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Quindi la colpa è dei morti?

Foto Claudio Furlan - LaPresse 27 Aprile 2020 Milano (Italia) Politica Arrivo del presidente del consiglio Giuseppe Conte in Prefettura per un vertice con le istituzioni milanesi Nella foto: Attilio Fontana Photo Claudio Furlan/Lapresse April 27, 2020 Milan (Italy)Politics Arrival of the Prime Minister Giuseppe Conte in the Prefecture for a summit with the Milanese institutions In the photo: Attilio Fontana

Ieri alla Camera l’onorevole del Movimento 5 stelle Riccardo Ricciardi ha parlato di Lombardia. L’ha fratto in fretta e furia, con un discutibile spessore oratorio ma ha messo in fila la questione dei pazienti Covid all’interno delle Rsa (c’è una delibera di Gallera e ci sono degli indagati, l’inchiesta è in corso), ha parlato del progetto di lungo corso della destra lombarda di distruggere la medicina di base a favore dell’ospedalizzazione, ha citato esattamente i numeri di posti letto che si sono persi in Lombardia nel corso degli ultimi anni (mica solo in Lombardia) e ha citato l’immensa mole di denaro pubblico che viene versato nelle casse dei privati.

L’ha detto male? Sì, del resto il dibattito parlamentare è roba scarso da un bel po’ d’anni, niente di nuovo all’orizzonte? Ha detto cose false? No: del disastro lombardo ne abbiamo scritto lungamente sul numero di Left che abbiamo dedicato alla vicenda. Ovviamente l’abbiamo fatto con l’ampiezza che serve per illustrare una politica che incrocia solo in questi ultimi mesi la questione Covid ma che da anni in molti legittimamente criticano.

Ma delle responsabilità politiche in Lombardia si può parlare? Si può scrivere? Ma davvero in nome del rispetto dei morti si esige il silenzio? Ma davvero vige ancora questa forma di falsa cortesia per cui basta un Salvini qualsiasi che alzi la voce per farsi prendere dal senso di colpa? Se la strumentalizzazione dei morti è una pratica malsana (e lo è) mi piacerebbe capire perché si possano sventolare le vittime per chiedere silenzio (con il trucchetto di chiamarlo rispetto) e cosa c’entri l’analisi delle cause con l’indignazione generale.

Vogliamo condannare la semplificazione di Ricciardi? Prego, fate pure. Ma i morti? Ma tutte le persone che non sono state curate in tempo? Tutte le persone che ancora oggi non hanno avuto la possibilità di fare un tampone nonostante abbiano convissuto con famigliari che sono deceduti? Che ce ne facciamo di quel dolore?

Perché così, altrimenti, alla fine sembra che la colpa sia dei morti. No?

Ah, a proposito: le critiche al sistema lombardo sono arrivate anche dal Veneto di Zaia, oltre che da molti medici sul campo. Davvero, ne vogliamo parlare?

Buon venerdì.

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Il ministro Provenzano: Non un soldo verrà tolto al Sud

La pandemia da Covid-19 ha aumentato ulteriormente le disuguaglianze in Italia. E il Sud continua a pagare un prezzo particolarmente alto su questo piano, come rilevano numerose ricerche, comprese quelle dello Svimez, di cui il ministro per il Sud e la coesione territoriale Giuseppe Provenzano è stato vice direttore dal 2016 fino a quando è entrato a far parte del governo Conte II.

Ministro Provenzano c’è chi dice che gli interventi previsti dal governo non siano sufficienti. Si potrebbe fare di più?
La crisi sanitaria, economica e sociale che stiamo vivendo è una grande tragedia collettiva. Si dice che le tragedie uniscano, e in parte è vero. Ma allo stesso tempo fanno emergere e mettono in risalto le fragilità e rischiano di allargare le disuguaglianze, che nel nostro Paese hanno sempre una forte connotazione territoriale. Se la crisi sanitaria ha colpito soprattutto le Regioni più sviluppate, la ricaduta economica e sociale al Sud si somma a fragilità strutturali e alle ferite non ancora sanate dalla crisi precedente. Come governo, abbiamo mobilitato risorse senza precedenti nella storia d’Italia. In due mesi, 80 miliardi in deficit, quello che solitamente si fa in 4 o 5 manovre di bilancio. È stato necessario, per “non lasciare indietro nessuno”. Si può sempre fare di più. Io, per dire, avevo chiesto che il Reddito di emergenza valesse per tre mesi e non solo per due. Nel complesso, rivendico di esserci mossi per salvare il tessuto imprenditoriale ma anche quello sociale. E, me lo lasci dire, per la prima volta in una crisi di queste dimensioni, a pagare il prezzo non è stato il Sud. Nel decreto Rilancio l’impegno del ministro della Salute Roberto Speranza per aumentare i posti letto in terapia intensiva riguarda per quasi il 40% il Sud.

Lei, tuttavia, ha parlato di un necessario lavoro di ricucitura territoriale…
Sì, l’Italia ha bisogno di un lavoro di ricucitura territoriale, per questo nel decreto c’è un forte sostegno alle aree interne, non ridotte a un “piccolo mondo antico”, ma attraverso servizi moderni, innovazione produttiva e sociale, attenzione trasversale per la sostenibilità. Ma ha bisogno anche di ricucitura sociale, che le istituzioni non possono fare da sole. Il Terzo settore nel Mezzogiorno è un valore in sé, e per questo lo sosteniamo investendo 120 milioni. Le scelte che abbiamo preso per il Mezzogiorno indicano, credo, un percorso per tutto il Paese.

I fondi europei di coesione destinati al Sud potrebbero essere stornati?
No, l’ho detto in Parlamento e lo ripeto. Mettere in contrapposizione sviluppo e riequilibrio territoriale è un errore del passato, da non ripetere. Ricordo che tra il 2009 e il 2011, con l’allora ministro Tremonti, circa 26 miliardi di spesa in conto capitale vennero dirottati dal Sud per coprire spese nazionali. A pagare le conseguenze del mancato investimento nel Mezzogiorno è tutto il Paese. L’Italia, per rialzarsi, deve sanare le sue fratture sociali e territoriali. Ecco perché la riprogrammazione delle risorse europee e nazionali della coesione va fatta, ma nel rispetto dei vincoli territoriali. Un momento dopo che abbiamo sancito che le risorse restano al Sud, infatti, vanno spese. Recuperando i ritardi del passato, che erano uno scandalo prima e ora, con l’emergenza economica e sociale, diventerebbero un crimine. Detto questo, dobbiamo evitare un altro spreco: che queste risorse, pensate per investimenti strategici, per i quali abbiamo previsto con legge un meccanismo di salvaguardia, vadano a finanziare spese a pioggia, prive di coordinamento con le misure nazionali. Per questo ho proposto, d’accordo con la Commissione, delle linee guida nazionali per la riprogrammazione: questa riprogrammazione dev’essere l’occasione per rafforzare in maniera strutturale gli interventi sanitari, per colmare il divario digitale a partire dalla scuola, per sostenere i settori più colpiti anche con aiuti al circolante, per promuovere innovazione sociale con i Comuni e con le reti della cittadinanza attiva.

Ripartire dal Sud dove la pandemia ha avuto minore diffusione. Poteva essere un’occasione per evitare rischi di nuova esplosione del contagio nelle fabbriche del Nord e intanto per creare lavoro nel Meridione?
Per la verità, la scelta difficile del lockdown ha impedito che al Sud dilagasse il contagio e ci ha dato tempo prezioso per attrezzare il sistema sanitario meridionale a fronteggiarne un’eventuale esplosione. Sono tuttavia consapevole delle sue conseguenze drammatiche. La pandemia si abbatte su un mercato del lavoro più debole, su un tessuto economico più fragile, in cui hanno una forte incidenza settori molto colpiti, tra cui la filiera del turismo. Secondo le stime Svimez, il Sud a fine anno potrebbe trovarsi sotto di 15 punti di Pil rispetto al 2008, un dato senza precedenti nella storia contemporanea. È una prospettiva insostenibile, da scongiurare con coraggio, rilanciando gli investimenti, perché solo così si crea lavoro.

Poco prima del lockdown lo scorso febbraio lei aveva presentato il Piano Sud 2030, ora che ne sarà?
Per certi versi, il Piano Sud 2030 diventa ancora più attuale. Non solo per le missioni di investimento individuate: scuola, salute, connessione digitale, sostenibilità. Ma per un punto di fondo. L’Italia deve riaccendere i motori, si dice. Ecco, bisogna accenderli tutti, compresi quelli che prima giravano piano o erano rimasti a lungo spenti. Un Paese di 60 milioni di abitanti non può farcela puntando solo su poche aree urbane e su alcune imprese “gazzelle” in grado di competere nel mondo.

Come sottrarre il Sud al ricatto delle mafie che approfittano degli effetti della pandemia per riguadagnare terreno?
Sappiamo che nelle crisi le mafie approfittano dei vuoti dello Stato, dei ritardi della liquidità e delle risposte sociali, per incunearsi con la loro risposta criminale. Le istituzioni non si sono fatte trovare impreparate, credo: hanno avvertito il rischio – che io per primo ho sollevato – e mantenuto alta l’attenzione. Lo stesso giorno in cui intelligence e forze dell’ordine lanciavano l’allarme, il varo di un piano di aiuti alimentari di 400 milioni ha mostrato il volto di uno Stato che non vuole lasciare spazi alle mafie. La sicurezza si difende rafforzando gli argini sociali, dando risposte ai bisogni. Le mafie, dobbiamo ricordarcelo, coinvolgono tutto il territorio nazionale, ma al Sud c’è un motivo di preoccupazione ulteriore: il rischio di fallimento delle imprese meridionali è di quattro volte superiore che per quelle del Centro-Nord. Ed è qui che può indirizzarsi l’offerta di soccorso mafiosa. Dobbiamo arrivare prima noi. Dobbiamo essere più veloci. Questo significa migliorare sul fronte degli aiuti, ma anche in prospettiva, nella vera fase di rilancio degli investimenti, rifiutare la falsa alternativa tra controllo di legalità e semplificazione. Un commissariamento generalizzato, a parte il fatto che è impraticabile, non risolve il problema di un’amministrazione sempre meno capace di realizzare investimenti. Io ho proposto un percorso di semplificazione fondato su centrali di committenza unificate, standardizzazione e digitalizzazione delle procedure e dei bandi, che può metterci al riparo dalle infiltrazioni mafiose e al tempo stesso accelerare gli investimenti.

L’accordo che è stato trovato per far emergere i lavoratori “invisibili” è un «compromesso onorevole», lei ha detto. L’ala di destra del M5s ha creato molti ostacoli. Perché il Movimento, che ha fatto della legalità una sua parola chiave, ha frenato su un provvedimento per liberare i lavoratori dall’oppressione del caporalato?
C’è stata una discussione complessa all’interno del governo, riflesso dello scontro che su questi temi c’è nel nostro Paese. Mi dispiace che non ci sia stato lo spazio politico di fare di più, ma abbiamo ottenuto il massimo nelle condizioni date. Non è il caso di esultare, perché si tratta di un atto minimo di civiltà. Verso persone, non braccia. Sì, confermo, lo ritengo un compromesso onorevole e vedo che sta passando un messaggio errato, e cioè che si prevedono solo sei mesi di permesso temporaneo. Non è così. Con un contratto di lavoro si ottiene un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, e se scade il contratto c’è un anno di tempo per trovarsi un lavoro. I sei mesi sono solo una possibilità in più per trovare un impiego nella legalità, per chi il contratto ancora non ce l’ha. Quanto al Movimento 5 stelle ho espresso rispetto per il suo travaglio interno, ma anche questa vicenda mostra, una volta di più, che deve fare chiarezza sulla sua natura politica. Perché non siamo in un terreno politico “post-ideologico”, qualunque cosa ciò significhi. Tutt’altro: le scelte difficili che prendiamo e prenderemo in questa fase non indeboliscono bensì rafforzano l’alternativa tra destra e sinistra.

Per risolvere alla radice questa enorme questione di ingiustizia sociale che riguarda lo sfruttamento di lavoratori immigrati bisognerebbe abolire la Bossi-Fini. Perché i governi di centrosinistra non l’hanno ancora fatto?
Avrebbero dovuto farlo i governi di centrosinistra negli anni scorsi, perché i rapporti di forza parlamentari erano ben diversi. Ora, la revisione non solo dei decreti Salvini, ma anche della disciplina generale sull’immigrazione era al centro della discussione sul governo, prima della pandemia. Dobbiamo riprenderla, fuori dalle bandierine ideologiche, facendo i conti con una verità: molte di quelle norme non sono solo ingiuste, sono criminogene. Il nostro compito è spingere per ottenere il massimo possibile nella situazione attuale.

Nel suo libro La sinistra e la scintilla (Donzelli) si legge «Occorre la forza e il coraggio di dedicarsi a un compito difficile, tornare a lottare per una società più giusta, che persegua la libertà nell’uguaglianza. Ci sono momenti nella storia come nella vita, in cui salvare se stessi e gli altri diventa una necessità vitale. E forse è arrivato uno di questi momenti». Lei lo scriveva l’anno scorso. La pandemia ora ci ha resi più consapevoli dell’interconnessione che ci lega, della necessità di una società più giusta e solidale?
Credo che questa tragedia non sia stata ‘a livella di Totò. Non ha colpito tutti allo stesso modo, non è stata dolorosa allo stesso modo per tutti. Come un pettine che, dopo molto tempo, va a lisciare una chioma arruffata, il Covid-19 ha mostrato tutti i nodi di questo Paese: l’eccessiva frammentazione del sistema sanitario nazionale, gli enormi squilibri tra territori, le diseguaglianze sociali sempre più profonde. Pensi a quanto è diversa l’esperienza della quarantena per un bambino, uno studente, che vive in centro a Roma o Milano e può connettersi a Internet con la fibra ottica da quella di un suo coetaneo che – magari – abita in quei paesi dell’Appennino dove non è ancora arrivato nemmeno il 4G. Oppure il rientro al lavoro di un manager che può sfruttare il lavoro agile, paragonato a quello di un lavoratore edile o di un operaio. In queste settimane abbiamo riscoperto l’importanza dei territori, di tutti i luoghi. Anche la disuguaglianza si combatte stando nei luoghi, e questo è il senso del mio Ministero, in cui provo a mantenere almeno una parte dell’ispirazione di fondo che anima il mio impegno politico. Dalla concentrazione dobbiamo passare alla diffusione dello sviluppo, dalla contrapposizione territoriale all’interdipendenza. Questa parola, così simile a “interconnessione”, nella crisi sembra avere assunto un nuovo significato, che risale alle nostre vite quotidiane ma riguarda anche i nuovi equilibri dello sviluppo, sociali e territoriali, e il rapporto tra uomo e natura. Si è evocato lo spirito della ricostruzione, in questi giorni. Ecco, non esiste ricostruzione senza giustizia sociale e ambientale.

È l’occasione perché la sinistra torni a fare la sinistra?
Credo ci sia ancora molto da imparare dalle grandi riflessioni dei classici che, in un modo o nell’altro, avevano saputo vedere ben oltre le nebbie dei loro tempi. Penso a Karl Polanyi e al suo libro sulla “Grande Trasformazione” del 1944: l’utopia di un mercato autoregolato, il pericolo dell’autoritarismo, il rapporto tra libertà, tecnologia, sensibilità sociale. Non parla forse del nostro tempo, se lo leggiamo con attenzione? Una delle cose mancate di più nella crisi precedente, la Grande recessione, è stata proprio la capacità di riconoscere l’attualità dei classici, di tornare a indagarli per formare non solo la riflessione degli studiosi, ma anche la cultura politica. Nei mesi scorsi insieme a Emanuele Felice abbiamo provato a ripercorrere le vicende del socialismo e del liberalismo. Ne è scaturito un dibattito interessante tra giovani sulla rivista Pandora. Il neoliberismo ha tradito il pensiero liberale, fino a travolgerne le fondamenta, a minare il rapporto con la democrazia. Io credo che le ragioni di un socialismo democratico, l’uguaglianza nella libertà, siano più attuali che mai e si nutrono di un pensiero che sempre ritorna: la centralità dell’umanesimo per costruire una società più giusta. La sinistra può e deve ripartire da qui niente di più e niente di meno.

L’intervista è stata pubblicata su Left del 22 maggio 2020

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Lotta alle disuguaglianze tra Nord e Sud, una questione di umanità

«È arrivato il momento di agire», scrivono alcuni dei maggiori intellettuali africani che, pur vivendo in Paesi diversi e lontani, hanno fatto rete e hanno stilato un appello collettivo per spingere a ripensare profondamente il modello di sviluppo che genera sempre maggiori disuguaglianze fra Nord e Sud, aggravate ora dalla pandemia di Covid-19. È necessario un radicale cambio di paradigma scrivono in una lettera aperta ripresa dal Guardian il 13 aprile scorso ma rilanciata anche da molti altri media. Abbiamo ripensato a quelle autorevoli parole, tornando questa settimana a fare rotta verso Sud, accendendo i riflettori sul Meridione italiano da cui poteva ripartire una fase 2 utile a tutta l’Italia. E tornando ad occuparci di Africa alla ricerca di un cambio di prospettiva, di un nuovo modo di vivere e di pensare la società.

In Italia «la locomotiva del Nord non traina più». Il sistema capitalistico che sfrutta risorse e persone mostra sempre più la corda. È emersa con drammatica evidenza la sua totale incapacità nell’affrontare emergenze come questa pandemia, essendo tarato sulla massimizzazione del profitto, considerando le persone solo se e in quanto utili nel ciclo produttivo. Lo abbiamo descritto e denunciato nelle scorse settimane, analizzando il neodarwinismo sociale made in Great Britain ma anche tutti i limiti del tanto decantato modello Lombardia, basato sulla privatizzazione della sanità e sul “produrre a tutti i costi”, che ci è costato perdite umane inaccettabili.

Dal Sud d’Italia e dall’Africa arrivano voci e proposte che hanno un “suono” diverso sulle quali non possiamo non riflettere, perché ci interrogano profondamente.

Ne abbiamo compreso la grandissima portata anche leggendo quella lettera firmata da un centinaio di intellettuali africani. Fra loro il nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, il saggista Makhily Gassama e lo scrittore Cheikh Hamidou Kane, solo per citare i primi firmatari.

La lettera va subito al sodo, fin dalle prime righe: «La pandemia del nuovo coronavirus sta mettendo a nudo quello che le classi medie e ricche delle principali megalopoli del continente hanno fatto finora finta di non vedere», scrivono gli autori rivolgendosi ai leader africani, ma non solo. «Per evitare che la crisi, non solo sanitaria, legata alla pandemia di Covid-19 degeneri chiediamo ai nostri politici di agire con compassione, intelligenza e tatto in questa situazione straordinaria con cui tutto il mondo si sta confrontando», ha detto Ndongo Samba Sylla, economista senegalese della Fondazione Rosa Luxemburg di Dakar, all’africanista Andrea De Giorgio di Internazionale. «Per fare ciò, però, dobbiamo ristrutturare i nostri sistemi politici dalle fondamenta, rimettendo al centro l’essere umano» ha ribadito Sylla che è coautore di questo manifesto.

Vale la pena riportarne qualche altro brano: «L’Africa e il sud del mondo devono svegliarsi e riprendere in mano il proprio destino, alla luce delle enormi risorse materiali e umane di cui dispongono… Le diverse forme di resilienza e creatività messe in campo in questi giorni da tanti giovani scienziati e ricercatori africani sono la prova delle enormi potenzialità del nostro continente…». E ancora si legge nel documento: «Bisogna rimettere al centro il valore di ogni essere umano, a prescindere dall’identità o dall’appartenenza, dalla logica del profitto, del dominio e della monopolizzazione del potere».

Purtroppo là dove al governo ci sono leader autoritari come in Egitto, in Turchia, là dove ci sono governi corrotti o ancora subalterni a modelli coloniali come in Sudafrica il modello di lockdown all’occidentale non ha funzionato per tutti. Nei Paesi più poveri dell’Africa troppo spesso le bidonville obbligano a vivere accalcati in spazi ristretti, il distanziamento sociale e la possibilità di avere accesso all’acqua per lavarsi le mani sono condizioni irraggiungibili. Ancor peggiore è la condizione dei profughi come raccontano in questo speciale Africa i reportage di Antonella Napoli e l’approfondimento di Stefano Galieni. E se il Covid-19 fa paura in Africa, ancor più fa paura la malaria che uccide ancora moltissimo in un continente depredato di risorse, dipendente dagli aiuti internazionali, intrappolato nella morsa del debito, sfruttato dalle multinazionali.

Per uscire da questa spirale «è necessario un nuovo ordine mondiale che rimetta l’essere umano e l’umanità al centro delle relazioni internazionali: l’agricoltura, le fonti di energia rinnovabili, le infrastrutture, la formazione e la salute».

Anche su questo punto il nuovo manifesto degli intellettuali africani offre spunti di riflessione ineludibili: «L’Africa deve riconquistare la libertà intellettuale e la capacità di creare. Deve smettere di subappaltare le proprie prerogative, riconnettersi con le realtà locali, abbandonare l’imitazione sterile, adattare la scienza, la tecnologia e i programmi di ricerca ai propri contesti storici e sociali». Dalla loro visione anche noi abbiamo molto da imparare.

L’editoriale è tratto da Left in edicola da venerdì 22 maggio

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Persone oltre le braccia

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 04 aprile 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19, all’interno dell’azienda agricola della famiglia Della Porta vicino Roma si lavorano le colture stagionali, molte aziende sono state penalizzate dal blocco degli spostamenti per arginare la diffusione del coronavirus e la maggior parte dei braccianti agricoli che vengono dall’Asia non hanno avuto la possibilità di raggiungere i terreni per le raccolte stagionali Nella Foto : braccianti agricoli al lavoro nelle serre con le mascherine , per mantenere le distanze di sicurezza le file di raccolta vengono alternate Photo Cecilia Fabiano/LaPresse April 04 , 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , seasonal agricultural harvest in Della Porta Family farm near Rome , many farms have been penalized by the lockdown imposed to stem the spread of coronavirus and most of the agricultural workers who come from Asia have not had the chance to reach the land for seasonal harvesting In the pic : agricultural workers in the greenhouses with safety facial masks, to keep the safety distances they work in alternated rows

Sulla sincerità delle lacrime della ministra Teresa Bellanova, che hanno interrotto la sua presentazione a Palazzo Chigi della sanatoria per braccianti, colf e badanti prevista nel decreto Rilancio, e sul paragone col “precedente Fornero”, molto è stato detto e scritto. Per valutare l’operato della ministra dell’Agricoltura sul fronte della tutela dei diritti dei lavoratori delle campagne, però, è preferibile sospendere il giudizio sul suo linguaggio verbale, e concentrarci piuttosto sui fatti.

Innanzitutto la regolarizzazione di cui parliamo sarà “a tempo”, con forti condizionalità, relativa a solo pochi ambiti lavorativi, finalizzata in buona sostanza a rispondere rapidamente alla carenza di forza-lavoro di imprese e famiglie causata dal Covid più che a garantire il benessere delle persone coinvolte dalla misura. Proprio dal mondo delle aziende agricole, infatti, sono arrivati gli input più forti a favore della sanatoria per i braccianti.
Pur trattandosi dunque di una norma strategicamente necessaria, che può dare una piccola e momentanea boccata d’aria a tanti lavoratori, permettendo loro di rafforzare le proprie rivendicazioni, resta comunque un provvedimento che risponde innanzitutto alla logica del profitto e non a quella dei diritti.

D’altronde, ad affermarlo è stata la ministra stessa, ai microfoni dell’agenzia Vista: «Noi non stiamo facendo una cortesia ai cittadini immigrati dando un permesso di soggiorno – ha dichiarato – stiamo semplicemente registrando il bisogno che abbiamo di avere manodopera aggiuntiva». Inoltre, ancora una volta, si è preferito evitare di intervenire subito e con forza sulle cause strutturali dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, ossia l’assenza di strumenti validi di incrocio tra domanda e offerta lavorativa, di trasporti per i braccianti, di alloggi adeguati, e soprattutto una filiera dell’agroalimentare malata, del tutto sbilanciata verso la distribuzione, che troppo spesso è in grado di dettare regole e prezzi inaccettabili a chi coltiva e raccoglie frutta e verdura. O meglio, nelle bozze del decreto (al momento di andare in stampa, a quasi una settimana dalla sua presentazione, il testo ancora non è stato pubblicato in Gazzetta) alcuni buoni propositi ci sarebbero. Vanno ricercati in…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola da venerdì 22 maggio

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Un bambino nel cassonetto

Karim aveva 10 anni e spesso i piedi scalzi come i suoi quattro fratelli. I vicini di casa raccontano che li vedevano scalzi per strada perché troppo poveri per indossare scarpe. Accade a Boltiere, in provincia di Bergamo.

Nel tardo pomeriggio del 19 maggio Karim si ritrova nel piazzale civico 19 di via Monte Grappa, la strada che taglia il paese della Bassa, dopo essere uscito di casa. Lì c’è uno di quei cassonetti per la raccolta di vestiti usati e Karim deve avere pensato che forse, frugando bene, avrebbe potuto trovare qualcosa da indossare, avrebbe potuto lasciare perdere quelle ciabatte con cui aveva attraversato il paese.

Si è arrampicato sul cassonetto, si è intrufolato, come i topi con gli avanzi solo che Karim era un bambino, e quando il portellone del cassonetto gli si è chiuso all’altezza dello stomaco deve avere pensato che forse se lo voleva mangiare. E infatti se l’è mangiato. Karim è morto, ritrovato verso sera da una donna che lavora in uno studio dentistico lì vicino e che stava andando a riprendere la sua auto. Ha visto solo le gambe che uscivano, il corpo senza sensi. Per recuperare Karim i vigili del fuoco hanno dovuto smontare tutto, tagliando le lamiere, poco dopo Karim non ce l’ha più fatta a continuare a respirare.

Un bambino morto mentre rovista tra i rifiuti degli altri per provare a indossarli è una storia che ha tutta la sua morale nei fatti, senza nemmeno bisogno di troppi commenti. È la povertà che viene facile nascondere perché si intrufola nelle fogne e negli scarti della vita normale e si nota poco, quasi niente. Eppure contiene un dolore che dovrebbe essere nazionale, contiene un lutto che è figlio di molti padri prima del cassonetto assassino. La fase 2 la ricorderemo anche così: è stata il via libera a Karim per recuperare un po’ di vestiti. Andrà tutto bene, dicono. Andrà tutto bene.

Buon giovedì.

Le ruspe distruggono il Teatro nazionale di Tirana, luogo simbolo della cultura albanese

17 Maggio 2020. Ore 4.30 circa del mattino.
La città di Tirana è svegliata dalle voci disperate degli attori da mesi barricati nell’edificio e dall’inesorabile avvicinarsi delle ruspe scortate dalla polizia. Basta poco, il tempo di un battito di ciglia, e il corpo dell’edificio del Teatro nazionale di Tirana non esiste più.
Inserito nel 2020 da Europa Nostra nella lista dei 7 monumenti più in pericolo d’Europa, assieme ad esso sparisce una delle maggiori testimonianze dell’architettura italiana degli anni Trenta in Albania e il suo nome si unisce alla serie dei tanti villini liberty italiani che negli ultimi 12 mesi hanno lasciato il posto ad una serie di edifici residenziali/commerciali multipiano che dovrebbero rappresentare parte della rinascita economica della capitale albanese e la sua strada verso il futuro.

Costruito nel 1938 dall’ingegner Giulio Bertè, il complesso, destinato al Circolo italo-albanese Skanderbeg, e in seguito divenuto Teatro Nazionale, rappresentava quasi un unicum nell’ambito dell’architettura coloniale del ventennio. La ditta Pater-Costruzioni Edili Speciali di Milano infatti, incaricata della costruzione, era solita dedicarsi principalmente alla costruzione di tessuti a case basse e piccoli padiglioni nell’Italia fascista. Il Teatro, al contrario, faceva parte di una particolare serie di edifici pubblici che la ditta riuscì a costruire durante la sua storia.

Molte cose sono state dette su questo edificio a sostegno della necessità di una sua demolizione, a partire dalla presunta scarsa qualità dei materiali che sarebbero stati usati per la sua realizzazione. In parte ciò è sicuramente vero: come tutti sappiamo, l’autarchia imposta dal governo fascista aveva generato la carenza di buona parte dei materiali da costruzione e ditte come la Pater si erano trovate costrette a ricorrere a soluzioni specifiche per poter ottemperare a queste mancanze come ad esempio la ‘carpilite’, una mistura di trucioli di legno e calce propagandata come esempio di eccellenza da parte del regime. Il Teatro quindi, quale esempio di architettura autarchica fascista, non era sicuramente immune da problemi architettonici alla base della sua realizzazione e negli ultimi anni non era nemmeno in funzione a causa di una serie di carenze tecnico/strutturali più volte riconosciute ma sui quali mai si era deciso di intervenire.

Allora perché continuare a difenderlo? Perché riconoscergli dei valori che tutto sembrava fuorché avere? La risposta è semplice: i suoi due volumi gemelli, raccordati nella parte posteriore da un porticato di ‘timida’ memoria metafisica, generavano uno spazio pubblico senza uguali nel centro della città. Il suo cortile esterno rappresentava un forte momento di tensione spaziale e aggregazione, in grado di catalizzare i flussi di persone che vi giungevano da un lato da piazza Skanderbeg e dall’altro dalla via pedonale che connetteva l’impianto all’antico castello della città. La sua silhouette disegnava un sistema ritmico che accompagnava lo sguardo del passante e ne dilatava il fuoco visivo fino a fargli completamente abbracciare con lo sguardo uno spazio urbano originale ma perfettamente coerente nella definizione di una “immagine” della città di Tirana.

Nonostante la sua funzione originaria fosse ormai perduta, se non per un’ala laterale ancora oggi dedicata alle attività del Teatro sperimentale albanese, i suoi spazi interni e il cortile adiacenti erano spesso ravvivati da una serie di iniziative artistiche, sociali, e cittadine, che in qualche modo, nonostante la perdita dei fasti originari, mantenevano viva la sua importanza quale polo in grado di dar forma al bisogno di civitas della popolazione albanese. Ho avuto la fortuna di visitare più volte il teatro e, nonostante la fatiscenza di alcuni suoi spazi interni, aveva ancora la forza di rapire con il suo fascino il visitatore che ne varcava la soglia e trasportarlo in un’epoca passata.

Cesare Brandi, uno dei massimi teorici italiani del restauro, era solito teorizzare la presenza di una “istanza estetica” e una “istanza storica” per guidare l’operato della propria disciplina e affermava che un’opera d’arte – e per proprietà transitiva anche di architettura – sia principalmente composta da una dialettica tra questi due poli che si riferiscono sia al materiale di cui essa è composta e sia dall’insieme di valori espressivi e significati che questa porta con sé.
Latente tra loro vi è una terza istanza ritengo altrettanto fondamentale da lui sottolineata, quella psicologica, che riguarda la capacità di una popolazione di riconoscersi nello spazio costruito che la circonda e la forza di un’opera di concorrere alla definizione della nostra struttura psichica per una nostra più favorevole evoluzione futura come essere umani.

Molte persone si sono battute in questi mesi per il Teatro e al suo interno hanno passato notti insonni in sacchi a pelo e pagliericci improvvisati incuranti sia del terremoto di novembre che nella recente pandemia dovuta al Covid-19 per continuare a salvaguardare questo monumento fino alla sua distruzione.
Le loro sono storie di resistenza, di giovani che, nonostante un edificio probabilmente di valore costruttivo contenuto, hanno cementato la loro identità umana nel nome di un senso di responsabilità civile e collettiva. Forse è proprio per questo che il Teatro andava salvato, perché ha mosso corde latenti nell’animo di molti, perché ci ha ricordato che, prima di tutto, la forma costruita definisce delle immagini che, come sottolineava Massimo Fagioli, devono essere in grado di concorrere alla modificazione evolutiva di noi stessi.

Valerio Perna, architetto, PhD
Facoltà di Architettura e Design all’Università Polis di Tirana

Lo Statuto dei lavoratori, 50 anni dopo

Travelers leave a subway train in a station in Berlin, Germany, Monday, April 27, 2020. From today on face masks are mandatory in vehicles of the public transport in Berlin due to the coronavirus outbreak. (AP Photo/Michael Sohn)

Cinquanta anni fa la Costituzione “veniva portata nelle fabbriche”. Con l’auspicio di raggiungere tale obiettivo nel 1952 Giuseppe Di Vittorio aveva proposto l’approvazione di uno Statuto dei lavoratori, un testo che rendesse effettive le garanzie relative al lavoro espresse nella Carta fondamentale e sino ad allora rimaste lettera morta. Quella norma arrivò nel 1970. Era il 20 maggio quando la legge 300, intitolata “Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, veniva pubblicata in Gazzetta. Una legge assolutamente avanzata per l’epoca, con la quale si sottraeva agli imprenditori il controllo assoluto su ciò che accadeva nei luoghi di lavoro, permettendo l’ingresso ai sindacati, impedendo i licenziamenti “per rappresaglia” e disponendo che le assemblee sindacali fossero retribuite e organizzate all’interno di fabbriche e uffici. Con la legge 300 inoltre venivano fissate garanzie per gli infortuni, paletti a difesa della libertà di opinione e tutele rispetto al diritto allo sciopero.

Cosa resta oggi di quello Statuto? Per prima cosa, non si può non ricordare il suo pesante depotenziamento con la riforma dell’articolo 18 sui licenziamenti illegittimi, prima con la legge Fornero e poi col Jobs act.

Dopodiché, per farci un idea del livello di interesse che il mondo produttivo ha per i lavoratori e i loro diritti primari, possiamo sfogliare il Rapporto annuale dell’Ispettorato del lavoro pubblicato ad aprile. Ad esempio, al capitolo sulla tutela della salute e della sicurezza, oggi come non mai delicato, scopriamo che nel 2019 l’86% delle aziende ispezionate sono risultate irregolari (15.859 su 19.218). Un tasso identico a quello del 2018 e di 4 punti superiore rispetto al 2017. Certo, percentuali così alte di irregolarità possono indicare anche una buona capacità dell’Ispettorato di indirizzare le proprie, poche, forze verso le realtà più “a rischio”. Ma, se sommiamo questi dati a quelli relativi alle morti sul lavoro, il quadro assume tinte fosche.

A gennaio 2020, prima dell’emergenza coronavirus, hanno perso la vita 52 persone in incidenti sul lavoro, otto in più rispetto alle 44 registrate nel primo mese del 2019 (+18,2%). Poi la pandemia ha scompaginato le statistiche. Secondo i dati diramati il 24 aprile dall’Inail, le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto nei primi tre mesi dell’anno sono state 130.905 (-16,9% rispetto allo stesso periodo del 2019), 166 delle quali con esito mortale (-21,7%) – un trend che è ovvia conseguenza del fermo produttivo – ma al contempo nel comparto di sanità ed assistenza sociale si è registrata un’impennata di denunce: +33% su base trimestrale e +102% su base annuale (marzo 2020 vs marzo 2019). I casi denunciati sono raddoppiati, passando dai 1.788 del marzo 2019 ai 3.613 del marzo 2020 (tre denunce su quattro riguardano il contagio da Covid-19).

Il combinato disposto dei cambiamenti degli ultimi decenni nel mondo del lavoro con l’accelerazione impressa dalla pandemia obbliga senza dubbio a una riforma radicale delle tutele dei lavoratori. Ne abbiamo parlato con alcuni sindacalisti Cgil, procedendo per punti.

Sicurezza. Con l’avvento della Fase 2, milioni di cittadini sono tornati a lavorare. In che condizioni l’hanno fatto? Come tutelarli? E come ripensare la sicurezza sul lavoro nel futuro più prossimo, anche alla luce delle nuove esigenze sanitarie?
Maurizio Brotini, segretario Cgil Toscana: «Chi è tornato al lavoro dopo il lockdown ha trovato situazioni che dipendono dalla forza e presenza delle organizzazioni sindacali: migliori nelle grandi e medie realtà dove il sindacato c’è, preoccupanti dove esso non è presente. L’accordo del 24 aprile (tra governo e parti sociali, ndr) che ha portato all’aggiornamento del Protocollo per la sicurezza sul lavoro ha istituito provvedimenti contro le aziende che non rispettano le prescrizioni, è un aspetto positivo, come lo è il riconoscimento della funzione dei sindacati. Ma c’è ancora molto da fare. È indispensabile consolidare il ruolo dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) dotandoli di un monte ore per la formazione, così come bisogna estendere con leggi e contratti la presenza dei Rappresentanti alla sicurezza di sito produttivo e territoriali. Occorre infine aumentare il personale pubblico destinato ad ispezioni e controlli: Ausl, Ispettorato del lavoro, Agenzie ambientali regionali».

Smart working. L’emergenza sanitaria ha implicato una repentina mutazione dell’organizzazione lavorativa, favorendo in alcuni ambiti il ricorso al lavoro agile. Per questa modalità di lavoro non esiste ancora una disciplina sufficientemente rigorosa. Le imprese manterranno queste novità “eccezionali” anche dopo il lockdown? Come tutelare i lavoratori che ne sono coinvolti?
Mirko Lami, segretario Cgil Toscana: «Curiosamente fino a poco tempo fa molte imprese consideravano lo smart working come uno strumento per vagabondare da casa. Spesso veniva richiesto da donne per poter accudire i figli piccoli e vi era il pregiudizio che chi ne godesse rendesse meno all’azienda. Ora il mondo produttivo ha scoperto che questo metodo può funzionare e garantire un risparmio economico. Per questo il sindacato deve interrogarsi sui suoi vantaggi e rischi».

Nicola Atalmi, segretario Slc Cgil Treviso: «I rischi sono molti. Tante madri lavoratrici in lavoro agile, non scelto ma “forzato”, con le scuole chiuse fino a settembre, si sono trovate a svolgere un triplo lavoro in condizioni impossibili. Se ne parla ancora troppo poco. Inoltre il nostro timore è che, avendo il capitale verificato che con lo smart working si possono tenere alti controllo e produttività del personale contenendo i costi, si apra una nuova fase di precarizzazione ed esternalizzazione di alcuni ruoli».

Brotini: «Non c’è dubbio, molte aziende manterranno il lavoro a distanza. Col quale possono ottenere: riduzione dei costi aziendali (spazi, riscaldamento, elettricità, mensa, connessioni), aumento delle ore lavorate e ancora più difficile separazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, controllo costante, atomizzazione ulteriore con ancora più difficile sindacalizzazione. Si rende dunque necessaria l’istituzione del diritto alla disconnessione, ossia di una fascia oraria giornaliera inviolabile di riposo, e poi una revisione delle maggiorazioni orarie come lavoro notturno, festivo, a turni, straordinari, un recupero delle spese scaricate dall’azienda sul lavoratore da ottenere per via contrattuale, una riduzione dell’orario di lavoro che oltre a diminuire le ore settimanali lavorate riduca anche le giornate di lavoro, il tutto a parità di salario».

Licenziamenti. La crisi economica che abbiamo iniziato ad affrontare espone i lavoratori alle conseguenze di un probabile mutamento della struttura produttiva del Paese. Il blocco dei licenziamenti per sessanta giorni previsto dal governo col decreto del 17 marzo, e prolungato di ulteriori tre mesi col decreto Rilancio, è una misura importante, ma comunque insufficiente a causa dei suoi limiti temporali. Come rimediare?
Lami: «Dovremmo subito ragionare su cosa accadrà ai lavoratori impegnati in attività aperte al pubblico nelle quali sarà indispensabile contingentare gli ingressi. Penso ai camerieri, baristi, parrucchieri. La politica e anche il sindacato dovranno interrogarsi su questi cambiamenti. Tanti lavori spariranno e vi è un altissimo rischio che in molti tra coloro che sino a ieri vivevano di stipendi medi si ritrovino a scendere la scala sociale fino a piombare nella povertà».

Brotini: «Per evitarlo dobbiamo innanzitutto ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed ampliarlo alle realtà con almeno 5 dipendenti, invece delle 15 previste dallo Statuto del 1970. Si tratta di una proposta che è parte della Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil che abbiamo lanciato nel 2016, per far approvare un vero e proprio nuovo Statuto dei lavoratori».

Saperi. La crisi potrebbe essere un’occasione per tutelare e promuovere lavoro ad alto valore aggiunto, per il quale però è indispensabile la formazione continua del personale. Senza considerare che la conoscenza è uno dei primi fattori che attiva l’ascensore sociale, anche per chi è già inserito nel mondo del lavoro.
Brotini: «Prima di tutto occorre rilanciare scuola ed università pubbliche, assieme alla ricerca di base. E poi lungo l’arco della vita devono essere previsti periodi sabbatici di astensione dal lavoro per la formazione: oggi la si fa troppo spesso solo dopo che si è perso il lavoro».

Atalmi: «Va riportato al centro il diritto soggettivo ad una formazione permanente anche svincolata dalle mere esigenze produttive. Il lavoratore in un mercato del lavoro sempre più duro deve essere messo in condizione di aggiornare ma anche accrescere le proprie competenze, pure in ambiti che non siano quelli strettamente necessari all’impiego attuale ma magari in vista di quello futuro, per dargli più forza sul mercato del lavoro».

Lavoratori autonomi. Nello Statuto del 1970 vi è un forte dualismo tra dipendenti e autonomi che ha perso attrito con la realtà. Come sappiamo oggi i confini tra le due forme di impiego sono più sfumati e le tipologie di lavoro non subordinato sono sempre più pervasive e con poche tutele. Come proteggere i lavoratori che le svolgono, spesso poco sindacalizzati?
Brotini: «Vanno estesi ai lavoratori autonomi ma economicamente subordinati le forme di tutela previste per tutti i lavoratori dipendenti: formazione, malattia, maternità, ferie. È obiettivo della Cgil cambiare il proprio perimetro di rappresentanza: non più solo lavoratori dipendenti e pensionati ma anche “veri” lavoratori autonomi con redditi che però ne assimilano la posizione a quella di coloro che tribolano col proprio lavoro».

Atalmi: «Questo è il tema più importante del nuovo Statuto che propone la Cgil e passa attraverso un concetto semplice ma rivoluzionario. Di fronte al fatto che il mondo del lavoro si è profondamente modificato in questi anni, e il capitale ha spinto a fondo sulla precarizzazione cercando di aggirare continuamente le normative per trovare sempre nuove formule di flessibilità e ricattabilità, noi invece di tentare lo sforzo di Sisifo di ri-normare le nuove fattispecie contrattuali che vengono create per fornire diritti e garanzie anche per queste, abbiamo scelto la strada del ribaltamento concettuale rimettendo al centro i diritti inalienabili del lavoratore. Ovvero noi ricostruiamo il sistema dei diritti del lavoro attorno alla persona che lavora, che ha dei diritti che prescindono dal tipo di contratto che gli viene applicato perché sono diritti universali ed inalienabili.

Ciò disarma l’incessante lavorio del capitale per trovare sempre diverse forme contrattuali di sfruttamento della prestazione lavorativa. Una sfida eccezionale ma non più rinviabile che può ricomporre la classe frantumata e recuperare alla tutela collettiva, sindacale ma anche politica, un pezzo di lavoro autonomo costruendo assieme ai diritti anche una nuova idea di welfare inclusivo ed equo».

[divider]Parola ai lavoratori[/divider]

CINQUANT’ANNI DI LAVORO PER LO STATUTO

Giorgio, operaio per 43 anni in un’acciaieria toscana, Marco, tecnico pure lui in una acciaieria ma in trentino, e Talem, giovane studente e ciclofattorino. A 50 anni dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, abbiamo chiesto loro un’opinione sul significato di questa conquista, sugli eventuali limiti della normativa e soprattutto su quali sono gli interventi più urgenti in tema di diritti negati.

Lo Statuto – inizia Talem – «è come una barriera contro l’avanzata delle nuove forme di sfruttamento del nostro secolo, ma deve essere aggiornato». Se con la legge 300 vi furono riforme migliorative, «come col rinnovo del contratto dei metalmeccanici che nel 1973 introdusse le 150 ore, poi estese agli altri contratti nazionali, un riconoscimento formale del diritto alla propria formazione, in tempi più recenti siamo invece arrivati a veder approvati atti che – osserva Giorgio – non esito a definire incostituzionali, come la riforma dell’articolo 18 e il Jobs act». 

E per quanto riguarda la tutela della attività sindacale, altro baluardo dello Statuto? «Io faccio il ciclofattorino su piattaforma – racconta Talem – nel nostro settore i diritti sindacali non esistono. Non possiamo eleggere i nostri rappresentanti, dunque far valere le nostre richieste. Così si determina una sostanziale assenza di democrazia. Inoltre, esprimere rivendicazioni collettive in alcuni casi può farti perdere il posto. Mentre in altri subiamo pure la beffa di colleghi che si organizzano su indicazione dell’azienda, per difendere lo status quo».

In queste condizioni, anche una possibilità che fino a poco tempo fa era considerata un diritto normalmente acquisito, le ferie, per alcuni «almeno per ora, sono un solamente un sogno», dice ancora Talem. «Prendersi un periodo di riposo per chi fa il rider – aggiunge – comporta conseguenze negative sul nostro futuro: veniamo classificati tramite un algoritmo, questo dà ad ognuno di noi un punteggio col quale siamo suddivisi in varie fasce, più si è in alto e più sarà semplice ottenere dei turni. Non lavorare per una settimana, ossia andare in ferie, comporta un abbassamento del punteggio e quindi uno scorrimento nelle fasce più basse».

Una realtà distopica e sconcertante. Ma se si è arrivati sin qui, aggiunge Marco, non è solo per colpa di un arretramento dello Stato: «Nel secondo dopoguerra molti imprenditori hanno creato imperi con l’intuito ed il genio, rischiando in prima persona; oggi purtroppo la classe imprenditoriale ha pochissime idee innovative». È anche per questo che la formazione dei lavoratori è diventata un optional. «Oggi  le aziende non investono più sulle persone, cercando di farle crescere umanamente e dal punto di vista delle competenze, per formare un gruppo di professionisti. Si preferisce assoldare lavoratori “usa e getta”, sfruttati fino al limite di rottura».

Anche secondo Talem la formazione sarebbe fondamentale: «In un contesto produttivo in continua evoluzione favorirebbe la produttività e permetterebbe ai lavoratori di avere una specie di “scudo” contro i licenziamenti perché un datore di lavoro tenderà a tenere un lavoratore formato da lui a spese sue; oltretutto in caso di licenziamento sarebbe più facile per il lavoratore trovare una nuova opportunità, grazie alle conoscenze acquisite, che lo farebbero restare “al passo coi tempi”».

Invece così non è. E chi lavora fatica ad essere sereno persino quando si ritira dall’attività. «Il pronunciamento del Comitato europeo dei diritti sociali di febbraio, passato un po’ in sordina, è una vergogna – dice Giorgio – L’Italia è stata giustamente richiamata perché “manca un approccio globale e coordinato per lottare contro la povertà e l’esclusione sociale”».

Il punto, chiosa Talem, è che «non può essere definito lavoro tutto ciò che ti viene pagato, specie quando non sono rispettate le tutele di base (ferie, malattia, straordinari, infortuni, impiego stabile, paga dignitosa). Il tasso di disoccupazione può anche essere bassissimo, ma ciò non per forza corrisponde a un reale benessere della società».

 

*** Articolo pubblicato il 30 aprile 2020 ed aggiornato il 20 maggio 2020, alle ore 12 ***

L’inchiesta di Leonardo Filippi è stata pubblicata su Left del Primo maggio 2020

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SOMMARIO

Il giuramento di Ipocrite

«Soprattutto dalle mie parti moltissime persone stanno prendendo appuntamento negli ambulatori privati per fare il test che non sono riusciti ad ottenere dal Servizio sanitario nazionale e questa è una debacle per l’organizzazione della sanità. Perché la valutazione alla fonte dell’esistenza o meno di persone contagiate sarebbe stata, sarebbe il presidio fondamentale per evitare l’ulteriore diffusione del contagio. E’ inconcepibile che il pubblico non sia in grado di dare questo genere di risposta ai cittadini e gli dica che deve andarsi a pagare il test a 63 euro, come se questa fosse una scelta voluttuaria, e fare a sue spese il tampone… ma per favore! Il test è molto più importante del distanziamento al ristorante, è il sistema fondamentale per ridurre l’ulteriore diffusione dell’epidemia. Scusatemi ma mi è scappato un momento di indignazione».

Sono le parole di Massimo Galli, il primario di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, uno dei volti che ci è capitato di incrociare spesso nelle trasmissioni televisive di queste ultime settimane. E quando mi è capitato di ascoltarlo, ospite della trasmissione Agorà, ho subito pensato che allora non sono mica matto io che mi sono convinto da un po’ di tempo a questa parte che nel dibattito pubblico sulla pandemia e sugli obblighi dello Stato sia completamente scomparso quello del diritto a una diagnosi oltre che a una cura. Questa storia dei tamponi a pagamento (in Lombardia soprattutto) è una negazione di tutto quello che c’è scritto nella Costituzione e di tutto quello che dovrebbe stare nell’intendere la medicina come servizio pubblico. Abbiamo passato anni a definire qualsiasi cosa “bene comune” perché venisse tolta al profitto e ora ci troviamo nel bel mezzo del Covid-19 con l’accettazione silenziosa e sconfitta che la malattia debba essere scovata in qualche laboratorio privato pagando id tasca propria. Senza troppi discorsi ecco qui la sconfitta della Regione Lombardia ed eccola qui anche la sconfitta della sinistra che si professa tale e che invece non riesce a spiccicare nemmeno mezza parola.

Doveva essere il giuramento di Ippocrate e invece è il giuramento delle Ipocrite promesse non mantenute di un Paese che ci aveva promesso che si sarebbe preso cura di noi. E invece niente. Uno si immagina una battaglia campale sul diritto al tampone e invece niente. Per fortuna l’ha detto Galli, mi son detto, allora non sono solo io.

Buon mercoledì.

Un giorno della vita di un immigrato clandestino

In this photo taken on Wednesday, Aug. 1, 2018, asylum seeker Ogochukwu Efeizomor, of Nigeria, 30, walks in a tunnel to the Garibaldi train station in Milan, Italy to return to the Lecco Progetto Arca shelter center. A Nigerian asylum-seeker in Italy spends his time begging or learning Italian as he waits for a decision on his application, while anti-migrant tensions rise under Italy’s new populist government. (AP Photo/Luca Bruno)

C.C. è un immigrato clandestino che abita a Torino. Mi ha scritto una lettera che contiene moltissimo e che vale la pena leggere e tenersi in tasca. È molto più politica di tanta superficiale politica. Ve la incollo con tutti i suoi errori, C.C. parla l’inglese. Per me è stata un dono. Spero anche per voi.

“Un giorno da immigrato clandestino ma non come vi aspettate”

Sono le 6 del mattino, mi sveglio alle 6 ogni mattina e oggi mi sono svegliato di nuovo alle 6, ho fatto un caffè Quindi alle 7 ho lasciato il mio appartamento clandestino per andare al lavoro. Come tutti questi anni, anche’ quando insegnavo in una scuola superiore, ogni mattina mi sono messo la bomba in testa di Andre prima di uscire, quindi l’ho fatto di nuovo:

“mi sentivo normale, epure nei miei trentanni, eranno pochi dei loro(noi), ma non importa adesso adesso torno al lavoro.” la domenica delle salme, forse presto.

nell’autobus, mi sono chiesto dell’impulso di scrivere questa lettera e pubblicarla, ma chi sono io? Un’anima invisibile che cammina in una città fredda nel nord Italia. Andre ‘Breton ha aperto con la stessa domanda il suo romanzo più sincero, Nadja,

“Chi sono? Se questo una volta dovessi fare affidamento su un proverbio, allora forse tutto equivarrebbe a sapere chi tormento. ” Non è lo stesso di quello che ha detto Rumi: “tu sei quello che cerchi”.

Non dovrei informarvi del mio nome e di altri dettagli, ma abito a Torino, è una delle cose bello del vivere in una città, puoi nominarlo ed essere mescolato con le sue popolazioni, nasconderti, andare sottoterra, essere clandestino, quindi sono un immigrato clandestino, clandestino come piace a qualcuno di voi, ma c’è un’ironia lì. Nell’organigramma delle Brigate rosse, i membri che andavano sottoterra chiamavano regolari e sostenitori attivi che vivevano normalmente sono chiamati irregolari.

Io Lavoro in un mercato quotidiano, stamattina in un mercato in cui lavoro tutti i giorni, è successo qualcosa di interessante, lascia che vi spiegho prima come funziona il mercato, perché ora siete tutti piccoli Borghesi oggi. In genere, ci sono due tipi di venditori, quelli che hanno posti fissi e un altro tipo chi non lo ha e può spostarsi tutti i giorni in città e scegliere il proprio posto di lavoro in mercati diversi. Dopo che la pandemia si è verificata qualcosa di interessante, il posto del secondo gruppo è stato limitato poiché i loro bancarelli dovevano avere uno spazio significativo l’uno rispetto all’altro, quindi ogni giorno alcuni di loro restavano fuori dal mercato e dovevano andare a casa nella disperazione. stamattina uno dei venditori che hanno dovuto prendere le sue cose e tornare a casa ha iniziato a urlare e creare una scena, ha dato un calcio ai suoi frutti e li ha sparpagliati per terra e si è rifiutato di raccoglierli e di sostituirsi. ogni volta. uno di loro che viene lasciato fuori, inizia a parlare e negozia con il poliziotto lì per fargli avere un posto, ma nessun successo perché sappiamo che un solo individuo non può cambiare nulla.

Stavo osservando i comportamenti sinceri dei venditori l’uno con l’altro, i giorni stavano passando e quelli che erano più fuori hanno iniziato a creare rabbia e odio verso gli altri, Un giorno ho detto a due di loro che la soluzione è di riunirsi e unirsi di nuovo in base la tua nuova situazione e assegnare una rappresentatore per parlare a nome di tutti voi con il comandante di polizia che vi si reca due volte a settimana, in questo modo e con una soluzione che potete risolvere il problema, ma il venditore marocchino mi ha chiesto? Cos’è la rappresentazione?

Non è successo nulla di specifico nel mercato, il movimento delle persone all’interno dei mercati è commovente, è uno dei mercati vicino al centro città, quindi i prezzi sono quasi alti e i clienti si trovano in buone condizioni economiche, un posto era in un pesante processo di gentrificazione negli ultimi dieci anni. Adoro l’ordinarietà del mercato, il modo in cui le persone sono semplicemente gentili e gentili tra loro e al contrario dei supermercati non tutto è meccanico e senz’anima. i venditori per lo più sembrano bambini

perché alcuni di loro sono contadini, un giorno odiano l’uno verso l’altro e un altro giorno ridono insieme. Di tanto in tanto leggo un libro lì perché non sono molti clienti in questi giorni e posso essere libero per un paio d’ore, in questi giorni sto leggendo Nitschze, la genealogia della morale, dove elogia la sua stanza in piazza san Marco, e sorprendentemente rafforza la scelta che ho fatto in merito al mio permesso di soggiorno in Italia. Ma cosa ho fatto? Forse sono quello che ho fatto piuttosto quelli che cerco.

La storia ritorna al 2017-18, quando avevo ancora un permesso di soggiorno per studenti e decisi di convertirlo in permesso di lavoro. Era il momento esatto dell’ascesa del partito Lega Nord. È stato un atto di resistenza per me, anche se nessuno lo sa ancora, inoltre ho dovuto scendere per poter narrare, sono uno scrittore, ogni mendicante e dormienti come i miei colleghi scrittori, dovevo vivere le storie e crearli, così mi sono rifiutato di rinnovare il permesso di soggiorno, non volevo avere un singolo documento sotto il ministero di Matteo Salvini, mesi dopo aver letto una notizia dal festival cinematografico di Venezia in cui Daniele Gaglianone chiedeva alle persone di disobbedire al decreto sicurezza , Spero che l’abbia fatto da solo.

Mentre ero lì nel mercato, mi sono ricordato che prima ho pensato che fosse una decisione semplice, continuerò i miei studi e continuerò semplicemente, ma non è stato così semplice. Tre mesi dopo, il nostro vicino razzista, ha iniziato a chiamare la polizia ogni notte, il mio permesso di soggiorno scaduto aveva tre mesi quei giorni ed ero ancora legale, in una notte in cui stavo lavorando su una delle mie storie all’una, all’improvviso qualcuno ha suonato il campanello, sono andato e ho visto lì gli ufficiali dei carabinieri, sono entrati e hanno iniziato a cercare in tutto l’appartamento in modo molto ostile, hanno controllato i nostri documenti, mi hanno detto di rinnovare il permesso di soggiorno e dopo aver visto che siamo solo due studenti mi hanno detto che il tuo vicino ci ha detto che sei uno spacciatore. Dopo di che ha continuato a chiamare più di 20 volte di più la polizia e loro erano lì, Polizia locale, Finanzia, Esercito, carabinieri e così via fino a quando non sono più venuti, in una delle sue chiamate ho sentito che stava dicendo che parlano in una lingua strana sempre, ho scritto una commedia basata su quello e cosa sto facendo? Poi mi sono ricordato della scuola di scrittura creativa di Baricco, Scuola Holden. Ah Barrico, insegni loro che le storie migliori provengono dalle situazioni di Auschwitz, o ne sarai sottoposto o dovrai crearlo, non c’è altro modo.

Poi ho deciso di finire il romanzo di questi due anni il prima possibile, prima di lasciare il vostro paese, perche e’ il tempo. Perché sto aspettando che il mio processo giudiziario nel mio paese a causa delle accuse politiche sospese e come Marinetti disse: “il più vecchio di noi non ha ancora trent’anni.”

Ho lasciato il lavoro quel giorno, è stato un pomeriggio soleggiato e questa città mi sembra più bella in questi giorni, è a causa del suo vuoto? la primavera è sempre bella mi ricorda mia nonna che sono anni che non vedo, un prezzo pesante da pagare no? Caro Baricco, insegni loro anche queste cose? Decisi di camminare, con i miei vestiti polverosi di smontare il banco. come sempre in prima sono passato da porta Nuova, ho guardato all’hotel Roma, dove Cesare Pavese ha deciso di suicidarsi, ricordo ancora la sua nota suicida, ” Perdono tutti e chiedo perdono a tutti. OK.? Non spettegolare troppo.” lo faccio anchio, perdono tutti e chiedo perdono a tutti, ok? Poi ho superato Corso re Umberto 75, guardo sempre quei due appartamenti di Levi lì, vedo lì primo Levi, in quel piccolo balcone, avrebbe dovuto essere protetto colle affare di vivere dalla morte, ma anche i miei scudi sono miserabili Primo ed è anni che non dormo bene. Non è strano, cosa che i fascisti e Auschwitz non sono riusciti a fare insieme, questa sola città, nella sua forma liberata si è adempiuta? Adesso sto diventando Curzio Malaparte, Quindi di solito mi chiedo, vuoi ancora diventare un autore su una terra come questa?

Mentre camminavo pensavo a quelle lacrime di Bellanova e al nuovo decreto, fino ad ora ho perso due di mio nonno senza poter andare lì e piangere per loro, ho pianto molte volte in solitudine per loro e li ho visti nel mio sogni, entrambi mi abbracciavano sempre, quelli che adoravo e amavo, uno di loro era un comunista ed

erano nella giungla nel colpo di stato della CIA contro il Mossadegh, li sogno spesso e forse questo ho notato che le lacrime di Bellanova erano sincere. Sulla strada di casa, ho deciso di comprare il mio vino preferito (mi piacciono molto i vini rossi venetiani) e alcune altre cose dal supermercato e sono tornato a casa. Ah, potresti dire come è possibile? Non sei musulmano? L’immigrato, in particolare gli illegali, devono essere mostri, è triste che devo menzionare queste cose per essere considerato umano.

Alla porta di uscita del supermercato c’era un ragazzo nero con un bicchiere di plastica, dopo che sono uscito dalla porta e ho acceso una sigaretta lì, non avevo nessuna moneta, un uomo rumeno è passato, il ragazzo nero insieme a un collega di sicurezza nera ha detto al uomo rumeno che indossa un guanto di plastica, il mendicante nero voleva aiutarlo, così ha detto lo stesso con l’inglese nigeriano e una faccia ridente e questo è stato offensivo per il uomo rumeno, ha detto perché stai ridendo, il nero non parlava italiano così è andato in inglese, ragazzo rumeno ha risposto che sei in Italia, devi parlare italiano e chiudere la bocca sporca prima di prendere in giro la gente e ha continuato a insultare il povero ragazzo, ho dovuto intervenire e sentire la perdita di un altro pezzo della mia anima qui nella vostro benedetto, assurdo bel paese.

tutti mi hanno chiamato con il nome di mia nonna in famiglia, dicono sempre che sei la sua copia e anche lei è malata ed è a casa nostra in questi giorni, non è un solo giorno in cui non penso a lei, e posso ‘ essere lì con lei dove ha più bisogno di me.

Ho iniziato a bere vino quella bella sera, mi chiedevo, davvero ragazzo, a chi scriverai? la canzone è andata avanti su roberto vecchioni, sogna raggazo sogna, e io da tempo non intendo di cambiare un verso della mia canzone. A quelle persone che sostengono l’agenda dell’autoritarismo “morbido” di Meloni e Salvini o ai normali italiani che si oppongono a questa retorica in un modo o nell’altro. Non dovevo nominarli, ma a chi importa più, come ha detto baudrillard nell’ascesa di Le pen (Padre) piu’ di venti anni fa:

“L’energia di Le Pen proviene dai suoi nemici e sono pronti a trasformare i propri errori a proprio vantaggio. Non si sono resi conto che il bene non viene mai dallo sfrattare il male – che quindi produce una vendetta spettacolare – ma da un trattamento subdolo del male da parte del male ”.

“Le Pen è l’unico analista selvaggio di questa società … Nessun giudice o intellettuale potrebbe essere analista, solo gli immigrati dall’estremità opposta dello spettro potrebbero farlo.”

Più tardi ho controllato il mio twitter, c’era un hashtag che andava lì, clandestino, con molti tweet disgustosi che di solito molestavano sessualmente verso Bellanova e le sue lacrime, si poteva vedere come l’ur-fascismo di Umberto eco rianimasse di nuovo. la retorica era la stessa che Matteo Salvini sta dicendo ogni giorno e lo stesso rhetorico sugli immigrati, Prima gli italiani, una maschera per dissuadere la xenofobia e il razzismo. Mi sono ricordato di un lontano ricordo quando ero bambino e giocavo a calcio nel quartiere con altri bambini, improvvisamente sentimmo un litigio di lotta, andammo in scena con la palla in mano, un iraniano stava colpendo un immigrato afgano molto male e se non fosse stato quei vicini a difendere quel povero afgano, lo avrebbe sicuramente ucciso, qual era la sua colpa? Il ragazzo afghano era colpevole di aver molestato una ragazza lì per strada.

Ancora non so perché sto scrivendo questa lettera.

Immaginate di non essere in grado di affittare una casa anche se potete pagarla. immaginate di non essere in grado di svolgere un lavoro normale e di avere un contratto, immaginate di non essere in grado di studiare o finire i vostri studi se anche’ sono rimasti due esami, di non essere in grado di sposarti,spostarti, di non camminare per strada incapace di difenderti, perché non hai un pezzo di carta sul tuo nome, immagina la paura di essere fermato dalla polizia, per mostrargli un documento d’identità, quella paura penetrerà nel tuo osso, nella tua carne e rimarrà con te per tutta la vita, è un uomo spogliato da tutta la sua diritti fondamentali

a causa di una semplice presunzione laggiù, tutta la logica dei sovranisti si trova qui. Una terra è come madre, lo stato è il padre e solo chi è stato prodotto dal fottuto madre da padre ha i dirriti, il resto sono bastardi con diritti a malapena limitati, ecco perché sono intrinsecamente tradizionalisti e misogini anche se il loro leader è una donna.

Ma avete mai pensato a quanto semplicemente un immigrato può diventare illegale qui? Se cambi i tuoi studi, lo farai, se perdi il lavoro lo farai se decidi di cambiare il modo di vivere lo farai se fai un’azienda e fallisce, semplicemente perderai quel pezzo di carta, più semplice di qualsiasi evento, anche se ti ammali, sei depresso per un certo periodo e smetti di lavorare, semplicemente sei in pericolo di diventare illegale, le regole sono così rigide come sei una scatola.

È quasi notte, il silenzio è rilassante, non male da dirvi L’anno scorso ho girato un cortometraggio, scrivendo costantemente e spero di poterne pubblicare alcuni quest’anno, ma me lo dici ora? Sono più italiano o Matteo Salvini? Voi siete più orgoglioso di Italo Calvino o Juilius Evola? Preferite conoscervi da Pasolini o Il Duce? Se consideriamo chi consuma più cibi italiana, probabilmente Matteo Salvini è molto più italiano di me e non dimenticarlo? È la riproduzione della madre metaforica che viene scopata dal padre metaforico, Buongiorno i sovranisti, siete metaphoricalmente italiani ma culturalmente no. È una vera parodia quando un cristiano fondamentalista indica all’islamista fondamentalista che sono pericolosi per la nostra cultura, ma dai, non mangiano carne di maiale e invece mangiano mucche e pecore, ecco il molta più differenza che vedo qui. A parte questo, hai più somiglianze con i fondamentalisti che non puoi nemmeno immaginare e non mi preoccupo di contarli. oltre a ciò siete ignoranti quanto i soldati di boko haram. è un’altra parodia che attaccano quella ragazza che si è rivolta all’Islam, forse non era contenta delle diete cristiane, capite cosa intendo? Ah ragazzi davvero non riuscivo più a digerire la carne di maiale, così ho deciso di convertirmi all’Islam, ma credo ancora nel matrimonio, dio e la famiglia. Odio anche le minoranze, gli immigrati e i neri.

Apprezzo l’ultimo decreto e gli sforzi di Bellanova, ma ancora, una lunga strada da percorrere, non ho ancora deciso di rinnovare, dato che penso principalmente a quelli che sono, infine, gli ultimi? Che ne pensate di loro? Sono sopravvissuto per vivere in modo indipendente, sia fisicamente che mentalmente. Io solo sono una di quelle voci, una delle facce, solo una e sicuramente non ho intenzione di rappresentarle tutte. Quindi perché non ognuno di voi che si sente come me, che pensa come me, non lo fa in modo indipendente, sai che ognuno di voi può facilmente rendere legale più di una persona, adottando, il matrimonio ecc. Qual è il costo? Nient’altro che un po ‘di breucrazia, fatelo. Probabilmente aspetterò fino a quel giorno. Forse voi anche state aspettando che Salvini si rialzi e formi un governo per fare questo piano, Amen.

Ma ancora perché scrivo questa lettera? Forse solo e solo per una ragione, non ho mai perso la fiducia nell’essere umano, anche se non sono l’ottimista, cerco sempre di essere sorpreso, di essere alleato, di parlare, unirmi e creare un corpo più grande. Forse è l’unica ragione per cui ho scritto questa lettera, forse quelle lacrime, quel decreto, che la gente esce, forse avendo fede che gli italiani non sono finiti dopo che Berlusconi mi ha permesso di scrivere questa lettera, forse non sono ancora deluso del tutto. Incrociamo il dito che domani mattina un agente di polizia non mi ferma e mi chiede di mostrarmi il tuo documento d’identità.

“Esiste un modo per trarre conclusioni da questa situazione estrema (ma originale) se non dal mezzo allucinatorio di Le pen. cioè da una cospirazione magica che drena energia a tutti? Come possiamo evitare di soccombere a questa crescita virale dei nostri stessi demoni se non accettando la responsabilità, al di sopra e al di là dell’ordine morale e del revisionismo democratico, per la selvaggia analisi che la penna e il Fronte Narionale ci hanno rubato? ” (Jean Baudrillard)

C.C Torino, 5/15/2020

Buon martedì.

Fca, ossia, un prestito statale da 6,3 mld nella tradizione degli Agnelli

Giovedì 14 maggio. «Alla luce dell’impatto dell’attuale emergenza dovuta al Covid-19, Fca congela il pagamento dei dividendi». Un – sospettabile – livello di sensibilità da madre Teresa di Calcutta. La fregatura, infatti, c’è. Seppur nascosta, è tuttavia facilmente smascherabile con un sonoro «Buuu!». Si tratta infatti non di azione da buon samaritano. Procedere alla spartizione avrebbe infatti significato non poter battere cassa, ché non sarebbero state rispettate le clausole contenute nel decreto governativo relativamente alla presentazione di una richiesta di un prestito alla Sace (la società di Cassa depositi e prestiti specializzata nel settore assicurativo e finanziario) che ne garantirebbe l’80% con erogazione da parte di Intesa San Paolo. Nella fattispecie, parliamo di un prestito per un valore che questo decreto, stabilendolo al 5% dei ricavi in Italia, porta la cifra a 6,3 miliardi di euro, cioè oltre il doppio della nuova mancia prevista per il dead man wolking Alitalia. Richiesta che Fca non poteva farsi sfuggire, come avevano insegnato i padri nobili del ramo italico dell’azienda: quella famiglia Agnelli che, storicamente, quando la fabbrica aveva «necessità impellenti» (così le chiamava “il patriarca” Giovanni, cioè il nonno dell’Avvocato) batteva cassa al governo col malcelato sottinteso che un eventuale rifiuto avrebbe significato mettere per strada migliaia di operai, cioè di famiglie: bombe sociali. Una “pressione” cui dovette piegare la mascella più volte perfino l’uomo della provvidenza.

Quel duce del fascismo, che «in una memorabile giornata» in fabbrica, il 30 settembre del 1933, «davanti alle maestranze che spontaneamente lo acclamavano romanamente» – come risulta da sobrie cronache dell’epoca -, fu definito dal “patriarca” dell’azienda, «salvatore della Patria». In quella occasione, “il salvatore” seriale delle patrie aziende grazie alle non casuali munificenze dell’Iri, inizialmente battezzata nel 1933 come “salvatore” delle banche, eliminò un pericoloso concorrente: quella Ford che aveva osato impiantare uno stabilimento a Trieste accordandosi con Isotta Fraschini per penetrare il mercato italiano. Una blasfemia per Agnelli cui provvide il dux chiudendo d’imperio quell’oltraggio. «Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che da noi culminò con l’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, è passato per sempre. Sorse Mussolini, il liberatore, il costruttore, e l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui»: queste sono invece le parole di Giovanni Agnelli il 14 maggio 1939 all’inaugurazione degli stabilimenti Mirafiori alla presenza del “liberatore” in camicia nera. Camicia nera indossata anche dal “patriarca”, ma che aveva fatto tingere da una bianca a sua moglie, spiegandole che prima o poi avrebbe dovuto ritingerla, quella camicia, nel solco di diversi bucati politici i cui cromatismi, nati nell’età giolittiana, sarebbero proseguiti per molti e molti polli e rampolli successivi. Una tradizione che avrebbe visto gli Agnelli specializzarsi nella mungitura della vacca statale in quella stalla in cui s’insegnava come socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Tradizione cui tiene fede – se non altro per non interrompere così nobili tradizioni di famiglia – l’ultimo rampollo, aspirante presidente, seppur senza comando, alla cui leva saranno i francesi della Peugeot del futuro colosso che nascerà dalla fusione con Fca calendarizzata per l’inizio 2001.

E siccome siamo a poco più di un semestre da quel parto programmato, la puerpera Fca non può farsi sfuggire l’occasione di una flebo da 6,3 miliardi, trattandosi – fra l’altro – non di un prestito, né di un bond, ma di una linea di credito a un tasso agevolato (agevolatissimo). Fin qui i “fatti loro”. Ci sono poi i “fatti nostri”, vale a dire le garanzie che sia io sia gli altri cinquantanovemilioni e rotti di italiani dovremmo pretendere per tramite del governo. E qui si aprono questioni complicate: non si capisce infatti quale livello di garanzia possa offrire una azienda che nel volgere dei prossimi mesi farà parte di un gruppo di cui non avrà la presidenza. A fronte di questo prestito, quale piano industriale potrà pretendere il governo? Altro dettaglio non da poco: Fca ha sede legale ad Amsterdam e fiscale a Londra, cioè nella capitale di quell’UK che sta negoziando la Brexit. Conte, ha “chiarito” che stiamo parlando «di una fabbrica italiana che occupa moltissimi lavoratori italiani» e, a scanso di intuibili e petulanti richieste di spiegazioni da parte della stampa, ha fatto filtrare la “stravaganza” che una azienda beneficiata di cotanti miliardi debba però avere sede fiscale in Italia e sede legale a Torino. Come non bastasse, con un tweet di quelli tosti, Carlo Calenda ha fatto tremare i polsi alle vene Fca (si fa per dire): «La sede legale e fiscale torna a Torino sennò saremmo nel surreale», dimenticando che quando era ministro dello sviluppo economico dei governi Renzi e Gentiloni, graziava di cassa integrazione un’azienda i cui vertici non venivano mai manco convocati. Per rispondere a eventuali – anzi, sicure – prossime obiezioni e richieste di chiarimenti, Fca ha convocato per il 26 giugno prossimo l’assemblea annuale degli azionisti. Ad Amsterdam.