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Ci sono “eroi delle corsie” anche nei supermercati

«Siamo sfiniti. Stiamo lavorando otto-dieci ore di fila con la stessa mascherina da giorni perché sono introvabili e quelle che sono riusciti a darci sono quelle senza filtro. Ciò nonostante, stiamo dando il massimo. In cassa, nei banchi, nei reparti per rifornire gli scaffali, mentre discutiamo in continuazione con i clienti affinché rispettino la distanza di sicurezza. Talvolta veniamo insultati, presi in giro, perché diciamo che in due non si può entrare, che può accedere a fare la spesa un solo componente a famiglia».

Questa testimonianza di una commessa di una nota catena di supermercati – che ha chiesto a Left di rimanere anonima – è solo una delle molte grida d’allarme che arrivano dai lavoratori del settore. Costretti ad uscire di casa per rifornire scaffali e battere scontrini anche a pandemia in corso, affinché sia garantito un servizio essenziale per i cittadini come l’approvvigionamento di beni alimentari e di prima necessità.

Cassieri, commessi, addetti alle vendite: ogni giorno sfrecciano tra “corsie” diverse da quelle degli ospedali, ma proprio come medici ed operatori sanitari sono “in prima linea” tra chi lotta e resiste ai tempi del coronavirus. E anche loro, sovente, sono costretti ad operare in assenza delle misure minime di sicurezza. Tra scarsità generale di mascherine (a volte portate da casa dai lavoratori), tute protettive che restano un miraggio, vetri divisori in plexiglas alle casse presenti solo in una porzione dei punti vendita, assembramenti difficili da evitare, clienti irresponsabili che escono per comprare prodotti inessenziali o addirittura colgono la possibilità andare al supermarket durante il lockdown come una semplice occasione di svago.

«Siamo allo sbaraglio», «siamo allo sbando», «siamo in balia dei clienti», «[servono] tamponi immediati, siamo stati esposti come gli infermieri e per di più senza tutela» sono le dichiarazioni rilasciate dal personale della categoria ad AdnKronos.

In un supermercato di Mestre il 18 marzo due clienti hanno iniziato a sbeffeggiare senza motivo una cassiera, per poi tossigli in faccia per dispetto. Una delle due donne, successivamente identificata dalle forze dell’ordine, è risultata positiva al coronavirus. La dipendente, alla quale non erano ancora state consegnate le mascherine in dotazione, sotto choc, è stata messa in quarantena. A Livorno il 19 marzo un commesso si è preso un cazzotto da un avventore per avergli chiesto di rispettare la distanza di sicurezza. Accompagnato al pronto soccorso, gli sono stati refertati tre giorni di prognosi. E poi c’è il caso della cassiera 48enne di Brescia, morta il 20 marzo dopo una rapida malattia con sintomi sovrapponibili a quelli del Covid-19.

Il 26 marzo a perdere la vita è invece una guardia giurata che lavorava in un supemercato a Novara in corso Giulio Cesare. Era stato da poco trasferito nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Maggiore, dopo aver mostrato alcune complicanze legate all’infezione da coronavirus. Aveva 33 anni.

Vicende drammatiche, che ritraggono lavoratori “in trincea”, tra scaffali ed espositori. I loro numerosi sos hanno portato i sindacati a mobilitarsi, anche dopo il varo del “Protocollo per la sicurezza nelle aziende” in 13 punti firmato da confederali ed organizzazioni datoriali il 14 marzo, che di fatto derubrica a semplici raccomandazioni quelle che dovrebbero essere prescrizioni inderogabili a garanzia dell’incolumità dei lavoratori, come la pulizia dei locali e l’obbligo delle mascherine quando non si può rispettare costantemente la distanza interpersonale di un metro.

Le sigle sindacali hanno chiesto innanzitutto la rimodulazione delle aperture, per dare una boccata d’aria ai lavoratori. «Ridurre il nastro orario di apertura di tutte le attività commerciali e della ristorazione a 12 ore al giorno e chiudere nella giornata di domenica tutti i punti vendita, compresi quelli di generi alimentari» è la richiesta inoltrata dalle sigle di categoria di Cgil, Cisl e Uil al presidente del Consiglio Conte. «In assenza di risposte urgenti da parte del governo – prosegue la nota dei confederali – i sindacati non escludono azioni di protesta spontanee a livello territoriale».

«Restringimento degli orari di vendita al pubblico, una persona per famiglia, guanti e mascherine a norma per tutti, potenziamento della spesa online, chiusura domenicale di tutti gli esercizi commerciali. Perché altrimenti sarà un disastro annunciato. Salvate i soldati della Grande distribuzione organizzata», ha dichiarato Francesco Iacovone, sindacalista dei Cobas Lavoro Privato.

«Quei lavoratori che trovate nei supermercati – scrive Iacovone in un post – oltre ad essere esposti a un rischio altissimo, non sono preparati psicologicamente ad affrontare tutto questo. Non hanno il “pelo sullo stomaco” degli eroi della sanità. Non hanno le giuste protezioni e la paura vincerà sulla loro psiche già troppo provata. Non ho una soluzione stavolta, mi sento fragile anche io. Devo ripensare questa nuova condizione. Ma so che non ce la faranno a reggere per troppo tempo. Non sanno come abbracciare i propri figli al rientro a casa, a baciare le mogli e i mariti. Sempre in tensione per sperare in una distanza che non c’è mai. Sempre attenti a non togliere una mascherina che non ti protegge affatto perché logora e non a norma, quando c’è. Ecco, io non so come finirà tutta questa storia, ma loro – eroi per puro caso – ne usciranno a pezzi. Se ne usciranno. Se ne usciremo. A voi il mio sostegno e il mio affetto».

Le richieste dei sindacati, in alcuni casi, sono state recepite. Non dal governo, che al momento non ha disposto alcuna limitazione agli orari di apertura dei supermercati – neanche nel decreto del 22 marzo con cui viene estenso il fermo produttivo – ma dalle Regioni. Al momento: Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Sicilia, Campania e Calabria hanno disposto la chiusura di supermarket e alimentari la domenica e nei giorni festivi. Nel Lazio, invece, orari ridotti sia durante la settimana (8.30 – 19) che la domenica (8.30 – 15).

Anche alcune catene della Grande distribuzione organizzata, le insegne dove facciamo la spesa, si sono mosse autonomamente. Per prima lo ha fatto Coop, optando per due chiusure domenicali e la rimodulazione degli orari. A seguire molte altre aziende hanno modificato le proprie fasce di apertura, con misure in genere più blande.

Scelte che senza dubbio allentano la pressione sul personale dei supermercati in questo momento difficile e quindi non possono – da questo punto di vista – che essere applaudite. Scelte che vanno incontro anche all’esigenza di commessi e scaffalisti di poter rientrare agilmente a casa a fine turno, dato che in alcune zone d’Italia gli orari dei mezzi pubblici sono stati rivisti. Ma la riduzione delle aperture pone anche alcuni dubbi.

Secondo alcuni, il rischio è che i nuovi orari facciano aumentare gli assembramenti dentro e fuori i supermercati, e dunque incrementare le occasioni di contagio, specie se non vi sarà un salto di qualità della “maturità” dei clienti. Senza contare altre possibili maggiori difficoltà. Per gli operatori nel gestire gli accessi scaglionati a regime orario ridotto. Per chi continua a lavorare (personale sanitario, forze dell’ordine, ecc.) nel poter fare agilmente la spesa. Un altro effetto collaterale potrebbe essere il senso di allarme e urgenza che genera nelle persone l’idea che l’accesso agli esercizi commerciali sia disponibile per minor tempo, specie in un momento in cui il rifornimento di generi alimentari è avvertito come una preoccupazione primaria, circostanza che potrebbe generare ulteriori accalcamenti (come quello avvenuto all’Esselunga di Prato il 21 marzo, la cui foto è già diventata un simbolo).

Ora, a margine di queste previsioni, la cui validità potrà essere valutata con più accuratezza nei prossimi giorni – e fermo restando che le rivendicazioni di lavoratori e sindacati sono urgentissime, inderogabili e fuori discussione – sorge spontanea una considerazione. Nella settimana tra il 9 marzo e il 15 marzo le vendite dei supermercati sono state superiori in valore del 16,4% rispetto allo stesso periodo del 2019 a parità di negozi, secondo le stime di Nielsen. E anche le due precedenti settimane avevano visto un trend positivo a doppia cifra. Mentre se andiamo ad analizzare la crescita dell’e-commerce, ossia della “spesa online”, dal 17 febbraio al 15 marzo lo stesso istituto registra una crescita del 79,8%. Un andamento prevedibile, viste le inevitabili abitudini maggiormente “domestiche” degli italiani. Perché dunque non chiedere uno sforzo in più alle insegne dei supermercati?

Al di là delle pur lodevoli iniziative di beneficenza di cui le catene della Grande distribuzione organizzata si sono rese protagoniste – e mentre Federdistribuzione in una nota già si mostra preoccupata per il futuro calo dei consumi interni post emergenza Coronavirus – di fronte a queste cifre monstre relative alle vendite le principali insegne dei supermercati potrebbero dimostrare davvero attenzione per i consumatori e senso di responsabilità verso il Paese realizzando un serio piano di assunzioni per permettere una maggior turnazione dei lavoratori nei punti vendita – dove spesso, lo ricordiamo, operano non solo dipendenti ma anche personale reclutato dalle agenzie interinali e operatori di cooperative esterne, in una scala discendente di diritti e di tutele. Lavoratori che, gradualmente, potrebbero essere inseriti in pianta stabile negli organici dei supermercati ad emergenza conclusa. Perché il problema dell’eccessivo carico di lavoro dei commessi è esploso col coronavirus, certo, ma ha origini ben più radicate.

Una parte di questo personale potrebbe lavorare sia “sul campo” che in smart working per garantire la funzionalità della spesa online, in questo momento quasi impossibile da effettuare in tempi accettabili, come ha dimostrato una inchiesta del Salvagente. E questo a prescindere dalla modulazione degli orari di apertura.

Ai commessi, nei giorni scorsi, è arrivato un plauso persino da Walter Ricciardi, membro dell’esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza: «Vostro lavoro importantissimo, grazie», scrive su Twitter. Sarebbe il momento che anche le insegne dei supermercati ringrazino davvero i propri “eroi delle corsie”, e pure i consumatori che stanno garantendo loro extra profitti, non soltanto permettendo che si possa fare la spesa ed operare nei punti vendita in completa sicurezza (è il minimo), ma compiendo un investimento importante perché un servizio essenziale sia garantito nel migliore dei modi e nel rispetto della salute fisica e mentale del personale. Un ringraziamento non a parole, ma nei fatti. Vale la pena che governo e sindacati lo suggeriscano ai Big della distribuzione.

* Articolo aggiornato il 26 marzo alle ore 22.24

Sto imparando a dirti ti amo da lontano

Sto imparando a dirti ti amo da lontano. Era facile, prima, bastava prenderti la mano, me lo leggevi negli occhi, non servivano nemmeno parole. E invece adesso infiliamo i ti amo nei buchi del telefono, esce un ti amo a spaghetto che preghi con tutta la forza della quarantena che arrivi forte perché integro, no, integro non ci si riesce più, anche i ti amo escono sformati da questo tempo sospeso, spezzettati, disturbati, in vivavoce appoggiati sui lavelli. Sono ti amo che sono ombre di farfalle di cui possiamo solo immaginare il volo.

Stiamo imparando ad accarezzare per interposta persona. Abbiamo portatori sani d’affetto che imploriamo di metterci tutto quello che riescono dentro a quella mano che si appoggerà al viso della persona a cui vorremmo voler bene come ci avevano insegnato, senza bisogno di messaggeri così gravati da messaggi così facili. Per quelli che non sono mai stati bravi con le parole questa distanza è un braccio caduto, mozzato, un dover imparare di nuovo a esprimere sentimenti come se ti avessero staccato gli occhi.

Se potessimo appoggiare l’orecchio sul Paese, come se fosse una conchiglia, sentiremmo l’eco di persone che si amano e che si dicono che non accadrà più, che non accadrà mai più, che si promettono che non si faranno trovare impreparati, che staranno vicini alla prossima pandemia, che oggi sembra diventata un evento circolare che sparirà e tornerà, come se questo nodo in gola sia qualcosa destinato a ripresentarsi.

Stiamo imparando a mancarci senza prospettiva, ed è una mancanza che sbriciola il cuore, qualcosa che senti che c’è e che non ha nemmeno una sponda su cui lanciarsi. Ci stiamo abituando a dirci arrivederci che non hanno tempo, che rimangono sospesi, che sono urla lanciate nel deserto.

Sto imparando a non aspettare, mi sveglio tutte le mattine aspettandomi e provando a presentarmi nel modo migliore possibile, sperando ogni giorno di piacermi. Anche l’attesa ormai si è smunta: è un continuo, incessante, lavoro di costruzione di ponti su cui non possiamo passare e vorremmo farci scivolare tutto, rovesciarci dentro, credere che tutto tranne il corpo, ma tutto il resto sì possa passare.

Sto imparando a dirti ti amo da lontano. Ed è una scoperta dolorosa come l’apertura di una ferita che non si rimargina più. Ne usciremo vivi, ne usciremo, ma avremo tutti i pori talmente aperti che ci entrerà il vento.

Buon lunedì.

Olga sulle orme di Anna Politkovskaja

In this photo taken on Saturday, July 27, 2019, member of protester's group "Bessrochka" Olga Misik sits in front police officers during an unsanctioned rally in the center of Moscow, Russia. Bessrochka's best-known member 17-year-old Olga Misik is currently under arrest. (Alexei Abanin via AP)In this photo taken on Saturday, July 27, 2019, member of protester's group "Bessrochka" Olga Misik sits in front police officers during an unsanctioned rally in the center of Moscow, Russia. Bessrochka's best-known member 17-year-old Olga Misik is currently under arrest. (Alexei Abanin via AP) The Associated Press

«In Russia si ha paura persino di ridere per una battuta sul potere. Anche per questo molti giovani si avvicinano alla politica». Abbiamo parlato con Olga Misik, l’attivista diciottenne e studentessa di giornalismo, che sfida Putin leggendo in piazza la Costituzione che lui vuol manomettere

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È fortemente indignata Olga Misik per la controriforma della Costituzione russa che Vladimir Putin vuole imporre, cancellando l’ateismo, trasformando la Russia in uno Stato confessionale, mentre con un atto degno di uno zar cerca di allungare ulteriormente il tempo della propria permanenza al potere. La ragazza, oggi diciottenne, divenuta famosa in tutto il mondo per aver sfidato agenti in tenuta antisommossa con una protesta pacifica e democratica, oggi rischia la galera, ma non si lascia irretire. È stata più volte denunciata per manifestazione non autorizzata anche se lei non ha fatto altro che leggere a voce alta articoli della Carta su cui ha giurato lo stesso Putin. Terminate le superiori con ottimi voti ora studia giornalismo all’università statale di Mosca e intanto porta avanti la lotta non violenta in nome della libertà di parola, di espressione, contro ogni forma di discriminazione.

Per parlarci di tutto questo il 20 marzo avrebbe dovuto essere a Milano nell’ambito di Move on, un ciclo di incontri su diverse piazze del mondo, dal Cile, alla Spagna, alla Catalunya, a Hong Kong, realizzato dalla rete dei ricercatori della Fondazione Feltrinelli, ma il diffondersi del contagio ha imposto uno slittamento di data. In attesa di poterla incontrare dal vivo le abbiamo chiesto cosa ne pensa della sproporzionata reazione repressiva che ha accompagnato il suo gesto e quali conseguenze comporta per lei e per la protesta giovanile che sta crescendo a Mosca soprattutto fra chi, come Olga, non ha conosciuto altra Russia che quella comandata da Putin.
Ma cominciamo dalla domanda chiave:

Perché leggere la Costituzione in piazza oggi, in Russia, è diventato “sovversivo”?

Penso che fattori diversi abbiano concorso a far scattare la reazione delle forze dell’ordine: ha colpito la mia giovane età, ma anche il senso fortemente simbolico di quel gesto. Forse ha avuto un impatto così forte perché mi trovavo nel posto giusto al momento giusto. Hanno avvertito che qualcosa stava nascendo: un movimento, una reazione che fino ad allora non si era mai manifestata.

«A ciascuno sarà garantita la libertà di espressione e di parola», «I cittadini avranno diritto a riunirsi pacificamente», recita la Costituzione russa. Perché hai scelto di leggere gli articoli 3, 27 e 31?

Non è che alcuni articoli della Costituzione siano più importanti di altri. È solo che questi erano rilevanti per la manifestazione del 27 luglio scorso: parlavano di democrazia, diritto a elezioni eque e libertà di riunione.

Che cosa pensi dei cambiamenti della Carta voluti da Putin che i russi saranno chiamati ad approvare il 22 aprile in quello che lui vuole sia un plebiscito?

Penso che siano cambiamenti estremamente negativi. La Costituzione è un documento fondamentale, non può essere riscritta e modificata a piacimento. L’obiettivo principale che Putin sta perseguendo è dissacrare la Costituzione. Leggerla davanti alla polizia antisommossa è stato visto come un oltraggio ai suoi piani.

Prevedi ulteriori misure repressive?

Ho l’impressione che presto le vecchie versioni della Costituzione diventeranno pubblicazioni vietate. Lo deduco dal modo pesante con cui la polizia reagisce ai raduni. Tutte le vecchie edizioni sono già state ritirate dalla vendita. Questo non è un fatto accettabile.

Cosa pensi della costituzionalizzazione del rapporto con la Chiesa ortodossa?

Il riferimento alla religione, in primo luogo, distrugge l’identità della Russia come Stato secolare, questo è sempre stato un punto cardine. In secondo luogo, la Costituzione è scritta per tutti i cittadini. Il clero è solo una porzione specializzata in un certo lavoro. È ridicolo nominarlo in Costituzione, lo sarebbe anche menzionare i minatori o qualsiasi altra categoria professionale. Ma c’è anche un altro aspetto più generale. In Russia i preti vengono repressi se si schierano con prigionieri condannati benché innocenti, i bambini muoiono per mancanza di medicine, gli attivisti vengono uccisi, perseguitati e incarcerati, Putin non ha il diritto di parlare di Dio.

La protesta contro Putin sta crescendo fra i tuoi coetanei. Cosa minaccia di più il futuro delle giovani generazioni in Russia?

Ci sentiamo minacciati da questa assurda realtà: le persone ormai hanno seriamente paura non solo di uscire, ma anche di ridere per una battuta sul potere, magari vista online. E ciò che è più assurdo ancora è che non hanno torto. La loro paura non è infondata, già esistono casi di pene detentive inflitte per cose simili. Anche per questo i giovani si stanno interessando di più alla politica.

È un cambiamento recente?

Fino a non molto tempo fa erano contenti di dirsi ed essere apolitici. L’interesse per la politica nella mia generazione è cresciuto in gran parte grazie a Aleksej Naval’nyj (segretario del partito del Progresso e presidente della Coalizione democratica, di cui era copresidente Boris Nemcov, assassinato nel febbraio 2015, ndr). Tuttavia, a differenza di quel che accade oggi nelle proteste giovanili come quella dei Fridays for future, da noi è molto difficile trovare un attivista che abbia meno di vent’anni.

Come è organizzato il vostro movimento? Siete in contatto via Telegram? Il vostro modo di comunicare sembra piuttosto spontaneo e orizzontale. È così?

Quello che ho sempre notato è che la protesta più efficace è quella che non può essere pianificata. Anche per questo sostengo un’idea piuttosto utopica di disorganizzazione. Molte persone in Russia interessate alla politica comunicano tramite Telegram, perché è il social media più indipendente e sicuro che abbiamo.

Temete la censura?

Personalmente sto attenta alle parole, cerco di parlare sempre con cognizione di causa e al momento non vengo censurata ma mi addolora che altre persone ne siano colpite seriamente, fino a finire in carcere per una parola detta per caso.

Quando è scattato in te l’interesse per la politica?

A 17 anni. Tutto è cominciato quando sono andata a una manifestazione. Prima di allora, ero piuttosto disattenta a ciò che stava accadendo nel Paese, ma lì mi sono resa conto che quel che sta accadendo non è normale.

Prima citavi i Fridays for future, hai incontrato Greta? Che cosa pensi della battaglia che sta portando avanti contro il climate change e per uno sviluppo più sostenibile?

Non l’ho mai incontrata. Rispetto Greta e il suo movimento, ma provo una specie di insofferenza: è molto facile combattere per l’ambiente quando gli eco-attivisti non vengono uccisi nel tuo Stato. È facile pensare al riscaldamento globale quando il tuo governo non sta bruciando le sue foreste. È facile parlare alle Nazioni Unite quando non sei nato nel Kuzbass, dove le persone respirano aria nera e camminano sulla terra nera, che cede sotto i loro piedi.

Qual è il tuo obiettivo oggi?

Non penso in anticipo e non pianifico nulla oltre le due settimane. La mia vita ora è troppo imprevedibile e casuale per fare qualsiasi piano. Il mio sogno? Al momento non cadere nella disperazione.

Stai studiando giornalismo all’Università, hai letto i reportage dalla Cecenia di Anna Politkovskaja, la giornalista e attivista per i diritti umani, oppositrice di Putin, che fu uccisa nel 2006?

Sì, studio per fare la giornalista all’Università statale di Mosca, questa è la nostra università più prestigiosa. Ho letto Anna Politkovskaja, la ammiro moltissimo e spero un giorno di poter portare alle persone lo stesso beneficio. Anche a quel prezzo.

 

 

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 20 marzo 

SOMMARIO

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Il treno dei bambini, che storia

Nel suo romanzo “Il treno dei bambini”, Viola Ardone racconta una vicenda poco nota dell’Italia del dopoguerra. Per alcuni anni il Pci e le donne dell’Udi organizzarono affidi temporanei di ragazzi del Meridione nelle famiglie emiliane. «Come Amerigo, un bambino che lascia la madre e va alla scoperta del mondo», ci racconta la scrittrice

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Un treno carico di bambini che corre verso nuove città, nuove avventure, tante scoperte, in nome di una parola che suona quasi magica: la solidarietà. Sembra una fiaba, ma invece è una storia vera. Il treno dei bambini (Einaudi Stile libero, 2019) di Viola Ardone, infatti, racconta dell’operazione del Partito comunista italiano e dell’Unione donne italiane che, nel Secondo dopoguerra, dal 1946 al 1952, portò, in treno, circa 70mila bambini – soprattutto del Sud, ma non solo – nelle regioni rosse del Nord per affidi temporanei, così da tenerli lontani dalla miseria. Il libro di Ardone recupera una vicenda storica troppo spesso dimenticata, ma che parla anche al nostro presente, ricordandoci l’importanza dell’accoglienza, della solidarietà e della lotta contro le disuguaglianze. E ci fa sentire tutta la mancanza di un grande partito di massa che possa dare risposte, politicizzare e organizzare i sentimenti e i bisogni della società.

Com’è venuta a conoscenza di questa vicenda?
Si tratta di una vicenda che è stata documentata, ma prima di questo romanzo non era stata ancora narrata. Per questo forse molte persone non ne erano a conoscenza. A me è stata raccontata da un signore che su quei treni c’era stato. Le sue parole sono state una scintilla: tanti bambini che partivano senza i genitori verso una destinazione a loro forse ignota. Era una storia da raccontare!

 

Cosa l’ha spinta a scriverci un libro? Perché è importante raccontarla oggi, questa storia?
Quando mi è nata l’idea avevo sotto gli occhi non solo le immagini della Napoli del dopoguerra ma anche quelle dei minori che arrivavano – e continuano ad arrivare – da noi in Italia su mezzi di fortuna, di madri che affidano la sopravvivenza dei loro figli alla sorte e alla solidarietà degli sconosciuti che troveranno sul loro cammino. Le storie di migrazioni sono le storie del genere umano. Da sempre l’umanità è in movimento alla ricerca della dimensione di vita migliore per sé e per le generazioni future. Negare questo significa non aver mai aperto un manuale di storia. L’accoglienza, l’incontro non sono mai semplici. Chi parte dalla sua terra deve abituarsi a nuove regole e linguaggi; chi accoglie deve far spazio all’altro e modificare il proprio modo di vivere, declinare le proprie convinzioni in relazione al nuovo. Per questo sono convinta che l’accoglienza debba essere frutto di una organizzazione e di un progetto condiviso. Altrimenti i singoli cittadini diventano vittime della paura, che è fonte di intolleranza e razzismo, soprattutto se queste tematiche vengono strumentalizzate dai politici.

L’illustrazione dell’articolo è di Vittorio Giacopini 

Appello per una sanatoria non più rinviabile, quella degli immigrati senza permesso di soggiorno

L’irregolarità, che raramente è scelta ed è quasi sempre una costrizione, porta spesso a vivere in ambienti insalubri e di fortuna, condivisi con altre persone e questo significa essere tanto esposti quanto divenire canali di contagio per il coronavirus

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Una sanatoria per tutte le donne e gli uomini provenienti da paesi extra UE e prive di titoli di soggiorno presenti sul territorio nazionale. È la proposta lanciata da Legal Team Italia, Campagna LasciateCIEntrare, Progetto Melting Pot Europa, Medicina Democratica e merita attenzione, non solo perché in poche ore vi hanno aderito numerose associazioni, forze sociali e politiche impegnate sui temi dell’immigrazione.Facendo riferimento allo scenario complessivo, in un appello lanciato il 20 marzo, i promotori affermano: «È scomparsa dal dibattito pubblico, semmai ci fosse entrata, la discussione, pur ancora allo stato embrionale, sulla possibilità per il governo di emanare un provvedimento di sanatoria dei migranti che soggiornano irregolarmente nel nostro Paese, tema oggetto dell’Ordine del giorno votato il 23 dicembre 2019 alla Camera dei Deputati in sede di approvazione della legge di bilancio e ribadito dalla ministra dell’Interno Lamorgese il successivo 15 gennaio 2020. Il tema, però non può essere accantonato e rimandato a tempi migliori, anzi diventa ancor più rilevante e urgente nella contingenza che ci troviamo ad attraversare».

Alla fine del 2018 si stimava in una cifra variabile fra i 400 mila e i 600 mila il numero degli “irregolari”, di questi in molti lavorano, soprattutto al nero, alcuni anche contrattualizzati. Una cifra in crescita non a causa di nuovi arrivi quanto per le disposizioni che cancellano la protezione umanitaria per molte persone giunte a cui è stato negato l’asilo; la chiusura delle frontiere, nata non certo con le dichiarazioni della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, non fa che confermare l’inadeguatezza della gestione delle politiche migratorie in Europa e a maggior ragione in Italia. «Nel nostro Paese – riprende l’appello – alla endemica mancanza di canali regolari e continuativi di ingresso (il sostanziale azzeramento delle pur insufficienti opportunità offerte dai flussi annuali e l’abolizione della figura dello sponsor hanno di fatto blindato le frontiere) e di qualsiasi forma di regolarizzazione a regime per chi già si trovi nel territorio italiano, si devono aggiungere la riclandestinizzazione operata dalla legge Bossi-Fini (in conseguenza del rapporto inscindibile tra disponibilità di un lavoro e permesso di soggiorno) e gli effetti della controriforma salviniana, che ha abrogato le norme che consentivano il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai richiedenti asilo».

Ovviamente e per mille ragioni: etiche, di diritto internazionale, per l’indisponibilità dei paesi di provenienza a riaccogliere e da ultimo anche per i costi, la questione non può essere risolta con la logica tanto decantata, nel centro sinistra come nel centro destra, dei rimpatri. La proposta che quindi viene avanzata è quella di una sanatoria generalizzata, che abbia come unici requisiti il dato fattuale della presenza in Italia e « la previsione per il futuro di una regolarizzazione individuale a regime che consenta di ottenere il permesso di soggiorno allo straniero, che ne sia sprovvisto e che presenti determinati requisiti (solo a titolo esemplificativo: un’offerta di lavoro, condizioni personali di vulnerabilità, uno sponsor che si faccia carico dell’ospitalità e del mantenimento, ecc.)». Ed è significativo ora questo appello perché alle già buone ragioni esposte si aggiunge il fatto che per tutelare la salute collettiva, compresa quella dei sans papier, è necessario garantire un accesso per tutte e tutti alla sanità pubblica. Chi è irregolare non può essere iscritto al SSN, non può avere un medico di base ma soltanto esigere le prestazioni sanitarie urgenti e quindi si ritrova ad affollare i posti di pronto soccorso con tutte le problematiche che questo determina.

L’irregolarità, che raramente è scelta ed è quasi sempre una costrizione, porta spesso a vivere in ambienti insalubri e di fortuna, condivisi con altre persone e questo significa essere tanto esposti quanto divenire canali di contagio per il coronavirus. Nell’appello si utilizza giustamente il termine “agganciare” riferendosi ai tanti invisibili per garantire pienezza di diritti “quantomeno di quelli che il sistema riconosce come diritti universali, in primis quelli alla salute e a un’esistenza degna”. (Per aderire collettivamente o individualmente è necessario inviare una mail a [email protected]). Interessanti le osservazioni apportate all’appello da Sergio Bontempelli, oltre che nostro collaboratore, esponente dell’associazione Diritti e Frontiere (ADIF) che ha sottoscritto l’appello. Una eventuale sanatoria è ma non risolverebbe i problemi posti dal coronavirus. La procedura di regolarizzazione richiederebbe infatti la presentazione delle domande da parte dei migranti, la valutazione dei fascicoli da parte delle Questure e il successivo rilascio del permesso di soggiorno: operazioni difficilmente eseguibili in tempo di epidemia (come gestire le file per il rilascio dei permessi, ad esempio, visto che la consegna materiale del documento non può essere informatizzata?), e che in ogni caso richiederebbero mesi per essere concluse.

Ciò non significa che sia sbagliato chiedere la regolarizzazione: ma che dobbiamo accompagnare questa richiesta con altre proposte che tengano conto della straordinarietà e dell’urgenza della situazione. In concreto, il Governo potrebbe emanare un decreto urgente che sospenda il legame tra permesso di soggiorno e accesso a determinati diritti e servizi. Si potrebbe pensare ad esempio alla sospensione temporanea della validità di alcune norme del Testo Unico, come l’art. 34 comma 1 (accesso al Servizio Sanitario Nazionale per gli stranieri regolarmente soggiornanti), l’art. 40 (accesso agli alloggi sociali e di emergenza abitativa, sempre per gli stranieri regolari) e l’art. 41 (accesso alle prestazioni del servizio sociale riservato ai titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno).

In via provvisoria, si dovrebbero garantire tutti questi servizi (sanità, alloggio, provvidenze sociali ecc.) alle persone presenti a qualsiasi titolo in Italia, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno e dalla residenza anagrafica. La segnalazione della presenza in Italia, effettuata dalle autorità di polizia, da quelle sanitarie o dai servizi sociali potrebbe poi valere come richiesta di emersione nell’ipotetica sanatoria». A chi, da “destra” ha ormai connaturata l’equazione fra xenofobia e ricerca del consenso, tali proposte non risulterebbero pragmatiche e utili a tutti, difficilmente farebbero cambiare opinione. Ma nel tessuto democratico che nel Paese resiste e in quelle istituzioni che stanno anche mostrando buon senso, di fronte ad una emergenza vera, non falsa come quella in nome di cui si voleva lasciare in mare naufraghi, beh non è detto che non si possano avanzare che proposte come queste di puro buon senso. Che qualcuno le faccia proprie.

«Children are not tabulae rasae»

Thinking about the episode of alleged irregular foster care cases in Reggio Emilia, we asked psychiatrist Andrea Masini to tell us what might happen when a social worker assumes that he or she is facing a case of domestic violence or family abuse.

Psychiatrist and psycotherapist Andrea Masini is the director of the scientific journal Il sogno della farfalla and professor in the Dynamic Psychotherapy School Bios Psichè.

«Nowadays there is still a cultural and historical prejudice against the human reality of children: the idea of them being tabulae rasae. Indeed, the attitude towards children is often motivated by the image of them being blank slates to write on. This idea even prevails in people who are regularly in contact with children, due to their professions, and who thus could prompt children to say things that they wouldn’t otherwise say. And children say what is suggested by adults because they naturally trust them, unfortunately». Recently (around 5th July 2019) there was much talk about the “Angels & Demons” investigation into alleged illegal foster care cases regarding children from the province of Reggio Emilia. Respecting the presumption of innocence enjoyed by all people involved in various ways in the inquiry, we asked psychiatrist Andrea Masini to explain what can happen when a specialist assumes that he or she is facing a case of domestic violence or family abuse involving minors. Regarding the Reggio Emilia case the Public Prosecutor, Marco Mescolini, told Ansa, the leading wire service in Italy, about «brainwashing of children» to create false memories (in order to remove these children from their parents and place them in other families). In a word: plagium. Nonetheless Mescolini dutifully added that «it is not the system of foster care under investigation, but rather the people involved in the Reggio Emilia case».

Professor Masini, how should we relate to a child if we want to understand if he or she has actually been abused by one of his/her parents?

Carrying out an interrogation” or questioning a child is always very difficult, especially if we take for granted that something happened. I can clearly see that often the problem is the presence of a mentality according to which children know nothing and need to be taught what to say. On the contrary, relating with children, we must always put ourselves in a position of authentic, participative and empathetic listening. Because, as clearly stated in Human Birth Theory by Massimo Fagioli, every child holds knowledge, possesses intelligence and the capability to comprehend what happens around him/her. If this approach is lacking, any kind of relationship can be negatively affected, whether it involves a social worker, a magistrate or a psychotherapist.

Some stress the importance of asking indirect questions, to avoid suggesting standard answers.

If that kind of prejudice against children’s reality is present, even indirect questions can prove ineffective. We need to think and imagine the child as a knowledgeable human being, who knows things and, consequently, can explain them to others, in his/her own way and using his/her own words.

For youngsters, what are the consequences of this kind of prejudice?

Children can feel it, through their emotions, but they cannot prevent the psychological wound that such prejudice inflicts upon them; this moreover because it is a prejudice that is neither clearly expressed or verbalized. Furthermore, as this prejudice is very common in our culture, children may have already experienced it in their relationships with their parents, their families, or at school. This idea of a tabula rasa to be filled in by adults is still very common in our culture.

How can we overcome this situation?

We need a paradigm shift, both in Culture and Science, and we must recognize that children, using their own ways of expressing themselves, surely have a very deep and precise knowledge about relationships, about what they have been through and what life is about. If we fail to acknowledge this, we can neither imagine nor see the development process children are constantly involved in, learning language and how to cope with society. We must be aware of their capabilities and of their potential, so that we can put ourselves in a dimension of authentic listening: “I’m actually trying to understand what he or she is telling me”. This is worthwhile for doctors, social workers, and parents. But very often adults relating to youth have pre-formed judgements, made up before listening to them, even when they are assigned to delicate tasks as in the case of welfare officers, psychotherapists, or magistrates. Consequently, these adults make the situation they are facing fit their pre-formed judgements, without seeking to understand what a child is actually trying to say.

Prosecutor Mescolini said that the system of social welfare is not in question. What do you think?

Social workers often save the lives of children who are mistreated, abused, or even worse. But sadly, in clinical practise, I can see that some welfare officers make serious mistakes.

Is this due to the prejudice we talked about?

It can happen that a social worker interprets a drawing done by a child only on the basis of the conviction he or she has already formed without giving proper attention to the youngster. So the report he or she files with the magistrate may be written in a manner that leads not-so-bad mothers to lose their parenting role. And their kids are placed into foster care. I am a psychiatrist for adults therefore I am regularly involved in the psychiatric examination and evaluation of parents. Sometimes they seem like nice people, other times just one of them has problems (e.g. addiction), yet the kids are taken from both parents, even, for example, when the mother has been trying to protect her child/children.

Is there a way to avoid all of this?

If a social worker reports that he or she thinks that a child is suffering, the magistrate can decide to remove the youngster from his or her home. As we saw in the Emilia Romagna case, the system of foster care leaves the decision of what to do in the sole hands of social workers.

Are they trained to do a psychological evaluation?

It depends. Older social workers have qualifications comparable to those of kindergarten teachers. Nowadays younger social workers have to complete University studies to obtain their job. The point is that the new law needs to be fixed; everybody knows it doesn’t work. It’s too unbalanced, even for social workers themselves. If something bad happens to the minor they interviewed concluding he or she was not in danger, all the responsibility falls on their shoulders, even if they did not have the specific competency to evaluate the situation. A real change is needed also to protect social workers themselves: it is in their own interest. Because while it is true that they have great authority, if something happens, they are the only ones that are held responsible.

Translated by Ludovica Valeri, revised by Micheal Louis Stiefel

La versione in italiano è disponibile qui

Perché i cinesi rischiano la vita per salvare l’Italia

MILAN, ITALY - FEBRUARY 25: A woman, wearing a respiratory mask, walks past a placard showing a handshake between two hands representing the Chinese and the Italian national flags and reading 'The enemy is the virus, not the people. Go China!' in the Paolo Sarpi district (Milan's Chinatown) on February 25, 2020 in Milan, Italy. The Chinese community of Milan - the largest in Italy, counting 30.000 people, mainly natives of the coastal province of Zhejiang - has decided to shut its stores and commercial activities following the outbreak of the new coronavirus. Italy is the last country to be hit hard by the virus with 7 dead and more than 288 infected as of today. The spread marks Europe’s biggest outbreak, prompting Italian Government to issue draconian safety measures. (Photo by Emanuele Cremaschi/Getty Images)

A novembre – l’ultima volta che sono stato a Wuhan – stavano smontando le attrezzature costruite per il World military game, le olimpiadi dei militari che si erano appena concluse. Non gli diedi alcun peso, evidentemente. Oggi quell’evento è invece al centro di un caso internazionale: il governo cinese, in maniera più o meno diretta, ha accusato i soldati americani di aver potuto portare il coronavirus a Wuhan, per assestare un colpo all’economia cinese, proprio nel pieno della guerra dei dazi che stava infuriando fra le due superpotenze.

La faccenda è arrivata a Washington e l’ambasciatore cinese è stato convocato per ricevere le proteste formali del governo americano. Ma forse questa era solo la conseguenza della dichiarazione del consigliere per la Sicurezza americano, circa i ritardi cinesi nel comunicare l’inizio del contagio. Infatti, secondo fonti di Hong Kong, il virus circolava a Wuhan già da novembre, ma il governo cinese lo avrebbe confermato ufficialmente solo a gennaio, producendo un ritardo nell’inizio della lotta al virus.

Come avevamo infatti già previsto la scorsa settimana su Left, la diffusione del virus sta alimentando il confronto fra le due superpotenze, non solo diretto, ma anche per interposta nazione. Infatti, mentre gli Usa, dopo aver inizialmente sottovalutato l’effetto della pandemia, stanno adesso lentamente iniziando a rendersi conto degli effetti a livello nazionale sulla popolazione e sulla economia, dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, la Cina è avviata ormai ad uscire dalla crisi, dopo averla determinata, e anzi sta con una capacità magistrale trasformando la sua responsabilità in una occasione per dimostrare al mondo la sua potenza scientifica ed economica.

In questo quadro va letto l’arrivo a Roma di una squadra di esperti cinesi, medici e ricercatori, che hanno portato 31 tonnellate di materiale sanitario. Nata come una normale collaborazione fra la Croce rossa cinese e quella italiana, è diventata… 

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 20 marzo 

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«In corsia, come se ci fosse una guerra»

Foto Claudio Furlan/LaPresse 16 Marzo 2020 Bergamo (Italia) cronaca Murales all’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo per ringraziare medici e infermieri durante l’emergenza coronavirus (murales di Franco rivoli) Photo Claudio Furlan/LaPresse 16 March 2020 Bergamo (Italy) news Thank you message for doctors and nurses on murals at the Papa Giovanni Hospital in Bergamo

Un piccolo vassoio con una decina di dolcetti che la barista della pasticceria al 42 porge con un sorriso alle due infermiere che hanno appena finito il turno e si concedono un caffè di fronte all’ospedale di Cremona: «Per voi».
In quelle due parole c’è tutta la gratitudine di una delle realtà più colpite dal Covid-19.
Comincia da qui, dalla cittadina situata nel cuore della Pianura padana, il racconto di un impegno che da settimane, nelle corsie degli ospedali, è molto più che “semplice lavoro” per gran parte dei camici bianchi e blu italiani.

«Qui è davvero un incubo… una vera e propria guerra. Facciamo ormai turni di 12 ore consecutive e abbiamo quasi raddoppiato i posti letto nel mio reparto. C’è paura perché ogni giorno la situazione si aggrava. Ogni giorno spero che qualcosa migliori ma fino ad ora il ciclone va avanti sempre più violento. Ma noi non ci lasciamo travolgere. Teniamo duro» racconta Monica Mariotti, una delle destinatarie del gesto di riconoscenza del proprietario del bar poco distante dalla struttura dove dall’inizio dell’emergenza lavora in prima linea per assistere i pazienti che hanno contratto il coronavirus.

Nonostante l’angoscia delle sue parole, è percepibile la risolutezza nell’aggrapparsi alla speranza.
Sono persone come Monica, come i tanti medici e operatori sanitari che continuano a impegnarsi oltre le loro forze, rischiando ogni giorno sulla propria pelle, a rappresentare il meglio del nostro Paese in un momento difficile, che spezza il fiato, spegne la serenità e ha già cambiato la nostra vita.
«Le terapie farmacologiche per questo virus sono poche. Il decorso dipende prevalentemente dall’organismo dei pazienti. L’intervento sanitario può solo supportarlo quando non ce la fa più. E per farlo servono strumenti per la respirazione che non sono mai sufficienti per tutti. Ormai è come essere in guerra», è lo sfogo di Daniele Macchini, medico internista all’ospedale di Bergamo che nella sua testimonianza ripropone quel termine che fa paura, “guerra”, e lancia un appello: «Ognuno deve fare la propria parte per aiutare i medici a salvare più vite possibili»…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 20 marzo 

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Un vaccino contro la mafia, il virus visibile che infetta l’Italia da 165 anni

Come ogni anno dal 1995 il primo giorno di primavera ricorre la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e Avviso Pubblico. Per la prima volta dopo 25 anni, a causa dell’emergenza sanitaria in corso, non è possibile ritrovarci tutti e tutte insieme a riempire le piazze d’Italia per leggere l’elenco dei nomi delle oltre 1000 vittime innocenti ma non vogliamo far mancare il nostro abbraccio ai familiari.

Come ogni anno, tutte le realtà sociali della Rete dei Numeri Pari avrebbero marciato per le strade di Palermo al fianco di Libera e dei familiari non solo per chiedere verità, giustizia e memoria per quelle vittime innocenti, denunciare la presenza delle organizzazioni criminali mafiose e delle connivenze con politica, economia e massoneria ma anche per chiedere politiche sociali coerenti con l’impegno del contrasto alle mafie. Da anni abbiamo capito che c’è una relazione profonda tra l’aumento delle povertà e delle disuguaglianze e il rafforzamento delle mafie e della corruzione. Abbiamo capito che certe politiche e i tagli effettuati al Fondo Nazionale Politiche Sociali hanno favorito le mafie, rendendo milioni di persone più povere e insicure. Si è parlato a lungo di sicurezza nel nostro paese, declinandola però con il dispiegamento di forze armate per le nostre strade e con l’attivazione di una rete di videosorveglianza, mentre – come mostrato dall’emergenza in corso – abbiamo bisogno di parlare di sicurezza sociale e ambientale.

Come denunciato da La Via Libera (bimestrale che ha preso il posto di Narcomafie), anche in piena pandemia le mafie stanno sfruttando le occasioni che l’attuale crisi economica (oltre che sanitaria) sta provocando, cogliendo ogni dolore come un’opportunità in più di guadagno personale e di acquisizione e mantenimento del proprio potere. Proseguono i loro traffici illegali servendosi dei canali di trasporto di merci legali che non hanno subito il blocco, spacciano droghe tramite consegne a domicilio, si approfittano delle aziende e delle persone in difficoltà proponendo acquisizioni e prestiti usurai, corrompono, si inseriscono in nuovi mercati (come quello delle mascherine o dei disinfettanti) per accumulare capitali velocemente e altro ancora.

Il 21 marzo è, quindi, solo la tappa di un cammino in divenire e l’occasione per rinnovare e rafforzare un impegno quotidiano. Per questo rilanciamo con forza l’invito di Libera a essere e costruire comunità, perché solo il “noi” può debellare le mafie, un virus insediato nel nostro corpo sociale da 165 anni e che con la complicità di altri virus – la corruzione, le ingiustizie sociali e ambientali, la precarizzazione del lavoro, i tagli alla sanità pubblica, al sociale, alla cultura, gli egoismi e l’indifferenza – è stato favorito e rafforzato.

Oggi si festeggia anche il Pwkar Raimi, giornata in cui le popolazioni indigene salutano la fine dell’inverno e accolgono il tempo di rinascere e ricreare, con l’augurio che questo 21 marzo ci faccia riflettere dentro tutti e tutte noi e organizzare – appena ne avremo l’opportunità – la rabbia in sete di giustizia per le vittime innocenti delle mafie, del Covid-19, dei tagli ai servizi sociali e sanitari, delle povertà, e delle ingiustizie ambientali.

*

Elisa Sermarini  è responsabile comunicazione della Rete dei Numeri Pari

Il dilemma. Le scelte difficili in terapia intensiva

Foto Claudio Furlan - LaPresse 27 Febbraio 2020 Piacenza (Italia) Cronaca Tensostruttura davanti al Pronto Soccorso dell Ospedale di Piacenza per far fronte all emergenza CoronavirusPhoto Claudio Furlan - LaPresse 27-02-2020 Pieve Fissiraga (Italy) NewsStructure in front of the Emergency Department of the Piacenza Hospital to deal with the Coronavirus emergency

«Lasciano morire i vecchietti» si legge e si sente spesso dire a seguito della pubblicazione da parte dalla Siaarti, la Società scientifica degli anestesisti, del documento, reperibile on line: Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili.
Quando muore un “tuo” paziente, su un tuo letto, durante una tua guardia, sotto la tua diretta responsabilità ho sempre provato, anche dopo tanti anni di direzione di una terapia intensiva cardiologica, una particolare sensazione di sconfitta e, pur non avendo in genere seri dubbi, ogni volta puntuale veniva da chiedermi se avessi potuto fare diversamente e di più, se avessi fatto troppo, se avessi permesso che soffrisse. Qualcuno mi ha poi fatto capire che servivano a non assuefarmi, a non diventare cinico, distante e freddo, a non perdere qualcosa indispensabile. Questo e molto altro la gente non lo sa ma per giudicare il vissuto e alcuni comportamenti di chi cerca di evitare la morte per malattia di un altro essere umano dovrebbe almeno un po’ conoscerle. È utile quindi fare alcune precisazioni.

Gli anestesisti rianimatori sono quelli che, più di altri specialisti, hanno a che fare con scelte difficili e mai superficiali. Il tema del fine vita è da sempre difficilissimo e continuo è lo scontro tra posizioni profondamente divergenti; nella pratica clinica può esserlo ancora di più.
Serve prima di tutto leggere il documento che pur essendo di natura tecnica permette di capire lo spirito con cui è stato scritto. È stato scelto l’approccio trasparente di far conoscere a tutti il tema delicatissimo dei criteri di ricovero e dimissione da una TI in possibili condizioni estreme di mancanza di posti letto di TI. L’obiettivo primario è sempre salvare più vite possibili e quello descritto è il modo per salvarne numericamente di più.

Il riferimento è alla pandemia giustamente considerata una maxiemergenza come lo sono guerre, attentati, terremoti, tsunami, e altri eventi catastrofici. Condizioni estreme e temporanee in cui ci si trova in una situazione di carenza assoluta e non modificabile di risorse rispetto alla…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 20 marzo 

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