscì a trovare una propria realizzazione attraverso l’arte. Fu lei a progettare quella Villa del Vascello che nell’Ottocento divenne il presidio della “meglio gioventù” che da tutta Europa approdò nella città papalina per dare vita al sogno di una Repubblica laica. Alla scrittrice che le ha dedicato una splendida narrazione “per immagini” abbiamo rivolto qualche domanda per capire meglio chi fosse e perché la sua memoria sia “scivolata via” nonostante l’originalità della sua opera.

Melania, perché Plautilla è stata, per lunghi secoli, così inesorabilmente cancellata dalla storia?Intanto perché la sua creazione architettonica più importante, Villa Benedetta sul Gianicolo, perse presto il collegamento con lei. Lo stesso abate Elpidio Benedetti, che gliela aveva commissionata, quando pubblicò (sotto pseudonimo) la guida dell’edificio ridimensionava il contributo di Plautilla, attribuendole l’idea ma non la realizzazione. Fu lui ad aggiungere all’opera il nome del fratello, Basilio Briccio, che cominciò a stendersi su di lei come un’ombra.

Ma questa è soltanto una parte della verità?
Il fatto è che lei si era legata comunque a un partito “perdente” in città, perché Benedetti, che era l’agente di Mazzarino, rappresentava una fazione invisa al papato dominante. E non era nobile né apparteneva a una famiglia potente. Ma più ancora pesò una questione di genere. Plautilla era stata eccezionale e non doveva creare esempio. Elpidio stesso, che si era spinto molto avanti nel commissionarle l’opera, poi cercò di fare un passo indietro. Insomma, il suo essere donna, in più legata ai committenti sbagliati, certamente non ha aiutato. Le sue opere di pittura recentemente ritrovate mostrano una qualità straordinaria. E però questo è anche il destino di tante artiste, di essere considerate al più emule di qualcuno. Non viene riconosciuto loro di essere portatrici di una originalità artistica. E ciò ha contribuito al loro oblio.

Ne La nascita di san Giovanni Battista di Poggio Mirteto il suo talento è subito evidente. Con quella rappresentazione dell’anziana levatrice, che forse solo una donna poteva creare, come lei ha scritto. Colpisce anche la freschezza di sguardo sulle ancelle che sullo sfondo parlano intimamente fra loro.
Quel brano pittorico è talmente eccezionale che se fosse estrapolato da quello stendardo processionale ci farebbe pensare quasi a una pittura novecentesca, nella sua essenzialità, nella sua purezza. Plautilla arrivò tardi a questa padronanza stilistica. Quell’opera fu realizzata nel 1675, quando era già una pittrice anziana (aveva quasi sessant’anni). Ha creato in età avanzata le sue opere pittoriche più importanti (per dimensioni, invenzione, collocazione, tecnica). E forse c’è anche un’altra ragione per l’oblio che la colpì: il fatto che fosse sola. Plautilla non ha avuto nessuno che ha difeso la sua memoria.

Ha pagato la scelta di non avere figli?

Studiando le biografie degli artisti mi sono resa conto che i materiali maggiori per la costruzione – talvolta l’invenzione – della loro memoria vengono da figli, eredi e allievi. Pensiamo per esempio a Bernini: il figlio curò la riscrittura mitizzante della figura del padre, per orientare per sempre la lettura della sua avventura artistica. Penso anche a Tintoretto e a come i suoi figli contribuirono in maniera determinante alla creazione della sua leggenda. Plautilla non aveva nessuno. E questo ha contato. Credo che ci debba far riflettere sulla situazione di molte donne che hanno dovuto scegliere fra l’arte e il matrimonio e la famiglia.

Le donne nel paleolitico dettero un grande contributo all’arte. Oggi ne abbiamo prove certe. Ma poi lungamente sono sparite dalla ribalta. Bisognerà attendere millenni per trovare tracce adeguatamente documentate di artiste. Forse anche perché la storia dell’arte è stata scritta perlopiù da uomini?

In ogni epoca ci sono state donne che sono riuscite a creare. E anche a farsi rispettare e apprezzare dai contemporanei. Ma poi non sono rimaste nella memoria. Se non in maniera indiretta. E a volte per le ragioni sbagliate. Penso per esempio al Vasari che biografa pochissime artiste e spesso tramanda aneddoti maliziosi o fuorvianti sulla loro vita privata. Ma pensiamo anche ad Artemisia Gentileschi, nota ai contemporanei e al grande pubblico più per la sua vicenda biografica, per la violenza subita e per il processo, che per la straordinaria qualità della sua pittura, che pure nel Novecento è stata giustamente riscoperta.

È accaduto qualcosa di analogo anche a Maria Tintoretto, che lei ha raccontato nel libro La lunga attesa dell’angelo?

Marietta era stata biografata quando aveva 28 anni. Era comunque considerata come una vera artista. Noi non sappiamo se meritatamente o meno, perché non conosciamo con certezza sue opere autografe. Sappiamo che aveva avuto inviti a corte per la sua arte. Che in Spagna poteva diventare la nuova Sofonisba Anguissola. Ma ad oggi non ci è arrivato niente di lei. Di Marietta, all’epoca, si parlava come di una Maestra del ritratto e capace di composizioni con molte figure. L’annoso e grandissimo problema della cultura occidentale, tuttora presente, è come riuscire a collocare le artiste nella storia del loro tempo e nella durata, sia che siano scrittrici, pittrici o musiciste. Plautilla apparteneva alla generazione successiva a quella di Artemisia e l’esperienza della Gentileschi, che aveva dovuto lasciare Roma e solo altrove, soprattutto a Napoli, aveva cominciato a crearsi un ruolo importante, non ha potuto generare nulla per lei e per le sue contemporanee. Ognuna di loro ha dovuto ricominciare da sola a combattere la propria battaglia nel segreto di esistenze marginali, a volte cancellate.

Benché vissute in epoche in luoghi diversi, tutte e tre – Marietta, Artemisia e Plautilla – hanno avuto padri che hanno trasmesso loro competenze per farsi strada nell’arte ma in modo, al fondo, ambivalente. Come il Briccio, commediografo e artista che s’inventa la storia del quadro di Plautilla portato a termine dalla Madonna. Per assicurarle forse una committenza religiosa, ma costringendola a un destino di verginità?

Sono storie antitetiche ma anche molto simili. Le figlie d’arte avevano il grande vantaggio di poter contare su un’educazione artistica. Per una ragazza era impossibile, a meno che non fosse nata nobile e avesse potuto usufruire del denaro della famiglia che le permetteva di avere lezioni private di grandi maestri. Nei fatti solo le figlie dei pittori sono riuscite ad avere una formazione tecnica e professionale. Però il prezzo che hanno pagato è stato molto alto, perché sono stati i padri a determinarne il destino pubblico. La storia di Plautilla mi ha affascinato anche perché è sopravvissuta a suo padre, ha avuto una lunghissima vita e si è trovata un altro uomo con il quale percorrere una strada completamente diversa da quella scelta per lei e inventarsi un altro destino. Marietta resta per sempre la figlia del Tintoretto: noi la conosciamo così. Non è riuscita ad avere un’identità propria perché ha sacrificato la vita al padre e lui l’ha inglobata dentro di sé. Invece Plautilla dal padre Giovanni ha ricevuto il mestiere e la condanna/privilegio a una vita solitaria, segreta e casta: ma poi, essendogli sopravvissuta, è riuscita a diventare altro. Ho trovato interessante scrivere la sua storia anche per questo. Quando è morta, Plautilla non era più la figlia del Briccio; era se stessa, “la signora Plautilla architettrice”, e aveva avuto un’altra storia.

Nel disegno della Villa del Vascello firmato da Plautilla compaiono un uomo e una donna, come lei ha notato. Come legge questo affascinante particolare?

Per quanto ne so nei prospetti architettonici di allora non si collocavano delle persone come si fa oggi nei plastici urbanistici. Mi ha colpito che nel disegno della facciata principale della villa del Vascello Plautilla abbia pennellato con l’inchiostro un uomo e una donna. In fondo la villa era destinata a un abate che una donna non ce l’aveva. Mi è apparso come un modo per dire: ci sono anche io. Anche se non ci abiterò mai. Anche se questa villa non sarà mai mia, io l’ho fatta e in qualche modo ci sarò sempre.

Fa pensare che il rapporto fra uomo e donna possa essere creativo anche in altro modo, al di là di mettere al mondo dei figli?

Forse questo è l’aspetto migliore della loro relazione. Un rapporto fra due persone che, come ho scritto nel romanzo non era previsto nei comandamenti. Perché erano destinati a una vita che prevedeva per lui il celibato e per lei la verginità. Invece, nonostante tutto, fra loro si crea un’alleanza, un’amicizia, un supporto reciproco, un amore autentico che dura nel tempo e si può realizzare veramente, nella creazione di un’opera. Un fatto molto insolito anche nella storia della committenza artistica.

È forte la presenza viva della storia nel libro. L’architettrice ci fa entrare nel mondo di Plautilla, nel suo tempo. C’è il Seicento della Roma dei papi, di Caravaggio, Bernini, della peste e delle diseguaglianze sociali che la pandemia acuisce. Ma c’è anche il 1849 della Repubblica romana che vive il suo momento più drammatico e anche più alto proprio nella Villa del Vascello. Due storie che si intrecciano, quella di Plautilla e dei giovani insorti che indirettamente si incontrano? Due sogni di riscatto?

Per me è stato decisivo riscoprire che fosse stata Plautilla la creatrice, la costruttrice e l’architettrice della Villa del Vascello, che per i romani è un luogo “sacro”. Una buona parte delle famiglie popolari hanno mantenuto memoria di cosa era stata la Repubblica romana, di questo acerbo sogno di democrazia, venuto così anzitempo da essere stato poi rimosso dalla cultura ufficiale. Però la Villa aveva perso il legame con Plautilla. Quando nel 2003 sono stati riscoperti i documenti che le hanno restituito questa maternità artistica è come se in me le due scintille si fossero fuse in un’unica fiamma: due sogni straordinariamente in anticipo sul loro tempo, la cui perdita e cancellazione dalla memoria collettiva ha determinato conseguenze negative per la storia d’Italia, per la storia delle donne e del nostro Paese. Se solo si fosse sempre saputo che Plautilla era l’architettrice della Villa del Vascello e se il sogno della Repubblica romana fosse rimasto vivo, anche nella memoria scolastica per esempio, l’Italia avrebbe potuto avere un’altra storia. Nel momento in cui questa verità è stata riscoperta il romanzo è stato per me inevitabile. Ho voluto raccontare la costruzione di questa villa e la sua distruzione, perché in fondo rappresentano quasi due aspetti dello stesso sogno di uguaglianza e liberazione dall’oppressione.

Quale è stata l’originalità di Plautilla architetto? La verticalità, l’impatto scenografico e teatrale della Villa sono il segno del Barocco romano?

Credo che sia il frutto del tempo in cui ha vissuto. Nel corso della sua vita Roma ha cambiato letteralmente faccia. Quando ricostruivo i suoi spostamenti nella città mi rendevo conto di quante chiese e palazzi sorgevano via via nel centro storico, in via del Corso e dintorni, dove abitava lei, e poi a Borgo: cambiavano letteralmente ogni anno le strade, le piazze, rioni interi. Ogni volta che usciva di casa poteva vedere qualcosa di nuovo. Questo sentimento di costruzione e rinnovamento della città penso abbia contato moltissimo, generando anche la sua idea stessa di diventare architetto. Poi le esperienze opposte e per ragioni biografiche a lei vicine di Bernini e Borromini l’hanno certamente segnata. L’intuizione di costruire sulla roccia viva è stimolata dalla Fontana dei quattro fiumi di piazza Navona. Plautilla costruisce la villa lasciando la scogliera come basamento del suo vascello. Ha guardato a Bernini, ma per un certo uso dei materiali poveri rimanda invece ai lavori di Borromini e alla sua filosofia. Plautilla ha cercato di nutrirsi guardandosi intorno. Non avendo potuto avere una formazione pratica in cantiere ha tratto linfa dal cambiamento della città e lo ha ricreato, in modo anche un po’ anomalo, per esempio nelle proporzioni. La Villa era una sorta di grattacielo. Ha lavorato sulle ristrettezze. Non aveva molti soldi a disposizione, ha impiegato materiale povero, per esempio scegliendo di valorizzare lo stucco piuttosto che il marmo. E allo stesso tempo ha dovuto adattarsi al terreno, alla collina, all’orientamento che doveva dare alla nave e che ha sua volta ha generato la forma dell’edificio. Mi è piaciuta l’idea che abbia lavorato a partire dalle condizioni concrete, che il suo progetto non fosse astratto – un disegno immaginato nel chiuso del suo studio – ma legato alle possibilità e alla necessità vitale di realizzarlo e completarlo, con tutte le difficoltà che ciò ha comportato.

Questo ci riporta alla narrazione, ai primi capitoli del romanzo, quando Plautilla bambina, con il padre, vede una balena spiaggiata a Santa Severa. Ci riporta al rapporto con il mare. Quella Villa sembra quasi una ricreazione di quel vissuto?

Me lo sono chiesta quando tutti hanno cominciato a interpretare la sua villa come un vascello. Mi sono detta: ma Plautilla aveva mai visto un vascello? Avrà mai visto le navi, a parte quelle che arrivavano al porto di Ripa? Il Tevere era allora un fiume navigato, popolato di imbarcazioni. Ma da carico e da trasporto, non certo vascelli da guerra. Lei ha abitato a Trastevere, vicina al porto, ma anni dopo aver costruito la villa, e non ha mai viaggiato per mare. Quell’immagine poteva essere nata dalla visione dell’architettura fantasmagorica delle ossa delle balena, il cui ritrovamento nel 1624 ha un legame strettissimo con la famiglia Bricci. Suo padre teneva il fanone più piccolo sulla scrivania, è un episodio che racconta lui stesso. Da quanto sappiamo aveva uno studiolo modesto, e sul suo scrittoio dominava un oggetto stranissimo e quasi magico come questo dente misterioso…

Il vasto lavoro di documentazione che è alla base di questa sua opera letteraria è stato pubblicato online da Einaudi. Plautilla è un campo di ricerca che presenta continue sorprese? Penso anche al fatto che alcune importanti scoperte datano al 2003, quando è stato ritrovato il capitolato dei contratti.

Plautilla è ancora tutta da riscoprire. Ho cercato di mettere a disposizione tutti i materiali da me impiegati perché altri possano proseguire la ricerca. Ci sono delle opere menzionate in alcune carte inedite che ho trovato, di cui però non sappiamo nulla. Sono piste che gli storici dell’arte certamente possono percorrere. Quando ho cominciato a pensare di scrivere questo libro e a fare ricerche in archivio non era stato rinvenuto neppure quel documento del capitolato. Nell’ultimo decennio alcuni elementi del suo catalogo artistico hanno cominciato ad andare al loro posto. Importante è stato anche il ritrovamento del cartiglio con la storia della Madonna con Bambino nella Chiesa degli artisti di Santa Maria di Montesanto, grazie al restauro del 2016. Fino a quel momento quell’opera “miracolosa”, che era stata così determinante nella vita della pittrice, non le era più stata attribuita. Si era perduta completamente la memoria di quella storia. Lo stendardo di Poggio Mirteto di cui abbiamo parlato è stato ritrovato nel 2012. Ma penso anche alla lunetta del Sacro Cuore in Vaticano che giaceva nei depositi di San Giovanni in Laterano, finché non è stato finanziato il restauro – e anche lì è emersa la sua firma.

Sicuramente Plautilla ha dipinto altro?

Sì, probabilmente altre sue opere esistono ancora. Ho cercato a lungo di capire cosa ne fosse stato di quelle che ornavano la Villa. Già nel maggio del 1849, nel momento in cui i volontari si accamparono al Vascello, nessuno menzionava più i quadri e gli affreschi. Il che fa pensare che a quella data già fossero stati dispersi o si fossero deteriorati. Quella è forse la perdita più grande, perché la Villa era il suo capolavoro. E all’interno c’erano opere di Pietro da Cortona e di tanti altri artisti importanti del secondo Seicento. Questi temiamo siano perduti, ma altri quadri sicuramente si potranno trovare…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 29 maggio

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Quando una donna progetta

La città intelligente di Zaha Hadid Il nuovo distretto di Mosca Rublyovo-Arkhangelskoye, progettato da Zaha Hadid Architects e Pride Architects, sarà una città intelligente "centrata sulle persone". Situato a ovest della capitale russa, questo progetto di 460 ettari diventerà un centro residenziale, commerciale e culturale misto

«Es ist kein Mann! (Non è un uomo!) Sono le prime parole di Sigfrido nell’osservare le forme femminili che uscivano dalle armature che fino ad allora avevano protetto il corpo dell’amata…». Così Luciano Rubino inizia il suo libro Le spose del vento, che vuole rimediare e denunciare, per espressa intenzione del suo autore, «che i vari Argan-Banham-Dorfles-Hitchcock-Pevsner-ecc. non hanno voluto ricordare che “anche” gli esseri umani di sesso femminile producono artisticamente e fanno parte del genere umano…».
Era il 1979 e a quest’elenco oggi potremmo aggiungere ancora molti storici e critici dell’architettura.
Perdonatemi un piccolo inciso. Mi è capitato, leggendo il libro di Melania Mazzucco – qui intervistata – sulla storia della Plautilla Bricci, architettrice del 1600, di ricordare il nome di una strada che frequentavo nella mia adolescenza: via Basilio Bricci, non lontana da quel luogo dove un tempo sorgeva la villa poi detta il Vascello e la curiosità mi ha spinto ad andare a leggere la storia della toponomastica di Roma. Così ho potuto leggere che «via Basilio Bricci è quella strada che da via Alessandro Algardi giunge a via Andrea Busiri Vici, nel quartiere Gianicolense e ricorda l’architetto romano del XVII secolo che progettò la Villa del Vascello insieme alla sorella Plautilla». Nessun commento è necessario.

D’altronde sappiamo bene che il pensiero della cultura occidentale è permeato fin dalle sue origini dalla esaltazione della ragione e fondato sulla negazione della donna. Aristotele, Platone, Socrate ci definiscono maschio mancato, imperfetto, incompleto e la Bibbia ci raffigura come l’origine di tutti i mali del mondo, per la colpevole alleanza con il serpente. Questa millenaria negazione ha impedito che metà del genere umano realizzasse appieno la propria identità, in libertà ed indipendenza. Ed arriviamo così, senza soluzione di continuità del pensiero, fino al XX secolo: ricordiamo che in Italia sono poco più di settanta anni che possiamo votare, quaranta da quando è stato abolito il delitto d’onore, e solo venticinque da quando non siamo più – per la carta della legge – un oggetto, perché la violenza sessuale si è finalmente trasformata da reato contro la morale pubblica a reato contro la persona.

Tutto vero: il Logos occidentale ci opprime, nella storia dell’arte e dell’architettura la donna è stata per troppo tempo “dimenticata”; nelle facoltà di architettura il numero degli iscritti di genere femminile hanno superato da tempo quello degli uomini e a Roma si laureano più architette che architetti, ma più si salgono i gradini della rappresentatività nella vita pubblica e più diminuiscono le presenze femminili per scomparire, quasi, nelle posizioni apicali; se nel privato gli incarichi professionali appaiono quasi equamente distribuiti, nell’ambito pubblico, invece…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 29 maggio

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Pena (e) capitale. Kenneth Reams ci racconta il suo caso dal braccio della morte

«Negli ultimi 25 anni, ho sopportato la vita in isolamento, con lo stress mentale ed emotivo di dover affrontare la morte. Nonostante ciò, e contro ogni previsione, sono riuscito a riabilitarmi e a crescere. Ho fatto male da ragazzo, non sono innocente. Ma non ho mai ucciso». Sono le prime righe della lettera aperta di Kenneth Reams detenuto nel braccio della morte di una prigione nordamericana dall’età di 18 anni. È stato il più giovane detenuto in attesa di pena capitale in Arkansas.

Quella che Kenneth e i suoi amici mi hanno raccontato al telefono è una storia di speranza e resilienza, ma anche un esempio delle contraddizioni che affliggono la società americana e il suo sistema carcerario. È una storia che ci pone degli interrogativi, mettendoci di fronte all’inaccettabilità della perdita forzata di una vita umana, che sia per mano di un comune criminale o da parte dello Stato nel suo tentativo di affermarsi e legittimarsi. È una storia che ci costringe anche a riflettere sulla differenza fra pena e vendetta, e sulla nostra capacità di accettare la riabilitazione di un condannato.

Il 5 maggio 1993, a Pine Bluff (Arkansas), piccola cittadina considerata tra le più pericolose degli Stati Uniti, Kenneth, insieme al suo amico Alford, decide di compire una rapina. La loro giovane vita fino a quel giorno era stata definita dalla povertà, dalla violenza e dalla mancanza totale di opportunità. I soldi rubati dovevano servire a comprare il mantello e il tocco per la cerimonia del diploma. Ma gli eventi prendono una strada diversa, Alford spara accidentalmente un colpo ed è così che un furto da 50 dollari si trasforma in un omicidio. Alford Goodwin, autore materiale dell’assassinio, ha accettato un accordo con la procura, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato all’ergastolo. Kenneth Reams, in macchina al momento dello sparo, ha scelto di andare a processo ed è stato condannato alla pena di morte tramite iniezione letale. L’iter giudiziario presentava fin da subito grosse lacune. L’avvocato d’ufficio che seguiva centinaia di casi, tra cui altre cinque sentenze capitali, non ha chiamato alla sbarra né gli esperti né i testimoni chiave. La giuria era composta da undici bianchi su dodici, dopo che tre afroamericani furono ricusati senza che la procura si sia dovuta giustificare, come lo prevede il sistema americano di selezione del collegio di giudici popolari. Nel novembre 2018, infine, è stata revocata la pena di morte perché il caso è stato dichiarato incostituzionale.

La cella dove Kenneth è stato rinchiuso per tutta la sua vita da adulto è una scatola di cemento buia, grande come un posteggio auto, composta da un gabinetto, da una doccia che non riesce a regolare e da un materasso appoggiato su una branda di cemento. Gli è concesso uscire un’ora al giorno all’aria aperta per fare esercizio in uno spazio ancora più angusto della sua cella. Racconta che molti detenuti rifiutano questo loro “diritto” poiché li fa sentire come animali nella gabbia di uno zoo. Non sono permessi contatti umani, se non per l’assistenza sanitaria e le visite. La colazione e il pranzo vengono serviti alle 2 di notte e alle 9 del mattino. La maggior parte dei detenuti, per colpa di questo trattamento disumanizzante e di questo dover “vivere” nell’attesa dell’esecuzione (un quarto dei reclusi nel braccio della morte muore di cause naturali dopo decenni di incarcerazione), cedono psicologicamente, spegnendosi lentamente o dando segni di squilibrio mentale. La sua voce profonda e quieta contrasta con gli echi della prigione. Abbiamo venti minuti cronometrati prima che la sua unica telefonata settimanale si esaurisca.

Puoi raccontarci la quotidianità fra le mura di un carcere di massima sicurezza statunitense?
I miei giorni scorrono come scorre la mia mente. Non c’è un giorno che assomigli all’altro. Ho delle attività quotidiane come l’esercizio fisico, la meditazione, provo anche a leggere il più possibile. Tutte quante servono alla mia crescita personale e spirituale. Certi giorni creo arte, altri scrivo poesie, altri ancora rispondo ad un’intervista come oggi. Vedi, ci sono tanti elementi, ma non ho nessun tipo di routine da portare avanti, come fanno di consueto molte persone nella società civile. Sai, ti alzi ad un’ora precisa ogni mattina, vai al lavoro, torni dal lavoro, dedichi del tempo alla tua famiglia e ai tuoi bambini. La mia vita in isolamento non me lo permette. A volte mi sveglio alle tre del mattino, altre vado a letto alle due.

La tua passione per l’arte è nata fra le mura della cella. Negli ultimi anni, hai realizzato più di cinquanta opere, fra poesie, installazioni, sculture, disegni e pitture. Chi si avvicina alle tue creazioni non può che rimanere colpito dalla loro forza denunciatrice. Mi sovviene l’immagine del tuo dipinto dove le strisce rosse della bandiera americana finiscono con dei cappi ad uno dei quali è stato impiccato un afroamericano e il tuo modellino di sedia elettrica realizzato interamente con bastoncini di gelato. Affermi che la tua arte non riguarda te stesso, ma temi più ampi come la pena di morte, la disumanità della vita in isolamento, i fallimenti del sistema di giustizia penale americano, e le discriminazioni razziali. Qual è il contributo dell’arte alla tua capacità di resilienza?
La mia arte è totalmente centrata sulla libertà. E per libertà intendo che ho impugnato il pennello per sbloccare le porte della mia cella. Riguarda tutte le forme di libertà. La libertà di creare. La libertà di pensare. La libertà di essere semplicemente in movimento. La mia arte non ha una fonte di inspirazione, la mia arte è libertà pura.

L’idea secondo la quale negli Usa le ingiustizie giudiziarie siano strettamente legate alla questione razziale percorre la quasi totalità delle tue opere. Approfondiresti questo concetto per noi.
Negli Stati Uniti, la commedia della morte si è sempre incentrata attorno a due elementi chiave: la vendetta e il razzismo. Questo vale fin dall’inizio della storia degli Stati Uniti e resta valido tutt’ora. Perché il mio è solo uno dei tanti casi di ingiustizia giudiziaria che esistono in questo Paese. Se guardi la composizione razziale della popolazione americana, vedrai che su un totale di 320 milioni di abitanti, ci sono circa il 30% di afroamericani. Però se osservi le statistiche, ti rendi conto che solo un maschio bianco su 17 può aspettarsi di andare in prigione durante la sua vita, a fronte di un afroamericano su tre (come emerge dai dati del Bureau of justice statistics – Bjs – del 2013) Se pensi che questo non sia razzismo o sei ingenuo o sei cieco. Questo si ripercuote sull’intera società. Se sottrai una fetta così importante della popolazione, in prevalenza maschile, di una comunità, ad un certo punto crei degli squilibri enormi, una vera voragine.

Assieme alla piaga del razzismo, le carceri americane si stanno confrontando con il problema del sovraffollamento. Un Paese che rappresenta solo il cinque per cento della popolazione globale, ma che conta quasi un quarto dei detenuti di tutto il mondo, appare chiaro che abbia un sistema giudiziario fondato sulla carcerazione. Cosa si evince dall’interno?
Ho passato più della metà della mia vita in isolamento, intrappolato nel sistema giudiziario. Ho avuto l’opportunità di osservarlo attentamente. Si presume che il carcere serva a punire e a riabilitare. Però, qui, non è quello che io ho visto, non è quello che io ho capito, non è quello che io ho imparato. Ciò che ho constatato io, è che è tutto una mera questione di soldi. Di quanti guadagni loro sono capaci di fare. E quando dico “loro”, intendo le corporazioni. Ecco cosa ho imparato durante tutti questi anni. Ciò che stanno facendo non viene regolato e così queste corporazioni sono libere di fare pressioni sui politici per promulgare leggi che permettono di pronunciare sentenze ingiuste, contro persone che vengono ingiustamente rinchiuse, e che devono ingiustamente trascorrere tempo in carcere.

In che modo le corporazioni che evochi lucrano sulla pelle dei carcerati?
Per le corporazioni non c’è un unico modo per fare soldi: più c’è gente incarcerata, più ci sono guadagni. Quando sono arrivato in carcere, nel 1993, era il periodo di attuazione della legge californiana dei Three strikes: commetti tre reati e veni incarcerato per il resto della tua vita. Questo è nient’altro che un modo di rinchiudere più facilmente la gente per fare ancora più soldi. Così le lobby si arricchiscono. Lo fanno in modi diversi. Per esempio, ci sono delle aziende che sono specializzate nella produzione di scarpe per i carcerati: più gente è rinchiusa e più scarpe possono vendere. Stessa cosa per le compagnie telefoniche che fanno soldi con le chiamate dei carcerati ai loro familiari: più gente è rinchiusa e più ci sono chiamate da fatturare. E poi i prezzi non hanno niente a che vedere con quelli praticati nella società civile. Fuori una chiamata di quindici minuti non costa venti dollari, qui in carcere si. Fuori una caramella non costa un dollaro e cinquanta centesimi, qui in carcere si. Per farti un esempio, circa un anno fa, ho realizzato un opera d’arte riciclando imballaggi che avevo accumulato. Confezioni di caramelle, di merendine e buste di patatine. Le ho assemblate tutte assieme per parlare del come queste compagnie esterne fanno soldi sugli indigenti (due terzi della popolazione carceraria americana vive sotto la soglia di povertà, dati Bjs 2013). È un business colossale e non si ferma qui. Prendi il caso dei giubbotti antiproiettile. Non c’è bisogno che le guardie ne siano dotate: non si spara mai a nessuno in carcere. Ciò nonostante, le compagnie sono riuscite a stipulare dei contratti con il sistema penitenziario. Ecco un ennesimo modo in cui fanno soldi. Ed è così che il sistema funziona. C’è un’organizzazione che si chiama Alec (una lobby ultraconservatrice evangelica accusata in più occasioni di suprematismo bianco), è una corporazione che raggruppa diverse aziende che fanno pressioni in modo da incoraggiare la promulgazione di leggi, così da mantenere la gente in carcere e quindi poter fare i maggiori profitti possibili. Così dissezionano la società, ancora e ancora, sempre di più.

Due anni fa, un docufilm che narra la tua storia – Free man, di Anne-Frédérique Widmann – è stato presentato in numerosi festival di cinema per i diritti umani, le tue opere sono state esposte in diverse mostre in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, la tua campagna “Who Decide?” contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense contro la pena di morte, e il tuo comitato di sostegno “Free Kenneth” moltiplica le iniziative a favore della tua liberazione, quali sono i prossimi passi?
Personalmente, continuerò a sforzarmi ad evolvere ogni giorno per elevare la mia individualità, provando a capire i grandi principi della vita, come la pace, la felicità, l’amore e provando a capire come io mi relaziono al mondo. È un percorso quotidiano per diventare una persona migliore. Riguardo la battaglia giudiziaria, la prossima tappa consiste nel lottare per convincere l’Arkansas ad aprire gli occhi. È un caso molto complicato in cui non si capisce esattamente cosa sia necessario per spingere lo Stato a porre attenzione sulla mia vicenda. Però è allo stesso tempo un caso molto semplice perché è chiaro che non ho ucciso nessuno ed è altrettanto chiaro che ho subito un’ingiustizia, ma che per una ragione o un’altra, il sistema non vuole fare la cosa giusta. È il motivo principale per il quale faccio questa intervista, provare ad attirare l’attenzione sull’ingiustizia del mio caso.

L’intervista è stata pubblicata su Left del 13 marzo 2020

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Il virus è il neoliberismo, la sinistra Ue cerca l’antidoto

Quasi tre mesi fa, l’Italia era il solo Paese europeo ad essere colpito dal coronavirus e a predisporre il lockdown. Da allora, il virus ha assunto la forma di una pandemia globale e ha colpito in varia misura tutti i Paesi europei. Alla drammatica crisi sanitaria si è aggiunta una crisi economica e sociale di dimensioni mai viste prima in Europa in tempi di pace: in alcuni Paesi si prevede una contrazione di oltre il 10% del Pil oltre ad un enorme aumento del debito pubblico, della disoccupazione e della povertà. L’Organizzazione internazionale del lavoro prevede che l’equivalente di 305 milioni di posti di lavoro andranno persi nel primo semestre di quest’anno in tutto il mondo, creando un esercito di disoccupati.

La questione, ormai onnipresente nel dibattito europeo, è quella del dove trovare i soldi per sostenere i costi del contenimento dell’epidemia, sostenere l’economia e proteggere le popolazioni. Per alcuni Paesi dell’Europa meridionale, particolarmente colpiti dall’epidemia e la cui situazione finanziaria era già relativamente fragile, questo problema è ancora più urgente. A livello europeo sono state proposte diverse soluzioni e le istituzioni europee stanno lavorando a una risposta comune e a una strategia per finanziare la ripresa. Le tensioni vissute qualche anno fa dopo il crollo finanziario del 2008 sono riemerse in seno al Consiglio e all’Eurogruppo, dove è riesplosa una battaglia tra i Paesi “fiscalmente virtuosi”, guidati da Germania e Olanda, e una coalizione di Paesi con un debito generalmente più elevato, tra cui Italia, Spagna e Francia. Qualche giorno fa, la Francia e la Germania hanno annunciato un fondo di rilancio di 500 miliardi di euro finanziato grazie a un debito europeo comune, ma diversi Paesi rimangono ad oggi ostili a questa proposta. Da questo caotico e poco trasparente dibattito, una cosa sembra certa: la “solidarietà europea” è ancora lontana dall’essere una realtà.

Come tutte le crisi, e forse più delle passate, quella che stiamo vivendo ci porta a mettere in discussione il modello di società in cui viviamo. Al contempo, come tutte le crisi, è anche un’opportunità per le forze dominanti di imporre le proprie ricette. Sappiamo fin troppo bene come si è conclusa la crisi del 2008: dopo aver speso miliardi per salvare le banche, i governi europei, l’Ue e la Troika hanno imposto misure di austerità – tagliando servizi pubblici e spesa sociale – ai popoli d’Europa. Una domanda cruciale è quindi oggi di fronte a tutte le forze della sinistra europea: chi pagherà il prezzo di questa nuova crisi e quali saranno le implicazioni per i popoli d’Europa?

Aurélie Dianara, ricercatrice in Storia internazionale, e Giuliano Granato, laureato in Relazioni internazionali, entrambi coordinatori nazionali di Potere al popolo, hanno dato la parola a quattro eurodeputati di diversi Paesi, membri del gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica Gue/Ngl: Manon Aubry (France insoumise), Marc Botenga (Parti du travail de Belgique), Özlem Demirel (Die Linke) e Sira Rego (Izquierda unida).

Fin dall’inizio della pandemia l’Europa è stata molto criticata per la sua incapacità di formulare una risposta collettiva, rapida e proporzionata alle sfide che dobbiamo affrontare. Dal vostro punto di vista di eurodeputati, l’Ue è in parte responsabile della crisi attuale? Quanto si sta mettendo in discussione?

Manon Aubry: Una parte di responsabilità dell’Ue, in ogni fase della crisi, è innegabile. Il moltiplicarsi delle epidemie è legato alla deforestazione e alla perdita di biodiversità, a cui l’Unione contribuisce in particolare attraverso i suoi accordi commerciali. I servizi sanitari pubblici di Italia, Spagna e Francia sono stati prosciugati da anni di austerità raccomandata dalla Commissione Europea. La delocalizzazione e il libero mercato hanno minato la nostra sovranità industriale, in particolare nel campo dei medicinali o dei dispositivi di protezione individuale, costringendo gli Stati membri a combattere tra loro per far fronte alle proprie carenze. Dopo tanti anni passati a minare la reale solidarietà tra i Paesi europei, l’Ue è stata totalmente incapace di coordinare, pianificare e organizzare una risposta sanitaria ed economica comune alla crisi. Gli appelli all’Unione a mettersi in discussione arrivano da tutte le parti, ma alcuni leader hanno un udito selettivo. La sospensione del Fiscal compact, impensabile prima della crisi, è stata attuata ma solo temporaneamente. Ma di fronte al muro del debito, i tabù della mutualizzazione e della cancellazione devono ora essere superati. Le condizioni di lavoro delle professioni essenziali, spesso femminilizzate (cassieri, assistenti sociali, ecc.) sono inaccettabili per tutti, ma il loro reale miglioramento non è affatto garantito. La pericolosa fragilità del sistema produttivo globalizzato è evidente a tutti, ma la Commissione continua a negoziare accordi di libero scambio con il Messico e gli Stati Uniti nel pieno della crisi.

Marc Botenga: L’Unione europea ha una duplice responsabilità, da un lato quella dell’austerità e dall’altro quella della mercificazione dell’assistenza sanitaria. L’austerità ha portato molti Stati a tagliare i sistemi sanitari pubblici. Il sistema ospedaliero francese era in crisi anche prima della pandemia. In Italia, dal 2010, c’è stata una continua riduzione del budget del sistema sanitario nazionale. Tra il 1998 e il 2017, il Paese ha perso circa 120mila posti letto. D’altra parte, le regole del mercato interno e sugli aiuti di Stato spingono fortemente i Paesi a liberalizzare, cioè a trasferire al settore privato, interi settori del loro sistema sanitario. Avremmo sperato che i dogmi dell’austerità fossero stati messi in discussione, ma purtroppo è molto chiaro che la sospensione del Patto di stabilità sarà solo temporanea. In altre parole, oggi lo sospendono per inviare enormi quantità di denaro alle grandi imprese, ma domani lo ripristineranno e pretenderanno che sia il momento “per tutti” di fare sforzi, di stringere la cinghia. Questo è un discorso che sentiamo fare già oggi dalla Commissione europea, ma anche a livello nazionale da molti partiti.

Özlem Demirel: Sì, l’Ue «ha fatto troppo poco, troppo tardi», come ha ammesso la presidentessa della Commissione von der Leyen in un recente dibattito in plenaria. Ma la pandemia è esplosa anche a causa di sistemi sanitari intaccati negli anni. Nel contesto del semestre europeo, nel periodo dal 2011 al 2018, la Commissione europea ha chiesto in 63 occasioni agli Stati membri di ridurre o privatizzare i propri sistemi sanitari. Queste misure e l’orientamento neoliberista dell’Ue stanno costando vite umane. Tuttavia, non riesco a vedere una nuova consapevolezza delle istituzioni. Non è maturato ancora un allontanamento netto dalle politiche di austerità. Per ora, il Patto di stabilità non è stato messo radicalmente in discussione. Assistiamo ad una sospensione temporanea che non è in contraddizione con i trattati.

Sira Rego: C’è una certa consapevolezza della responsabilità della crisi attuale, ma è ben lungi dall’essere una consapevolezza collettiva. Da un lato, troviamo un blocco di Paesi i cui governi sono molto più consapevoli della situazione, poiché sanno che la crisi li colpirà con maggiore intensità. La Spagna è uno di questi Paesi. Chiede una via d’uscita dalla crisi basata sulla solidarietà e sulla protezione dei servizi pubblici e sociali, una via d’uscita in cui l’Ue deve assumere una grossa parte del debito consentendo agli Stati membri di garantire condizioni di vita dignitose per tutti. Poi ci sono Stati come i Paesi Bassi o la Germania che portano avanti posizioni molto più conservatrici volte ad imporre soluzioni “individuali”, senza considerare la situazione di partenza di altri Stati membri. Essi incolpano Paesi come la Spagna, l’Italia o la Grecia di non aver “fatto i compiti a casa”, quando sono perfettamente consapevoli delle sofferenze che hanno subito a causa delle politiche di austerità draconiane imposte loro dall’Ue, in particolare dopo la crisi del 2008.

Molto è stato detto nelle ultime settimane sugli Eurobond, il Meccanismo europeo di stabilità, il Recovery fund. Altre idee sono state avanzate: debito perpetuo, helicopter money, cancellazione o monetizzazione del debito, e così via. Quale sarebbe la soluzione più adatta per non far gravare ancora una volta il peso della crisi sulle spalle delle classi lavoratrici europee?

Marc Botenga: Possiamo mettere in campo diversi strumenti economici, ma ciò che conta davvero è unire la solidarietà tra i va…

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Le mani dei privati sulle spiagge libere

Beautiful beach popular tourist small town of Monterosso in the Cinque Terre Park. The beautiful sandy beach in Italy. Seascape. Striped beach umbrellas on the shore of the Mediterranean sea. Romantic place.

Gli arenili liberi sono un patrimonio prezioso. Sono l’unico strumento democratico e gratuito nelle mani di tutti per poter godere delle nostre spiagge e del nostro mare. Ora però, le cose potrebbero cambiare. Diversi enti locali potrebbero affidare queste aree a gestori privati, aumentando le già numerose concessioni balneari.

I motivi sono due. Da un lato, si vorrebbero sostenere gli stabilimenti che, per rispettare le distanze di sicurezza anti-Covid, dovranno ridurre il numero degli ingressi rispetto agli anni scorsi, e si vorrebbe farlo con un’operazione i cui costi ricadrebbero sui cittadini che non vogliono o non possono pagare ombrellone e lettino presso gli impianti privati. Dall’altro, questa soluzione toglierebbe le castagne dal fuoco a molti piccoli comuni, che sarebbero in difficoltà nell’occuparsi del monitoraggio degli accessi alle spiagge libere, nelle quali dovranno essere rispettati il distanziamento (un metro tra le persone) e le prassi igieniche previste dalle linee guida elaborate dalle Regioni ed adottate dal governo col decreto Riaperture il 16 maggio.

Ma innanzitutto, per farsi un’idea della faccenda, occorre ricordare che le spiagge libere sono sempre meno. «I dati sono molto diversi tra Nord e Sud, ma la tendenza è univoca: aumentano ovunque le spiagge in concessione e laddove non avviene è perché semplicemente non ci sono più spiagge libere, come in…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 29 maggio

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Si fa presto a dire vacanza

ROME, ITALY - MARCH 23: A man sunbathes on the terrace during lockdown on March 23, 2020 in Rome, Italy. As Italy extends its nationwide lockdown to control the spread of COVID-19, its citizens are living more of their lives on their balconies and in windows: sunbathing, smoking a cigarette, drinking a glass of wine, anything to find some relaxation. In building after building, we see Italians whose worlds have shrunk to the size of their homes, redefining what it means to get outside. (Photo by Marco Di Lauro/Getty Images)

Le riviste di settore prevedono che le prossime vacanze saranno più green e di breve durata, flessibili, destagionalizzate e di prossimità. Soprattutto, però, saranno per pochi. Per il turismo, 13% del Pil, è una delle recessioni più gravi della sua storia, 20 miliardi andati in fumo tra alloggio, ristorazione, trasporto e shopping (stime Coldiretti) di fronte ai quali i 2,4 miliardi stanziati dal governo per il bonus sono un pannicello caldo – la Francia ne ha stanziati 18 di miliardi di euro.
Rispondendo a un sondaggio di Ecobnb, community del turismo sostenibile (2 milioni di utenti l’anno) il 37% degli intervistati prevede una settimana di vacanza, il 26% solo pochi giorni, il 25% due settimane, solo il 7% tre settimane o più. Il 55% degli italiani adulti non andrà proprio in vacanza, secondo una ricerca commissionata dal portale Facile.it. Significa 24 milioni, di persone, dato triplicato rispetto al 2018, il 43% per problemi economici, il 28,7% per paura, una percentuale che al Sud e nelle Isole schizza al 37,6%. «La paura di viaggiare oggi è sopravvalutata: le informazioni e le immagini di persone che sono partite spingeranno a farla diminuire per imitazione, naturalmente se non si accenderanno nuovi focolai», suggerisce Nicolò Costa, che insegna sociologia del turismo a Tor Vergata. Con i suoi studenti Costa ha provato, durante il lockdown, a intercettare le tendenze. «Si è intensificato un processo già in atto – spiega a Left -, lo scivolare verso il basso della scala sociale è iniziato già da prima del coronavirus».

Al primo posto, tra i gruppi sociali che non si muoveranno da casa, ci sono le persone ridotte in povertà. Una ricerca di Coldiretti ha appena rivelato che c’è un milione di poveri in più grazie alla crisi innescata dal Covid. Salgono quindi a 3,7 milioni le persone che hanno bisogno di aiuto per mangiare. Fra i nuovi poveri ci sono coloro che hanno perso il lavoro, piccoli commercianti o artigiani che hanno dovuto chiudere, le persone impiegate nel sommerso rimaste senza sussidi e non hanno risparmi accantonati, come pure molti lavoratori a tempo determinato o con attività saltuarie. Le maggiori criticità si registrano…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 29 maggio

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SOMMARIO

Piero Manni, la generosità contagiosa di un editore militante

Affrontare la realtà che ci si è trovati tra le mani, rischiando di scontrarsi con essa ma senza mai scontarla, per lasciare intatta la propria visione e trasmetterla agli altri. È la vita di ogni intellettuale che si metta in discussione sostenuto dalla propria immaginazione. Non a caso, L’immaginazione è la rivista di ricerca letteraria con cui Piero Manni e la moglie Anna Grazia D’Oria radicavano a San Cesario nel leccese la loro avventura editoriale nel gennaio 1984, la stessa che avrebbero trasmesso e irrobustito insieme ai figli Grazia, Agnese e Daniele. Uomo rigorosamente di sinistra, che mai ha temuto la parola “ideologia”, ma si è tenuto saldo ai suoi ideali, a una visione inclusiva e paritaria della società, Piero Manni si è spento il 22 maggio scorso, a pochi giorni dal suo 76esimo compleanno. Una volta laureatosi in Storia e filosofia, prima di diventare un punto di riferimento come editore indipendente, per circa vent’anni ha insegnato dietro le sbarre, ai detenuti delle carceri di Lecce. Manni Editori, con il suo logo essenziale, quasi si trattasse di un incrocio stilizzato, la testimonianza di un incontro che ha superato il corso del tempo, ha incoraggiato due generazioni di scrittori.

«Mio padre mi ha insegnato a farmi insegnare dagli altri, nel lavoro e nella vita – racconta la figlia Agnese – a chiedere, a cercare degli interlocutori; credeva fermamente nel lavoro collettivo. Comincio dall’editing, come si fa con i manoscritti: mi ha insegnato a essere rispettosa, a trovare la voce dell’autore mettendo da parte la mia. Poi c’è la tipografia: mi ha insegnato a toccare i libri, a conoscerli come prodotti fisici. Il magazzino: mi ha insegnato a scaricare i pacchi, affinché provassi la fatica che fanno i librai, i magazzinieri della logistica. Mi ha insegnato ad arrampicarmi sugli scaffali e a trovare i titoli da me. Mi ha insegnato a cercare un dialogo con gli autori, con i giornalisti, a ma anche con il fruttivendolo o con le mie nipoti o il posteggiatore abusivo».

Manni considerava i libri strumenti di comprensione, di apertura, capaci di portare l’attenzione sulle situazioni di emarginazione. E lo dimostrano le personalità che gli hanno dato fiducia, da Alda Merini a Edoardo Sanguineti, da Maria Corti a Massimo Bray. La pubblicazione con cui ha esordito la casa editrice nel 1985 è stata proprio un’antologia, Segni di poesia/lingua di pace, con versi di Cacciatore, Caproni, Leonetti, Luzi, Malerba, Pagliarani, Volponi, Zanzotto e altri.

Per Manni il valore della poesia è sempre stato inestimabile, la potenza concreta di un verso quale «guerra alle guerre è una guerra da andare, / lotta di classe è la guerra da fare», dal Mikrokosmos di Sanguineti. La prima collana della casa editrice si è specializzata nel settore della letteratura, con testi e saggistica: si intitola “La scrittura e la storia” ed è stata promossa da Romano Luperini, che ancora oggi la dirige.

Non poteva scegliere compagno d’arme migliore, quel Luperini che lo chiamava affettuosamente «Pierino» e che continua a insistere sulla riassunzione di responsabilità da parte di chi scrive e di chi analizza i testi. Ne La fine del postmoderno (2005) anticipava lucido il dopo Eco, il trionfo della “società trasparente”, nonché le estreme conseguenze del pensiero debole e del nichilismo morbido, rimarcando l’esigenza di un impegno intellettuale e artistico che riproponesse la centralità della contraddizione e del conflitto. Negli anni Luperini e Manni hanno preso le distanze da un contesto che denunciava le ideologie per poi cadere a capofitto in un’altra ideologia, la più subdola, che poneva in scacco qualsiasi metodo volto a cogliere una causa ultima dei movimenti storici e dei comportamenti sociali.

«Quando un amico scompare – dice a Left lo scrittore e critico letterario Antonio Prete – i tanti momenti di vita in comune e di incontri riappaiono con una loro luce più forte. Tra le tante immagini di Piero, voglio ricordare due particolari. La sua cura e passione per le radici – di cultura popolare, propria di un Salento contadino – che portava non solo nelle nostre conversazioni, nella rievocazione di espressioni e parole dialettali e di condivisi ricordi, ma anche nella scrittura dei suoi racconti. Fu lui a procurarmi via via tutte le edizioni di libri riguardanti la Grecìa, compreso il Dizionario dei dialetti salentini del Rohlfs. Sentivo che nei nostri incontri questa comune radice era un legame forte. A questo sguardo sulle radici corrispondeva una grande curiosità per il mondo della cultura in generale e per le forme letterarie. Voglio anche ricordare in che modo, quando gli parlai di Edmond Jabès e del suo desiderio di visitare Lecce, si adoperò perché lo scrittore fosse accolto con la moglie per una settimana a Lecce: Lì ci furono seminari, incontri all’Accademia di belle arti, serate bellissime».

Ora alcuni scritti importanti di Jabès figurano nella collana “Quaderni del gallo silvestre” che Prete dirige per loro. La generosità contagiosa di Manni e la sua dedizione nei confronti della terra che abitava con rispetto si sono realizzati nell’impegno politico.

«Come si usava un tempo – aggiunge Nicola Fratoianni, portavoce nazionale Sinistra italiana – il partito (Rifondazione comunista, ndr) mi aveva mandato a fare il segretario regionale in una regione importante, la Puglia. Anche con lui condividemmo la straordinaria esperienza della prima vittoria di Nichi Vendola nel 2005. Piero era un intellettuale militante, la casa editrice, la politica e l’insegnamento in carcere. Quando in Puglia si aprì un’inaspettata stagione di cambiamento, si candidò e venne eletto in consiglio regionale nelle liste di Rifondazione. L’ultima volta che mi ha chiamato, non molto tempo fa, voleva espormi un nuovo progetto editoriale. Se ne va una persona appassionata e intelligente. Che la terra ti sia lieve».

Eclettico e pacato, era solito ripetere che «la verità ha millanta facce» e la conferma è che abbia lasciato traccia in tanti, anche in chi lo ha soltanto sfiorato.