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Ma sono vigliacchi o sono eroi

A patient is assisted by medical staff at one of the emergency structures that were set up to ease procedures at the Brescia hospital, Italy, Monday, March 16, 2020. For most people, the new coronavirus causes only mild or moderate symptoms. For some, it can cause more severe illness, especially in older adults and people with existing health problems. (AP Photo/Luca Bruno)

Eroi o vigliacchi. Il populismo (anche mediatico) non si pone mezze misure e ancora di più in tempo di coronavirus. C’è bisogno di notizie estreme, soluzioni estreme, volemose bene, untori, assassini o salvatori. La giornata di ieri.

Alcuni giornali ci dicevano che c’erano al Cardarelli di Napoli 249 medici in malattia, a gran parte fannulloni. Per Walter Ricciardi, consulente per l’emergenza coronavirus del ministero della Salute, «come sempre nelle circostanze drammatiche emergono gli eroismi e le vigliaccherie dei singoli, fortunatamente sono decisamente di più i primi». Mentre il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, sottolinea come in «questa è una guerra in cui molti soldati stanno combattendo in prima linea senza elmetto, senza giubba e anche senza armi. Questi sono i nostri eroi. Poi ci sono i vigliacchi, i traditori, quelli che scappano. Questi vanno colpiti». A suo avviso «chi adesso abbandona il campo di battaglia non va fatto il procedimento disciplinare ma va licenziato».

Nel pomeriggio esce un altro articolo, questa volta su Il Mattino di Napoli: «Sono in totale 33 e non 249 i medici del Cardarelli, su 739 di cui 16 nei dipartimenti assistenziali e 17 nel dipartimento di emergenza e accettazione (pronto soccorso che fronteggiano anche il Covid-19). Di questi ultimi 4 sono affetti da patologie croniche e 4 positivi al tampone per il Covid-19 in isolamento fiduciario in base alle disposizioni di sorveglianza sanitaria prevista dal decreto del governo per fronteggiare l’emergenza epidemiologica.
Gli altri 9 sono ammalati per il Covid-19»: il manager del Cardarelli Giuseppe Longo smentisce con un video le accuse di assenteismo dei medici.

Le tifoserie ormai però sono formate e ben divise: da una parte chi dice che è una vergogna e che funziona sempre così e dall’altra chi dice che i medici si ammalano perché non sono protetti. La verità non sta nel mezzo: con due notizie così qualcuno semplicemente sta mentendo, non esiste un “mezzo”.

Eppure anche questo tempo, come quelli precedenti, ha bisogno di eroi e di nemici, di rinunciare a ogni forma di complessità. Bisogna essere estremi in tutto, bisogna trovare la notizia che faccia rizzare i capelli. Eppure ci farebbe bene un po’ di complessità.

Buon giovedì.

(ps: l’assessore Gallera dice che la vicenda dell’ospedale di Legnano di cui abbiamo parlato ieri sia un fake news e che ci vorrebbe troppo tempo sistemarlo. Meglio farlo da zero. Intanto sono arrivate decine di foto di ospedali abbandonati. Che quelli siano abbandonati è un’evidenza, no? Che siano diminuiti i posti letto è un’evidenza, no? Ma anche questo è troppo complesso: “fake news!” e basta, a posto così)

Andrà tutto bene

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 17 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Coronavirus, Raccolta sangue della Croce Rossa Nella foto : il centro mobile di raccolta sangue in piazza Sempione Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 17 , 2020 Rome (Italy) News Coronavirus Emergency, Red Cross blood donation In the pic : the blood donation mobile centre of the Red Cross

Gabriele Romagnoli nella sua rubrica “La prima cosa bella” su Repubblica del 17 marzo parla dell’interpretazione dei sogni e di Marie-Louise von Franz (1915-1988). La psicoanalista tedesca naturalizzata svizzera allieva di Jung, studiò più di ogni altra cosa i sogni. Tra i tanti da lei raccontati in conferenze e interviste in relazione al tema della morte c’è quello fatto da una donna considerata affetta da un carcinoma terminale, a cui i medici avevano detto: “Andrà tutto bene”. La donna sognò che il suo orologio si era fermato. Lei l’aveva portato dall’orologiaio, ma lui glielo aveva restituito scuotendo la testa e dicendole che non poteva più essere riparato. Fu la paziente a interpretare il sogno: “Parla chiaramente dell’esito della mia malattia”. La dottoressa la ascoltò in silenzio, senza contraddirla. Ha raccontato questa storia quindici anni più tardi, in un documentario canadese. Alla fine ha aggiunto: “Quella donna è ancora viva. Incredibile. La mia spiegazione è che il sogno della fine abbia provocato uno choc alla sua mente, le abbia fatto affrontare il problema, causato una reazione, l’abbia salvata”.

Un altra ipotesi è che l’interpretazione del sogno della paziente non sia stata corretta. Due giorni dopo il primo sogno la donna ne fece un altro: sognò ancora che il suo albero preferito era caduto a terra. Romagnoli però, nella sua rubrica, non fa riferimento a questa circostanza. Se i sogni si riferiscono alla malattia psichica e non a quella fisica allora andrebbero interpretati nell’ambito della relazione terapeutica. L’orologiaio incapace è pertanto l’analista e l’orologio è fermo per la pulsione di annullamento che fa cadere l’albero cioè distrugge la vitalità. Le immagini oniriche della donna sono coerenti e creano una rappresentazione credibile della dinamica della malattia e della propria situazione interiore nonostante l’inerzia e l’assenza dell’analista. Ciò può aver contribuito a potenziare la reazione al tumore e a sfruttare al meglio le probabilità di guarigione. Forse quella dei medici non era stata solo una bugia pietosa. La von Franz che in età avanzata soffriva di un Parkinson pochi giorni prima di morire sognò che era completamente guarita. Negazione o bugia pietosa, detta a se stessa, che nascondeva una sofferenza mentale? Non sappiamo. Però sappiamo come la von Franz svolgeva le sue analisi. In un documentario dice testualmente: “Amo la terapia junghiana perché non determina nessuna ingerenza(…) non abbiamo alcuna teoria. Non crediamo che l’essere umano debba diventare normale. Se vuole restare nevrotico ne ha pienamente il diritto”. Ciò che conta è essere se stesso, cioè seguire il proprio destino. Questo era stato detto da Jung la cui matrice ideologica è l’ideologia volkish, la stessa da cui è derivato il nazismo: in base ad essa il popolo tedesco avrebbe dovuto seguire il proprio destino, la propria volontà di potenza. Ora mi si dovrebbe spiegare come uno schizofrenico possa seguire il proprio destino dal momento che nessuno si prefigge di modificarlo: dovrebbe arrendersi alla ineluttabilità della propria malattia che altera profondamente l’identità?

Non entro in merito allo spiritualismo astratto e religioso della von Franz che viveva in una torre come Jung e sognava che la medesima torre esisteva nell’aldilà. Pur essendo una persona con una grande cultura classica a me appare come analista molto inattendibile e la sua concezione dei sogni piuttosto discutibile, nonostante dica di averne ascoltati più di 60mila, dato che lei utilizzava prevalentemente l’interpretazione simbolica. Quindi quando Gabriele Romagnoli suggerisce più o meno apertamente che la psicoanalisi junghiana può aiutare a capire come potenziare le nostre capacità di reazione psichica all’epidemia, non va preso molto sul serio: anzi va guardato con molto sospetto. D’altra parte la condizione e la sanità mentale delle persone che contrariamente a quanto diceva la Von Franz esiste, è fondamentale per evitare, nell’Italia ai tempi dei bollini rossi e del contagio, le fughe dissociative al Sud, le negazioni clamorose come gli assembramenti ai Navigli e nei parchi, le chiese aperte e gli appuntamenti nei supermercati: seguire il proprio destino, essere narcisisticamente se stessi, non può significare condannare a morte gli altri.

La sanità mentale, d’altra parte, è molto distante delle reazioni paranoiche e naziste di Boris Jonshon che avrebbe voluto lasciare gli infettati proprio al loro destino e quelle di Donald Trump che voleva utilizzare il vaccino dell’influenza contro il Coronavirus. In fondo, avrà pensato il tyicoon nella sua abissale ignoranza, questi virus si assomigliano tutti come hanno detto coloro (anche virologi italiani) che hanno equiparato il Covid-19 all’influenza. Ma si può lasciare ai criminali e agli incompetenti la libertà di essere se stessi?

Le riflessioni che una pandemia impone, a sinistra

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 13 marzo 2020 Roma (Italia) Polfer Cronaca Emergenza Coronavirus, flash mob di solidarietà contro la solitudine alle 18 di oggi tanti si sono affacciati alle finestre a suonare e cantare Nella foto : gente alle finestre alla Garbatella Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 13 , 2020 Rome (Italy) News Coronavirus Emergency, flash mob against loneliness, many citizens at the windows singing and playing In the pic : people at the window in the popular block Garbatella

Quando l’emergenza da coronavirus sarà finita, quando torneremo alla normalità, bisognerà pure riflettere su molte cose che la crisi ha messo in evidenza, perché non è affatto scontato che avremo capito, come si tende semplicisticamente a dire.
Non è scontato, storicamente, che dopo aver superato le tragedie si faccia tesoro degli insegnamenti: dopo l’olocausto se ne sono succeduti altri (e guerre intestine jugoslave, la Siria, la tragedia Curda, ecc), eravamo un popolo di emigranti, eppure una parte non irrilevante del Paese vorrebbe respingere gli emigranti, non eravamo razzisti, fino a quando il nostro Paese non diventava un porto di approdo e gli “stranieri” si limitavano a qualche “folcloristico” ospite di colore, ecc.
Allora bisognerà riflettere su quanto la crisi ci ha gettato in faccia con una brutalità fino a qualche giorno fa inimmaginabile.

Serve quindi un piccolo decalogo delle cose da ricordare e da cui trarre insegnamento. Proviamo ad elencarne alcune, tra le tante su cui dovremo riflettere: un primo parziale memorandum, cui ne dovranno seguire altri.
Innanzitutto, credo, che la vicenda coronavirus ci insegna che chi si propone a guida del Paese non può affidare le proprie scelte, perlomeno per le grandi questioni d’interesse nazionale, secondo la stramba teoria o metodo dell’analisi costi/benefici. Mi pare appaia con evidenza che se quello fosse lo strumento, la sanità pubblica, e non solo, dovrebbe chiudere. Nessun rapporto costi/benefici sarà mai a favore della sanità pubblica.
Viviamo in questi giorni la più chiara dimostrazione della necessità e della giustezza di un sistema sanitario libero, pubblico e universale.

Il virus è democratico, può colpire tutti indiscriminatamente, ricchi e poveri, belli e brutti. È come affrontarlo che non è scontato sia parimenti democratico: in un sistema come quello italiano, tutti possono godere di assistenza gratuita a prescindere dalla propria condizione economica, in altri sistemi (la grande America ad es.), ti puoi curare solo se puoi permettertelo.

Allora che si finisca con questa “stramberia”, falsamente democratica, delle analisi costi/benefici. Chi governa deve assumersi la responsabilità di scegliere (sia essa la Tav come la Sanità, l’Istruzione, come i trasporti, la politica industriale, l’Ilva ecc.), perché tali scelte non solo danno il senso della propria visione del mondo, ma determinano nel concreto la vita collettiva. Affidarsi alle analisi costi/benefici risulta quindi un modo elegante per nascondere le proprie incapacità, per accattivarsi facili consensi, per lavarsene le mani.

La crisi fa emergere con forza il ruolo, assolutamente primario, dello Stato, come regolatore non dei rapporti sociali, ma di controllo e indirizzo del mercato (favorire o meno la sanità, o l’istruzione privata ad es. a discapito di quella pubblica). Allo stesso tempo si impone però una riflessione sulle implicazioni che derivano dalla “ingerenza” dello Stato nella convivenza democratica tra cittadini, tra questi e le istituzioni e tra le istituzioni nelle sue varie articolazioni: fino a che punto uno Stato può limitare, di fatto, le libertà individuali e collettive? Ed emerge inoltre, contestualmente quindi, con estrema chiarezza, l’assurdità dell’Autonomia differenziata tanto sbandierata prima della crisi.

Appare sempre più evidente inoltre come sia necessaria e vitale l’equa distribuzione fiscale, altro che appiattimento, l’importanza, da un lato, della lotta all’evasione ed elusione, e dall’altro della necessità di una migliore e più efficace progressività, e quindi della necessità “etica” di tassare i grandi patrimoni, senza che questa ipotesi venga facilmente e demenzialmente accantonata come “estremista e antagonista”, una sorta di vendetta contro chi “ce l’ha fatta”. La Patrimoniale, quindi, da riproporre con forza per quella che è: uno strumento, etico prima di tutto, di distribuzione della ricchezza a beneficio della collettività.

La tecnologia deve essere al servizio dell’uomo e non del profitto. In questi giorni si corre all’uso dello smart working, cioè della possibilità diffusa di lavorare senza necessariamente spostarsi (che tra l’altro consente riduzione di traffico con conseguente miglioramento della qualità dell’aria, riduzione di consumi superflui, favorisce il trasporto pubblico ecc). In tempi di “pace” allora la tecnologia può, deve, mettersi al servizio dell’uomo: si può produrre meglio, ma la ricchezza prodotta non deve tradursi in accumulazione, ma deve essere restituita alla collettività, che tale ricchezza produce, in termini di salario, in termini di occupazione e in termini di tempo restituito.

L’elenco, come si diceva, può proseguire. Mi fermo qui. Ma allora, come sinistra, dobbiamo porci, riproporci la domanda principale su noi stessi: quale è il nostro ruolo, la funzione, la ragion d’essere.
In questo scenario, per rimanere nel nostro misero orticello italiano, allora, capisco quello che mi divide dalla destra. Come mi appare chiara la distanza con il Pd (quello che finora è stato e quello che ancora pare rimanere): un soggetto ancorato ad una visione liberista con cui, necessariamente, dovrò confrontarmi, con cui dovrò, necessariamente, dovrò immaginare alleanze o coalizioni, ma mai riconoscermi o confluire.
Quello che non mi appare chiaro è la pervicacia nel perseguire la continua divisione a sinistra delle decine di forze, soggetti, associazioni di sinistra di cui Sinistra Italiana, Art1, Potere al Popolo, Possibile, Prc sono solo i più “visibili”.

Cosa ci divide, oggi, nel 21° secolo? Ci divide il contrasto ideologico se è preferibile la Rivoluzione in un solo Paese o la Rivoluzione permanente? Il dibattito su Marx o Proudhon? Sulla scelta socialdemocratica? Ci divide la sudditanza all’Urss e ai Paesi fratelli?
Mi pare, credo, che tutte le principali forze di sinistra nel Paese siano convintamente antiliberiste, siano tutti per una società di eguali, si proclamino tutte per un ambientalismo come strumento di cambiamento, tutte avversarie di una società al servizio del capitale, tutte antifasciste.
Insomma la cornice, e direi il contenuto ideale e ideologico, è comune.

Ci dividono (per rimanere in una analisi “nobile” delle motivazioni e tralasciando personalismi e convenienze di parte) le singole scelte politiche: ma queste giustificano il confronto, non la divisione, perché queste sono contingenti, se inserite nel quadro ideale descritto.
La fine della crisi ci porrà con forza, come sinistra, una riflessione seria su tutto questo: se la divisione è ancora accettabile e soprattutto se utile al Paese. Ci stiamo assumendo una responsabilità enorme e non da adesso.
Bisognerebbe avere il coraggio, da parte di tutte le forze in campo, di scegliere una volta per tutte e chiaramente, di sciogliersi e creare un unico grande, forte, aperto, plurale soggetto nuovo che possa rappresentare le esigenze diversamente senza sponde.

Sarebbe una operazione di grande coraggio e lungimiranza se i diversi soggetti (so di sognare) decidessero di tenere i loro congressi, basterebbe una mezza giornata, con un unico tema all’ordine del giorno, da votare in mezzora: scioglimento e adesione a nuovo soggetto. Lo potrebbero fare tutti nella stessa giornata, per ritrovarsi subito dopo (come a Livorno nel ’21 se qualcuno ha memoria) in una sala comune dove dare vita, assieme e con pari dignità, ad un nuovo soggetto, senza pretese, senza voler “pesare” più di altri, scegliendo una classe dirigente nuova, comune, fatta delle migliori menti disponibili, a prescindere dalla provenienza e dal peso.
Mi rendo conto di aver semplificato molto, che non è così semplice, che il tutto necessiterebbe di lavori preparatori ecc. Ma si potrebbe dare il senso della volontà, di aver compreso, o di aver cominciato a comprendere.
Quando tutto questo finirà, le domande inevase che esistevano prima della crisi non saranno scomparse. Se mai se ne aggiungeranno di nuove. E noi, la sinistra, staremo sempre lì a guardarci l’ombelico, o finalmente sapremo sederci a ragionare insieme su come dare una risposta ai bisogni della gente?

Lionello Fittante è cofondatore associazione politico-culturale #perimolti.
Aderente Movimento Politico èViva

«Sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo si può fare la differenza», diceva Orso

Il 18 marzo 2019 Lorenzo Orsetti, un ragazzo di 33 anni originario di Firenze, ha perso la vita mentre combatteva contro i miliziani dell’Isis asserragliati nella roccaforte di Baghouz , nel sud-est della Siria. Orso – così lo chiamavano i suoi amici – aveva lasciato l’Italia un anno e mezzo prima per unirsi alla rivoluzione curda e combattere in prima linea in difesa di quegli ideali su cui si fonda la Confederazione democratica del Rojava.

La morte di Lorenzo aveva riacceso l’attenzione su ciò che stava accadendo in quella parte di mondo e sulla lotta che le milizie curdo-arabe delle Ypg e delle Ypj (le Unità di protezione del popolo maschili e femminili) conducevano da tempo contro lo Stato islamico, che proprio in Siria – e in Iraq – aveva eretto il suo Califfato. Pochi giorni dopo la scomparsa di Orso, i curdi hanno liberato gli ultimi villaggi in mano ai jihadisti e dichiarato sconfitto l’Isis, almeno nella sua versione statuale.

A un anno dalla morte di Lorenzo, però, la situazione in Rojava è molto cambiata: la Turchia ha invaso la Siria del nord-est, la minaccia jihadista è tornata a farsi sentire e gli attacchi contro i curdi e la loro rivoluzione proseguono senza sosta. “L’impegno di mio figlio però non è stato vano. Ha dato tutto sé stesso per quello in cui credeva e ha dimostrato che tutti noi possiamo fare qualcosa per cambiare la realtà in cui viviamo”. A parlare è Alessandro Orsetti, padre del giovane combattente fiorentino. “Lorenzo è diventato un modello di riferimento per chi vuole un mondo migliore. In tanti ancora lo ricordano e hanno fatto proprie le sue parole”.

In occasione del primo anniversario della morte, diversi eventi erano stati organizzati nella città di Firenze, ma l’emergenza coronavirus ha costretto la famiglia a rimandare il tutto a data da destinarsi. “Non abbiamo cancellato l’iniziativa, l’abbiamo solo posticipata in attesa di capire come evolverà la situazione. Tanti artisti si sono offerti per partecipare agli eventi che avevamo organizzato con il sostegno della comunità curda in Italia, dei compagni e di tutti coloro che vogliono ricordare nostro figlio”. In tanti infatti hanno manifestato la propria vicinanza alla famiglia Orsetti, segno che a distanza di un anno il ricordo di Lorenzo è ancora vivo. “Questa solidarietà e questa vicinanza ci commuovono”.

In attesa di poter tornare alla normalità, la famiglia ha lanciato una raccolta fondi per un ecografo 3D da inviare in Rojava ed è stato anche organizzato un flash mob per il pomeriggio del 18 marzo. “Chi vorrà alle 18 potrà cantare o suonare Bella Ciao dalla finestra o leggere le parole di Lorenzo”. Per l’occasione è stato anche lanciato l’hashtah #orso18m.

Ma se le scelte di Lorenzo e la sua morte hanno lasciato un segno nella società, lo stesso non si può dire per il mondo politico, né a livello locale né tanto meno nazionale. “Il Comune di Firenze ci è stato vicino, ma stiamo ancora aspettando che intitolino una strada a nostro figlio come ci era stato promesso. Ad oggi non sono stati fatti passi in avanti perché, stando a quanto ci dicono, non è possibile cambiare così facilmente la toponomastica della città. Quello che ci hanno offerto in alternativa è di intitolargli un giardino o un altro spazio pubblico, ma basterebbe poco per cambiare nuovamente nome a questi luoghi. Per questo continuiamo a insistere per la strada”.

Le critiche di Alessandro Orsetti non si limitano solo all’amministrazione comunale. “La politica italiana non ha compreso Lorenzo né i suoi ideali, come dimostra l’indifferenza del nostro Governo nei confronti di ciò che sta accadendo oggi in Siria. L’Italia – e non solo – ha voltato le spalle ai curdi per perseguire i propri interessi”.

Solo pochi mesi fa, infatti, le forze del Rojava hanno dovuto fare i conti con l’ennesima operazione militare della Turchia contro il Nord-est della Siria: a nulla sono valsi i tentativi della diplomazia internazionale di fermare il presidente turco e i curdi sono stati costretti a rinunciare a una parte del loro territorio per evitare ulteriori morti. “In tanti hanno criticato il ricorso alle armi dei curdi affermando che la via da percorrere doveva essere quella della diplomazia, ma come abbiamo visto di recente quest’ultima non sempre funziona. Ciò non vuol dire giustificare la violenza, ma giudicare le scelte che vengono prese in base al loro contesto”.

Proprio il ricorso alle armi è stato uno degli argomenti usati il 17 marzo dalla pm Emanuela Pedrotta per dichiarare Eddi Marcucci, anche lei ex combattente nelle fila delle Ypj, un “pericolo per la società” e sottoporla quindi alla sorveglianza speciale. “Provo molto dispiacere per quanto accaduto. È evidente che c’è una parte dell’Italia che non ha ben capito il percorso che questi ragazzi hanno fatto in Rojava, né le istanze che portano avanti”.

Per tanti altri invece la scelta di chi è andato in Siria per difendere la rivoluzione del Rojava ha un significato profondo, così come lo hanno le ultime parole di Lorenzo. “I suoi pensieri sono validi sempre, anche adesso che dobbiamo affrontare l’emergenza coronavirus. Ho visto tante persone chiudersi in sé stesse, quando invece è proprio questo il momento di mettere da parte l’egoismo e aiutare gli altri”. Come diceva Orso nel suo testamento, solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza.

Una domanda

Eccoli qui, Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso. Il primo si lascia andare a un’importante donazione e il secondo si prepara a farla fruttare per un nuovo ospedale in Fiera a Milano. Conoscendo i soggetti sarebbe il caso di parlare piuttosto di restituzione e sarebbe anche il caso di non dimenticare le colpe del primo (una frode fiscale allo Stato italiano da 368 milioni di dollari) e le “capacità” del secondo (chiedete dalle parti de La Maddalena come ha gestito i soldi pubblici). Ma c’è una domanda a cui sarebbe il caso di rispondere, la scrive Riccardo Germani, portavoce Adl Cobas Lombardia e operatore sanitario all’ospedale di Legnano:

«Lettera aperta:
Al Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana
All’assessore al Welfare, Giulio Gallera
Al Direttore generale Asst Milano Ovest, Fulvio Adinolfi
Al Commissario straordinario, Guido Bertolaso
Alla stampa ed ai cittadini.

Dagli operatori della sanità di Adl Cobas Lombardia.

Sono Riccardo Germani, portavoce di Adl Cobas Lombardia, nonchè lavoratore dell’ospedale di Legnano. Raccolgo la proposta di un gruppo di lavoratrici e lavoratori dell’ospedale e la rendo pubblica. Ci rivolgiamo a quanti in indirizzo, perché in questo momento crediamo che l’aiuto di tutti sia un bene prezioso.

Sappiamo che la Regione ha chiesto di coordinare la possibilità di costruire un ospedale per pazienti di Covid-19 a Guido Bertolaso, che sta cercando di allestire, presso i padiglioni della ex Fiera di Milano, nuovi posti letto. Probabilmente il commissario straordinario Bertolaso non è a conoscenza della presenza di una struttura che ha tutte le potenzialità per accogliere velocemente nuovi pazienti proprio qui vicino all’ex zona fiera.

Non vogliamo entrare in polemica sulle vecchie vicissitudini e lo spreco di denaro pubblico della nostra storia sanitaria regionale ma, sottolineiamo che proprio a Legnano, a poca distanza dalla zona fiera, esiste il “vecchio monoblocco” e ben due padiglioni realizzati e predisposti dieci anni fa con tutte le attrezzature. Infatti, essendo una brutta pagina politica di questa Regione, sembra che pochi si ricordino ciò che oggi potrebbe essere invece una risorsa per garantire, immediatamente, centinaia e centinaia di nuovi posti letto. Infatti, ci sono: camere già attrezzate con predisposizione di ossigeno, una rianimazione, reparti di terapia intensiva che sono chiusi, mentre resta aperto e funzionante in una struttura nuovissima un prezioso laboratorio di analisi.

A nostro avviso sarebbe una soluzione immediata se si rendesse operativa questa struttura con l’investimento di meno risorse economiche che potrebbero, invece, essere utilizzate per materiali, dispositivi e per assumere il personale sanitario che servirebbe a gestire più di 500 posti letto che si renderebbero disponibili senza alcuno spreco di risorse e di tempo. Invitiamo per tanto a fare un sopralluogo, a verificare quanto stiamo asserendo sicuri di quanto affermiamo.

Noi lavoriamo all’ospedale attualmente attivo a Legnano che è di recente costruzione ed oggi sta operando con grande professionalità dei lavoratori e delle lavoratrici tutte, come meglio può per accogliere i malati di Covid-19, anche grazie ad un’amministrazione che da subito ha affrontato in maniera pragmatica l’emergenza mettendo a disposizione reparti da destinare ai malati e personale, ma come dappertutto i posti non sono mai abbastanza. Abbiamo una risorsa e ci aspettiamo che venga attivata per il bene comune di tutta la regione».

Si attende risposta.

Buon mercoledì.

A cosa serve la monarchia in Spagna?

Spain's King Felipe VI gives a speech during the official opening of the parliamentary season in Madrid, Monday, Feb. 2, 2020. Nearly 50 lawmakers who advocate for the Spanish regions to become independent have boycotted Monday's ceremonial opening of the nation's legislative season over the presence of the royal family. The representatives of five parties from the Catalonia, Basque Country and Galicia regions, all in northern Spain, say the king's figure is "anachronistic" and that it should be rooted out of Spanish politics. (AP Photo/Bernat Armangue)

Appare tardiva e ambigua la decisione di Filippo VI, re di Spagna, di smarcarsi dalle malefatte del padre, il re emerito Juan Carlos I, con un comunicato in cui gli azzera il vitalizio di 16 mila euro mensili e rinuncia all’eredità. Il codice civile spagnolo vieta la rinuncia a una eredità se non c’è morte, ma la Casa Reale finge di non saperlo e ha scelto di fare questo annuncio quando anche in Spagna si sta confinati nelle proprie case per l’emergenza sanitaria imposta dal coronavirus e non è facile capire la reazione di spagnole/i, già poco propensi a interrogarsi sull’utilità della monarchia, e con altre priorità per la testa in questo momento.

Tutto inizia quando un giornale svizzero riferisce che l’ufficio del procuratore sta seguendo le tracce di una donazione di 89,7 milioni di dollari effettuata nel 2012 dal re saudita a favore del re Juan Carlos I. Una copiosa tangente per la costruzione dell’alta velocità dal deserto verso La Mecca. Appare poco credibile che Filippo VI non fosse a conoscenza delle relazioni fra suo padre e l’Arabia Saudita, delle conseguenti tangenti che quel rapporto produceva o del traffico d’armi che nascondeva. Sorprende l’inconsapevolezza dell’attuale re di Spagna, la sua stupefazione di fronte alla notizia che milioni di euro sono stati depositati a favore del padre in conti off-shore, la sua incredulità per il riemergere dei torbidi rapporti del re emerito con la nobildonna Corinna zu Sayn-Wittgenstein. Dubitare o meno della buona fede del re è forse di poco interesse, assai più stimolanti sono alcune considerazioni politiche che la rottura di re Filippo VI col padre potrebbe sollevare.

In primo luogo interroga sul ruolo dell’ex sovrano nella transizione spagnola e quell’immagine anti franchista, affibbiatagli da tanta stampa e da accomodanti ricostruzioni storiche, ne esce incrinata. Non regge non solo perché Juan Carlos I sul trono di Spagna fu piazzato proprio dal dittatore Franco, ma perché la trama corruttiva in cui risulta coinvolto il re emerito, manda in pezzi l’immagine della casa reale spagnola come massimo garante della rete di mediazioni su cui è stata costruita la Spagna del dopo Franco, il cosiddetto compromesso che ha portato all’approvazione della costituzione nel ’78, dopo la morte del caudillo.

Difficile continuare a marginalizzare le ricostruzioni storiche che da anni contestano il ruolo buono e anti franchista della Casa Reale, difficile nascondere che non fu il re ad assicurare la transizione democratica, ma lo stato di necessità che obbligò comunisti e socialisti spagnoli ad accettare, meglio sarebbe dire a subire, il compromesso che convertì il regime franchista nella monarchia parlamentare tuttora in vigore. Senza mai interrogare il popolo spagnolo, con un referendum, se proseguire o meno con re e regine.
Oggi l’immagine della Casa Reale come asse portante della democrazia spagnola viene travolta nella palude corruttiva in cui è direttamente coinvolto l’ex sovrano e a ben poco servono i tentativi del figlio, l’attuale sobrio monarca, di salvarla con una diplomatica rinuncia all’eredità.

La transizione alla democrazia che ha portato la Spagna fuori dal franchismo, senza però estirparne le radici sociali ed economiche, e che ha obbligato comunisti e socialisti ad accettare il compromesso sulla costituzione del ’78, appare oggi lontana della realtà, soprattutto con una coalizione progressista e di sinistra al governo. Sconcerta quindi la decisione con cui i socialisti spagnoli, alleandosi con il Partito Popolare, hanno impedito l’istituzione di una commissione parlamentare di indagine sul re emerito, richiesta da Unidas Podemos e dai repubblicani catalani di Erc, entrambi soci decisivi dell’attuale maggioranza di governo.

Ciò che non sembrano comprendere i socialisti è che mai come adesso, dopo quarantadue anni di democrazia, appaiono mature le circostanze per chiedere al popolo spagnolo di pronunciarsi su una istituzione come la monarchia. Certo l’esplosione della pandemia di questi giorni interroga se, superata l’emergenza, sia necessario ripartire perseguendo profondi cambiamenti della società e della sua economia, o rinunciarvi e tornare al passato, tentando di rilanciare modelli obsoleti. Se sono inaccettabili le ingiustizie sociali, le profonde disuguaglianze, a cominciare da quelle tra donne e uomini, le devastazioni ambientali e il cambio climatico, l’altro virus che sta minando certezze e equilibri sociali, altrettanto inutile appare la Casa Reale. Forse la credibilità di una classe dirigente risulterebbe rafforzata se giustificasse le misure di emergenza a cui sottopone la popolazione con l’indicazione di un orizzonte in cui sia evidente che niente sarà come prima. Mettere fine alla scelta che la massima carica dello Stato non sia elettiva, ma decisa per discendenza biologica, non è certo la principale priorità del profondo cambiamento che si aspetta, ma dimenticarsene sicuramente darebbe un segnale di ridimensionamento del progetto di trasformazione che si persegue.

Il coronavirus è arrivato nelle carceri. L’indulto è più che mai urgente

Turin , November 2004 - Juvenile prison "Ferrante Aporti" >< Torino, novembre 2004 - Istituto Penale per Minorenni Ferrante Aporti

Come usciremo dalla pandemia? Certamente non come vi siamo entrati. Come è sempre accaduto storicamente per le grandi crisi, si para dinanzi alle società un bivio. O si rafforzeranno stati di eccezione (alla Schmitt), comunità nazionalistiche ed escludenti o prevarrà una nuova percezione di senso, che ci urla che il “re è nudo”, che il capitale globale è fragile, che l’Unione europea ha definitivamente fatto bancarotta. Può diventare percepita la fragilità strutturale. Il dominio del capitale può disvelarsi come un comando senza egemonia culturale. Anche noi dovremo cambiare mettendo a tema categorie classiche in parte rimosse come corpi, spazi, territori.

A questo allude, ad esempio, la tragica e prevista esplosione del carcere (oggi, 17 marzo, purtroppo sono stati rilevati i primi contagi di Covid-19 in penitenziari lombardi e a Voghera, ndr). Corpi massacrati, spazi ristretti e sovraffollati, inaudita promiscuità ci parlano di una feroce ed incostituzionale condizione carceraria. Dovrà profondamente cambiare. Parleremo con maggiore autorevolezza ed ascolto rispetto a ieri di depenalizzazione dei reati minori, di misure alternative, del carcere come ultima istanza, di abbattimento dei muri etnici, dei Centri di permanenza per il rimpatrio. Discuteremo con più forza di amnistia. Non a caso, in queste ore voci importanti nella magistratura, nell’associazionismo, le Unioni camere penali, i piccoli partiti della sinistra , stanno discutendo di indulto e di una serie di misure urgenti alternative all’ossessione giustizialista di Bonafede.

Si aprono, insomma, in forme a volte non lineari, terreni più avanzati di conflitto. Un secondo esempio. Lottiamo da anni, Giuristi democratici con i comitati degli occupanti di case che lottano per il costituzionale diritto all’abitare, per il “diritto di avere diritti” (richiamando Hannah Arendt e Stefano Rodotà). Cioè per il riconoscimento della residenza, sia per i nativi che per i migranti, essenziale per realizzare l’obiettivo, in base all’art. 3 della Costituzione. È stata emanata, molto recentemente, una decisiva sentenza della Corte costituzionale (sentenza n.44 del 2020) che sancisce che limitare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica solo a coloro che risiedono o lavorano nel territorio regionale da almeno cinque anni è incostituzionale.

A volte, allora, si vince. La Consulta ha, infatti, annullato la legge iniqua e razzista n.16 del 2016 della Regione Lombardia, tesa ad impedire a quasi tutti i migranti l’accesso alla graduatoria. Il ricorso contro la legge del 2016 era stato presentato proprio da un cittadino tunisino attraverso l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asfi) e l’Associazione volontaria di assistenza socio/sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti. Un bel lavoro fatto insieme, dal basso, da sfruttati, migranti e Giuristi democratici conseguenti, che osano andare controcorrente. La Consulta ha richiamato espressamente il «principio di eguaglianza sostanziale, perché il requisito temporale richiesto dalla legge lombarda contraddice la funzione sociale stessa dell’edilizia residenziale pubblica». È molto importante, perché la Lombardia era stata imitata, in questa spirale razzista, dal Veneto, dal Friuli Venezia Giulia, dal Piemonte, dalla Toscana.

Ora la lotta per la casa poggia su una più forte legittimazione. È stato, infatti, ribadito dalla Corte in maniera solenne il diritto costituzionale all’abitazione, precisando che è compito della Repubblica dare effettiva attuazione a tale diritto. La Corte ci richiama ai parametri di vita dignitosa di fronte all’indigenza, a criteri economico/sociali. E ci dice che frapporre ipocriti ostacoli temporali riguardanti la residenza è ingiusto e razzista. Ha spostato molto in avanti il conflitto sociale. E ha anche rafforzato l’impegno di Left contro l’autonomia differenziata (“la secessione dei ricchi”, non a caso). L’autonomia regionale, quando diventa territorio e comunità escludenti , deve lasciare il passo all’affermazione dei diritti universali costituzionali.

Anche le difficili condizioni strutturali di una sanità regionalizzata, privatizzata, mercificata stanno facendo, in questi giorni, aprire gli occhi a milioni di persone. Potremo, forse, con più forza, ricominciare a discutere di un importante intervento pubblico, di uno Stato costituzionale che progetta e coordina. È possibile che, usciti dalla crisi della pandemia, spiri un’aria più fresca?

Tutti a casa, e i senza casa?

L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato il coronavirus pandemia. In Italia, le misure per fermare il contagio si fanno sempre più stringenti. Il messaggio è: state a casa. Già, ma chi una casa non ce l’ha? Cosa può fare chi è costretto a vivere per strada? Cosa possono fare le fasce più deboli della popolazione come i senza fissa dimora, i migranti, i richiedenti asilo? Le istituzioni, si dirà, avranno pensato anche solo ad una situazione temporanea per loro. Purtroppo invece non è così. «In questo momento nessuno ha previsto nulla – conferma Antonella Torchiaro, una delle coordinatrici mediche di Intersos – se un senza fissa dimora ha febbre, tosse o sintomi influenzali chiama il 118, finisce in pronto soccorso, con tutti i rischi del caso e l’aggravio di lavoro per gli operatori rispetto ad una persona che non dovrebbe stare lì, e una volta ok viene mandata al domicilio. Che non ha, quindi finisce per strada. Casi che purtroppo stanno succedendo». Per chi invece non ha sintomi ma, visti i vari decreti, sarebbe meglio stesse a casa, «non c’è soluzione».

A peggiorare ulteriormente le cose, almeno su Roma, una nota del Comune «che sospende le nuove accoglienze nel circuito ordinario – spiega Antonella – e in quelle del piano emergenza freddo, che poteva tutelare qualcuno. Un provvedimento che crea solo un maggior bacino di persone che non hanno una collocazione sicura».
Di fronte a tutto ciò, numerose organizzazioni umanitarie si stanno coordinando insieme per denunciare il problema sia a livello nazionale che territoriale, come ad esempio a Roma.

«La priorità – prosegue la coordinatrice Intersos – è che si parlino le istituzioni, come Sanità e Comuni, perché è il sistema pubblico a dover dare una risposta e comunque non bisogna sospendere l’accoglienza. Da parte nostra cerchiamo di lavorare congiuntamente con altre associazioni oltre a sollecitare Asl e altri enti per intraprendere attività adeguate. Abbiamo poi messo a punto procedure di pretriage per persone che dovrebbero essere accolte da strutture ordinarie, così da valutare eventuali casi di isolamento. Per le persone che non hanno nessun tipo di accoglienza ci sono poi numerosi edifici che potrebbero essere convertiti in luoghi di accoglienza straordinaria. Oppure si può pensare a tendoni come quelli della Protezione civile. Al momento stiamo capendo come le istituzioni risponderanno a queste richieste di soluzioni». Nel frattempo però resta il fatto che, a giudicare dai provvedimenti, per le stesse istituzioni alcuni esseri umani non sono contemplati. «Sono invisibili – conferma Antonella Torchiaro – e puoi anche far finta di non vederle ma queste persone esistono e sono esposte a rischi come tutti noi. Persone parte di una collettività, che come tale deve trovare soluzioni per garantire anche alle fasce più deboli di stare al sicuro».

Insieme ad Intersos, non mancano le associazioni che stanno lavorando su questo tema, come Medici per i diritti umani (Medu), che tramite canali social comunica di aver «avviato un intervento urgente di triage medico telefonico per homeless ed insediamenti precari», o come la campagna #vorreirestareacasa lanciata di recente dal centro di accoglienza romano Binario 95 – rilanciata da realtà capitoline come Pensare Migrante e Baobab Experience – per richiamare l’attenzione sulle condizioni che le persone senza dimora e i servizi di accoglienza sono chiamati a fronteggiare. Problematica che, purtroppo, se pensiamo alle condizioni di alcune strutture d’accoglienza, si allarga a macchia d’olio.

Giorni fa c’è stata una segnalazione da parte del Coordinamento migranti di Bologna – pubblicata sulla loro pagina facebook – nella quale si legge come nel centro di via Mattei «viviamo in più di 200 e dormiamo in camerate che ospitano 5 o più persone con letti vicini, uno sopra l’altro. Molte di queste stanze non hanno le finestre per cambiare l’aria. Anche la sicurezza sanitaria di donne e uomini migranti è importante e il coronavirus non discrimina tra bianchi e neri. Perché Prefettura, Questura, Regione e Comune non considerano l’affollamento dei centri di accoglienza un rischio per il contagio che mette in pericolo la nostra salute e quella di tutti?».

Domande che ancora non trovano risposte da parte delle istituzioni, se non quella denunciata nelle ultime ora da Alterego. L’associazione, dopo aver ricordato come tra le disposizioni atte a fronteggiare l’emergenza coronavirus ci sia quella che prevede un’ammenda in caso di ingiustificato allontanamento dal proprio luogo di residenza o dimora, fa sapere che «numerose segnalazioni ci sono giunte da parte di migranti, a vario titolo presenti nel nostro Paese, che già si sono visti notificare dalla polizia giudiziaria, a seguito di controlli, la violazione di tale prescrizione». Una realtà che sembra assumere contorni persecutori. Contro la quale in tanti, per fortuna, continuano a battersi.

Per approfondire, Left in edicola dal 13 marzo 

SOMMARIO

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I cecchini della gente per strada

Foto Claudio Furlan - LaPresse 15 Marzo 2020 Milano (Italia) News La prima domenica di blocco totale dovuta all emergenza coronavirus Nella foto: Persone al Parco Marinai D’Italia rispettano la distanza di sicurezza Photo Claudio Furlan/Lapresse 15 March 2020 Milan (Italy) The first Sunday of total blockade due to coronavirus emergency In the photo: People at Marinai d’Italia park respect the safety distance

Mi si perdoni se esco per qualche minuto dalla retorica dello #stateacasa (a proposito, se potete restate in casa) e dal volemose bene che viene proferito da tutte le parti ma questa nuova moda di fare i giustizieri della notte sperando di poter fotografare con il proprio telefono qualcuno che cammina per strada o che corre al parco per poterlo sputtanare sui nostri social e per gridare all’untore non la trovo un alto esempio di leale e consapevole cittadinanza.

Mi spiego, sperando di riuscire a spiegarmi: ma siamo sicuri davvero che sia scoppiato tutto questo enorme improvviso senso civico e invece non covi da qualche parte, sotto la brace, l’ansia di potere dare una faccia e un nome a un colpevole qualsiasi per avere la soddisfazione di odiare e di sentirsi assolti come serenamente e quotidianamente avveniva prima del Coronavirus? Chiedo, eh.

Siamo sicuri che (al di là delle precauzioni sanitarie che devono essere rispettate doverosamente, anche dagli ex ministri dell’Interno con relativa fidanzata) prendersela con i vecchietti che parlottano (contravvenendo le regole, lo so, lo riscrivo, perché sia chiaro il messaggio) sotto casa, inveire con tutta questa bile, non sia un modo per “chiudere in casa” anche la propria visione del mondo e di ciò che accade dimenticando che l’angolo di osservazione non è ciò che (non) vediamo dal nostro salotto ma in questo momento in giro c’è un’Europa che (ancora una volta) si sgretola negli individualismi, c’è una Spagna che requisisce le aziende sanitarie private per l’emergenza (senza chiedere permesso, per favore e senza spendere mille grazie se si ottiene un po’ di collaborazione) mentre da noi sono decenni che tagliano sulla sanità e sui posti letto, c’è Bergamo che è una moria che spacca il cuore solo a raccontarla e ci sono migliaia di persone che non sanno come iniziare il prossimo mese, oltre al mancato coordinamento internazionale per affrontare il virus, oltre alla situazione esplosiva di Lesbo di cui parlano ancora in pochi e qualche altro migliaio di situazioni.

Insomma, mi chiedo, ma non è un po’ troppo facile così?

Buon martedì.

Le incognite dello smart work all’era del Covid-19

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Fra le questioni che l’emergenza Covid-19 sta ponendo ai lavoratori/trici e alle organizzazioni sindacali, vi è il problema del lavoro a distanza. All’interno di una crisi sistemica inedita, che sta già sconvolgendo l’economia reale e ridisegnando i rapporti di forza fra le filiere della catena del valore globale, si intravedono inedite insidie sul modo di lavorare. Fra i punti dell’accordo siglato sabato 14 marzo da governo, sindacati e Confindustria, si raccomanda che «sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile». Certo, lo smart work, il lavoro da remoto senza vincoli orari non è affatto una novità in sé, semmai sono le dimensioni e la tipologia dei lavoratori/trici implicati a fare la differenza con il passato: non più solo lavoratori cognitivi, tecnici, ricercatori, professionalità legate al capitalismo digitale o lavoratori occupati in settori “tradizionali” coinvolti nell’Industria 4.0. Nelle prossime settimane, con la parziale sospensione e riorganizzazione di molte attività produttive, solo in Italia milioni di lavoratori cominceranno a sperimentare nuove modalità di lavorare, di comunicare e di produrre.

È necessario che l’organizzazione sindacale vigili in modo attento sul rispetto delle norme che regolano lo smart work, specie sui limiti fissati dagli articoli 2, 3 e 4 dello Statuto dei lavoratori. L’articolo 4 contiene un principio molto rigoroso: l’installazione e l’uso di apparecchiature tecnologiche e di sistemi, come videocamere o software, in grado di controllare a distanza lo svolgimento dell’attività lavorativa del dipendente, non sono permessi salvo sia stato disposto da un accordo sindacale o via sia l’autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Tuttavia, ciò non significa che i datori non possano effettuare controlli sull’attività della forza-lavoro: sono consentiti, purché mirati, laddove vi sia un fondato sospetto che il dipendente stia commettendo illeciti con attrezzature aziendali.

Al di là dei problemi posti dal lavoro a distanza su privacy e sorveglianza, è l’intera organizzazione del ciclo lavorativo e produttivo a essere chiamata in causa. Secondo la responsabile di un’importante società, lo smart work consentirebbe «di conciliare più facilmente lavoro e vita privata, e di conseguenza anche un aumento della produttività. Serve soprattutto un cambio di mentalità che porti le imprese a dare fiducia al lavoratore e a valutarlo non più per la quantità di tempo passato a lavorare ma per gli obiettivi e i risultati raggiunti». Se un orizzonte più o meno imminente di “governance” della forza-lavoro verte sulla valutazione dei risultati, al di là e oltre il tempo di lavoro, si aprono scenari assai inquietanti, che mettono in forte discussione tanto la “misura” del lavoro, quanto la tenuta della tradizionale divisione tra tempo di lavoro e tempo di vita (già compromessa o di fatto resa più fluida in molte professioni). Smart work, invece di lavoro agile e intelligente, potrebbe infatti tradursi come lavoro senza fine, come estensione del tempo di lavoro non retribuito.

Il contesto emergenziale in cui siamo, giocoforza, immersi pone da subito questioni che l’organizzazione sindacale dovrà pianificare e fronteggiare, con nuove proposte e strumenti di contrattazione e di tutela, a partire dal diritto alla disconnessione, dal divieto di imposizione di smart work in caso di malattia e dal rispetto della privacy. Riassumendo il tutto con un acronimo ben conosciuto, si tratta di affiancare ai Dpi, i dispositivi di protezione individuale, i Dpid, i dispositivi di protezione digitali: la tutela della sicurezza, della salute psico-fisica della forza-lavoro non può più fermarsi ai luoghi fisici della produzione, ma deve estendersi ai nuovi modi di lavorare a distanza.

Un altro piano di grande importanza riguarda i comportamenti in questo periodo di isolamento domestico, soprattutto l’uso consapevole delle piattaforme online e dei social network, e la gestione dei dati personali e sensibili. Sarà fondamentale, nelle prossime settimane, vigilare affinché le politiche emergenziali messe in atto dagli stati non comprimano ulteriormente i diritti connessi all’uso della rete. Se il capitalismo della sorveglianza, come mostra Shoshana Zuboff, ha da tempo assunto dimensioni e poteri fuori controllo, è lecito attendersi che le grandi aziende si stiano già attrezzando per mettere a valore il caos provocato dalla pandemia. Un rilevante campo di conflitto potrà riguardare la raccolta, il trattamento e la gestione dei big data connessi al Covid-19. A causa del periodo di isolamento domestico e dei cambiamenti della vita quotidiana e sociale provocati dal “distanziamento sociale”, nelle prossime settimane l’utilizzo della rete in Italia avrà una forte crescita, e con esso l’uso intensivo dei social network.

A tal proposito, appare fondamentale sviluppare campagne specifiche di uso consapevole della rete, che veicolino pochi e semplici concetti. In primo luogo, è importante che gli utilizzatori limitino il più possibile la diffusione di informazioni personali e di dati sensibili (si pensi a tutto ciò che riguarda la salute), a maggior ragione nelle principali piattaforme private. In secondo luogo, sarebbe opportuno incoraggiare l’uso di piattaforme non proprietarie, basate sui principi della condivisione e del software libero. Terzo, anche per coloro che accedono alla rete usando in prevalenza i servizi delle grandi compagnie, è possibile ridurre il danno, ad esempio installando semplici software che limitano la profilazione e con ciò la raccolta di big data (Cfr. il collettivo Ippolita; su big data, tracciamento e alternative digitali etiche in rete ai tempi del Covid-19, qui un’utile guida.

Guardando alla gestione della pandemia Covid-19 in Cina, appare che l’uso delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, da parte dei centri decisionali, si è mosso in due direzioni principali. Da una parte, i principali colossi cinesi dell’high tech, su impulso e controllo delle autorità, hanno svolto una funzione fondamentale di monitoraggio e di contenimento del contagio, grazie all’impiego di tecnologie all’avanguardia. Dall’altra, l’invasività di tali strumenti apre scenari preoccupanti di sorveglianza generalizzata, solo in parte mitigati dal controllo statale su tali strumenti. Si pensi ad esempio al monitoraggio in tempo reale degli spostamenti individuali attraverso smartphone e Gps, all’implementazione delle tecnologie di riconoscimento facciale, allo sviluppo di software e applicazioni con funzioni di sorveglianza, al tracciamento delle transazioni finanziarie, al momento focalizzati sul contrasto dell’epidemia e sulla salute dei cittadini, ma il cui uso potrebbe essere presto destinato ad altre finalità.

In Occidente, invece, non si intravede una strategia univoca, e sembra anzi dominare una risposta frammentaria, isolazionista e non coordinata dei vari Stati di fronte al Covid-19. Una differenza essenziale con la Cina rispetto alla gestione della pandemia riguarda la preminenza o il monopolio del settore privato sul pubblico in molti servizi online essenziali, nella ricerca e nella sperimentazione delle tecnologie digitali. Ciò apre due questioni.
In primo luogo, in assenza di una strategia vincolata all’interesse pubblico, è grande il rischio che, approfittando del clima emergenziale a cui andiamo incontro, la macchina dell’accumulazione risponda unicamente ai propri interessi. Un esempio fra i tanti possibili: negli Usa Google sta approntando un sito web per determinare se le persone hanno bisogno di test. Quali garanzie, per i cittadini che ne facessero uso, che i loro dati personali non vengano estratti e utilizzati con finalità commerciali e/o di controllo, quando dovrebbe ormai essere noto che nessun servizio sul web è gratuito, ma si nutre dei nostri dati?

Alcuni grandi gruppi stanno già approfittando delle nuove opportunità che Covid-19 genera: si pensi solo all’industria farmaceutica e della sorveglianza o ai profitti attesi da un ciclo di distribuzione delle merci sempre più trainato dall’e-commerce, che trascina con sé forme di lavoro povere, precarie e de-regolamentate. In questo senso, un compito urgente è ripensare un ruolo centrale dello Stato e della programmazione pubblica nello sviluppo delle infrastrutture e dei servizi digitali.

In secondo luogo, ricollegandosi a quanto già argomentato rispetto alle insidie del lavoro a distanza, l’organizzazione sindacale, i delegati e i lavoratori/trici dovranno attentamente vigilare e lottare affinché le sperimentazione in atto sullo smart work non si traducano in una riduzione dei livelli occupazionali e in un peggioramento delle condizioni di lavoro. L’accelerazione dell’uso delle tecnologie digitali che la pandemia sta determinando porta con sé grandi incognite, riproponendo temi classici (fra tutti, l’uso capitalistico delle macchine e l’incremento dei ritmi di lavoro). Siamo probabilmente vicini a un cambio di paradigma, a cui occorre attrezzarsi, dal punto di vista sindacale e politico, aggiornando parole d’ordine – a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – e strumenti.

Andrea Cagioni è un operatore e ricercatore sociale, Firenze