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Il dilemma. Le scelte difficili in terapia intensiva

Foto Claudio Furlan - LaPresse 27 Febbraio 2020 Piacenza (Italia) Cronaca Tensostruttura davanti al Pronto Soccorso dell Ospedale di Piacenza per far fronte all emergenza CoronavirusPhoto Claudio Furlan - LaPresse 27-02-2020 Pieve Fissiraga (Italy) NewsStructure in front of the Emergency Department of the Piacenza Hospital to deal with the Coronavirus emergency

«Lasciano morire i vecchietti» si legge e si sente spesso dire a seguito della pubblicazione da parte dalla Siaarti, la Società scientifica degli anestesisti, del documento, reperibile on line: Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili.
Quando muore un “tuo” paziente, su un tuo letto, durante una tua guardia, sotto la tua diretta responsabilità ho sempre provato, anche dopo tanti anni di direzione di una terapia intensiva cardiologica, una particolare sensazione di sconfitta e, pur non avendo in genere seri dubbi, ogni volta puntuale veniva da chiedermi se avessi potuto fare diversamente e di più, se avessi fatto troppo, se avessi permesso che soffrisse. Qualcuno mi ha poi fatto capire che servivano a non assuefarmi, a non diventare cinico, distante e freddo, a non perdere qualcosa indispensabile. Questo e molto altro la gente non lo sa ma per giudicare il vissuto e alcuni comportamenti di chi cerca di evitare la morte per malattia di un altro essere umano dovrebbe almeno un po’ conoscerle. È utile quindi fare alcune precisazioni.

Gli anestesisti rianimatori sono quelli che, più di altri specialisti, hanno a che fare con scelte difficili e mai superficiali. Il tema del fine vita è da sempre difficilissimo e continuo è lo scontro tra posizioni profondamente divergenti; nella pratica clinica può esserlo ancora di più.
Serve prima di tutto leggere il documento che pur essendo di natura tecnica permette di capire lo spirito con cui è stato scritto. È stato scelto l’approccio trasparente di far conoscere a tutti il tema delicatissimo dei criteri di ricovero e dimissione da una TI in possibili condizioni estreme di mancanza di posti letto di TI. L’obiettivo primario è sempre salvare più vite possibili e quello descritto è il modo per salvarne numericamente di più.

Il riferimento è alla pandemia giustamente considerata una maxiemergenza come lo sono guerre, attentati, terremoti, tsunami, e altri eventi catastrofici. Condizioni estreme e temporanee in cui ci si trova in una situazione di carenza assoluta e non modificabile di risorse rispetto alla…

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Essere disabile, e caregiver, al tempo del coronavirus

L’emergenza causata dall’epidemia da Covid-19 è doppia quando si vive già in emergenza. Magari da una vita. È la condizione dei caregiver, termine inglese che indica “colui che si prende cura”, spesso h24, del proprio familiare non autosufficiente. In Italia si calcola – secondo il rapporto Istat del 2019 – che siano oltre due milioni le famiglie che hanno al loro interno una persona disabile grave. «Famiglie che già vivono in una semiclausura, in una situazione di deprivazione relazionale» dice Alessandro Chiarini, presidente di Confad, Coordinamento nazionale famiglie con disabilità. Solo che adesso quella situazione già di per sé grave, è ulteriormente peggiorata, con la chiusura dei centri diurni, delle scuole e anche con l’impossibilità dell’assistenza domiciliare.

In questa situazione di abbandono e solitudine, sottolinea Chiarini, sarebbe stato necessario «un sostegno economico, ricomprendendo i caregiver nelle misure straordinarie messe in campo per le famiglie». E invece nulla. Nel decreto Cura Italia c’è solo l’estensione dei permessi in base alla legge 104, nessun voucher temporaneo o altri interventi. «Nonostante gli annunci sul fatto che nessuno sarebbe rimasto indietro, ancora una volta le famiglie con disabilità sono sempre più dimenticate», dice il presidente Confad.

La sensazione di vivere in una situazione di abbandono è ancora più forte in questo momento. Lo spiega bene Irene Gironi Carnevale, madre di un ragazzo autistico di trent’anni. Molto attiva a Roma nell’ambito delle battaglie per la disabilità, fa riferimento alla onlus Oltre lo sguardo di Elena Improta e cerca di portare avanti progetti a livello di municipio. «Nessuna delle istituzioni in questi giorni – dice – ha fatto mai parola sulla disabilità, non ci sono dati medici sulla presenza di disabili tra i morti o i contagiati, nessuno ci ha detto di percorsi sanitari dedicati per i disabili, che già non esistono in tempi normali, e io ne so qualcosa, figuriamoci adesso», dice con amarezza. Irene parla della difficoltà sua, e di altre madri, in questi giorni, nel riuscire semplicemente a portare i propri figli fuori casa e poi il grande interrogativo sull’eventuale contagio: «Dove andremo?…

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«Non siamo in vacanza, state a casa». L’appello disperato dei sindaci a chi fa escursioni nel bergamasco

Val di Scalve, meno di 5mila anime al confine tra Bergamo, Sondrio e Brescia; oltre mille metri sul livello del mare. Il coronavirus è arrivato anche qui.

Pietro Orrù, presidente della Comunità montana e sindaco di Vilminore di Scalve, meno di 1.500 abitanti, ha spiegato che «in un mese si sono concentrati i morti che solitamente si contavano in un intero anno». Un dramma nel dramma per una piccola comunità nella quale tutti conoscono tutti, giovani, adulti e anziani. È l’onda lunga del Covid-19 portato dai turisti, che fino alle restrizioni imposte dal governo Conte hanno affollato irresponsabilmente gli impianti di sci del paese.

Qui il coronavirus è arrivato un attimo dopo, quando l’emergenza in città e nella bassa Val Seriana era già scoppiata. A consegnarlo senza troppi scrupoli alla comunità sono stati, appunto, i “cittadini” che con scuole e uffici chiusi hanno deciso di passare la quarantena nella seconda casa in montagna, quella solitamente utilizzata per la settimana bianca a gennaio o in estate. Noncuranti delle disposizioni date da chi di dovere, che già da domenica 8 marzo vietava ogni spostamento fuori dal proprio comune.

A Colere, l’11 marzo, il primissimo caso. In un attimo il virus s’è diffuso a macchia d’olio, uccidendo molti anziani e costringendo all’isolamento – perché contagiati – tutti i medici di base della zona: per portare avanti il presidio sanitario si è dovuto far ricorso a un dottore e a un infermiere dell’esercito. I sindaci dell’area, in collaborazione col servizio Minori e Famiglia, hanno anche organizzato un servizio di sostegno psicologico a distanza rivolto a tutti coloro che sentono la necessità di un momento di conforto e incoraggiamento, di ascolto e aiuto nella gestione dei vissuti emotivi legati all’emergenza.

Da un lato ci sono i timori per la propria salute, la paura del contagio, la malattia o la perdita di persone care, amici e conoscenti, mentre dall’altro le regole necessarie per ridurre la diffusione del virus che comportano importanti restrizioni delle relazioni sociali e modificano fortemente la propria quotidianità. A tutto questo si aggiungono l’angoscia perché non si sa quando l’emergenza finirà, la gestione dei figli costretti a rimanere a casa e le preoccupazioni per il futuro, l’economia e il lavoro.

Qui nessuno è autorizzato a uscire di casa: negozi, bar e ristoranti sono rigorosamente chiusi, mentre spesa e farmaci vengono consegnati a domicilio. Eppure si leggono notizie di cronaca che parlano di uomini del Soccorso Alpino costretti a intervenire per recuperare escursionisti feriti o dispersi durante una gita tra le alture. L’ultimo caso giovedì 19 marzo: «Appesantire ulteriormente il sistema sanitario lombardo che è al collasso da giorni è da irresponsabili. O meglio, da delinquenti – è stato il comprensibile sfogo di Orrù sui social -. Non siamo in vacanza, state a casa».

Il virus dell’indifferenza che attraversa la Germania

German Chancellor Angela Merkel gestures during the weekly cabinet meeting at the Chancellery in Berlin, Germany, Wednesday, March 18, 2020. Due to the new coronavirus outbreak the meeting was reloacted to the International Room to provide more space between the participants. For most people, the new coronavirus causes only mild or moderate symptoms. For some it can cause more severe illness, especially in older adults and people with existing health problems. (Michael Kappeler/DPA via AP, Pool)

Non è facile commentare cosa sta accadendo in Germania in questi giorni. Molte decisioni sono state prese tra venerdì 13 e sabato 14 marzo per rallentare la diffusione del nuovo coronavirus e molte dichiarazioni sono state rilasciate da esperti e esponenti della politica. Ma è innegabile il divario tra certe dichiarazioni allarmanti da una parte e la mancanza di misure conseguenti dall’altra. Mi riferisco ad es. alle parole con cui la Merkel ha detto che il coronavirus è talmente contagioso «che il 60-70% della popolazione ne sarà infettata, per cui non si tratta di evitare il contagio, ma di rallentarlo il più possibile». A queste parole hanno fatto seguito altre inquadrabili come una serie di appelli comportamentali: «Evitate dove possibile i contatti sociali, annullate anche gli eventi con meno di mille partecipanti, la funzionalità dello Stato deve essere preservata, il cuore centrale dell’economia deve continuare a funzionare».

Dopo di che attraverso i media si può leggere della decisione di chiudere le scuole lasciata ai singoli stati federali, del tentativo fallito di formulare delle linee guida unitarie a livello nazionale, del consiglio dato dal ministro della Salute Spahn agli ospedali di rinviare le operazioni pianificabili per preservare i posti letto a pazienti con Covid-19, di possibili “restrizioni” nell’esportazione verso altri Paesi di dispositivi di protezione personale e mascherine; infine, di varie misure proposte da una task force di economisti per porre riparo a una, a quanto pare inevitabile, recessione economica (iniziata comunque già prima dell’epidemia in corso) ed evitare licenziamenti. Queste e altre più recenti informazioni che sto per darvi necessitano di un approfondimento.

Lo stesso divario “tra il dire e il fare” lamentato da molti giornalisti riguardo alle affermazioni della Merkel, è applicabile in…

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Alla Sanità pubblica servono miliardi e c’è ancora chi spaccia il Tav per un’opera utile

Foto Marco Alpozzi/LaPresse 11 Gennaio 2020, Torino, Italia Cronaca ESCLUSIVA TORINO FC Manifestazione NoTav per Nicoletta Dosio, l'attivista di 73 anni arrestata e portata in carcere in seguito alla rinuncia delle misure alternative, a fine Dicembre Nella foto: Un momento del corteo Photo Marco Alpozzi/LaPresse January 09, 2020 Turin, Italy News NoTav demonstration for Nicoletta Dosio (73) political activist arrested in December In the pic: a moment of demonstration

Dopo la crisi di governo del 2019, riguardo il Tav sembrava si fosse giunti ad un punto di arrivo. Ovvero: il Tav si fa. Un’opera che costerebbe all’Italia diversi miliardi di euro – come se non avessimo bisogno di investirli in nulla di più urgente, come che so, posti letto in ospedale – ma che si fa perché si fa, perché va fatta, e soprattutto perché ormai non si torna indietro.
Purtroppo, molte informazioni diffuse al riguardo e spacciate per indiscutibili non sono altro che colossali fake news. Un esempio: a difesa della necessità di proseguire con i lavori, si dice – o meglio, si sbraita – che qualora rinunciasse al Tav, l’Italia sarebbe costretta a pagare somme ingenti (c’è chi addirittura parla di uno o due miliardi) in penali all’Ue e/o agli affidatari dei lavori.

Eppure, questo è assolutamente falso. Innanzitutto perché non esiste nessun contratto con l’Unione europea – né tanto meno col governo francese – che prevede il costo di qualsivoglia penale in caso di ritiro dal progetto, ma non solo: la legge 191/2009, articolo 2, comma 232 prevede che «il contraente generale o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria, eventualmente sorta in relazione alle opere individuate con i decreti del presidente del Consiglio dei ministri di cui all’alinea, nonché a qualunque pretesa anche futura connessa all’eventuale mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera». Quindi, lo ripetiamo: nessuna pretesa risarcitoria. Infine è opportuno specificare che l’Ue stanzia i fondi a fine lavori, e i lavori per il Tav devono ancora iniziare (attualmente, da quando è stato completato il cunicolo geognostico tre anni fa, il cantiere è fermo). Quindi, se lo Stato italiano rinunciasse al Tav, si limiterebbe a “perdere” dei soldi che ha già speso. Guadagnando tutti quelli che intende investirci. Magari, per dire, investendoli in infrastrutture di cui abbiamo davvero bisogno.

Tra i diversi documenti a sostegno dell’effettiva inutilità dell’opera, comunque, solo nel 2019 la commissione del Ministero presieduta da Marco Ponti (professore di Economia e pianificazione dei trasporti) ha pubblicato l’analisi costi-benefici – secondo la quale «il progetto presenta una redditività fortemente negativa» e che stima una perdita fino a 7 miliardi. A quanto pare, però, nemmeno questa è bastata a convincere i feroci sostenitori del progetto.
I NoTav sembrano essere gli unici a continuare a combattere quella che non è più una semplicemente una battaglia contro il Tav ma una vera e propria guerra contro tutte le grandi opere inutili in cui vengono stanziati fondi sottratti a istruzione, sanità, ambiente. Una resistenza difficile, spesso ostacolata; ma che diventa sempre più attuale in vista dell’emergenza che ritroviamo a fronteggiare oggi: forse, invece che per il trasporto, avremmo dovuto investire sulla sanità. Che è null’altro che ciò che la Valsusa invoca da ormai più di trent’anni.

Contemporaneamente alla sovraesposta manipolazione delle notizie da parte dei media è andata avanti negli ultimi anni una vera e propria denigrazione mediatica nei confronti del movimento NoTav: d’altronde è noto come non esista metodo più efficace, per reprimere un dissenso, che privare il suo portavoce della sua credibilità. E come più facilmente privare un popolo della sua credibilità, se non dipingendolo come un violento gruppo di pericolosi terroristi?

Già nel 2015 il Tribunale dei Popoli denunciava la grave violazione dei diritti compiutasi nei confronti dei valsusini: con – tra le altre cose – «l’avvenuta esclusione della comunità locale da ogni confronto sulla effettiva utilità dell’opera; […] la violazione del diritto di partecipare, di concorrere alle decisioni che riguardano il proprio habitat, la propria vita e la propria salute e la vita e la salute delle generazioni future; […] la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; […] violazioni di diritti costituzionalmente garantiti (in particolare in punto libertà di circolazione, di manifestazione, di espressione del pensiero e di libertà tout court); […] l’adozione di misure legislative aventi come obiettivo l’esclusione della partecipazione dei cittadini e delle comunità locali; la strategia di criminalizzazione della protesta con pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia, che includono anche la persecuzione penale sproporzionata e la imposizione di multe eccessive e reiterate, l’uso sproporzionato della forza.».

L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Meravigliosa, la nostra Costituzione. Ma ha ancora senso parlare di libertà di espressione nel clima di repressione giudiziaria, militarizzazione, falsificazione e denigrazione mediatica a cui è sottoposta la Valsusa?
Democrazia è partecipazione politica attiva del popolo. E quando un popolo rinuncia alla sua libertà di informazione e di espressione – per la sicurezza, di solito, o per il progresso – ecco, in quel momento la democrazia muore.

 

Passeggiate romane

This handout picture released by the Vatican Media shows Pope Francis walking in an empty Via del Corso in the Rome on March 15, 2020. - The Vatican said on March 15, that its traditional Easter week celebrations would be held this year without worshippers due to the coronavirus. "Because of the current global public health emergency, all the liturgical celebrations of Holy Week will take place without the physical presence of the faithful," the Prefecture of the Pontifical Household said in a statement. (Photo by - / VATICAN MEDIA / AFP) (Photo by -/VATICAN MEDIA/AFP via Getty Images)

L’immagine di papa Francesco che attraversa via del Corso in una Roma pressoché deserta, seguito a pochi passi dalla sua scorta personale. Non indossa la mascherina protettiva, non porta a passeggio nessun cane, non sta andando a fare la spesa. È uscito dal territorio Vaticano, scrivono tutti i giornali, per andare a pregare per la fine della pandemia. La foto campeggia per un giorno intero sulle home page delle principali testate nazionali, dall’Ansa, al Corriere della sera a Repubblica. L’abbiamo vista tutti ed è sempre la stessa scena, al massimo ripresa da un’angolatura leggermente diversa. Bergoglio non compare mai mentre prega.

Quella foto quindi non ritrae il capo della Chiesa ma un capo di Stato. Un capo di Stato straniero che attraversa indisturbato un luogo simbolo della Capitale di un altro Stato nel quale vige un decreto in cui si stabilisce che per frenare la diffusione di una pandemia letale si può circolare solo per motivi eccezionali. Lui è indifferente a tutto questo. Come abbiamo più volte dimostrato su queste pagine nel caso della pedofilia, a proposito per esempio dell’omessa denuncia nei confronti dei sacerdoti violentatori, gli ecclesiastici, dal capo in giù, credono di essere in diritto di vivere al di sopra e al di fuori delle leggi terrene, le nostre in particolare. Quella “passeggiata”, oltre a dire ai fedeli che se il virus uccide è perché così Dio ha stabilito, sembra quasi voler affermare chi è che comanda in Italia. Già, l’Italia.

Il nostro Paese è ancora l’epicentro mondiale della pandemia da coronavirus e mentre scriviamo non è chiaro quando sarà raggiunto il picco dei contagi e, purtroppo, dei decessi (a chi desidera aggiornarsi e approfondire, consigliamo la pagina Facebook Physicists against sars-cov-2 e il sito Worldometers). È presto quindi per capire fino a che punto sarà efficace la strategia di mitigazione attuata dal governo Conte per evitare che tutte le nostre regioni, dopo Lombardia e Veneto, siano colpite contemporaneamente dallo tsunami di Covid-19. Sarebbe il collasso dell’Italia e non solo del Sistema sanitario nazionale che fin qui – di sicuro non grazie alle preghiere del papa e nemmeno ai 37 miliardi di tagli subiti in dieci anni in favore dei privati, ma alla professionalità di medici, infermieri e operatori – ha retto l’urto violentissimo del nemico invisibile.

Dopo quasi due settimane di lockdown possiamo dire che anche i normali cittadini, tranne alcune eccezioni, abbiano sostanzialmente accettato la raccomandazione istituzionale di restare chiusi in casa e di uscire (mantenendo le distanze di sicurezza) solo quando non è possibile farne a meno. Ne va della salute di tutti. In primis, quella delle persone più vulnerabili che, stando ai dati dell’Istituto superiore di sanità su infezioni/decessi da Covid-19, sono gli anziani over 70 e coloro che soffrono di ipertensione arteriosa e/o di patologie all’apparato respiratorio, oncologiche, cardiache. Spesso questi diversi profili coincidono.

«Tranquilli ma attenti. È l’atteggiamento più giusto. E quando tutto sarà passato dovremo fare due chiacchiere» ha scritto Salvo Di Grazia su Left la scorsa settimana. Ecco, noi “due chiacchiere” vorremmo farle subito a proposito di Bergoglio che prima ha autorizzato l’apertura dei luoghi di culto per consentire di pregare a chi è in cerca di conforto, e poi ha dato il “buon” esempio con la passeggiata romana verso un luogo, appunto, di culto. Non ha pensato il papa che tra i destinatari del suo messaggio mediatico ci sono soprattutto persone anziane, cioè la fascia di popolazione più a rischio di morte nel caso di infezione da coronavirus? Pare di no. Ma, peggio ancora, non se ne sono curati nemmeno tutti quei media italiani che hanno fatto a gara nel rilanciare “acriticamente” la foto e la notizia di un papa che sta andando a pregare… Peraltro, se il punto è rispondere a una richiesta di conforto – citando gli psichiatri Anzilotti e Telesforo che troverete nello sfoglio -, poiché il rischio è reale, «avere paura del contagio è una reazione sana, se la paura diventa angoscia allora c’è la psicoterapia».

E qui torniamo al ruolo cruciale della medicina e della scienza. E di una visione laica della società che mette al centro la qualità della vita e il benessere delle persone. Cioè, in questo momento: la loro salute. A questo pensiamo quando leggiamo le pagine del sinologo Federico Masini che qui racconta degli storici rapporti di collaborazione reciproca tra l’Italia e la Cina. Con Pechino che mentre ancora non ha quasi del tutto ammansito la “bestia” pandemica spedisce qui da noi – il Paese più in difficoltà – una squadra di medici e ricercatori e 31 tonnellate di materiale sanitario utile a gestire l’emergenza.

E a questo pensiamo di fronte alla notizia che in Lombardia arriveranno medici da Cuba e dal Venezuela (due Paesi, specie Cuba, abituati a mettere a disposizione le loro competenze scientifiche nei luoghi più a rischio senza fare tanti calcoli: che sia un Paese africano devastato dall’ebola o gli Stati Uniti colpiti da un uragano). Tutt’altro vien da pensare, e lo raccontiamo nella storia di copertina, dopo aver ascoltato nei giorni scorsi lo spietato calcolo costi/benefici tra vite umane e performance economica eseguito da Christine Lagarde e Boris Johnson. Con poche semplici, gelide frasi, prima la presidente della Bce e poi il premier britannico ci hanno ricordato quale barbarie può diventare la politica quando non “vede” più gli esseri umani e li tratta come numeri.

E che dire di Matteo Salvini che torna a magnificare l’autonomia regionale, cioè la pietra tombale del Sistema sanitario nazionale che in questo momento sta salvando migliaia di vite umane? Tutti degni fautori dello stesso modello “sociale” ed economico di riferimento del presidente Usa, Donald Trump, che in settimana si è distinto nel tentativo di accaparrarsi una azienda farmacologica tedesca che sta lavorando a un vaccino contro il coronavirus, mettendo sul piatto un miliardo di dollari. «Vogliamo sviluppare un farmaco per tutto il mondo e non per singoli Paesi» si è sentito rispondere Trump dal destinatario dell’offerta, Christof Hettich. Forse c’è una prima luce in fondo al tunnel. Resistiamo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 20 marzo 

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E quelli per cui non andrà tutto bene?

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 16 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Coronavirus, distribuzione di cibo ai senza tetto a Santa Maria in Trastevere Nella foto : gli operatori distribuiscono le sacche con il cibo davanti alla chiesa Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 16, 2020 Rome (Italy) News Coronavirus Emergency, food distribution to the homeless from the Our Lady in Trastevere church In the pic : the operators of the solidarity organization giving food to the homeless in front of the church

Mi si perdoni se esco per qualche minuto dalla retorica dello #stateacasa (a proposito, se potete restate in casa) e dal volemose bene che viene proferito da tutte le parti e perdonatemi anche se potrei essere frainteso e svilire la retorica dell’andrà tutto bene ma non è questo il senso. Per niente.

Però mi chiedo, vi chiedo: e per quelli che non andrà tutto bene? Cioè per quelli che già adesso sta andando male?

Quelli che hanno perso un proprio caro e non hanno nemmeno avuto l’occasione di fare un funerale, avvolti dal dolore e dalla solitudine che rende ancor tutto più pungente.

Quelli che hanno in casa una persona disabile e non esistono nella comunicazione pubblica, nei media e nemmeno nei decreti. Gente che non riesce a trovare qualcuno disposto a venire a casa per dargli una mano. Gente per cui non tutto andava bene prima, non va bene adesso.

I lavoratori (ancora tanti, tantissimi, troppi, numero enormi che gridano vendetta) che lavorano in condizioni non sicure. E tornano a casa con la preoccupazione di essere infetti.

Persone che soffrono di depressione (e a cui non basta un “dai, su, mi raccomando, stai allegro”) e per cui questa quarantena è una sofferenza ancora peggiore.

Gli invisibili, che siano immigrati o irregolari o italiani poveri o persone che hanno perso tutto o semplicemente persone che non hanno una casa: chissà cosa pensano quando gli si dice che tutto andrà bene.

I medici e gli infermieri che non hanno dispositivi che servono a proteggerli dal contagio e lavorano tutto il giorno in mezzo al contagio. Chissà se gli bastano gli striscioni colorati.

E poi l’incertezza di come andrà, di quando potrebbe finire e un presidente del Consiglio che decide di parlare di un eventuale prolungamento delle misure restrittive in una chiaccherata al Corriere della sera, come se fosse un argomento da bar, un cosetta da amici.

Ecco, va bene, speriamo e facciamo di tutto perché tutto vada bene ma per favore non corriamo il rischio di silenziare quelli per cui non andrà bene, dai, no. Non chiudiamo in casa anche il pensiero critico, oltre ai corpi.

Buon venerdì.

«Preparatevi a perdere i vostri cari»

FILE - In this Thursday, June 27, 2019 file photo Conservative leadership candidate Boris Johnson gives the thumbs at the Wight Shipyard Company at Venture Quay during a visit to the Isle of Wight, England. (Dominic Lipinski/Pool Photo via AP, File)

La crisi sociale e sanitaria scatenata dal coronavirus sta mettendo a nudo l’assurdità e la crudeltà delle scelte attuate negli ultimi dieci anni dai governi conservatori (con il determinante aiuto dei LibDem, in coalizione con Cameron dal 2010 al 2015).

Il Servizio sanitario nazionale (Nhs) fiore all’occhiello del Paese, ha subito tali e tanti tagli nel corso dell’ultimo decennio che nel dicembre 2019 ha fatto registrare i suoi peggiori risultati di sempre. Un sistema sanitario, dunque, che va regolarmente in crisi d’inverno a causa della “normale” influenza stagionale, con liste d’attesa che diventano infinite, carenza di posti letto e staff sanitario allo stremo. Inutile dire quali sarebbero per un sistema così ridotto le conseguenze di una epidemia su larga scala di un virus che richiede un numero elevatissimo di ricoveri.

Ma anche il sistema di welfare non è minimamente attrezzato per far fronte alla crisi: centinaia di migliaia di cittadini sono intrappolati in contratti di lavoro che non garantiscono il congedo per malattia. Infine, chiudere le scuole vuol dire condannare migliaia di alunni a rinunciare all’unico pasto caldo e nutriente della giornata, perché costretti in situazioni familiari sotto alla soglia di povertà, costretti all’utilizzo delle food bank, istituti di beneficenza che fanno ciò che lo Stato non fa: cercare di garantire che migliaia di propri concittadini non muoiano di fame.

Questo è un quadro inaspettato per chi, come molti in Italia, è abituato a pensare che la Gran Bretagna sia rappresentata dal luccichìo di Londra, la capitale finanziaria mondiale tutta grandi grattacieli e ristoranti stellati. Ma la realtà britannica è…

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Ce la possiamo fare

In queste ore, mentre sto scrivendo, molti dei Paesi europei si sono decisi a chiudere tutte le attività non essenziali e a restringere la libertà di movimento e di assembramento dei cittadini. La Francia e la Spagna stanno attuando il cosiddetto lockdown. Si tratta nella sostanza di ridurre al minimo possibile i contatti tra la gente per impedire al virus di diffondersi da persona a persona.

Come già ampiamente spiegato nel numero della scorsa settimana, se non si limita la diffusione del virus, esso si propaga ad una velocità esponenziale fino a che ha infettato la gran parte della popolazione. A quel punto non trova più spazio e si ferma.

Il problema con questo virus è che, se lasciato libero, la sua diffusione è molto veloce (raddoppio in 2,5 giorni o meno) ed ha una incubazione che può arrivare fino a 14 giorni. Questo significa che nel tempo di latenza del virus, 14 giorni, esso si può propagare fino ad essere quasi 100 volte più diffuso rispetto al giorno 1.

Il lockdown serve proprio per rallentare e auspicabilmente fermare la diffusione del virus in modo da impedire il crash del sistema sanitario. Se infatti un intero Paese (o un’intera città) si ammala di questa terribile malattia, ci sarà una percentuale rilevante di persone che si potranno aggravare e necessiteranno di un’assistenza che non potrà essere fornita.

La velocità di diffusione è ciò che rende questa lotta con il virus così difficile. Il tempo è pochissimo e ogni decisione va presa nel più breve tempo possibile.

La Cina ha mostrato al mondo come fare. E in questi giorni Wuhan sta uscendo dall’emergenza, anche se rimarranno in piedi ancora per molto tempo misure di monitoraggio molto stringenti. Il rischio che si reinneschi un nuovo focolaio è ancora altissimo. Ma la strada seguita, e che stiamo seguendo in Italia, è quella giusta.

Nel nostro Paese sono ancora in crescita, anche se forse non più con un andamento esponenziale, il numero dei contagi e delle vittime. Codogno e Lodi sono uscite dall’emergenza e non ci sono più nuovi casi di infezione. Questo significa che il lockdown è la strada da seguire perché funziona.

Malgrado il caso italiano, persiste in molti Paesi europei una pericolosa cecità mista a criminalità. Si pensa che l’economia debba venire prima. Boris Johnson ha affermato, su consiglio dei suoi esperti, di voler seguire un’altra strada che non è il lockdown. Quella di lasciar correre il virus e lasciare che tutta la popolazione si infetti e sviluppi quella che si chiama “immunità di gregge”. È chiaro che questa affermazione corrisponde a dire che un numero altissimo di persone, in particolare persone anziane o malate, dovranno necessariamente morire.

Per la Gran Bretagna si parla di un numero di vittime che si aggirerebbe intorno a 500mila persone, se non di più, nel giro di qualche settimana. Boris Johnson ha gelato tutti quando ha detto agli inglesi di «prepararsi a perdere persone care». Ma se Johnson almeno lo ha detto chiaramente, altri Paesi europei non stanno facendo un granché di sostanziale per rallentare il virus e tengono di fatto all’oscuro la popolazione. Ci sono sì disposizioni di evitare assembramenti, e poco altro, ma sembra che il fatalismo sia il modo più comune di affrontare la crisi.

All’inizio sembra una sorta di cecità, un chiudere gli occhi su una realtà che è evidente. Poi quando i dati dicono la verità, diventa evidente che si tratta di criminalità. Invece dell’economia al servizio dell’essere umano c’è una società che stabilisce che è l’essere umano al servizio dell’economia. I comportamenti dei leader europei, per non parlare di Trump, vanno tutti in questa direzione.

La Cina, con il suo successo nel gestire la crisi, ha dimostrato di essere il nuovo Paese leader del mondo. Ha messo davanti a tutto l’interesse per la propria popolazione. Che poi, a ben guardare, corrisponde evidentemente anche all’interesse per la propria economia. Far morire centinaia di migliaia se non milioni di persone come se niente fosse, non può essere in alcun modo favorevole all’economia.

Allora c’è da pensare che nel pensiero occidentale ci sia qualcosa che stabilisce che gli esseri umani non contano niente. Siamo tutti sacrificabili. La Cina è ormai uscita dalla crisi provocata dal coronavirus. Noi ci siamo entrati da appena tre settimane, che sembrano un’eternità. Per uscirne ci vorrà ancora molto tempo. Dovremo avere molta pazienza.

Ma ce la possiamo fare.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 20 marzo 

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Lettera dal fronte (bergamasco), se così si può definire

A giant flag of Italy hangs from the facade of Palazzo Medolago Albani in Bergamo Alta, the top part of the city, in Bergamo, one of the cities most hit by the coronavirus outbreak in northern Italy, Tuesday, March 17, 2020. For most people, the new coronavirus causes only mild or moderate symptoms. For some it can cause more severe illness, especially in older adults and people with existing health problems. (AP Photo/Luca Bruno)

Mi chiamo Francesco, ho 31 anni e abito a Bergamo. Sono un giovane come tanti. Precario. Relativamente impegnato/interessato alla politica. Più o meno informato, più o meno acculturato. Vi scrivo per portare una testimonianza di quello che è vivere nella mia città in queste terrificanti settimane. Oltre al susseguirsi di ambulanze che corrono lungo autostrade deserte dal casello autostradale fino al Papa Giovanni, dal mio quartiere, la Malpensata, fino alla Gavazzeni Humanitas qui vicino. La vita a Bergamo non solo è sospesa, ma è appesa a un filo. Sono sempre più infatti gli amici, i parenti che contraggono questo maledetto virus. Ma non sono anatemi che voglio lanciare, sarebbe fiato e tempo sprecato in questo momento. Senza dubbio il mio pensiero va a tutti coloro che oggi sono costretti a lavorare in condizione di rischio, oltre ovviamente a chi come infermiere/i, medici, OSS, inservienti e tutte/i coloro che un ospedale lo fanno funzionare nella normalità e in questo momento così assurdamente fuori dal tempo.

Scrivo questa lettera aperta per non dimenticarci delle carceri, dei centri di accoglienza, dei reparti di psichiatria, delle/dei senzatetto, delle persone povere e estremamente povere, di tutte e tutti coloro che senza aiuti non sopravvivono. Stiamo sperimentando la sopravvivenza tutte e tutti quante/i in queste settimane. “Ah che noia” “ah che strazio”. “Ah che cazzo faccio ora?”. Egoisticamente l’ho pensato pure io in queste giornate di quarantena. Responsabilmente, qui, tutte e tutti sono rimaste/i al loro posto. Non ho visto esodi, né troppe euforie psicotiche, se non qualche caso di scaffali svuotati.

La gente devo dire che da subito si è comportata bene. Tuttavia, qualcosa sfugge in questa situazione. Sfugge l’importanza di avere uno Stato che in questo momento ci sta tutelando e preservando la nostra salute. Sfugge il fatto che il nostro capo dello Stato abbia rimproverato l’Unione Europea di troppo lassismo. Sfugge che ad essere incaricato della costruzione di un ospedale emergenziale sia quel Bertolaso responsabile dell’emergenza post-sisma de L’Aquila. Sfugge che la Lega chiami medici e personale specializzato da Cina, Cuba e Venezuela. Sfugge che il sovranismo oggi abbia perso le parole. I sovranisti sono solo in grado di mettere le bandierine tricolori e retweettare gli encomi Trumpisti.

Il 17 marzo è stato l’anniversario dell’Unità d’Italia e che hanno fatto queste stesse persone? Criticano, per il gusto di criticare, giusto per avere spazio sui quotidiani e notiziari nazionali. Ma oggi questo non ha senso capite? Loro stessi se ne rendono conto. Leggo poi di “generosi” miliardari che decidono di donare milioni di euro per la costruzione dell’ospedale al Portello. Bellissimo si potrebbe pensare, se non che come cittadini dovremmo pretendere che sia lo Stato ad avere risorse per questo. Io 49 milioni di euro non so nemmeno come sono fatti, così come non conosco né il colore, né l’odore dei 120 miliardi annui di IVA non versata. Ma forse sto perdendo, potreste pensare. Affatto! È questa la questione chiave: da questa terribile storia dovremo pretendere di ritornare a stabilire un “patto sociale”, un “contratto”, non quello votato sulla piattaforma, ma qualcosa di più simile al pensiero del vero Rousseau. Qualcosa che però parta da un profondo lavoro di presa di coscienza da parte di tutti noi. Perché se è vero che la mia generazione è la prima ad interrogarsi sulla necessità di “rallentare” la corsa all’oro, beh è stata sicuramente la privazione del nostro futuro a spingerci in quella direzione. Però questo, specie oggi, dovrebbe spingerci a PRETENDERE diritti.

Non è possibile sentire il terrore delle e dei trentenni della galassia delle partite IVA fittizie e dei contratti con le cooperative sociali, intimorite/i dal pensiero di non avere un salario minimo per questo mese. Ieri è arrivato il decreto finalmente e mi auguro possa davvero aiutare queste persone. Ma ciò dovrebbe quantomeno solleticare un minimo la rabbia repressa nei confronti del susseguirsi di governi più o meno neoliberisti che hanno dato elemosine, togliendo e rosicchiando ogni straccio di tutela sindacale e lavorativa. Potrei sembrare egoista in questo senso. Ma smentirò così anche i vari #primaglitaliani. In questi giorni di quarantena ho pensato molto ai migranti, ai rifugiati, ai carcerati, a tutte quelle persone che in gabbia passano la loro esistenza. Dieci giorni di quarantena e cantiamo “l’Inno di Mameli” dai balconi. Goliardia, risate, spensieratezza. L’ho fatto anche io, per carità. Anche nei lager nazisti si cantava per scacciare il pensiero della morte, molto probabilmente. La musica ci tiene aggrappati alla vita. Ma oggi mi chiedo davvero quale diavolo di disgrazie umanitarie siamo portati ad accettare pur di rimanere nel confort. Mi sento estremamente colpevole in questo. Mi sento colpevole di poter uscire e fare la spesa, rispettando gli obblighi di legge per carità.

Mi sento complice di questo mondo che strutturalmente, per la sua mera sopravvivenza, crea fortezze. Ovunque. In mare. Sulla terra. Dentro gli Stati. Nelle periferie. Negli ospedali. Per sopperire a tutto questo, spesso la gente si mobilita dal basso. Bergamo in questo senso ne è un esempio a livello nazionale. È una delle province italiane con il maggior numero di enti del terzo settore, organizzazioni, movimenti dal basso, iniziative istituzionali ed esperienze di autogestione. Spesso siamo derisi per la nostra dizione grossolana e marcatamente nordica. Spesso ci prendono in giro per la nostra attitudine “a laürà”. Lungi da me dal voler costruire una discutibile identità nazionale astorica del nord e di Bergamo. Posso dire che tuttavia, culturalmente, siamo e continuiamo ad essere solidali, seppur anche qui il consumismo e il neoliberismo abbia contaminato il nostro essere “contadini” dell’animo. Dico questo perché sono certo che ci si rialzerà da questa tragica situazione, ma non sarà al motto del tornare a consumare come prima. Con buone probabilità questo virus è stato il prodotto di una crescita e di un estrattivismo senza fine.

Il futuro al quale dobbiamo guardare dovrà essere diverso. Un futuro che per forza di cose dovrà essere affrontato non con discorsi semplicistici o a suon di tweet. Tenetevi tutti i post su Facebook del mondo, io voglio per tutte e tutti un salario minimo garantito, un serio piano energetico per l’Italia e l’Europa, una progressiva ristrutturazione delle carceri italiane favorendo percorsi alternativi di reinserimento sociale. Vorrei politiche per la famiglia, ma non quella cristiana, tutte le famiglie sia essere single con figli, coppie omo o eterosessuali, italiane, magrebine, siriane, nigeriane, senegalesi. Politiche per la persona, per le lavoratrici e i lavoratori costretti a sudare nei campi o nei centri commerciali, o in sella ad una bicicletta. Vorrei un’etica della politica che vada al di là della campagna elettorale, ma che non si riduca ad una mera presentazione di programmi discussi in base alla loro fattibilità economico-finanziaria.

In questi giorni sto leggendo l’ultimo libro di Colin Crouch, il quale sottolinea una questione centrale della politica degli ultimi vent’anni: l’estremizzazione delle “passioni” ha portato il trumpismo e il suo opposto, il rigore razionalista, l’austerity. La verità sta nel mezzo. Servono passioni e servono politiche fattibili. Serve senso di responsabilità collettiva, non solo ora nello stare a casa, ma pure fra due mesi quando butterete il vostro mozzicone di sigaretta sui binari della Centrale, oppure quando vi proporranno lo sconto sul cambio gomme senza fattura. Serve smontare retoriche qualunquiste prive di ogni senso critico. Servirà batterci per i diritti della nostra vicina e del nostro vicino. Servirà crescere tutte e tutti assieme. Non basterà nemmeno cantare “Bella Ciao” in piazza, ma servirà rimproverare il nostro amico quando utilizzerà un linguaggio machista o xenofobo anche solo per scherzo. Oggi prendiamoci sì cura delle nostre nonne e dei nostri nonni, dei genitori e di chiunque oggi sia più esposto a questa maledetta epidemia, ma domani, assieme, prendiamoci a cuore la società, il Pianeta, gli ultimi, perché altrimenti le conseguenze saranno nefaste per ognuno di noi.

Di amore e di libertà per tutte/i,

Francesco

PS: qualcuno penserà o mi etichetterà come buonista, radical chic, sardina e chi più ne ha più ne metta. Sono bergamasco. Sono italiano. Sono zingaro. Sono bianco. Sono nero. Sono socialista. Sono comunista. Sono anarchico. Sono tutto ciò che volete che io sia. Ma voi chiedetevi chi siete e se davvero vi ritenete diversi “dall’altro”.