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Storie di riders, da lavoratori sfruttati a servizio pubblico

È una mattina di luglio del 2018, Bologna è avvolta da una bolla di calore afoso e umido, come sempre in estate. Tommaso Falchi si sveglia presto quella mattina; toscano, bolognese d’adozione “per amore”, racconta, da settimane è impegnato in una vertenza per chiedere migliori condizioni di lavoro all’azienda per cui, da quattro anni, fa consegne a domicilio in furgone. Ha un contratto a tempo indeterminato, non è un precario, ma un lavoratore a “pieno titolo”. Almeno così crede. Prima ancora di scendere dal letto per mettere su il caffè, ancora assonnato, accende il telefono. «Ho trovato un’email con sole tre righe, ero stato licenziato per lo sciopero che avevo fatto qualche giorno prima».

Da quella mattina di luglio molte cose sono cambiate per Tommaso: «Avevo una bici e già facevo consegne per arrotondare, ero nel gruppo che ha messo su la Riders Union, il sindacato dei ciclo-fattorini. Mi sono messo a fare il rider per le piattaforme a tempo pieno». Proprio in quel periodo il tema rider attira l’attenzione a livello nazionale. Nel 2018, infatti, sempre a Bologna, nasce la “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano”, un documento nato su impulso della Riders Union, costituitasi l’anno prima, e sostenuto con forza dal Comune. «Con quel documento abbiamo fissato punti imprescindibili: innanzitutto non più cottimo, ma una paga oraria. Poi l’assicurazione, le indennità maltempo, i festivi e, naturalmente, i diritti sindacali». Insomma, un cambio di passo che condiziona il dibattito nazionale anche se, ad oggi, la Carta è stata firmata da due sole piattaforme.

«Per la sua storia e per il lavoro che abbiamo fatto in questi anni, Bologna rappresenta un terreno fertile di sperimentazione, un laboratorio in cui stiamo dando forza alle persone per affrontare i conflitti in carne viva dei nostri tempi, ispirandoci ai principi cooperativi e mutualistici». A parlare è Matteo Lepore, assessore all’Immaginazione civica, che racconta la sua idea di Bologna e il suo modo diverso di essere città nel mondo globale; sotto la foto del profilo Whatsapp di Lepore c’è scritto “creare è resistere”.

Oggi la sua città vuole creare e resistere, trasformando i rider da lavoratori sfruttati in servizio pubblico. Per farlo è nata un’alleanza che va dal mondo del volontariato alle cooperative, passando per l’associazionismo, i commercianti e centri sociali: con il sostegno delle istituzioni comunali, il 29 aprile, si tiene un’assemblea pubblica online per promuovere una piattaforma etica di consegne alternativa ai colossi del web. Grazie ad un’app che sarà messa a punto con la collaborazione di Legacoop e Cotabo, la federazione dei tassisti, la piattaforma potrà effettuare consegne, ma anche servizi di pubblica utilità come, ad esempio, la distribuzione di mascherine.

Ripercorrendo le tappe del percorso, Lepore dice che «Bologna ha l’ambizione di dimostrare che un’alternativa etica all’economia dei giganti del web è possibile. Volevano farci credere che con gli algoritmi fosse saltata l’intermediazione sociale, ma noi conosciamo il valore della comunità, non solo quello aritmetico del profitto: abbiamo messo insieme 700 negozi, soprattutto di quartiere, lavoriamo per la crescita accompagnata dalla coesione sociale perché solo così il valore che si sprigiona viene redistribuito e rimane sul territorio, arricchendolo. Avere una comunità capace di essere attiva e di creare valore è un processo che ha a che fare con la democrazia che non può limitarsi solo al voto, ma deve diventare organizzazione in grado di offrire alle persone capacità di contare e partecipare».

Proprio la crisi scatenata dal Covid-19 ha riportato all’attenzione di tutti l’importanza dei beni comuni: sanità, investimenti, sostegno economico. Il processo di dialogo e collaborazione tra i rider e la città subisce un’accelerazione: sono i giorni della quarantena, dei canti sui balconi, della paura. L’Emilia-Romagna è una regione colpita duramente. Tommaso Falchi, che nel frattempo lavora in un bar, si ritrova di nuovo disoccupato dopo il lockdown: «Il bar ha chiuso da due mesi e io mi sono ributtato nelle consegne». Durante la pandemia il tema delivery acquista una nuova centralità: «Non è possibile che noi siamo considerati servizio pubblico indispensabile, ci definiscono addirittura eroi, e poi veniamo pagati a cottimo», dice Tommaso. «Come Fondazione innovazione urbana già lavoravamo alla realizzazione di progetti di tipo mutualistico di accelerazione del cooperativismo di piattaforma» dice Raffaele Laudani, presidente della Fiu. La corsa alla solidarietà durante il lockdown è significativa, specchio di un tessuto sociale forte; «Abbiamo convocato un’assemblea pubblica virtuale con le realtà che si sono mosse attorno al tema consegne a domicilio come la velostazione Dynamo e alle diverse esperienze che nell’emergenza hanno contribuito all’attività di volontariato come la rete Don’t Panic, Idee in Movimento, Ya Basta».

L’assemblea parla ad una galassia di realtà, attori di una proposta e di un’alleanza tutta politica che «vuole recuperare una relazione tra cittadini garantendo lavoro degno grazie a un modello in cui il settore pubblico fa il driver e crea uno spazio inedito tutto da scrivere» dice Michele D’Alena che ha seguito il progetto con la Fiu. L’idea, infatti, è di far nascere non un’azienda municipalizzata, ma un modello in cui il pubblico indirizza, facilita e coordina l’organizzazione dal basso di una forma etica di mutualismo incentrata sugli obiettivi e i valori della sostenibilità, del rispetto del lavoro degno e del bene comune. Dietro c’è un’idea di città che rende la rete di consegne a domicilio “infrastruttura della città per la città”: chi aderisce al progetto aderisce a un prototipo di immaginazione urbana.

In Spagna come in Italia le destre se ne fregano della salute pubblica

A man wearing a face shield holds a Spanish flag during a protest against the Spanish government amid the lockdown to prevent the spread of coronavirus in Madrid, Spain, Thursday, May 14, 2020. Spanish authorities are calling for people to respect social distancing after a dozen of a few hundred protesters against the central government’s handling of the coronavirus pandemic refused to disband late on Wednesday. (AP Photo/Manu Fernandez)

Il divieto di manifestare imposto a Vox che vuole scendere in strada nei capoluoghi della provincia spagnola di Castilla y León, scattato a causa del rischio per la salute pubblica, ha suscitato le critiche di Santiago Abascal, presidente del partito di ultradestra, che ha anche accusato il Pp della comunità autonoma di “collaborare con la censura del governo socialcomunista”. Una manifestazione può essere fonte di propagazione del virus, è quello che hanno detto Vox e PP il passato 8 marzo femminista, quando in Spagna i decessi per Covid-19 erano 17 e i contagiati 600, ma oggi per le destre non è più così infestante scendere in piazza, anche se si sono superati i 27mila morti e i 230mila contagi. Quindi indicono cortei contro la gestione della crisi sanitaria da parte del governo progressista.

Inquieta il comportamento di queste destre europee durante la pandemia che scuote l’intero continente. Ovunque tendono a provocare il caos, là dove governano, come in Ungheria dove hanno esautorato il parlamento, e là dove sono all’opposizione, come in Spagna e in Italia (dove Lega e Fratelli d’Italia vogliono scendere in strada il 2 giugno). Una scelta che mira solo a trarre un utile elettorale dalla crisi sanitaria che si sta vivendo e dalla crisi ben più pesante e complessa che si prevede con la ripresa, nella fase di convivenza con il virus in attesa – chissà se e quando – di un vaccino.

Fin dall’inizio della pandemia le destre spagnole hanno cavalcato questa scelta con l’obiettivo di mettere in crisi il governo Sánchez, sottraendosi all’autocritica sul disastroso stato in cui i loro governi hanno lasciato la sanità pubblica del Paese e in particolare quella della comunità di Madrid, da sempre sotto la loro amministrazione. Non si sono vergognati di fare un uso strumentale delle morti avvenute nelle residenze per persone anziane, circa 20mila decessi finora accertati, quasi che la sorte di tante persone non fosse la conseguenza della vera e propria autostrada aperta al virus dai tagli allo stato sociale, voluti dalle destre e coperti dalla parte più conservatrice del Psoe.

Non si tratta solo di una tattica parlamentare in cui si alzano i toni per coprire le loro negligenze e soprattutto il vuoto di idee che li caratterizza, quello messo in atto in questi mesi è un disegno strategico di destabilizzazione. Se prima si puntava al caos agitando la questione catalana e la sua dichiarazione unilaterale di indipendenza, ora si punta a mettere in crisi il governo di coalizione e l’alleanza fra socialisti e Podemos, contrapponendo la comunità di Madrid alle decisioni prese dal governo nazionale sul coronavirus. Alla guida di questa comunità oggi è Isabel Ayuso del Pp, fedelissima dell’ex-presidente Aznar. Risultata anche lei positiva al virus mal governa la regione e la capitale dal confinamento nella lussuosissima suite di un grande albergo, proprio in centro città, vicino al Teatro Real, generosamente messa a disposizione da un imprenditore in odore di corruzione.

Lì si è fatta installare tutta la tecnologia necessaria per potersi collegare durante il suo isolamento, ha trasferito il suo ufficio, compreso un ritratto di lei che saluta il re Filippo VI e che appare come sfondo nei suoi interventi in videoconferenza. Ha trasformato la chiusura dell’ospedale Ifema in una manifestazione, con distribuzione ai bambini di pizza precotta sponsorizzata dalla Coca-Cola, senza rispettare nessuna delle misure di sicurezza previste dalla quarantena, con partecipanti ammassati senza mascherina e con un uso indiscriminato di ogni microfono a disposizione per richiedere la completa riapertura della comunità di Madrid. Mentre nella città si registra il collasso della sanità pubblica con record di contagi e decessi, tracollo denunciato da medici e infermieri costretti a gestire quotidianamente i posti letto di terapia intensiva assolutamente insufficienti.

È in atto un vero e proprio uso strumentale delle comunità autonome governate dalle destre. Da giorni qualche centinaia di residenti del quartiere Salamanca, quello con il reddito più alto della capitale, il quartiere dei ricchi e della destra nostalgica, ogni sera ripetono una cacerolada, prima con pentole e cucchiai dai balconi poi in strada, per manifestare contro il lockdown che li sta “riducendo sul lastrico”. Grande sventolio di bandiere nazionali, richieste di dimissioni, urla contro i socialcomunisti che stanno portando il Paese alla distruzione economica, senza rispettare alcuna norma di distanziamento fisico, ma reclamando la tutela del distanziamento di classe, la loro possibilità di continuare a sfruttare e consumare.
“È un movimento cittadino indipendente non affiliato con qualsiasi parte politica, per la difesa della libertà e la fine della distruzione economica della Spagna. la nostra ideologia è Libertà e Prosperità”, tutto scritto in maiuscolo sulla pagina web appositamente creata in fretta e furia del movimento che si è chiamato Resistencia Democrática.

Colpisce la compiacenza con cui la polizia nazionale ha tollerato il non rispetto delle regole dello stato di allarme, così come il silenzio di fronte allo slogan più gridato “dateci la dinamite!”. Ma Sánchez vuole chiedere una nuova proroga dello stato di allarme, questa volta di un mese, spostando il termine del confinamento alla fine di giugno, una sfida ulteriore alle destre, da portare al voto del parlamento e dall’esito non scontato.

Fase speriamo bene

Foto Pool/LaPresse 16-05-2020 Roma - Italia Politica Palazzo Chigi - Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte illustra le linee guida del Dpcm sulle riaperture Nella Foto: Giuseppe Conte Photo Pool/LaPresse May 16, 2020 Rome (Italy) Chigi palace - Press conference of the Prime Minister Giuseppe Conte on reopening after the lockdown In the pic: Giuseppe Conte

Signori e signori benvenuti nella fase 2, eccola qui, tanto invocata, tanto voluta e forse anche tanto necessaria. Non si è sconfitto il virus (non si hanno le soluzioni a disposizione e questo è un tema che spetta alla scienza), si ha molta paura (e ci mancherebbe) ma si ha anche una situazione economica che spaventa quasi quanto il virus. È quel crinale su cui la politica da sempre si impicca, tra lavoro e salute, solo che questa volta la miscela è esplosiva perché non riguarda solo una lontana città pugliese ma interessa tutto il mondo. E allora eccoci qua, in piena fase 2.

Osservare le incongruenze però è un esercizio di onestà intellettuale che non dovrebbe andare in quarantena e allora un paio di cose dovremo dircele, provare a rifletterci, trovare le domande giuste e magari pretendere anche le risposte. La Lombardia, ad esempio, al di là di tutto quello che abbiamo detto e che abbiamo scritto, ormai la situazione lombarda non è chiara solo a chi non vuole vedere, ha un peso importante in tutta questa storia: è più della metà dei morti, dei contagiati, degli ospedalizzati. Gran parte d’Italia ha aspettato la Lombardia che ha tutta l’aria di non essere pronta ma provate a immaginare cosa sarebbe successo se fosse stato il nord a dover aspettare il sud per ripartire: sarebbe stato il finimondo. In Lombardia intanto il presidente Fontana ci dice che se vogliamo verificare di essere malati o di essere stati malati possiamo affidarci ai (costosi) test privati per “non gravare sulla sanità pubblica”. Una frase mostruosa, pensateci bene. Poi Fontana ha detto che se il test risulta positivo (fatto presso un privato) la regione lo rimborserà: in sostanza si strapaga qualcosa che potrebbe costare la metà arricchendo i privati. Il solito, insomma.

Poi ci sono le famose 3 t che sono andate a farsi benedire: tamponi, tracciamento e trattamento sono finiti nel dimenticatoio, nel cassetto dei buoni propositi. Qualche giornalista ha provato a chiederlo a Conte e il presidente del consiglio ha risposto con grande eleganza: “Se lei ritiene di poter fare meglio di Arcuri, allora..”. Io ritengo che Arcuri abbia combinato parecchi disastri e per lavoro lo scrivo e non per questo sarei un buon commissario straordinario. Che faccio, mi costituisco?

Il rischio è calcolato, dicono. Solo che se chiedi chi faccia i calcoli e quale sia il metodo vieni accusato di essere disfattista, di remare contro o di essere anti-lombardooitalianoovenetoopiemonteseounaregionequalsiasi. Buona fase 2. A proposito, l’app? Dicono che arrivi. Ah, a proposito, io sono uno di quelli che non ha mai ricevuto il bonus Covid dell’Inps, domanda presentata il primo aprile, tuttora “in attesa di esito”. Ma mi dicono che non posso mica permettermi di valutare il quadro nazionale dal mio limitato angolo di osservazione. Che faccio, l’ho scritto, mi costituisco?

Buon lunedì.

 

Il patrimonio come bene collettivo. La grande lezione di Andrea Emiliani

Le recenti polemiche sulle chiusure dei musei, giunte in ritardo rispetto ad altri luoghi, a partire dalle scuole, hanno sancito, una volta di più, la cesura che ormai divide il nostro patrimonio culturale rispetto ad altri servizi pubblici. Patrimonio, in particolare quello dei musei autonomi, ormai gestito quasi esclusivamente come strumento al servizio del turismo e quindi come fonte economica primaria in un’economia, come la nostra, che fatica profondamente ad affrontare i nodi della globalizzazione e della riconversione postindustriale.

E se musei e mostre raffaellesche dopo le polemiche (v. per tutti Montanari su Il Fatto del 7 marzo) sono stati chiusi, aperti sono rimasti, ancora oggi, i cantieri di opere non sempre utili che stanno di fatto esponendo al rischio i lavoratori coinvolti e assieme gli archeologi impegnati nelle procedure di archeologia preventiva.

Una volta di più, in questi momenti così cruciali per il nostro vivere collettivo, abbiamo sentito la distanza che separa l’attuale gestione del patrimonio a quella politica dei beni culturali che fu messa a punto negli anni 70 in Emilia Romagna. Politica che costituisce uno dei tasselli di quel decennio riformista in cui il nostro Paese riuscì, talora a seguito di lotte aspre, a dotarsi di una serie di leggi in alcuni casi avanzatissime nell’ambito del welfare e dei diritti civili.

Uno dei protagonisti di quella stagione, per quanto riguarda il patrimonio culturale, fu Andrea Emiliani, venuto a mancare un anno fa, il 25 marzo 2019.

Sulla scia del dibattito innescato dalla commissione Franceschini (1964-1967), Emiliani, allievo “eterodosso” di Roberto Longhi e di Francesco Arcangeli, divenuto braccio destro dell’allora soprintendente alle Gallerie, Cesare Gnudi, promosse, dal 1968 al 1971, una serie di campagne di rilevamento del patrimonio rurale appenninico, un censimento per la prima volta globale dei beni culturali in aree e su oggetti sino a quel momento ben poco frequentati dagli storici dell’arte, ma già allora interessati da fenomeni di abbandono. Emiliani stesso li definì una sorta di «convegni itineranti» cui parteciparono gruppi di studiosi di molteplici discipline: non solo storia dell’arte, quindi, ma architettura, geografia, fotografia, geologia, linguistica, urbanistica…

Una ricognizione a tappeto, interdisciplinare non finalizzata alla “sola” conoscenza scientifica, ma alla sua trasmissione alle comunità di riferimento, perseguita attraverso una molteplicità di azioni convergenti, dalle mostre, allestite nei luoghi dove si erano svolte le campagne stesse, agli incontri con la popolazione, attraverso i quali si restituivano le conoscenze acquisite sul campo e si discuteva di temi sino a quel momento impensabili al di fuori della cerchia di addetti ai lavori, quali il riconoscimento e la conservazione del patrimonio culturale.

La conservazione come pubblico servizio sarà, nel 1971, il titolo programmatico di un volume di Emiliani, espressione di quell’esperienza attraverso la quale si sperimentò una rigenerazione del sistema della conservazione /tutela dei beni culturali e delle sue pratiche, nei metodi e ancor più nella concezione politica.

Rigenerazione che seppe confrontarsi, come mai prima in Italia, con le acquisizioni della coeva antropologia culturale, riscoprendo la ricchezza cognitiva del patrimonio culturale e finalizzandola ad un uso sociale. Le ragioni della patrimonializzazione diventavano, per questo, pubbliche e condivise e il patrimonio strumento di emancipazione e di riconoscimento identitario.

Il contesto sociale, culturale e politico fu l’ineludibile innesco di quelle sperimentazioni. La Bologna rossa, ricca e solidale degli anni a cavallo dei 60 e 70 era non solo un esperimento – riuscito per almeno un paio di decenni – di buon governo, capace di coniugare l’efficacia amministrativa, ad un ascolto politicamente aggiornato delle istanze sociali della collettività, ma anche un crocevia di sperimentazioni culturali, da quelle delle controculture giovanili alle innovazioni accademiche del Dams.

In questo contesto, nel 1973, la giunta regionale della Regione Emilia Romagna, da poco costituita e presieduta da Guido Fanti, presentava il progetto per un Istituto dei Beni artistici, culturali, naturali, primo e destinato poi a rimanere unico in Italia, strumento innovativo sul piano della cultura politica e ispirato al precetto del “conoscere per governare”. L’Istituto rappresentò la prosecuzione, sul piano degli organismi istituzionali, dell’esperienza delle campagne di rilevamento, ispirato quindi ad un nuovo concetto di patrimonio culturale, non solo perché allargato a comprendere l’intero spettro delle forme delle attività umane, ma perché il patrimonio era interpretato come un sistema unico col paesaggio, nel paesaggio e soprattutto perché la tutela trovava la sua prima garanzia di efficacia nella coscienza del possesso sociale e il bene tutelato acquisiva quindi valore perché rivendicato, agito socialmente.

Uno dei principali ideatori di quel progetto, che prenderà corpo di lì a un anno, in parallelo cronologico con il ministero dei Beni culturali e ambientali, ma sulla base di una visione culturale ben più aggiornata, sarà appunto Andrea Emiliani, che, sempre nel 1974, pubblicò quello che a tutt’oggi rappresenta uno degli studi più acuti di storia della tutela e di sua innovazione concettuale, Una politica dei beni culturali. Nel volume, il progetto per un nuovo Istituto, che sarà poi l’Ibacn, si ispira ai concetti di interdisciplinarietà e necessità di una restituzione sociale dei risultati dell’indagine scientifica e culturale: non siamo poi così lontani da quei principi di “multivocalità”, “partecipazione”, “coinvolgimento” che costituiscono alcune delle parole d’ordine tuttora presenti nelle discussioni dei più aggiornati heritage studies.
“Luogo del futuro”, destinato alla sperimentazione più che alla gestione, l’Istituto sarà pensato come un laboratorio in grado di costruire quella conoscenza necessaria al processo di pianificazione territoriale demandato alla Regione, che, quindi, avrebbe dovuto comprendere la tutela e condivisione del patrimonio culturale fra i suoi obiettivi politici prioritari.
Attraverso il ribaltamento concettuale per cui la conservazione del bene culturale non può che essere l’ultima, condivisa tappa di un percorso di riappropriazione sociale del bene culturale, Emiliani e il gruppo che più da vicino visse con lui quella stagione, tentò in sostanza di ricucire quella cesura creatasi, almeno dall’Ottocento in poi, fra patrimonio culturale e comunità sociale, consapevole che tale frattura costituiva una ferita nel tessuto democratico del Paese.
A partire dagli anni Ottanta, come ben sappiamo, e a livello non solo locale, quella spinta propulsiva fondata sul primato della politica e su una visione ispirata al perseguimento di obiettivi di miglioramento sociale, fu abbandonata, praticamente ad ogni livello istituzionale e in ogni settore.
Molto altro ci sarebbe da dire sulla figura di Emiliani, raffinato studioso, in particolare del Cinquecento e Seicento bolognese e roveresco, e della storia della tutela, competenze che seppe interpretare nel suo ruolo di grandissimo commis d’état, quale fu, per scelta, per oltre quarant’anni, capace di esercitare al meglio la gestione del continuum tutela-valorizzazione.
E assieme, museologo, fra i primissimi in Italia a divulgare i principi di una moderna museologia, a partire dalla Storia d’Italia Einaudi.
Al ruolo sociale del museo Emiliani dedicò pagine fondamentali, come anche molti progetti divenuti in parte operativi. Luoghi di costruzione dell’identità sociale e civile, in estrema sintesi, per Emiliani, i musei esercitano compiutamente il loro ruolo quando diventano lo spazio dove è possibile compiere quella «promenade du citoyen che fu sancita dalle rivoluzioni democratiche».
Partendo da queste premesse, Emiliani avversò radicalmente le così dette riforme Franceschini.
La distanza con l’oggi di quella visione culturale, è testimone inappellabile della nostra progressiva perdita di capacità progettuale e della nostra impotenza nel ripensare ad una crescita del Paese su binari completamente diversi, in cui la priorità sia finalmente data agli investimenti ambientali e culturali.
Per riallacciare, almeno in parte, il filo con quella stagione di innovazione culturale, possiamo, in questo tempo sospeso, rileggere una serie di pubblicazioni e riascoltare la voce di Emiliani nei materiali (testi, video, foto) che il sito dell’Istituto Beni culturali a partire dal 25 marzo ha reso liberamente consultabili.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 3 aprile 2020

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Impero contro impero

Close up on cement plaster wall surface. Black and white and grunge style image.

Da un paio di mesi a questa parte la pandemia di Covid-19 sta portando alla luce in modo sempre più chiaro il contrasto, spesso ai limiti di una conclamata ostilità, tra gli Stati Uniti e la Cina. L’aumento esponenziale del contagio e delle innumerevoli polemiche sull’efficacia della risposta governativa alla pandemia negli Stati Uniti, hanno spinto a più riprese il presidente Trump, il segretario di Stato Mike Pompeo e altri esponenti dell’amministrazione americana a scaricare la responsabilità di quanto sta accadendo negli Stati Uniti in parte sull’operato dell’amministrazione Obama e, in particolare, su Pechino.

La crescente enfasi sulle presunte responsabilità del governo cinese nel non aver impedito la diffusione del contagio oltre i propri confini o, come dichiarato a più riprese da Trump e Pompeo (ma senza fornire prove), che il virus sia stato creato in un laboratorio di Wuhan, è stata giudicata da molti osservatori come un maldestro tentativo di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica americana da un paio di fatti, questi sì, comprovati: dapprima la sottovalutazione dell’impatto pandemico sulla nazione americana e, conseguentemente, l’impreparazione nell’affrontarlo con ripercussioni gravi sulla sanità, l’economia e la stabilità sociale.

Ma i contrasti tra Cina e Stati Uniti sulla pandemia non rappresentano altro che il capitolo più recente, seppur alquanto aspro, nella crescente contrapposizione geopolitica, militare ed economica tra i due Paesi, portata oltremodo alla ribalta dalla guerra commerciale e tecnologica dichiarata da Donald Trump nei confronti del Regno di Mezzo.

Due eventi principali riassumono contestualmente l’offensiva dell’amministrazione americana: l’istituzione nel luglio 2018 di pesanti tariffe d’importazione su un numero tanto ampio quanto vario di prodotti cinesi; l’inclusione di Huawei nella “lista nera” del Dipartimento del Commercio americano, che in pratica proibisce al colosso tecnologico cinese operatività e partnership commerciali negli Stati Uniti. La reazione cinese a queste misure…

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I partigiani del paesaggio

L’associazione nata nel dopoguerra sulle macerie del fascismo per ricostruire una coscienza civica a servizio del Paese, trova conferma oggi del suo ruolo grazie a un virus alieno che sta ridisegnando il presente e il futuro dell’Italia. L’addio in questi giorni a Nicola Caracciolo e gli auguri ai cent’anni di Desideria Pasolini dall’Onda entrambi presidenti onorari di Italia Nostra, omaggiati sui giornali come combattenti irriducibili, protagonisti di un pezzo di storia del nostro Paese, hanno conciso con le celebrazioni del 21, 25 aprile e 1 maggio, dando così un valore aggiunto di attualità ai principi fondativi dell’associazione.

Senza dimenticare gli apporti di tanti altri autorevolissimi esponenti dell’associazione vale quindi la pena di dare nuova luce ad alcune testimonianze di quegli uomini e donne che hanno conquistato a Italia Nostra la riconoscenza pubblica di quattro presidenti della Repubblica: Einaudi, Ciampi, Scalfaro e Napolitano e dettano ancora oggi la direzione giusta di impegno dell’associazione per contribuire a un senso nuovo di comunità in grado di resistere alle nuove minacce di povertà e diseguaglianze create da Covid-19, tutelando sempre come risorsa primaria del Paese il patrimonio di natura, arte e cultura al servizio di un’economia del lavoro solidale e socialmente utile.

Primo esempio per le nuove generazioni è l’eccezionale esistenza mutualistica e cosmopolita spesa fino all’ultimo giorno da Umberto Zanotti Bianco, senatore a vita e primo presidente di Italia Nostra, che dai ritrovamenti durante gli scavi condotti in regime di confino fascista a Sibari e a Paestum insieme alla coraggiosa archeologa dissidente Paola Zancani, trasse ulteriore impulso per aiutare il riscatto sociale e culturale del Meridione già perseguito con dedizione leggendaria tra “la perduta gente della Calabria” all’indomani del terremoto del 1908. Nel 1910 fondò l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno e la società Magna Grecia per la salvaguardia delle memorie archeologiche in quei territori, insieme all’istituzione di decine di asili, scuole, cooperative di lavoro, biblioteche circolanti, ambulatori, colonie montane; un impegno portato a termine nel dopoguerra con una campagna di alfabetizzazione capillare ed una riforma agraria che ispirò gli studi di Manlio Rossi Doria ed Emilio Sereni negli anni successivi…

* Annalisa Cipriani, Italia Nostra Roma

La Giornata virtuale dei beni in pericolo promossa da Italia Nostra è una iniziativa che continua fino alla fine di maggio con un post al giorno sulla pagina Facebook di Italia Nostra

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Forte con con gli indifesi, la guerra di Erdogan contro gli artisti

A decine si sono radunati la scorsa settimana per dargli l’ultimo saluto: bandiere rosse, pugni alzati, fiori, canti e poi il grido «Ibrahim Gokçek è immortale!» che ha risuonato per il quartiere Gazi di Istanbul, storico fortino della sinistra. Ibrahim, 39 anni, bassista della band Grup Yorum era lì racchiuso in una bara dal peso leggerissimo: il suo corpo privo di vita era arrivato a pesare meno di quaranta chili dopo 323 giorni di sciopero della fame durante i quali aveva rivendicato il diritto a fare la sua musica. Ma la commozione dei tanti amici di Ibrahim si è presto trasformata in paura quando la polizia è intervenuta con cariche e gas lacrimogeni. Assembramento contrario alle disposizioni anti-Covid, diranno le autorità. Ma non ci crederà nessuno. Del resto bastava guardare alla diversità di trattamento delle forze dell’ordine nei confronti degli attivisti di estrema destra che, indisturbati, fino all’ultimo hanno provato a bloccare il convoglio funebre per dare fuoco al cadavere. Perché quel corpo, pur scheletrico, continuava a farsi beffe del regime del presidente turco Erdogan. E l’irrisione deve essere pagata a caro prezzo nella Turchia polarizzata del Sultano dove qualunque diversità va cancellata. «Siamo nati nelle lotte per i diritti e le libertà iniziate in Turchia dal 1980. Abbiamo pubblicato 23 album per riunire cultura popolare e pensiero socialista. Abbiamo cantato i diritti degli oppressi in Anatolia e tutto il mondo», ha scritto Ibrahim al giornale francese l’Humanité a fine aprile con le ultime energie rimastegli.

Un’idea di mondo inaccettabile per il partito di governo Akp del presidente islamista Erdogan che li ha accusati di terrorismo a favore del gruppo armato marxista-leninista Dhkp-C. Un’accusa che il Grup Yorum ha deciso di combattere pagando a caro prezzo: un mese fa, infatti, si era spenta la cantante Helin Bolek dopo 288 giorni di digiuno che l’avevano portata a pesare 33 chili. Il 24 aprile se n’era andato Mustafa Kocak, 297 giorni senza cibo in solidarietà con la band. Avevano meno di 30 anni…

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Il nemico immaginario di Donald Trump

A paramilitary policeman looks on past the US flag on the embassy compounds in Beijing on July 26, 2018 following a blast near the US embassy premises. - A 26-year-old Chinese man set off a small explosive device outside the US embassy in Beijing on July 26, injuring his hand in the blast before he was taken into custody, police said. (Photo by Greg BAKER / AFP) (Photo credit should read GREG BAKER/AFP via Getty Images)

«Chinese virus». «Wuhan virus». Sono i due nomi che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha utilizzato per identificare il Covid-19 durante la pandemia ancora in corso. A inizio maggio il segretario di Stato Mike Pompeo ha affermato pubblicamente che era in possesso di «prove enormi» a sostegno della teoria secondo cui il virus sarebbe fuoriuscito dall’Istituto di virologia di Wuhan, una tesi già proposta numerose volte dallo stesso Trump.
La teoria del complotto ha accompagnato tutto lo svilupparsi della pandemia. Durante una delle ultime conferenze stampa alla Casa Bianca, il presidente ha affermato di aver visto con i suoi occhi le prove di questa presunta manipolazione cinese della diffusione del virus, aggiungendo che l’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe vergognarsi visto che sta praticamente facendo pubbliche relazioni per la Cina, come ha ricordato la Bbc. Questa serie di dichiarazioni quantomeno avventate ha spinto l’Office of the director of National Intelligence, cioè l’ufficio che supervisiona i servizi segreti statunitensi, a rilasciare una dichiarazione pubblica (evento rarissimo) in cui professa il suo appoggio alle teorie scientifiche che imputano all’evoluzione naturale l’origine del Covid-19. Una posizione ribadita anche dal presidente della task force contro il coronavirus negli Usa, il dottor Anthony Fauci, che ha ricordato come non sia ritenuto possibile dalla scienza che il virus provenga da una manipolazione di laboratorio.

Eppure, Donald Trump non cede. Le premesse d’altronde non erano buone: durante tutto il suo mandato alla Casa Bianca i rapporti con Pechino sono stati a dir poco travagliati, basti pensare ai famosi dazi sulle importazioni. All’inizio della pandemia sembrava che Trump avesse deciso di fare un’inversione a U della sua politica anti-cinese plaudendo alla reazione pronta del presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, nel fronteggiare questa inedita crisi. Una luna di miele che è durata ben poco. Ora Donald Trump minaccia ritorsioni finanziarie contro Pechino…

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Polveri sottili e coronavirus, un’alleanza letale

Foto Claudio Furlan - LaPresse 07 Gennaio 2020 Milano (Italia) cronaca Nebbia nel quartiere di Porta Nuova Photo Claudio Furlan - LaPresse 07 January 2020 Milan (Italy) News Fog in the Porta Nuova area

Geograficamente la Pianura padana (o anche padano-veneta) comprende gran parte della popolazione del Nord Italia (esclusi solo gli abitanti di montagna), nelle regioni Piemonte, Lombardia, Emilia e Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia, per un totale di oltre 20 milioni di abitanti. Quando si osserva dall’alto questa area, attraverso i satelliti, si nota, anche quando il cielo è sereno, una costante presenza di una coltre di foschia grigio-giallognola: non sono né nubi né nebbia (che pure si trovano spesso nel cielo), ma smog, cioè un insieme di gas e particelle inquinanti.

Sono più di vent’anni che scienziati di varie discipline (biologi, ambientalisti, chimici ed epidemiologi) documentano il grave inquinamento, soprattutto atmosferico, della Pianura padana e il rilevante numero di malati e morti che questa condizione comporta. Nel Nord Italia gli inquinanti, gas e particelle sospese (aerosol e polveri fini), prodotti dalle diverse attività, restano a lungo nell’aria che poi respiriamo, la cui qualità non solo è peggiore rispetto al resto d’Italia, ma non ha pari, in senso negativo, in tutta l’Unione europea, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (Aea).

Le cause di questa situazione sono molteplici: anzitutto va ricordato che la Pianura padana è circondata da montagne: ad ovest e a nord le Alpi e a sud gli Appennini, rimane aperta solo la parte ad est, dove troviamo il mare Adriatico. Questa condizione geografica rende l’aria stagnante per buona parte dell’anno e quindi gli inquinanti perdurano a lungo nell’aria, salvo quando piove o arrivano forti venti.

Inoltre le regioni padano-venete sono densamente abitate (vi vive oltre un terzo di tutti gli italiani) e qui si trovano la maggior parte delle…

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La forza della scienza contro il Covid-19

La pandemia da Covid-19 ha determinato la più grande quarantena della storia dell’umanità. E su questa malattia c’è ancora molto da sapere, avverte l’immunologo e accademico dei Lincei Guido Forni che con Alessandro Mantovani, Lorenzo Moretta e Giovanni Rezza ha scritto il libro I vaccini fanno bene, in libreria dal 15 maggio edito da La nave di Teseo.
Professor Forni, a che punto siamo? Si può affermare che il Sars-CoV-2 ora sia meno aggressivo, come qualcuno dice? Quali sono le sue previsioni?
Penso che ad oggi nessuno abbia elementi per poterlo dire. Parliamo di una malattia che ha 90 giorni di vita. È trascorso un tempo piuttosto breve da quando è stato identificato il coronavirus Sars-CoV-2, fare delle previsioni è difficilissimo, se non impossibile. Che il virus si attenui è al momento un wishful thinking; che la stagione estiva e il caldo possano avere un effetto positivo è per ora solo una speranza.

Sappiamo qualcosa di più su come questo virus interferisce con il sistema immunitario?
Ogni giorno sappiamo qualcosa di più, la quantità di dati che si accumulano quotidianamente è incredibile. Ogni mese, come Accademia dei Lincei, stiliamo un rapporto: colpisce come il quadro della conoscenza sia cambiato in soli trenta giorni. Le pubblicazioni e le nuove informazioni su questo virus e su Covid-19 sono aumentate in maniera davvero esponenziale.

Riguardo al vaccino cosa possiamo aspettarci?
Dal punto di vista intellettuale la sfida del vaccino è interessantissima, sono partiti contemporaneamente circa 150 progetti. Dato che la malattia è nuova, è importante che ci sia una piattaforma ampia di studi e una varietà di approcci concettuali differenti sperando che alla fine quattro o cinque di essi riescano a indurre una efficace resistenza contro il virus. Questa varietà di approcci è una garanzia di probabilità di successo…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 15 maggio

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