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Solo che non hanno il coraggio di dirlo così

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 23-05-2020 Roma , Italia Cronaca Coronavirus, fase 2, vita notturna Nella foto: Trastevere, strade affollate Photo Mauro Scrobogna /LaPresse May 23, 2020  Rome, Italy News Coronavirus outbreak: fase 2,night life In the picture: Trastevere district, crowded areas

Tutti a parlare di movida. Intanto accadono cose. In Veneto accade che Crisanti, il virologo che tutti indicano come salvezza del Veneto dica parole che vanno lette con attenzione: «Ci sono meno persone infette, c’è l’uso delle mascherine, la cautela di evitare assembramenti in spazi chiusi. Ma purtroppo – rimarca – queste riaperture sono state fatte senza analisi di rischio. Non siamo in grado di prevedere nulla. Bisognava cercare di capire esattamente quanti sono i casi reali, facendo emergere tutto il sommerso, tutte le persone che telefonano perché stanno male a casa. E invece siamo in mano a guanti, mascherine e bel tempo”. Inoltre, osserva Crisanti, “non condivido tutta questa esecrazione dei ragazzi che non osservano le disposizioni. Sono vittime di messaggi assolutamente incoerenti: prima che le mascherine non servono, poi che devono essere marcate Ce, poi che possono andare anche senza il marchio e alla fine che van bene anche se te le fai da solo». Ottimo, no?

Tutti contro la movida. Intanto Gallera, l’assessore disastroso della disastrosa gestione lombarda, quello che continua a lamentare un clima antilombardo fingendo di non capire che si tratti di un clima antiGallera e antiFontana riesce nella mirabile impresa di dire una castroneria dalle proporzioni epiche riferendosi all’indice di contagio: «0,51 vuol dire che per infettare me bisogna trovare 2 persone infette nello stesso momento». Viene deriso da tutti e lui si difende dicendo di avere semplificato “per facilitare la comprensione”. Solo che non ha semplificato: ha sbagliato. E dire cose sbagliate non aiuta la comprensione così come prendere decisioni sbagliate non aiuta a fermare il virus. Nella sua difesa Gallera se l’è presa con i giornalisti (sai che novità) ed è riuscito a sbagliare di nuovo. Questi sono quelli che poi alla Camera urlacciano se gli si fa notare quanto siano incapaci.

Tutti a parlare di movida e ieri la Lombardia non è nemmeno riuscita ad arrivare in tempo al conteggio delle vittime.

Tutti a parlare di movida e i nuovi untori ora sono i giovani: in Veneto per dire ai giovani cosa non fare hanno confezionato uno spot dei gesti vietati per decreto facendo compiere quei gesti dagli attori. Probabilmente hanno confezionato un decreto regionale per poter infrangere il decreto regionale. Geni.

Tutti a parlare di movida perché in fondo il sogno di alcuni di questi è che la gente stia a casa, esca solo per garantire la produzione, esca solo per spendere soldi senza sostare troppo, giusto il tempo di strisciare il bancomat, esca solo per andare a messa e poi si rintani subito in casa. Solo che non hanno il coraggio di dirlo così.

Buon lunedì.

Bentornati nei luoghi della cultura

Dunque il 18 maggio, designato dall’Icom come International museum day 2020, ha coinciso con il day after, il giorno dal quale sarebbe stato possibile riaprire musei e luoghi della cultura in Italia.
In realtà si è trattato di una riapertura parziale e a macchia di leopardo: alcuni musei hanno riaperto con percorsi ridotti, mentre molte istituzioni rimarranno chiuse almeno fino a giugno, perché non ancora in grado di garantire quelle condizioni di sicurezza – per visitatori, personale e lo stesso patrimonio – faticosamente delineate in linee guida giunte sul filo di lana, pochi giorni (ore) prima delle riaperture. Non si tratta solo di carenze nei dispositivi di sicurezza, ma, soprattutto, dell’organica e ora sempre più drammatica carenza di personale, a tutti i livelli. Fra i molti dubbi di questa ripartenza, questa è una certezza: per continuare a garantire servizi di qualità in sicurezza occorrerà più personale e adeguatamente formato a nuove modalità di accesso che dureranno per molto tempo ancora. Ma questo personale non c’è, almeno non negli organici del Mibact e degli enti locali.

Anche da questo punto di vista, insomma, la pandemia sta drammaticamente evidenziando le debolezze di un sistema in crisi da molto tempo. In sostanza il Covid-19 ha funzionato come un detonatore della fragilità complessiva su cui si regge tutto il comparto che comprende la gestione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico, caratterizzato da grande frammentazione, da lavoro precario e spessissimo sottopagato, pur se di alta o altissima qualificazione, con modelli di gestione instabili (si pensi al succedersi delle riorganizzazioni dello stesso ministero), e, infine, da scarso tasso di innovazione, dove cioè si sfrutta la rendita del patrimonio culturale in termini turistici, investendo il meno possibile sulla sua manutenzione (il famoso tagliare il ramo su cui si è seduti).

La vastità della crisi generata dal lockdown è tale che anche casi da sempre additati come virtuosi, fra gli altri, ad esempio, la Fondazione pubblico-privata Museo Egizio di Torino, dopo due mesi di chiusura hanno invocato a gran voce l’aiuto dello Stato. Allo stesso modo, posti di fronte alla perdurante situazione di un turismo falcidiato nei numeri (secondo i dati Enit, saranno 66 i miliardi di perdita nella spesa turistica rispetto al 2019) molti dei super direttori dei musei statali autonomi, fino a ieri assertori della caccia al turista coûte que coûte (v. le classifiche di fine anno), stanno riscoprendo il bello del locale e della comunità, come pure le virtù del così detto slow tourism o turismo di prossimità, e via elencando con la serie di buzzwords rimbalzate nelle interviste di queste settimane.

In questo contesto, le riaperture di alcuni musei hanno più il sapore di fughe in avanti dettate dalla necessità di esibire all’esterno una normalità ritrovata e, soprattutto nei casi di alcune mostre, di limitare le perdite dei concessionari, che di una reale programmazione consapevole della necessità di trarre la lezione che deriva da questa terribile esperienza. Perché, come è stato detto da più parti, il ritorno sic e simpliciter al “prima”, appare sempre più la classica polvere sotto il tappeto. Certo è difficile in una fase di emergenza così concitata, in cui le vite delle persone sono state gravemente colpite a molti livelli, non pensare prima di tutto a forme di ristoro da esigenze che, anche nel nostro settore, appaiono drammatiche. Se infatti è vero che nel nostro Paese, ad esempio, i musei non hanno proceduto a sanguinosi tagli del personale così come è avvenuto ad esempio negli Stati Uniti, ad opera anche di grandi istituzioni come il MoMA di New York o il MoCa di Los Angeles, è però vero che moltissimi lavoratori precari che da anni garantiscono servizi anche essenziali per musei e biblioteche (dai servizi educativi e di accoglienza, alla catalogazione) vivono da mesi situazioni di gravissima difficoltà senza alcuna garanzia di futuro al punto che solo un’ipocrisia lessicale induce a non parlare di licenziamenti come nel caso americano.

Il recentissimo decreto Rilancio, quindi, era senz’altro atteso per avere risposte a questo tipo di problemi. Risposte che ci sono, anche se occorrerà aspettare in molti casi i decreti attuativi per valutarne a pieno l’efficacia, ma assieme appaiono anche, fin da una prima lettura, non poche criticità ed “asimmetrie” che rischiano di limitarne grandemente gli effetti di rilancio vero e proprio. Nel decreto appare a prima vista chiarissima la gerarchia fra turismo e patrimonio culturale: circa 4/5 delle risorse (meno di 5 miliardi) vanno al turismo, vero obiettivo di tutte le politiche del patrimonio culturale da molti anni a questa parte, mentre il bonus vacanze si porta via la metà dei fondi stanziati per l’intero comparto. E non tutti i dispositivi di ristoro decisi per il turismo sono privi di contropartite per il patrimonio culturale, come ad esempio l’annullamento delle tassazioni sull’uso del suolo pubblico sino alla fine di ottobre e l’allargamento degli spazi concessi senza il parere delle Soprintendenze, decisione che permetterà una ampia occupazione delle nostre piazze e degli spazi pubblici in genere – già così penalizzati – da parte di imprese commerciali. Allo stesso modo l’allungamento abnorme, fino al 2033, delle concessioni balneari continuerà a rendere complicato il libero accesso alle nostre spiagge e mari.
Era d’altronde evidente che si trattava di conciliare esigenze confliggenti: da un lato i lavoratori e le imprese del comparto turistico e della ristorazione, investito da una recessione gravissima (nei dati Confturismo, oltre 30 milioni di turisti in meno nel periodo del lockdown), dall’altro l’accesso a spazi che dovrebbero essere a disposizione di tutti, indicatori primari di un uso democratico del territorio.

La scelta è stata operata a senso unico e talora, ad esempio per le concessioni balneari, con una liberalità che ci pone pure in contrasto con le normative europee, ignorate dai nostri legislatori da molti anni a questa parte. In questa difficile opera di distribuzione di risorse, per default inferiori alle necessità, vi sono, come detto, alcune misure di sostegno ai precari, attraverso l’estensione delle misure di assistenza sociale (in particolare il prolungamento dell’indennità di 600 euro mensili anche per aprile e maggio e la parziale esenzione Irap per piccole imprese e lavoratori autonomi con entrate fino a 250 milioni annui). Molte di queste imprese trovano poi ristoro anche attraverso i 210 milioni di euro destinati al Fondo emergenza imprese culturali, fra le quali rientrano quelle organizzatrici di mostre ed eventi, ma anche un gruppo piuttosto eterogeneo di altri beneficiari, fra librerie, editoria e luoghi della cultura.

Un altro centinaio di milioni è poi assegnato ai musei statali a compensazione delle mancate entrate da bigliettazione. Ma si è anche trovato spazio per il famoso Fondo per la cultura, idea lanciata a marzo da Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera e subito entusiasticamente adottata da Federculture, Fondazioni e imprese assortite. Nel decreto, il Fondo appare come un meccanismo assai poco definito attraverso cui lo Stato immette 50 milioni per il 2020 e 50 per il 2021, gestiti dalla Cassa depositi e prestiti; il Fondo è aperto ai contributi e alla partecipazione non meglio specificata di privati (in che forma? Con quali contropartite?) e finalizzato ad un assai vago obiettivo di «promozione di investimenti e altri interventi per la tutela, la fruizione, la valorizzazione e la digitalizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale». In complesso e in attesa di un testo meglio definito dai decreti attuativi, l’insieme delle misure del decreto, almeno per quanto riguarda il settore del patrimonio culturale, appare caratterizzato da grande frammentarietà: niente che possa incidere radicalmente sulle debolezze del sistema prima ricordate, e neppure nulla che contribuisca a sanare alcune delle distorsioni dell’ultima stagione di riorganizzazioni: l’attenzione è sbilanciata, come di consueto, sui musei, dimentichi di altri istituti e luoghi, a partire da biblioteche e archivi, in gravissima crisi di personale e risorse ormai da decenni.

Eppure, pur nelle difficoltà imposte non solo dalla situazione di emergenza, ma soprattutto dalle strettoie del contesto economico neoliberista che, ad esempio, rende arduo ricondizionare la ripresa dell’industria turistica e quindi dell’overtourism con le criticità che comporta (congestione, gentrificazione, pressione antropica sul patrimonio), le proposte ci sono, a partire da quelle di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2020) e Paola Somma (Emergenza Cultura, 5 maggio 2020) di usare gli spazi della cultura, le nostre piazze, i nostri musei, geneticamente polisemici e “multidisciplinari”, per le scuole di ogni livello, dirottando per conseguenza gran parte delle iniziative di valorizzazione su una comunità e un pubblico specifico. E occorre soprattutto ripartire dalla cura del paesaggio e delle città, e in particolare dei centri storici ora vuoti non solo di turisti, ma anche dei cittadini scacciati dalla monocoltura turistica. Come per il sistema sanitario, ciò che è stato indebolito nell’ultimo decennio in particolare, l’anello debole della catena, volutamente negletto, è quella rete di presidi territoriali – le Soprintendenze, i piccoli musei e teatri, le biblioteche – in grado di garantire quell’opera di manutenzione e di immediato intervento nelle emergenze oltre che di collante sociale, preziosissima.

Solo attraverso una rete capillarmente estesa e dotata di risorse certe, prima di tutto in termini di personale, sarà possibile scongiurare il pericolo che la ripartenza postpandemica non ripercorra alcuni degli errori della ricostruzione postbellica: la nostra innovazione, la nostra modernità deve consistere, appunto, nella capacità di ricongiungere le istanze sociali, inevitabilmente più gravi, dopo il crollo economico causa di un aggravamento delle disuguaglianze, a quelle ambientali e di tutela del patrimonio e del paesaggio.
In entrambi i casi, le cause della crisi sono riconducibili agli stessi meccanismi. Come aveva scritto Andrea Emiliani nel 2016: «Nulla è più lontano da una saggia comprensione e da una concreta politica dei beni culturali di quanto non sia il consumismo, il ritmo stesso di crescita del sistema capitalistico, con l’imposizione dei suoi raddoppi di produzione-consumo nel giro breve di anni, e dunque vissuto lungo una spirale che si avvita verso l’alto liberando a terra unicamente rovine e orrende montagne di rifiuti, simbolo repellente dello spreco e dei veri risultati di quel modello».

L’articolo è stato pubblicato su Left del 22 maggio 2020

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Igiaba Scego: Scrivo per decolonizzare la letteratura italiana

VENICE, ITALY - APRIL 14: Italian writer Igiaba Scego poses for a portrait session during 'Incroci di Civilta', Venice Literary Festival on April 14, 2011 in Venice, Italy. (Photo by Barbara Zanon/Getty Images)

Igiaba Scego è una scrittrice e militante culturale nata in Italia da una famiglia di origini somale. Scrive di cultura e società su diverse testate, con interventi legati ai temi dell’immigrazione e della cittadinanza, ha pubblicato diversi romanzi, tra i quali l’ultimo La linea del colore (Bompiani), Roma negata (Ediesse) – con il fotografo Rino Bianchi – percorsi postcoloniali nella capitale, e un libro sul celebre cantautore brasiliano Caetano Veloso, Camminando controvento (Add editore).

Oggi l’intellettuale, lo scrittore, è sospeso tra esibizione mediatica e aristocrazia accademica. In mezzo, c’è spazio per produrre un pensiero di critica sociale che riesca a incidere? O tutto è cancellato dal consumo, dal mercato?
Ho sempre visto lo spazio della letteratura italiana come uno spazio da decolonizzare. Sia a livello di contenuti sia a livello di corpi che agiscono nella piazza letteraria, scrittori/scrittrici ma anche altre figure come traduttori, editor, ecc. Solo mescolandoci si materializza la possibilità di un vero sapere e di una vera narrazione transculturale. Io penso alla fatica che ho fatto io insieme ai miei/mie colleghi/e di altra origine per essere considerati scrittori italiani. I nostri corpi e soprattutto i saperi, anticoloniali e antirazzisti, che portavamo erano guardati con sospetto e marginalizzati. Ora il rischio è essere fagocitati da un mercato che da noi vorrebbe solo storie di vita, se strappalacrime meglio. Ma è lì che deve intervenire il nostro essere rifiutando il diktat facile della testimonianza. Ecco perché abbiamo complicato i testi, i linguaggi, i piani della storia e della memoria. Non a caso abbiamo creato narrazioni e riflessioni che scavano nel non detto di questa Europa sempre più sanguinaria verso i corpi dei nostri fratelli e sorelle che stanno morendo lungo le frontiere. La battaglia per me passa non solo dalla riflessione personale, ma anche nel lavoro di scouting, ovvero portare dentro il mondo elitario (un mondo che per molto tempo è stato anche troppo bianco) della letteratura italiana corpi un tempo rifiutati. Certo il mercato può fagocitare le lotte, renderle innocue, ma sta a noi invece tornare ogni volta ad una riflessione intersezionale, dove classe, gender, appartenenze siano elementi che camminano insieme. Solo l’intersezionalità di quello che scriviamo potrà salvarci da essere carne da macello per il solo consumo di un mercato che fagocita parole e toglie loro ogni senso.

Quando ti ho proposto l’intervista, mi hai scritto che finiti questi tempi di emergenza del Covid, speriamo che a prevalere non siano i fascismi. Che volevi dire?
La mia frase nasce da una reale preoccupazione. L’Italia non ha fatto i conti con il suo passato coloniale e fascista. Vediamo riemergere sentimenti sopiti di odio e voglie più o meno latenti di uomini forti al potere. Lo vediamo come sono aumentati i casi di razzismo e di odio verso le donne. E sento più spesso inneggiare al duce, anche da persone insospettabili. Tutto ciò è preoccupante, soprattutto…

L’intervista prosegue su Left in edicola da venerdì 22 maggio

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A settembre ripartiamo dalla scuola ecologica

Helping grandad do some planting

La scuola è a due passi dal mare e dal suo ufficio Maria De Biase vede il porto e le barche. A Santa Marina di Policastro, nel Cilento, si trova la sede centrale dell’Istituto comprensivo costituito da altri plessi scolastici sparsi in due comuni, tra le montagne e il mare. Dalla scuola dell’infanzia alla scuola media. Maria De Biase è la dirigente scolastica che, dopo anni di insegnamento a Napoli, è arrivata in questo lembo di Campania dove ha potuto mettere in pratica una particolare idea di formazione, attenta all’ambiente e alla salute. La scuola ecologica, la scuola fuori, la ecomerenda con pane e olio d’oliva, gli orti coltivati dai bambini e la mensa con i cibi sani di questa terra, sono solo alcune delle tappe del percorso in cui da dieci anni è riuscita a coinvolgere insegnanti, studenti e genitori.

«Questo è il momento in cui dalle periferie d’Italia, dal Sud, può arrivare un segnale di ripartenza per la scuola pubblica», sottolinea. Mancano tre mesi al fatidico settembre e mentre si attende la prova dell’esame di Stato “in presenza”, è un fiorire di proposte per quello che sarà uno dei più difficili inizi di anno scolastico, con la necessità di garantire la sicurezza a circa nove milioni di persone, tra studenti, insegnanti e personale Ata. Si parla molto di scuola diffusa, di lezioni all’aperto, di spazi che permettano il distanziamento fisico. La preside De Biase ha elaborato un progetto, con l’aiuto di docenti e del responsabile della sicurezza. «Sono partita da una considerazione semplice: il nostro Paese non è costituito solo da metropoli, c’è tutta una dorsale appenninica e anche costiera fatta di paesi, con scuole che hanno grandi spazi esterni in contesti naturalistici tra l’altro molto belli. E allora usiamoli, questi spazi». Nella sua scuola, spiega, da anni è già stata attrezzata «un’aula didattica ambientale» con una tettoia costruita con materiali ecosostenibili. «Per il futuro le scuole potrebbero…

L’articolo prosegue su Left in edicola da venerdì 22 maggio

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L’onda lunga della pandemia

A child wearing a protective face mask to help curb the spread of the new coronavirus reads a book in a bookstore in Beijing, Sunday, May 17, 2020. China on Sunday reported five new cases of coronavirus, as the commercial hub of Shanghai announced the restart of classes for kindergarteners, first, second, and third-graders from June 2. (AP Photo/Andy Wong)

Il virologo americano Anthony Fauci, consulente di Donald Trump, ha sostenuto che il numero di vittime del coronavirus è probabilmente più elevato di quello ufficiale che solo negli Stati Uniti conta più di 81mila morti. I morti ufficiali non solo negli Usa ma anche in Italia costituiscono la punta dell’iceberg mentre all’orizzonte si profila il pericolo, nella prossima decade di un vero e proprio tsunami di natura diversa: un’ondata di suicidi potrebbe far seguito in tutto il mondo all’impatto con il virus nella fase emergenziale. È quanto ha affermato in uno studio recentemente pubblicato da John Westfall, direttore del Robert Graham Center for Policy Studies in Family Medicine and Primary Care. La stima delle probabili vittime in Nord America, classificate come “morti per disperazione” che includerebbero sia suicidi che decessi per overdose di droghe nel prossimo futuro, è di circa 75mila. Quest’ultima cifra è iperbolica e non sappiamo quanto la previsione, riportata dai media non solo italiani, possa essere attendibile.

Vero è che il Covid-19 si è abbattuto come un flagello negli Usa devastati dalle politiche e dalla raffica di dichiarazioni demenziali di Donald Trump in un Paese che (a detta dell’illustre psichiatra Allen Frances) ha uno dei peggiori presidi psichiatrici fra le nazioni occidentali. La richiesta di assistenza psicologica è cresciuta del 891% mentre è scattato l’allarme nello stato di New York per il boom di abuso di alcol, droghe e violenze domestiche. L’acquisto e il possesso di armi, garantito dal secondo emendamento, hanno avuto, con l’inizio dell’epidemia, un’impennata vertiginosa e pericolosa. Si teme (credo più a torto che a ragione) una disintegrazione dell’ordine pubblico, con furti saccheggi e omicidi, una rottura totale della legalità che corrisponderebbe in parte a quella condizione che Émile Durkheim già nel 1898 definì «anomia» (assenza di norme che regolino dall’esterno la condotta umana) e individuò come la possibile causa di una specifica forma di suicidio-omicidio.

Mutatis mutandis, senza cadere in un facile catastrofismo tipico della mentalità americana, in Italia le prospettive per il futuro non sembrano molto confortanti. Secondo lo psichiatra e epidemiologo Fabrizio Starace le conseguenze dell’impatto con il coronavirus sulla salute mentale interesseranno il 50% della popolazione non abituata all’isolamento e alle misure restrittive, all’esposizione continua a informazioni che colpiscono la sfera emotiva. Gli effetti psichici della pandemia all’inizio hanno rischiato di…

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Ora tutto il mondo è Taranto

TARANTO, ITALY - NOVEMBER 29: General view of the Arcelormittal plant and the Tamburi district on November 29, 2019 in Taranto, Italy. The former Ilva of Taranto, the largest steel plant in Europe, was acquired by the Arcelor Mittal group which committed itself to the construction of the coverage of the mining basin, an immense work destined to face the dispersion of highly harmful micro-particles for the health of the citizens of the nearby neighborhood of Tamburi and the entire city and to try to reduce the environmental impact consequently from the production phases. (Photo by Ivan Romano/Getty Images)

Negli anni Settanta dei miei vent’anni, d’estate andavo al mare da parenti in Puglia, da solo. Quando partivo mi batteva il cuore. Dopo ore e ore di viaggio, iniziava quella distesa gialla, il pensiero dei giorni a venire s’infilava nel caldo stanco di quella pianura sterminata, come acqua nella terra spaccata dal sole. E in treno, all’ultima curva prima della stazione d’arrivo, mettevo la testa fuori dal finestrino. Quando la corsa cedeva ai freni, gli ulivi smettevano d’inseguirsi, l’odore del ferro bruciato saliva dalle rotaie, s’infilava nelle narici pieno di promesse, col profumo di spighe e di giochi di ragazzi e, finalmente, il treno si fermava. Per strada, nessuno. Controra. Lì, d’estate, il sole picchia duro e asciuga tutto. Un cane attraversava indolente la strada, annusava qualcosa e s’allontanava. Se passava qualcuno non lo conoscevo, né m’interessava. I passi, sempre più svelti. La via principale, la piazza alberata con la fontana al centro, la chiesa. Gli ultimi metri, di corsa. Ero arrivato. In quella stagione ruvida nel suo appiccicarsi alla pelle e ai pensieri, i raggi del sole infilzavano persone e animali, penetrandoli di canicola. Solo quando tutto quel giallo si placava, cedendo all’azzurro della sera si potevano aprire bene gli occhi, e scrutare uomini, macchine, bestie. Noi, io e i miei cugini, salivamo sul tetto della casa, e gareggiavamo a lanciare i sassi contro l’orizzonte più lontano.

Quando lo sviluppo industriale in quella terra che per me era sinonimo di gioia ha cominciato a produrre morti, l’incantamento è finito. Scivolato via, come sabbia dalle dita in riva a quel mare la cui risacca di Lido Venere, il più bello e frequentato di Taranto, restituiva ormai scorie mortali. D’improvviso, la terra tarantina è diventata sinonimo di dolore, per quegli uomini e donne, ma pure bambini: tutti morti di “progresso”. Per meglio dire, d’incontrollato sviluppo industriale. Uno sviluppo chiamato Ilva, ma nato come Italsider in quel 1960 italiano miracolato da un boom economico che aveva creduto di declinare il futuro con l’acciaio. I contadini, i braccianti, gli edili diventati tutti metallurgici, lavorando quel metallo arrivato a primeggiare in Europa, a luccicare come specchio per un futuro radioso non solo per tutta la Puglia ma per il Mezzogiorno intero. Sappiamo come è andata…

Pino Casamassima è giornalista e scrittore. Autore di numerosi libri, ha diretto diverse testate.  Fra le sue numerose collaborazioni c’è anche Rai Storia. 

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«Questa volta non possono dirmi di no». L’ultima volta che parlai con Giovanni Falcone

Ho incontrato per l’ultima volta Giovanni Falcone il 21 febbraio del ’92. Nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo si presentava la ricerca del Centro Impastato sui processi per omicidio, pubblicata nel volume Gabbie vuote, con un mio saggio sul maxiprocesso. Il titolo del libro fotografava una realtà: nel 1986 gli imputati detenuti erano 335, nel febbraio del ’91 erano 20. Ma a fine gennaio del ’92 la Cassazione aveva confermato l’impianto del maxiprocesso: Cosa nostra come organizzazione unitaria e la cupola che decide strategie e delitti. Una conferma della linea e del metodo elaborati da Falcone e dai magistrati del pool antimafia, avviato da Rocco Chinnici e formalizzato da Antonino Caponnetto.

L’intervento di Falcone rispecchiava la sua soddisfazione per la sentenza della Cassazione: «È una sentenza che ha fissato dei punti cardine, che sicuramente si riverbereranno su tante altre vicende processuali… È stata confermata, nella maniera più autorevole, la bontà di un’ipotesi investigativa, che ha trovato riscontri molto importanti». Nel mio saggio parlavo di «supplenza della magistratura» e Falcone chiariva: supplenza c’è stata «nel senso che ad un impegno straordinario della magistratura in un determinato periodo, non vi è stato un pari impegno da parte di altri organi statuali. Questa è una tesi che meriterebbe approfondimento e che sicuramente ha un fondamento di verità. Io ricordo ancora quella volta in cui un ministro dell’Interno, proprio qui a Palermo, ebbe a dirci che la mafia non era il problema prioritario dell’ordine pubblico in Italia». Nella mia replica dicevo che le sinergie che avevano generato il maxiprocesso si erano dissolte con lo sgretolamento del pool e che si era tornati a una magistratura mandata in avanscoperta, con le altre istituzioni più preoccupate che interessate al suo lavoro. E, ripensandoci, quel “voltare pagina”, individuando e colpendo la «convergenza di interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica», di cui parlava l’ordinanza alla base del maxiprocesso, appariva come un proposito incompatibile con il sistema di potere.

Alla fine dell’incontro ho chiesto a Falcone: «Ma è proprio necessaria la Superprocura ed è sicuro che il Superprocuratore sarai tu?». Falcone era certo: «Questa volta non possono dirmi di no». Questo è l’ultimo ricordo che ho di lui: amareggiato ma fiducioso. Ma le amarezze non erano finite e riguardavano proprio la Superprocura. Ricordo un articolo di Alessandro Pizzorusso, dal titolo: “Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché”, su l’Unità del 12 marzo. Il perché era esplicito: troppo legato a Martelli. Prima, per bocciare la sua nomina a Consigliere istruttore, lo si era accusato di protagonismo, ora si tirava fuori una presunta dipendenza dalla politica. Le ragioni delle avversioni nei confronti di Falcone non erano solo dettate da invidie, gelosie professionali, che pure c’erano, ma riflettevano qualcosa di più grave: il suo lavoro, quello che aveva già fatto e quello che si riprometteva di fare, turbava equilibri, era un atto continuo di destabilizzazione.

Sono passati ventotto anni dalla strage di Capaci e in questi anni Falcone, con Borsellino, è diventato il santo-patrono dell’Italia che vuole giustizia. Alle celebrazioni degli ultimi anni hanno presenziato ministri di vari governi, difficilmente classificabili tra i campioni della legalità (ricordo uno striscione dei Cobas, con la scritta: “La mafia ringrazia lo Stato per la distruzione della scuola pubblica”, rimosso perché poteva turbare i begli occhi della ministra Gelmini), hanno partecipato migliaia di ragazzi inneggianti a Giovanni e a Paolo, ma cosa sanno in realtà di loro, oltre l’immagine degli eroi uccisi dai “cattivi” (in un libretto, Per questo mi chiamo Giovanni, si legge che Giovanni Falcone non ha pianto neppure da neonato, perché “gli uomini non piangono”, piangono le femminucce!)? Chi ricorda la via crucis che hanno dovuto percorrere fino all’ultima stazione, a Capaci e a via d’Amelio?

Quest’anno non c’è la nave della legalità, ci sono i lenzuoli ai balconi, come nel ’92, e si spera che ci sia spazio per una riflessione collettiva. A che punto siamo nella lotta alle mafie? Si avrà la verità sulle stragi o si continuerà con il copione di depistatori sempre evocati ma mai individuati e puniti? La relazione sul depistaggio delle indagini per l’assassinio di Peppino Impastato, redatta da un comitato della Commissione parlamentare antimafia presieduto da Giovanni Russo Spena, nell’ormai lontano 2000, continuerà a essere un caso unico nella storia dell’Italia repubblicana?

L’antimafia per tanti è una maschera che simula mutamento per coprire continuità, come dimostra l’ennesimo episodio in cui un presunto paladino della legalità, con tanto di medaglia al valore, è stato incriminato perché riscuoteva il 5 per cento sugli appalti. Cosa nostra si contenta, o si contentava, del 3 per cento. Nel frattempo le mafie hanno cominciato l’arrembaggio all’industria della pandemia. Cercheranno di lucrare sui fondi per appalti e forniture, fungeranno da agenzia di credito usuraio per le aziende in crisi e le annetteranno al loro bottino, allestiranno, ma hanno già cominciato a farlo, un loro welfare per il popolo degli emarginati, ulteriormente impoveriti. Si parla di 10 milioni di persone.

L’Italia è un Paese senza memoria o con una memoria programmata, che produce icone e cancella o sbiadisce la realtà. Peppino Impastato e la madre Felicia sono ormai le controfigure delle spettacolarizzazioni cinematografiche e televisive. Falcone e Borsellino e tutti coloro che la lotta alla mafia l’hanno fatta, pagando di persona, dai protagonisti delle lotte contadine ai nostri giorni, rischiano di diventare delle fotine di un memoriale rassicurante. Ma se si vuole andare oltre le liturgie ufficiali, bisogna recuperare per intera una storia che è fatta più di lacerazioni e conflitti che di condivisioni e trionfi.

Umberto Santino è fondatore, assieme ad Anna Puglisi, e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo

C’è ma non la vedono (la mafia)

Il 12 maggio una maxi operazione ha portato agli arresti 91 persone sparse tra Sicilia e settentrione d’Italia; con un sequestro patrimoniale di circa 15 milioni di euro ma soprattutto una mafia che dimostra di avere tutti gli strumenti per sfruttare la pandemia del Covid-19 e di saperli usare perfettamente per sfruttare la crisi dovuta alla quarantena e alle nuove disposizioni. Angelo, Giovanni e Gaetano Fontana sono tre fratelli che fanno parte dell’omonimo clan dell’Acquasanta, famiglia storia di Cosa Nostra a Palermo, la stessa che Tommaso Buscetta aveva descritto come una delle più pericolose. Secondo gli inquirenti i tre fratelli «sono, da tempo, insediati nella realtà del capoluogo lombardo dove praticano forme di riciclaggio e reimpiego di proventi illeciti, conseguiti con le estorsioni, il traffico di stupefacenti e il controllo del gioco d’azzardo».

Ma il punto interessante è un altro. «È emerso – scrive il Gip Piergiorgio Morosini nell’ordinanza di custodia cautelare – come i gestori di un supermercato si siano prestati a sovvenzionare la consorteria attraverso la vendita a credito di prodotti di consumo a persone segnalate dal sodalizio, per poi essere pagati con fondi provenienti dalla società cooperativa Spa.Ve.Sa.Na., società operante presso i Cantieri navali sotto il pieno controllo della famiglia Fontana. Disponendo di ingente liquidità e di complici commercianti, i componenti della famiglia mafiosa e i loro fiancheggiatori sarebbero in grado di soccorrere tanti lavoratori “in nero”, privi di fonti di reddito e difficilmente raggiungibili da ogni forma di sostegno alternativo da parte dello Stato (per esempio i buoni alimentari)». Se fosse tutto confermato in sede processuale, eccola qui la mafia che sfrutta il coronavirus per ingoiare bocconi di economia legale proprio mentre barcollano sotto il peso delle difficoltà economiche.

L’assistenza interessata delle cosche si sta già muovendo sotto traccia per andarsi a prendere i fragili che non riescono a trovare sostegno dallo Stato. Il governo italiano sa bene che il rischio che la criminalità organizzata si proponga come partner affidabile per superare la crisi. Il 27 marzo scorso il dipartimento di Pubblica sicurezza, guidato da Franco Gabrielli, ha diramato ai vertici sul territorio una direttiva…

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SOMMARIO

Li abbiamo chiamati invisibili ma li vedevamo benissimo

Foto Marco Alpozzi/LaPresse 11 Maggio 2020 Torino, Italia Cronaca Un centinaio di migranti e senza tetto, sono stati ospitati fino al 3 maggio presso la struttura Emergenza Freddo a Piazza d'Armi. Dal giorno della chiusura, alcuni di loro dormono davanti al comune, accampati sotto i portici in attesa di risposte da parte dell'amministrazione comunale a cui, tramite l'avvocato Gianluca Viltale, hanno chiesto un incontro con la Sindaca, Chiara Appendino e con la vice Sonia Schellino. in Piemonte - Nella foto: Le tende sotto i portici Photo Marco Alpozzi/LaPresse May 11, 2020 Turin, Italy News A hundred migrants and homeless people were hosted until 3 May at the Emergenza Freddo facility in Piazza d'Armi. Since the day of closure, some of them sleep in front of city hall, camped under the arcades. The lawyer the lawyer Gianluca Viltale of the Legal Team asked for a meeting with the Mayor, Chiara Appendino and with the deputy Sonia Schellino. In the pic: Tends under the arcades

Questa crisi sanitaria ci renderà migliori dicevano.
Il virus elimina le differenze, sociali ed economiche, colpisce tutti. 
Purtroppo spesso la drammaticità delle situazioni aumenta il ricorso alla retorica, specie nel mondo politico e dell’informazione, e la retorica non sempre è amica della verità.
Di queste belle dichiarazioni di intenti infatti, a due mesi giusti dall’ingresso nel lockdown totale, è rimasto ben poco. Abbiamo vissuto tante situazioni strane, tante difficoltà, siamo stati abili a superarle e a fare di necessità virtù, soprattutto al Sud, ma di quelle dichiarazioni di intenti è rimasto ben poco.

Il virus spesso non ci ha reso persone migliori, anzi, se possibile, ha reso più evidenti i limiti delle persone.
Il virus non ha livellato le differenze, anzi se possibile, laddove quelle differenze c’erano le ha amplificate e trasformate in strumento di morte e sofferenza. Certo in questo periodo siamo stati in grado di dare belle prove di resilienza e responsabilità civile, ma se siamo chiamati a un discorso “politico”, a fornire dunque una visione complessiva della realtà, non possiamo limitarci al particolare, che magari, potrà anche essere consolatorio e gratificante. 
Così come esaltare il senso civico di tanti cittadini meridionali, bravi a salvarsi dal virus grazie alla loro condotta ligia, non deve farci dimenticare il vero motivo dell’allarmismo, il motivo per cui è stato necessario dover attuare restrizioni sproporzionate all’effettiva diffusione del Covid-19 e cioè l’intrinseca debolezza di un sistema sanitario per nulla attrezzato rispetto a quelli settentrionali, così non possiamo accontentarci delle belle prove di solidarietà della società civile per ritenere la nostra un società davvero “civile”, perdonate il gioco di parole. La solidarietà ci commuove, ma non risolverà i problemi di una società imperfetta.

In un momento di grandissima difficoltà, laddove l’aiuto dello Stato avrebbe dovuto essere decisivo per salvare vite umane, sprofondate d’improvviso in un abisso di povertà, lo Stato ha continuato a “fare differenze”. Cassa Integrazione, buoni spesa, finanziamenti… non abbiamo salvato tutti coloro che erano in difficoltà economica, ma abbiamo scelto di salvare quelli che erano conformi alla nostra burocrazia. Gli altri: esclusi!
Li abbiamo chiamati invisibili, anche se li vedevamo benissimo e sapevamo dove abitavano, cosa facevano prima della pandemia, come l’Italia visibile li sfruttava. Migranti, extracomunitari, persone di colore…perché c’è sempre bisogno dell’aggettivo. Non ci è bastato definirli persone e basta, nemmeno mentre eravamo sotto la tagliola del Covid -19. 
E le frizioni a cui abbiamo assistito sulla sanatoria proposta dalla ministra Bellanova per i braccianti extra-comunitari, sono la metafora perfetta, la rappresentazione plastica più aderente ad un pensiero astratto, ma molto molto radicato.

Insomma se la pandemia doveva essere il momento della verità per avviare finalmente riflessioni profonde e ristrutturare il nostro sistema-Paese dalle fondamenta, visto il fallimento del modello privatistico della vita (dalla sanità alla prevenzione sociale, cioè la capacità dello stato di monitorare e intervenire velocemente sul tessuto sociale) le speranze ad oggi sembrano tutte disattese, in barba per l’ennesima volta al dettato costituzionale. 
Addirittura molti esponenti, sia dai banchi del governo che dell’opposizione, mortificano ogni ragionamento strizzando l’occhio al peggior caporalato. Insomma non è cambiato niente? Certamente constatiamo in questi episodi l’assenza della politica e la sua sostituzione con il marketing elettorale. Signori deputati, signori ministri, signori segretari, mi spiace doverlo ribadire, ma sono due cose diverse e finchè non la smetteremo di usare sempre e solo il secondo, non riusciremo mai a fare progressi veri.

Il virus non ci ha reso persone migliori e non è stato in grado, nemmeno lui, che ha fermato il capitalismo di tutto il mondo per la prima volta nella storia, di eliminare le differenze in Italia.

Sud, se non ora quando?

Seascape of a small lighthouse with their reflections on the sea at sunset. A man is fishing under the starry sky. Photo taken at sunset in Sabaudia beach, Italy

La pandemia da Covid19, dalla quale faticosamente stiamo uscendo, ha messo in luce alcune evidenze, impensabili solo fino a tre mesi fa. Le Regioni del Sud hanno saputo, coi propri scienziati, medici, politici, cittadini, organizzarsi e disciplinarsi contenendo l’ondata pandemica pur con mezzi ridotti all’osso dai continui tagli di risorse. Un Sud che ha rialzato la testa e che ha preso coscienza dei propri diritti violati e delle tante, troppe discriminazioni da sempre subite e ben descritte da Gramsci; dal 1930 immutate. Un Sud afflitto da enormi problemi, in gran parte causati dallo stato coloniale a cui da sempre è sempre stato ridotto dalle politiche governative, ma che ha dimostrato di avere ancora energie per ripartire con efficienza per tentare di uscire definitivamente da quella condizione di subalternità impostagli da politiche miopi e vessatorie.

Politiche che hanno portato nel 2001 alla catastrofica modifica del Titolo V della Costituzione aprendo la strada alla richieste di autonomia differenziata e alle conseguenti privatizzazioni, che proprio in questi giorni in campo sanitario hanno messo in evidenza a quale livello di caos ed inefficienza è stato ridotto il Paese. Un Servizio sanitario nazionale che ha retto, malgrado tutti gli attacchi a cui è stato sottoposto negli ultimi anni, solo grazie al laborioso sacrificio dei propri operatori, innalzandosi ad ultimo baluardo posto alla salvezza di un Paese oramai al collasso. E invece di fermare questa pericolosa deriva egoistica, questa Babele di norme regionali che rende intollerabile la vita dei cittadini, nell’ultimo Dpcm 16 maggio il governo di soppiatto avvia nei fatti e proprio in campo sanitario il regionalismo differenziato.

È chiaro che passata l’emergenza nulla sarà più come prima, vista anche la crisi economica in corso, ed è anche chiaro a tutti che il Mezzogiorno potrebbe rappresentare, grazie alla bassa penetrazione dell’epidemia, una grande possibilità di ripartenza per tutta l’Italia.

Con il Sud si può e si dovrebbe ripartire. Con le sue energie, la sua “fame” di…

L’editoriale di Natale Cuccurese prosegue su Left in edicola da venerdì 22 maggio

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