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Nervosetti, i leghisti

Sono piuttosto nervosi dalle parti della Lega. Il capitano leghista è finito mozzo, con la sua fascinazione che si è schiantata contro la pandemia. Accade sempre così: quando la gente ha paura torna di moda la serietà e così perfino le foto dei suoi pranzi e delle cena hanno iniziato a essere criticate dai suoi fedelissimi. «Occupati delle cose importanti», gli scrivono e infatti lui si sta occupando dell’unica cosa che gli interessa davvero: cercare di salvarsi dai processi e non nei processi, come il suo ex tutore Silvio Berlusconi. Del resto un uomo che voglia fare il duro e il puro ne approfitterebbe per difendersi in tribunale e per mostrare di avere fatto il bene dell’Italia davanti alla legge. A Salvini invece basta difendersi su Facebook, per lui funziona così.

Poi se la sono presa con la conduttrice di Chi l’ha visto? Federica Sciarelli. Meravigliosa la risposta della conduttrice: «Un onorevole leghista ha detto che io dovrei essere sostituita alla conduzione di Chi l’ha visto? perché io sarei stanca. Innanzitutto lo ringrazio per le sue attenzioni, ma lo voglio rassicurare: non sono stanca. Inoltre, le Procure competenti di Alzano e di Villa Torano hanno chiesto di acquisire le nostre immagini e le nostre interviste per le loro indagini, dunque apprezzano il nostro operato». Ovviamente non entrano mai nel merito: definire una donna stanca per loro è il massimo dello spesso nella critica politica. Lei sarà stanca, loro sono sicuramente dei ridicoli banalotti.

A proposito di Villa Torano: sull’enorme vergogna calabrese ne abbiamo scritto proprio in un numero di Left che vi invito a recuperare e leggere con attenzione. Si parla molto delle Rsa al nord ma in Calabria Villa Torano è qualcosa che grida vendetta. Il re delle cliniche Massimo Poggi e il suo amico Claudio Parente non sono ancora entrati nelle cronache nazionali ma ci arriveranno a breve, grazie anche al serio lavoro di Sciarelli e della sua redazione. Che poi Parente sia stato il coordinatore della campagna elettorale della Santelli dovrebbe interessare anche alla politica.

A proposito di Calabria: tra gli indagati dell’inchiesta Waterfront che ieri 28 maggio ha scoperto gare d’appalto in favore della cosca Piromalli c’è anche il parlamentare della Lega Domenico Furgiuele. Al parlamentare di Lamezia Terme, genero dell’imprenditore Salvatore Mazzei (già condannato per reati di mafia), il procuratore Giovanni Bombardieri e l’aggiunto Gaetano Paci contestano il concorso in turbativa d’asta.

Insomma, va forte la Lega, eh.

Buon venerdì.

Miniere di sabbia

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Fellini nel suo film I vitelloni e Luciano Emmer in Una domenica di agosto ci descrivono le spiagge degli anni Sessanta: luoghi di socialità, d’incontri, dove passeggiare, sedersi, ammirare il mare ed il tramonto. Luoghi romantici.
Nel corso dei decenni successivi le coste italiane hanno subito una trasformazione urbanistica intensa, tale da cambiarne radicalmente non solo la morfologia, con gravi conseguenze dal punto di vista ambientale e paesaggistico ma modificando le abitudini di milioni di cittadini e famiglie italiane che hanno subito la privatizzazione delle coste.
La cementificazione selvaggia e la privatizzazione degli arenili hanno portato alla scomparsa del lungomare, sostituito da un nuovo sostantivo: il “lungomuro”.

Le immagini satellitari, scattate nelle ore notturne, possono dare un’idea della copertura luminosa dei litorali antropizzati, ormai preda di traffico, urbanizzazione ed infrastrutture. Le immagini mostrano chiaramente come il 40% delle coste mediterranee sia “artificialmente” occupata, anche se ci sono notevoli differenze tra i diversi Paesi. In Italia, invece, la percentuale “artificialmente occupata” si aggira tra il 65-70% (dati Unep).
Sono 160 milioni i metri cubi di cemento realizzati sulle nostre spiagge che corrispondono a 19,2 milioni di metri quadri di arenili occupati da stabilimenti, villaggi, porti, alberghi e strade. Secondo i dati Ispra negli ultimi 50 anni, lungo la nostra costa è sorta una barriera di cemento e mattoni lunga 2mila km. Mezzo secolo in cui la densità dell’urbanizzazione, entro 1 km dalla linea di costa, è passata dal 10 al 24%, in Sicilia ha raggiunto il 39% e in Sardegna il 28%. Oggi i tratti di costa libera dal cemento e in buono stato di naturalità, più lunghi di 5 km, rappresentano appena il 23% del totale: messi tutti insieme arrivano a 1.860 km (isole comprese) sugli 8mila km circa di costa. Perché siamo….

Angelo Bonelli è coordinatore nazionale dei Verdi 

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 29 maggio

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SOMMARIO

George Floyd, colpevole di esser nato negli Stati Uniti

«Essere nero in America non dovrebbe essere una sentenza di morte» ha detto il sindaco democratico di Minneapolis, Jacob Frey, commentando l’assurda, razzista uccisione di George Floyd. L’agghiacciante video in cui il quarantaseienne afroamericano viene soffocato a morte da un poliziotto ha fatto il giro del mondo. Mentre le strade di Minneapolis vengono invase da rappresentanti di tutti i movimenti per i diritti civili, primo tra tutti Black Lives Matter, è impossibile non chiedersi: come si può, nel 2020, essere uccisi perché si ha la pelle di un colore diverso da quello del proprio assassino?

Purtroppo non è la prima volta che un afroamericano inoffensivo viene ucciso durante un’operazione di polizia o condannato per qualcosa che non ha commesso. Nel caso di Floyd, prima la polizia ha dichiarato che la scelta di fermare il Suv di George e di arrestarlo era stata dettata dal fatto che lui stesse guidando in condizioni alterate. Più tardi, la versione è stata cambiata: la polizia sarebbe stata chiamata da un negoziante che accusava Floyd di aver pagato con un assegno falso.
L’unica motivazione plausibile, però, sembra essere l’odio e il disprezzo per la vita umana. Le immagini del poliziotto Derek Chauvin (secondo la cronaca locale già coinvolto in passato in episodi di violenza) che preme il ginocchio sulla gola di Floyd con le mani in tasca, sordo a qualsiasi implorazione di George o dei passanti, sono preziose perché ci permettono di indignarci e riflettere sulla condizione in cui vivono gli afroamericani negli Stati Uniti d’America. Il movimento Black Lives Matter dal 2013 lotta proprio contro l’annullamento che spesso circonda la morte di una persona di colore e contro lo strapotere di cui gode la polizia.

Il Minneapolis police department ha provveduto a licenziare gli agenti coinvolti nella morte di Floyd. Il problema dell’abuso di potere dei poliziotti nordamericani ha una spiegazione legale che richiede però una lettura più profonda. La polizia è gestita a livello statale, non federale: ciò significa che molto spesso gli agenti sono membri di spicco di piccole comunità, un po’ sceriffi del far west, un po’ guida morale del luogo. Il fatto che Minneapolis sia la capitale del Minnesota cambia poco, probabilmente, nella mentalità di chi decide di far rispettare la “sua” legge mascherandola da giustizia. Questo, ovviamente, non è vero per ogni poliziotto d’America, ma c’è una percentuale che vede nella divisa un’armatura da paladino dei veri diritti dietro alla quale nascondere soprusi di vario genere.

Nel 2014 era toccato a Eric Garner, morto nello stesso modo di Floyd durante un fermo avvenuto a Staten Island, New York. Negli anni, la cronaca si è fusa con l’arte cinematografica o letteraria, favorendo il moltiplicarsi di rappresentazioni che servono a ricordare e a far riflettere su cosa si rischia semplicemente avendo la pelle scura. È il caso del film del 2019 Il diritto di opporsi, che racconta la storia di Walter McMillan, afroamericano accusato ingiustamente di aver ucciso una ragazza bianca e per questo condannato a morte, scagionato solo grazie all’impegno dell’avvocato Bryan Stevenson. Le carceri americane sono piene di neri arrestati perché, di fronte a un crimine, «avevano la faccia» dell’assassino o del ladro (su Left del 13 marzo 2020 avevamo raccontato il caso di Kenneth Reams, condannato per rapina e recluso per 25 anni nel braccio della morte in una prigione dell’Arkansas). Un dettaglio non secondario è che, negli Stati Uniti, i carcerati perdono il diritto di votare.
Se la strada potesse parlare, libro di James Baldwin recentemente trasformato in un film, racconta la storia del giovane Fonny, ragazzo di colore accusato di aver stuprato una donna da un poliziotto bianco, unico (presunto) testimone del reato.

Per gli afroamericani, nel 2020, camminare per la strada è ancora qualcosa di cui bisogna avere paura. Risale sempre all’inizio di questa settimana un altro video in cui si vede una donna (bianca) che chiama la polizia in preda al panico in seguito alla richiesta di un uomo (nero) di tenere al guinzaglio il suo cane. La donna urla che dirà agli agenti che «c’è un uomo afroamericano che sta minacciando la mia vita». Christian Cooper, in realtà, era in quell’area di Central Park a fare bird watching. Come dimenticare, poi, il caso di Ahmaud Arbery, ucciso in Georgia lo scorso febbraio con un colpo di pistola da due uomini bianchi, Gregory e Travis McMichael, mentre faceva jogging. La motivazione dei due assassini sarebbe che lo avevano scambiato per un ladro.

In questo anno martoriato dal coronavirus, che negli Stati Uniti ha già mietuto più di 100 mila vittime, molte delle quali nella comunità afroamericana, c’è bisogno di un vero cambiamento, una risposta chiara e ferma dalla politica americana. Il presidente Donald Trump assicura una generica giustizia, mentre l’ex presidente Barack Obama per adesso tace sulla vicenda. Il candidato democratico alla presidenza Joe Biden ha chiesto timidamente delle indagini federali, mentre l’ex candidata e senatrice del Minnesota Amy Klobuchar ha chiesto anche lei che venga fatta giustizia (Klobuchar ha precedenti negativi nei rapporti con la comunità afroamericana del suo Stato). Risposte più decise e richieste di agire per il meglio sono arrivate da Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e Ilhan Omar, esponenti di spicco della sinistra statunitense.
La lotta principale del 2020 sembra essere quella per arrivare primi al vaccino contro il Covid-19. Questo potente mezzo metterà in salvo da una pandemia, ma come bloccheremo il virus che circola dalla loro nascita negli Stati Uniti, quello dell’odio razziale contro il diverso da sé?

Sì, viaggiare

Coast as a background from top view. Turquoise water background from top view. Summer seascape from air. Nusa Penida island, Indonesia. Travel - image

E se realizzassimo un piano straordinario di “godimento” (e risanamento) del nostro Paese pensato proprio per tutte e tutti, in sicurezza e in rapporto con chi amministra le nostre bellezze e cioè in primo luogo i Comuni?
Non potrebbe essere questa la risposta ai mesi di sofferenza del lockdown, alla crisi drammatica del turismo che incombe e riguarda l’economia ma anche il lavoro di milioni di persone, ma anche alle forme dissennate che aveva preso e al degrado ambientale?
Penso a qualcosa che coinvolga proprio tutte e tutti, naturalmente a partire da ciò che possono e vogliono fare. Un piano potenzialmente rivolto a 60 milioni di persone che vivono in Italia, da svolgere in questi mesi ma anche di prospettiva.

Un piano per vivere le città nella loro dimensione artistica, culturale e paesaggistica. Le spiagge, sicure ma non ulteriormente privatizzate o rese esose (ho visto una foto di una spiaggia pubblica in Francia dove i distanziamenti sono disegnati con semplici paletti e corde.) E così in avanti per parchi, campagne, laghi e monti. Naturalmente serve un impegno grandissimo che ora non c’è. Un piano nazionale ma anche europeo.
In Europa stavolta si litiga per aprire le frontiere e non per chiuderle. Gli incontri, e gli scontri, in sede Ue si succedono tra ipotesi di accordi bilaterali tra “Paesi sicuri” che scatenano reazioni minacciose di rotture clamorose e tentativi di definire una intesa comune. Per altro in discussione c’è quella mobilità di Schengen che è uno dei cuori della Ue. Sulle prime pagine questa “discussione” si vede meno di quella sui “quattro fondi” per la ricostruzione ma non è che sia meno arroventata. E sarebbe bene intrecciarla. Perché non potrebbe essere proprio questo grande piano per apprezzare i nostri Paesi, anche risanandoli, ad orientare un fondo di ricostruzione essendone uno dei pilastri? D’altronde per capire quanto sia sensata la proposta basta vedere le cifre di quello che vale il turismo nell’economia europea. E leggere i numeri delle disdette che arrivano a percentuali enormi con in più una crescita di costi per mantenere il vecchio sistema adattandolo ad una situazione mutata.

Stiamo parlando, secondo i dati del Parlamento europeo, di un settore, quello del turismo internazionale, che nel 2017 aveva raggiunto un totale di 1,32 miliardi di arrivi nel mondo (+7%) di cui 671 milioni in Europa, cioè il 51% del mercato, con una crescita dell’8%. Il settore, strettamente inteso, conta nel Vecchio continente 2,3 milioni di imprese, principalmente medio piccole, che danno lavoro a circa 12,3 milioni di persone. Nel 2014 una impresa su dieci dell’economia commerciale non finanziaria apparteneva al turismo. Nel 2018 il contributo del settore viaggi-turismo ha partecipato direttamente al Pil dell’Unione per il 3,9%, occupando il 5,1% della popolazione attiva totale. Se si considerano gli indotti e i settori collegati si arriva al 10,3% del Pil e all’11,7% dell’occupazione totale, cioè 27,3 milioni di lavoratori.
E infatti la Ue è piena di programmi, indirizzi ed anche fondi per il turismo. Tutti naturalmente conditi di valori culturali, sociali ed eco compatibilità.

Poi la realtà come sapiamo è anche assai diversa. Fatta di pratiche mordi e fuggi, di precariato, di network che usano sedi fiscali “privilegiate”, di pratiche assai impattanti sull’ambiente e sui tessuti urbani .
Basti pensare che il turismo sarebbe responsabile dell’8% delle emissioni di anidride carbonica dell’economia globale, tenendo conto di tutti gli indotti. Solo il settore aereo pesa nel 2018 per 900 milioni di tonnellate di Co2 emesse. Col 60% dei viaggiatori che usa l’aereo.
O si pensi alla presenza di piattaforme come Tripadvisor, Bookin, Airbnb (cui Left ha dedicato grande attenzione), linee low cost, imponenti campagne di marketing che vendono come prodotti città e territori con un impatto fortissimo dal punto di vista sociale, economico e ambientale. Ora, tutto questo deve fare i conti con l’impatto e le conseguenze del virus. Mercificazione, massificazione, velocizzazione sono tre elementi della globalizzazione massimamente presenti nel turismo e che devono fare i conti con la pandemia.
In Italia poi i numeri sono ancora più grandi. Il nostro Paese, nel 2018, è stato uno dei più visitati al mondo, potendo contare su 94 milioni di visitatori stranieri secondo l’Agenzia nazionale del turismo (Enit), con un numero pari a 113,4 milioni di presenze totali nelle sole città d’arte che salgono a 429 milioni se si considera tutto il territorio nazionale.

Secondo stime della Banca d’Italia del 2018, il settore turistico genera direttamente più del 5% del Pil nazionale (il 13% considerando anche il Pil generato indirettamente) e rappresenta oltre il 6% degli occupati. Al 2018, i luoghi di cultura italiani censiti dal Mibact (che comprendono musei, attrazioni, parchi, archivi e biblioteche) sono pari a 6.610. Gli esercizi alberghieri attivi secondo l’Istat sono 33mila mentre quelli extra alberghieri sono 183mila. Il flusso turistico nelle località costiere è del 53%.
In sede Ue si prova a definire un protocollo comune di regole e di garanzie per la salute condivise. Ma l’esito è tutt’altro che scontato visti anche i modi assai “differenziati” con cui ognuno ha affrontato la pandemia.
Perché invece non fare del “piano di godimento dei nostri Paesi” uno dei cuori dell’intervento dell’Europa per uscire dalla crisi del Covid con un nuovo modello di economia?

In Italia nel maxi decreto del governo ha prevalso la linea di rilasciare una sorta di certificati di crediti fiscali che garantiscano bonus a cittadini meno abbienti spendibili in attività turistiche i cui esercenti riverseranno il bonus stesso allo Stato in fase fiscale. Una impostazione che ha prevalso rispetto a quella di chi voleva fare come per tutte le aziende contributi a pioggia. Ma su cui c’è polemica.
Ma soprattutto siamo di fronte a ben poca cosa, veramente una goccia nel mare.
Un piano che avesse l’ambizione di offrirsi veramente a tutti è l’unica cosa che può reggere l’impatto e la dimensione della crisi non aggrappandosi alla speranza che torni la “normalità”. E al contrario facendosi carico del cambiamento. Naturalmente questo richiede di poggiare su un intervento pubblico straordinario.
Quando dico pubblico non penso solo a una generalizzazione a tutti e a un rafforzamento del sistema di sostegno previsto. Penso ai Comuni e al Pubblico come garanti della sicurezza del godimento e della sua accessibilità. Penso ad una nuova qualità, che garantisca anche la quantità, del lavoro turistico anch’esso come garante di sicurezza e di accessibilità.
E penso all’intreccio col lavoro di risanamento ambientale ed urbano. Gli impegni per una attenzione e una responsabilità sociale, ambientale, culturale devono uscire dai dépliant dei titoli dei progetti europei per diventare non la copertina ma il vero libro. Le garanzie di sicurezza non possono essere delegate agli operatori di mercato, magari con ulteriori privatizzazioni e aumento dei costi, ma vanno assicurate dalle istituzioni e devono esse alla base dell’accordo che va trovato in Europa per le riaperture possibili ma anche della gestione necessaria in Italia e nei vari territori.

Viaggiare è un’esigenza umana fondamentale che per essere preservata ha proprio bisogno di una nuova dimensione di responsabilità, di un nuovo rapporto tra locale e globale.
Naturalmente proprio perché la fine della massificazione non può diventare élitismo ma appunto fruizione consapevole e responsabile per tutte e tutti.
In Italia una partita fondamentale la si gioca al Sud dove, proprio perché meno colpito dalla pandemia, e probabilmente non a caso, una pratica turistica diversa può essere già immediatamente più fruibile.
D’altronde anche per il turismo, come per la globalizzazione, sono in campo da tempo principi, pratiche e organizzazioni alternative. Le ispirano il rispetto delle popolazioni locali, della biodiversità e dell’ecosistema. Soprattutto la relazione con chi ospita che oggi è anche la chiave fondamentale per la sicurezza.
A partire da questi saperi si può costruire la svolta, facendone non l’eccezione ma la dimensione caratterizzante di una nuova fase che impara la drammatica lezione del virus. Risanare la bellezza e poterne godere possono e debbono essere il futuro.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 29 maggio

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SOMMARIO

Abbasso la mamma

Mother and son wearing a protective face mask against the coronavirus at the park on february 25, 2020 in Rome, Italy (Photo by Silvia LorŽ/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 29256949

L’Italia si è presentata alle porte di un’emergenza senza precedenti come quella causata dal coronavirus con oltre 6,2 milioni di mamme con almeno un figlio minorenne. Sempre meno quelle più giovani (l’età media al parto cresce inesorabilmente e nel 2019 tocca i 32,1 anni, il tasso più alto in Europa), molte di loro sono costrette a rinunciare alla carriera professionale (tra i 25 e i 54 anni solo il 57% delle madri risulta occupata rispetto all’89,3% dei padri), non possono appoggiarsi ad una rete per la prima infanzia (solo il 24,7% dei bambini frequenta un servizio socio-educativo per la prima infanzia) e spesso ammettono di aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per cercare di conciliare lavoro e vita privata (la scelta della riduzione dell’orario di lavoro ha riguardato il 18% delle donne e solo il 3% degli uomini).

Lo scrive un rapporto di Save The Children e i numeri fotografano impietosamente la condizione di uno Stato in cui la famiglia (insieme alla patria e alla religione) vengono sventolati per racimolare voti di bassa propaganda e poco altro. La fase 2 per le mamme italiane è un peggioramento consistente specie per i 3 milioni di lavoratrici con almeno un figlio piccolo (con meno di 15 anni), circa il 30% delle occupate totali (9 mln 872 mila). Secondo un’analisi elaborata da Save the Children sui questionari somministrati dall’Associazione Orlando a quasi 1000 mamme, sul fronte lavorativo, le mamme nell’ultimo periodo sono sempre più “equilibriste”: nonostante quasi la metà di quelle intervistate (44,4%) stia proseguendo la propria attività lavorativa in modalità agile, tra queste, solo il 25,3% ha a disposizione una stanza separata dai figli e compagni/e/mariti dove poter lavorare, mentre quasi la metà (42,8%) è costretta a condividere lo spazio di lavoro con i familiari. In questo periodo, per 3 mamme su 4 tra quelle intervistate (74,1%) il carico di lavoro domestico è aumentato, sia per l’accudimento di figli/e, anziani/e in casa, persone non autosufficienti, sia per le attività quotidiane di lavoro casalingo (spesa, preparazione pasti, pulizie di casa, lavatrici, stirare). Tra quelle che hanno dichiarato un aumento del carico domestico, il 43,9% dichiara un forte aumento, mentre il 30,2% lo considera aumentato di poco. All’interno dei nuclei familiari, comunque, le mamme continuano ad avere netta la sensazione che tutto “pesi sulle loro spalle”: solo per una mamma su cinque la situazione di emergenza ha rappresentato un’occasione per riequilibrare la ripartizione del lavoro di cura e domestico con le altre persone che vivono insieme a lei (19,5%).

Viva la mamma, dicono.

Buon giovedì.

Noi lombardi dimenticati dal “modello lombardo”

Foto Claudio Furlan - LaPresse 24 Febbraio 2020 Milano (Italia) News Conferenza stampa in regione Lombardia per fare il punto sulla emergenza Coronavirus Nella foto: Giulio Gallera, Attilio Fontana

Casalmaggiore è un piccolo paese di 15.500 anime, in provincia di Cremona, Lombardia, Italia. Veniva chiamata “la Perla del Po”, per la simbiotica vicinanza col grande fiume che con la sua voce ne scandisce le piene annuali che invadono le golene. Noi casalaschi, ci consideriamo fondamentalmente “apolidi”; ultimo lembo di territorio lombardo, in provincia di Cremona, da cui distano 40 km, 4 Km dalla provincia di Mantova e 3km dall’Emilia Romagna. Per fortuna, nei secoli, ci siamo contaminati con tutte queste culture, dialetti e tradizioni, imparando anche a gestire servizi a scavalco di province, come capita a chi vive sul confine. Il nostro comprensorio si chiama Oglio Po, comprende 90mila abitanti divisi in tanti piccoli comuni compresi tra le province di Mantova e Cremona.

Un modello sanitario ai tempi della Usl 50-52

La nostra vecchia Usl 50-52 era un modello gestionale perfetto per il nostro territorio, condotto da sindaci illuminati, che leggevano il territorio e i bisogni primari dei cittadini. Come logica conseguenza nel 1992 nacque il presidio Ospedaliero Oglio Po, un ospedale voluto e costruito ex novo negli anni 80 per chiudere tre piccoli ospedali di zona (Casalmaggiore, Viadana e Bozzolo) e creare un Presidio Ospedaliero per acuti a servizio di un territorio (basso cremonese e basso mantovano) assolutamente decentrato (40-45 Km dai capoluoghi), con infrastrutture stradali di collegamento insufficienti e sprovvisto di servizi di base e di emergenza. I primi anni furono di assoluta efficienza, era l’ospedale di una Asl autonoma, la 50/52 della Lombardia, con il territorio a scavalco tra le Province di Cremona e Mantova, una grande intuizione politica. Poi nel 1995 arrivò lui, Roberto Formigoni detto il “Celeste”, e con l’entrata in vigore della legge 31/1997 della Regione Lombardia, sfasciò tutto.

Formigoni e il “modello lombardo”

La legge citata abolì l’Asl 50/52 e divise nuovamente il territorio nelle due Asl di Cremona e Mantova (l’Ospedale ed il casalasco con Cremona, Viadana e Bozzolo con il territorio mantovano con Mantova) . Cominciò a prender vita il famigerato modello lombardo: soldi ai privati (oggi il 46% dell’offerta, per circa 8 miliardi annui su 16 complessivi in bilancio sulla sanità ), accentramento degli investimenti e dei servizi in ottica Milanocentrica, Brianzocentrica o dove comunque votassero tante persone. Cominciò per il nostro ospedale un devastante blocco del turnover medico-infermieristico, che comportò una grande perdita di organici e il mancato rinnovo dei primariati, via via scoperti per pensionamenti o trasferimenti. Nel 2015 la Regione Lombardia varò la legge di riordino della sanità, la 23/2015, con la quale si sono abolite le Asl lombarde e si sono istituite le Ats (Agenzie Tutela Salute) e le Asst (Aziende Socio Sanitarie Territoriali): per il nostro territorio, in particolare, è stata istituita la Ats Val Padana che vede riunito il territorio ex Asl di Cremona (Crema, Cremona e Casalmaggiore) con quello dell’ex Asl di Mantova, e le Asst di Crema, Cremona e Mantova. Per effetto di questo riordino il presidio ospedaliero Oglio Po è rimasto di pertinenza dell’Asst di Cremona, l’Ospedale di Bozzolo dell’Asst di Mantova ma sono stati aboliti i vecchi Distretti Sanitari di Casalmaggiore e di Viadana ed il territorio casalasco viadanese è stato di nuovo riunito in un unico Ambito Distrettuale chiamato “Area interaziendale territoriale socio sanitaria casalasco viadese”.

La mobilitazione per l’ospedale Oglio-Po

Tutto risolto quindi? Per niente, la nuova creatura non ebbe mai un budget, una definizione delle competenze, una politica interaziendale seria, restò una scatola vuota, ancora esistente. Uno dei riflessi più drammatici, fu quella del punto nascita dell’Ospedale Oglio Po, che vide negli anni calare la sua attività con un numero di parti inferiore al numero critico di 500 per anno stabilito dall’Accordo Stato Regioni del 2010. Furono concesse alcune deroghe, anche perchè gli ospedali più vicini (Cremona a Mantova) erano a 40km, ma la situazione negli anni, senza investimenti, turnover e per una precisa scelta politica precipitò. Ad ottobre 2018, nonostante una forte mobilitazione popolare, raccolta di 15mila firme da parte del Comitato per la difesa e il rilancio dell’ospedale Oglio-Po – mai ricevuto dall’assessore regionale alla Sanità Giulio Gallera – la sottoscrizione di un documento da parte di quasi tutti i sindaci dell’Oglio-Po, un’audizione in Regione Lombardia presso la commissione Sanità, il Punto nascite veniva chiuso con Delibera regionale 267 del 28/06/2018.

Il coronavirus e l’assenza di presidi di medicina territoriale

Poi, come qualche volta succede nei film, il colpo di scena, il fattore imprevisto, la tempesta perfetta: il coronavirus. I numeri lombardi sono drammatici: 84844 contagiati, 15519 decessi, la provincia di Cremona con 6323 contagiati e 1082 deceduti, saldamente al quarto posto in regione. Il famoso “modello lombardo” si sfalda, smantellato e stremato dalle riforme Formigoni e Maroni, che hanno di fatto cancellato i presidi di medicina territoriale a favore delle super-cliniche private, indebolito ospedali strategici e di confine come il nostro Oglio Po, privilegiato il business del privato convenzionato, rispetto ai costosi e non remunerativi posti di terapia intensiva o ai pronti soccorso, di cui è sprovvisto. Medici di base abbandonati a se stessi, inermi e disarmati a curare persone gravemente malate, senza inizialmente poter richiedere tamponi e test diagnostici specifici per il Covid-19. Nessuno può credere realisticamente ai numeri di contagiati che vengono forniti quotidianamente dai vari enti preposti, pensando solo alla sua cerchia di conoscenti. Così come nessuno può pensare, che i residenti delle Rsa, spirati senza essere stati testati con tampone, non abbiano avuto niente a che fare col virus . Tamponi e test sierologici a personale sanitario e assistenziale, leggi Rsa, in ritardo, per asintomatici a contatto con ex contagiati, prima nemmeno a parlarne, oggi, tra mille difficoltà e tempi biblici di attesa. Presidi di protezione, leggi mascherine, introvabili per i cittadini per lungo tempo, ma con l’obbligo “regionale”di portarla.

Un ospedale da rilanciare

Di fronte a tutto ciò, una sola certezza , che ribadiamo con forza da anni: il ruolo fondamentale dell’Ospedale Oglio Po. Il nostro nosocomio, pur indebolito da anni di scelte politiche regionali e aziendali, ha accolto e curato tantissime persone, salvando moltissime vite. Dovremo essere eternamente grati al personale medico, infermieristico, assistenziale , per l’abnegazione, la professionalità, la sensibilità e il coraggio con cui hanno prestato la loro opera. Senza di loro non ce l’avremmo fatta. Una nuova consapevolezza, di fronte a questa tragedia, si è fatta largo tra i Casalaschi. Il nostro ospedale va rilanciato, il modello lombardo, come attesta anche il ministero della Salute, non esiste e forse non è mai esistito, e gli investimenti vanno reindirizzati verso la sanità pubblica, l’unica che di fronte a simili calamità si accolla il peso di salvare i cittadini, nonostante i danni causati da scelte politiche miopi o peggio. I Casalaschi non abboccheranno più.

Pierluigi Pasotto è consigliere di opposizione della lista Cnc (Casalmaggiore la nostra casa)

Per approfondire, leggi  Left del 15 maggio 2020

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SOMMARIO

Forza Italia Viva con Salvini

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 14-01-2020 Roma Politica La7. Matteo Renzi ospite a L'Aria che tira Nella foto Matteo Renzi Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 14-01-2020 Rome (Italy) Politic La7. Matteo Renzi guest for "L'Aria che tira" In the pic Matteo Renzi

Mettere in fila un po’ di fatti.

Il 6 dicembre 2019 La Stampa, con un articolo firmato da Fabio Martini, racconta di un incontro segreto tra Matteo Renzi e Matteo Salvini che «si sono parlati, sorseggiando Chianti sulle colline di Firenze». Un’orda di renziani ha cominciato a urlacciare indignata. Sono state promesse addirittura querele. Querele ovviamente mai arrivate.

Il 23 gennaio 2020 Matteo Renzi twittava: «È una cosa schifosa che Salvini abbia tenuto in mare dei poveri disgraziati. Ma non sono io che devo decidere se ha commesso un reato, io devo decidere se deve andare a processo. E voterei sì». Era una sua dichiarazione durante la trasmissione Piazza pulita.

Ieri in Giunta per le immunità del Senato è stata respinta la richiesta di autorizzazione a procedere per l’ex ministro Matteo Salvini sul caso Open Arms. Decisiva l’astensione dei renziani. Renzi ha salvato Salvini. Forte, eh?

Con calma spostiamoci in Lombardia. Consigliera regionale per Italia viva è Patrizia Baffi. Patrizia Baffi si è astenuta nel voto di sfiducia in Consiglio regionale contro l’assessore Gallera. In alcune interviste ha raccontato che non fosse ancora l’ora dei processi ma bisognava aspettare la fine della pandemia. Il 6 maggio scorso ho scritto in un tweet che l’atteggiamento della Baffi rientrava semplicemente in uno scambio politico che l’avrebbe portata a capo della Commissione d’inchiesta su Regione Lombardia e coronavirus. Mi insultarono in parecchi renziani, ai tempi? Mi scrivevano che non sarebbe andata così, che avrei dovuto porgere delle scuse, qualcuno simpaticamente mi ha chiesto «chi è la tua fonte, tuo cugino?».

Ieri la Baffi è stata eletta presidente. Forte, eh? Immaginate ovviamente come potrà essere severa nell’indagare sulla gestione lombarda. La maggioranza ha eletto un ruolo che dovrebbe essere riservato all’opposizione.

A volte i fatti urlano così forte che non c’è nemmeno bisogno di aggiungere opinioni.

Buon mercoledì

 

Paternalisti civici

L’ultima brillante idea è del ministro Boccia: tracciare gli aperitivi piuttosto che i contagiati. Così 60.000 persone potranno esaudire il proprio desiderio di dare la caccia agli untori indossando la pettorina degli assistenti civici, volontari assoldati dalla Protezione Civile per “ricordare le regole della Fase 2”. Per evitare gli assembramenti evidentemente servono dei dissuasori umani. C’è da dire, a onor del vero, che l’idea del ministro Boccia non piace nemmeno al governo che infatti ha chiarito di non avere concertato nulla sulla scelta del ministro che avrebbe fatto una fuga in avanti. È vero che gli assembramenti sono pericolosi e vietati per legge ma l’idea delle ronde antivirus lascia un po’ perplessi, per una serie di motivi.

Innanzitutto i numeri: dal 18 al 24 maggio la polizia ha controllato 881.355 persone e 342.295 attività commerciali per il rispetto delle norme anti Covid, le sanzioni sono lo 0,45% per le persone e meno dello 0,1% per le attività. Non c’è qualcosa di strano? Questo significa che o stiamo parlando troppo di un fenomeno assolutamente marginale oppure significa che le forze di polizia controllano solo quelli in regola non accorgendosi dei colpevoli. Tutti e due gli scenari sono piuttosto preoccupanti.

Poi c’è la questione dei carabinieri, dei poliziotti, dell’esercito, dei finanzieri, della polizia locale, degli uomini della forestale, di quelli della marina e dell’aviazione che già sono a disposizione. Servono più uomini? Bene, allora forse sarebbe il caso di assumerne e di averne di più propriamente preparati, no? Mettere per strada questi novelli sceriffi, magari gli stessi che hanno fatto i cecchini del proprio vicino di balcone, per mandarli a interloquire con bande di giovani con l’aperitivo in mano non sembra un’idea fulminante, no?

A proposito, si legge che “il bando per reclutare gli “assistenti civici” sarà gestito dalla Protezione Civile e sarà rivolto a pensionati, inoccupati, lavoratori in cassa integrazione o persone che ricevono il reddito di cittadinanza o altre forme di sostegno al reddito”: davvero siamo sicuri che mandare in giro pensionati, la fascia più debole nei confronti del virus, sia una buona idea? No, dai, anche no.

Sarebbero utili invece dei volontari che traccino i contagiati, che si facciano raccontare i loro spostamenti durante i giorni del presunto contagio che si occupino di contattare le persone che hanno avuto contatti e che controllino che vengano sottoposte a tampone. Solo per proporre un’idea.

Però c’è un ulteriore aspetto negativo: con questa idea delle ronde dei paternalisti Boccia è riuscito perfino a fare urlare allo Stato di Polizia gli stessi che hanno celebrato Almirante pochi giorni fa. Insomma, un capolavoro politico.

Buon martedì.

Un permesso di emergenza per gli invisibili

Foto LaPresse/Nicolò Campo 6/08/2018 Torino (Italia) Cronaca Sgombero delle palazzine dell'ex-Moi Nella foto: un momento durante lo sgombero Photo LaPresse/Nicolò Campo August 6, 2018 Turin (Italy) News Removal of the people living in the buildings of the former Moi In the picture: a moment during removal

Dopo un lungo e acceso dibattito tra i leader dei partiti della maggioranza di governo finalmente nella nottata di mercoledì si è trovato un accordo per l’inserimento dell’art. 110 bis nel decreto Rilancio che disciplina l’“emersione di rapporti di lavoro”, norma che ha persino commosso la ministra Bellanova in sede di conferenza stampa perché a sua detta gli invisibili non saranno più invisibili e finalmente il caporalato sarà sconfitto dallo Stato.
Ottimistica previsione che non ci trova completamente d’accordo perché quello previsto nel decreto è un provvedimento assolutamente limitato, un primo passo sofferto verso una giusta direzione, ma inadeguato.
Inadeguata è innanzitutto la platea cui si rivolge, e non poteva essere diversamente visto che si muove lungo una logica utilitaristica funzionale alle sole immediate ed urgenti necessità del nostro tessuto produttivo, infatti le categorie ammesse per l’emersione di lavoro in nero con conseguente permesso di lavoro è categoricamente limitato al settore dell’agricoltura e dell’allevamento, perché “ci marciscono i pomodori”, per intenderci, e per gentile concessione al fine della cura delle persone, per badanti e colf. Il provvedimento prevede anche un permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di lavoro limitato però solo a chi può dimostrare di avere avuto nel 2019 un regolare contratto esattamente nei settori indicati e solo in quelli. Chi saranno questi e quanti saranno? Pochi reputo, pochi hanno avuto la fortuna di aver sottoscritto regolari contratti, lo sappiamo – eserciti di lavoratori sfruttati dall’italica propensione al lavoro sommerso, non dichiarato – e per tutti gli altri? Nulla, cosa ne sarà di loro? Continueranno ad essere invisibili, nell’illusione che ciò che non sappiamo non esiste.

La norma dunque con tutti i suoi paletti e limiti fallisce completamente almeno due obiettivi fondamentali: innanzitutto dare una doverosa risposta umanitaria di emersione di identità e possibilità di lavoro e di sostentamento a coloro che sono già presenti nel nostro territorio e che non possono materialmente essere rimpatriati a causa della pandemia globale e non secondario, garantire a queste persone le necessarie cure sanitarie per scongiurare il pericolo di possibili focolai di propagazione del virus, a tutela loro e nostra…

Paola Nugnes è senatrice della Repubblica eletta nel M5s e dal 24 giugno 2019 fa parte del Gruppo Misto-LeU

L’articolo prosegue su Left in edicola da venerdì 22 maggio

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SOMMARIO

Il Brasile nella morsa del coronavirus, chi fermerà Bolsonaro?

«Il Brasile si è trasformato nel principale focolaio di trasmissione del virus Covid-19 nel mondo. Il governo brasiliano ha perso la mano nel controllo della pandemia», a dirlo è il professor Domingos Alves, docente alla facoltà di medicina all’università di Ribeirão Preto, nello Stato di São Paulo. La conferma è arrivata anche dall’Oms: venerdì 22 maggio Michael Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie, ha dichiarato che l’America Latina è diventato il nuovo epicentro del coronavirus.

Già a inizio mese le Nazioni Unite ammonivano il Paese sudamericano, affermando che le politiche del presidente Jair Bolsonaro stavano mettendo a rischio la vita di milioni di brasiliani. L’appello è caduto nel vuoto ed ora il Brasile fa i conti con una crisi non solo sanitaria, ma anche politica ed economica. Per questo motivo (e non solo) i partiti dell’opposizione reclamano a gran voce l’inizio della procedura di impeachment nei confronti del presidente Bolsonaro. L’esercito, che in alcuni momenti della pandemia sembrava scontento della gestione dell’emergenza, ha smentito ogni ipotesi di intervento per bocca del generale e ministro della Sicurezza istituzionale Augusto Heleno.

In poche settimane la nazione carioca è diventata il secondo Paese per numero di contagi, dopo gli Stati Uniti e prima della Russia, con più di 300mila casi. Per il portale Covid-19 Brasil, costituito da un gruppo di ricercatori ed esperti brasiliani che si occupa di monitorare il virus nel Paese, il dato è fortemente sottostimato. Secondo i loro studi e calcoli i casi sarebbero più di tre milioni, ossia dieci volte tanto quelli riportati dalle statistiche ufficiali. Una discrepanza così marcata è dovuta al fatto che in Brasile si fanno troppi pochi test a causa della scarsità dei tamponi.

Attualmente, su 5.570 città brasiliane, 3.398 hanno almeno una persona infetta. Nel Nord, la zona più povera e disagiata del Paese, la situazione è ancor più drammatica: qui si registra il più alto numero di contagi e di morti e il sistema sanitario è al collasso. Ardigò Martino, docente di antropologia medica presso l’Università Federale del Mato Grosso do Sul, parla di una decisione presa a tavolino dal governo. Martino, durante un incontro organizzato lo scorso 18 maggio dalla Siam (Società italiana di antropologia medica) sull’emergenza Covid-19 in Brasile, ha posto l’accento sul fatto che il nord-est del Paese è volutamente lasciato a se stesso da Bolsonaro perché lì vivono gli afro-discendenti, in gran parte elettori del Pt, partito dell’ex presidente Lula. Vittime del coronavirus e delle politiche scellerate di Jair Bolsonaro sono anche gli indios dell’Amazzonia, che sono stati contagiati dai garimpeiros (i moderni cercatori d’oro), e gli abitanti delle favelas, all’interno delle quali muoiono il 150% degli infetti, come dice Ardigò Martino. L’elevato numero di decessi è da attribuirsi ad una mancata diagnosi tempestiva.

A peggiorare la situazione interna si sono aggiunti i contrasti che il presidente Bolsonaro ha avuto con i suoi due ministri della salute: prima con Luiz Henrique Mandetta e poi con il successore Nelson Teich. Mandetta è stato cacciato perché favorevole alle misure del lockdown e perchè molto popolare tra i brasiliani ben più del presidente stesso, fatto che non piaceva per nulla a Bolsonaro. Mentre Teich, che nel suo primo giorno da ministro della salute aveva dichiarato di essere allineato alle posizioni del presidente, si è dimesso lo scorso 15 maggio, perché non voleva autorizzare, su pressione di Bolsonaro, l’utilizzo della clorochina come farmaco anti Covid-19. Ci ha pensato il neo ministro (ad interim), il generale Eduardo Pazuello, a soddisfare le richieste del presidente Jair Bolsonaro. Sono 21 i militari che in questo momento si trovano al ministero della Salute, di cui solo due hanno esperienze pregresse nel campo medico o della sanità. Pazuello ha dato il via libera all’uso dell’idrossiclorochina nei casi più lievi di coronavirus. Tuttavia uno studio appena pubblicato dalla rivista scientifica The Lancet ha smentito che l’antimalarico possa produrre dei benefici nei pazienti affetti da Covid-19, ma anzi aumenterebbe il rischio di morte e causerebbe problemi al cuore.

Il Brasile è l’unico Paese al mondo ad aver cambiato due ministri della salute e uno della giustizia durante la pandemia. A Mandetta e Teich si è aggiunto l’ex giudice superstar Sergio Moro, famoso per l’Operazione Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, che ha lasciato l’incarico perché contrario a rimuovere, su pressante richiesta del presidente, i vertici della Polizia Federale che stavano indagando sui traffici poco chiari della sua famiglia, in particolar modo dei suoi tre figli.

La crescita esponenziale del virus in Brasile preoccupa i vicini sudamericani, su tutti l’Argentina, ma anche gli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump ha infatti deciso di chiudere le frontiere ai cittadini brasiliani a partire dal 29 maggio ufficialmente con lo scopo di proteggere il suo popolo dal diffondersi del contagio. Un duro colpo per Bolsonaro, per cui Trump è da sempre un punto di riferimento e con cui condivide l’essere contrario alle misure di lockdown e favorevole all’uso della clorochina.
Nonostante la delicata fase che sta attraversando il Paese, il presidente Jair Bolsonaro organizza grigliate con gli amici, va in moto d’acqua sul Lago Paranoá a Brasilia e trova tempo anche per fare ironia sull’aumento dei contagi, affermando di non essere in grado di fare miracoli pur chiamandosi Messias (Messia) di secondo nome. Boa sorte Brasil.