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Quattro bufale sul Coronavirus

La più divertente è quella che vede tutti ritirare i panni dal balcone e rinchiudere in casa i cani: «Avvisare a tutti PASSAPAROLA: Dalle 23:00 stasera fino alle 05:00 di domani mattina passerà un elicottero e disinfettará tutto, mi raccomando nn rimanete i panni scarpe e altre cose fuori e soprattutto attenti ai cani!» Sì, ciao, come no. Il messaggio che circola è quella che tecnicamente si definisce una cagata pazzesca. Tra l’altro la sanificazione non avviene con gli elicotteri. Quelli sono film.

Poi ci sono quelli che sognano scenari apocalittici e paramilitari: «Il dipartimento della protezione civile, in collaborazione col governo ha deliberato che il 15 marzo se l’epidemia non è stata contenuta verrà dichiarato il biocontenimento BSL-4. Il più alto che prevede protocolli di contenimento estremamente stringenti. Se l’oms dichiara la pandemia significa che il mondo si fermerà completamente per 21 giorni. Borsa, parlamenti, scuole, aeroporti, treni, uffici, attività commerciali.. tutto. Solo un membro per ogni nucleo famigliare sarà dotato del kit necessario per recarsi ai checkpoint militari approntati per i rifornimenti necessari. Nessun’altra potrà lasciare la quarantena domiciliare, malato o sano, grave o no. Dopo 21 giorni sapremo che il virus è sconfitto ma faremo la conta di un isolamento così rigido». Potete spegnere i videogiochi e tornare nella vita normale.

Altra chicca: «Buongiorno a tutti. Scusate, allora le mie notizie invece riguardano la salute. Sono arrivate adesso le notifiche a noi ospedalieri dal San Gerardo di Monza, dal Policlinico, dal Sacco, insomma gli ospedali quelli più impestati, facciamo prima a dir così. Allora, è efficacissima la vitamina C sui pazienti già affetti da coronavirus. La stanno usando come terapia e i pazienti rispondono benissimo. Quindi, assunzione di vitamina C anche come a scopo preventivo nell’ordine di 1-2 grammi al giorno. Come fare? Sicuramente una spremuta di arancio, limone e un kiwi al giorno se si utilizza l’alimentazione ma supplementato da una compressa da 1 grammo di Cebion, vitamina C che trovate nelle parafarmacie o nelle farmacie. Mi raccomando, questa cosa divulgatela il più possibile. Vitamina C a tutti quanti, bambini, adulti e soprattutto anziani nell’ordine di 1/2 grammi al giorno. Ciao.» Sì, ciao. La smentita arriva proprio dagli ospedali. E poi, pensateci, davvero avremmo potuto non pensare alla vitamina C?

Poi ci sono quelli che ci dicono che il virus può rimanere nell’aria per 30 minuti e percorrere fino a 4,5 metri. La notizia stava in uno studio cinese pubblicato su una rivista scientifica. E invece no. Lo studio è stato ritirato. La notizia è falsa.

Però sono verissimi quelli che godono nell’aggiungere psicosi alla psicosi, dei malati anche senza virus che diffondo sciocchezze per apparire come quelli che hanno notizie di prima mano. Non credetegli. Stategli lontani. Anche quando passerà il Coronavirus.

Buon giovedì.

 

Cronache da Chios, in Grecia chi soccorre i migranti è nel mirino dei fascisti

Migrants carry plastic bags with goods in Edirne near the Turkish-Greek border on Saturday, March 7, 2020. Thousands of migrants headed for Turkey's land border with Greece after President Recep Tayyip Erdogan's government said last week that it would no longer prevent migrants and refugees from crossing over to European Union territory. (AP Photo/Emrah Gurel)

«Qui è tutto fuori controllo. Al momento mi sembra che siamo tutti in pericolo». A parlare in questi termini è Elena De Piccoli, attivista dell’associazione Stay human. “Qui” è il luogo dove Elena si è trasferita dallo scorso luglio: l’isola greca di Chios, vicinissima a Lesbo e alla Turchia. “Qui” si trova il campo profughi di Vial (delle cui condizioni ci siamo occupati con reportage e approfondimenti su Left del 14 febbraio)

Il pericolo, per tutti, ha preso forma concreta la notte fra il 3 e il 4 marzo, con l’incendio alla Chios warehouse, punto d’appoggio per donazioni usato dalle diverse associazioni presenti sull’isola, Stay human inclusa. Incendio che ha completamente distrutto il luogo e tutto ciò che c’era dentro, mettendo anche a rischio la vita di alcune persone in quanto la warehouse era al piano terra di una palazzina abitata, poco distante dal centro della città. Incendio di natura dolosa che è solo l’ultimo di una serie di episodi di minacce e violenze subite dagli attivisti e dai cosiddetti “solidali”, gli abitanti di Chios che hanno iniziato ad aiutare i migranti prima ancora dell’arrivo delle ong. E che ora collaborano con loro.

La warehouse di Chios dopo l’incendio di natura dolosa. Credits: Elena De Piccoli

«Nell’ultimo mese non erano mancate minacce via social – racconta Elena, raggiunta via telefono nelle concitate giornate seguenti all’incendio – peggiorate due settimane fa, quando, durante una manifestazione contro le violenze della polizia verso i migranti, si sono presentate persone armate di coltelli a minacciare i manifestanti». Le stesse che negli ultimi giorni stanno bloccando gli accessi al campo di Vial. «Sono i fascisti della città – precisa Elena – e non lo dico per nostre deduzioni, ma perché loro stessi si vantano fieramente e apertamente di esserlo».

A tutto ciò si somma ulteriore preoccupazione e necessità d’agire. Mentre scriviamo Elena ci racconta che un’altra associazione con una warehouse funzionante ha ricevuto la visita di uno dei fascisti che, senza mezzi termini, ha detto agli attivisti che se non avessero chiuso il punto d’appoggio l’avrebbero bruciato. E la polizia? «Dopo l’incendio – racconta Elena – abbiamo detto ai poliziotti di sentirci minacciati. Ci hanno risposto che non potevano far niente, di chiamare il numero per le emergenze e che comunque sarebbero stati troppo occupati per aiutarci». Ancor più raggelante è il commento di uno dei solidali di Chios riportato da Elena: «Non lo sai che buona parte dei fascisti dai quali ci sentiamo minacciati sono dentro quell’ufficio di polizia?».

Situazione fuori controllo a Chios, dove da giorni le associazioni non ricevono più alcun aggiornamento sui numeri dei profughi in arrivo, che, dopo le proteste dei fascisti, vengono portati non più al campo di Vial ma in un vecchio edificio abbandonato in città. La certezza, per loro, è che verranno deportati, e non potranno fare richiesta d’asilo. Non una novità, vista la sospensione del diritto d’asilo decisa dal governo greco. Novità che invece ci saranno eccome a Chios per i migranti. Ma non di natura migliorativa. E che riguardano la costruzione di un nuovo campo da parte del governo greco, che dovrebbe essere ultimato entro luglio.

«Il nuovo campo che hanno in mente – racconta Elena – è pensato per sostituire quello di Vial, potrà contenere circa 1.100 persone (quanto quello attuale) ma sarà una vera e propria prigione. Un campo di detenzione dal quale i migranti potranno uscire solo con permessi speciali riguardo le loro pratiche burocratiche o attività simili. Non potranno uscire neanche per questioni mediche, perché, dicono, nel nuovo campo ci sarà una clinica interna. Cosa che ci preoccupa non poco visto che una simile struttura c’è già a Vial ma non funziona praticamente mai». Nuovo campo che sorgerà in una zona ancor più isolata, a 18 km dal centro e nascosto tra le montagne dell’isola. L’intento, inequivocabile, è quello di nascondere il più possibile i rifugiati, provando a renderli invisibili agli occhi del mondo. Come conferma la stessa Elena.

Resistere e opporsi a tutto questo non è facile. Da un lato, sono poche le persone che appoggiano i rifugiati tra la popolazione di Chios. E il clima è sempre più difficile. «Tempo fa – racconta Elena – ero in un bar con 3 rifugiati e la cameriera ci ha detto che le persone come noi non erano gradite in quel posto». Parole che evocano il peggior razzismo. Dall’altro, le violenze fasciste sono reali, perpetuate e impunite. «Al momento – confessa Elena – manteniamo un basso profilo. L’idea è far calmare un po’ le acque e riprendere le attività a pieno ritmo».

Ma proprio un contesto così difficile può generare nuove reazioni. «Prima di tutto ciò non c’era grande coordinamento tra le associazioni – confessa Elena – ora invece facciamo davvero rete, collaborando e proteggendoci a vicenda. Per opporsi a tutto questo è essenziale essere uniti nella protesta e dare il più possibile visibilità a quanto succede a Chios. Per denunciare abbiamo lanciato una petizione firmata da tante associazioni, una lettera aperta scritta da noi e rivolta al Parlamento europeo, perché dobbiamo continuare a fare tutto il possibile». Prendendo forza da gesti concreti.

«Il giorno dopo l’incendio – conclude Elena – nonostante il clima c’è stata comunque una manifestazione. Vedere le persone che avevano fondato la warehouse scendere in piazza, con gli occhi lucidi ma con il sorriso, è stato per me un grande esempio di forza. Possiamo solo prendere ispirazione da loro. Se ce la fanno loro, mi sono detta, noi non possiamo arrenderci». Anche perché il fronte a cui opporsi è ampio. Con un governo greco che si accanisce contro i migranti per respingerli in ogni modo. Lasciando mano libera alle organizzazioni fasciste. E un’Europa che, per bocca della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, definisce quella stessa Grecia «il nostro scudo». Di nostro, ci permetta, non c’è proprio niente.

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Per approfondire, leggi la cover story di Left, con approfondimenti e reportage da Lesbo e dal confine tra Grecia e Turchia 

SOMMARIO

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Contro l’epidemia le persone riscoprono il mutuo soccorso

È invisibile e sta colpendo duro. Il Covid-19 è il protagonista assoluto dell’attenzione pubblica mondiale ed ha già portato i governi di tutto il mondo a uno sforzo straordinario finalizzato a fermare il contagio, anche attraverso misure restrittive della libertà di aggregazione e circolazione. È l’intera società ad essere mobilitata per riprodurre un messaggio globale: evitare al massimo i contatti tra persone, soprattutto in luoghi affollati, assumere misure minime di igiene personale e pubblica e, soprattutto, seguire le istruzioni della comunità scientifica e del governo. Istruzioni dure, ma necessarie che rimbalzano anche nei luoghi dell’associazionismo, della società civile impegnata nei tanti progetti di riqualificazione pubblica dal basso e di costruzione di solidarietà nei tanti comuni del Paese.

«Dobbiamo attivarci per raggiungere chi in questo momento rimane indietro, le persone anziane, per esempio» dice Alice del Centro Sociale “La Strada”, durante una riunione nel parco di Casetta rossa, luogo di aggregazione e di produzione politica e culturale del quartiere Garbatella a Roma. Il tam tam che ha portato all’incontro è circolato per le chat delle reti civiche locali, il messaggio è semplice, dare un contributo volontario per sostenere moralmente e materialmente chi rimane indietro. «Intanto prendiamo le misure, un metro, anche due eh» dice qualcuno del gruppo che piano piano si ingrandisce. «Informiamo sulle direttive del governo, stanno girando troppe fake news e le persone sono disorientate».

Alla riunione svolta “in sicurezza” come chiedono in diversi, partecipano portavoce dei comitati di quartiere, il Centro Sociale la Strada, i membri dell’Ape (associazione escursionisti proletari, che proprio qui è nata diversi anni fa), l’assessore alla scuola del municipio VIII. Luciano, storico portavoce della comunità propone una radio-tv web per informare e intrattenere e l’attivazione di servizi rivolti a quei precari colpiti dalla meteorite che ha colpito l’economia della città. «Dobbiamo prenderci cura delle relazioni di comunità, in un modo nuovo – dice Luciano -, stare in equilibrio tra le misure del governo e la necessaria attivazione delle nostre reti locali», aggiunge. Sempre a Roma è lo Sparwasser, circolo politico-culturale del quartiere Pigneto ad attivarsi, creando il progetto “Casa Pigneto: un quartiere solidale”. «In questi giorni in cui tanti dovranno restare a casa, con mille difficoltà nella vita di tutti i giorni, pensiamo che nel nostro quartiere si debba agire. Con cautela e rispettando le disposizioni, ma restandoci vicini e sostenendo chi ha bisogno».

L’obiettivo è sempre lo stesso, prendere le parti di chi resta indietro o rischia di farlo. La sintesi delle finalità del progetto sembra comprendere l’anima di tutto quel mondo sociale che non vuole aspettare gli eventi: «Ci stiamo organizzando per far partire alcune attività, coniugando buon senso e senso civico», dicono in un lungo post gli attivisti. Portare la spesa agli anziani che non possono uscire di casa, organizzare i volontari per assicurare il rifornimento di beni di prima necessità (con le dovute precauzioni, sottolineano) e poi assistere logisticamente quanti vengono messi in smart working. Sul fronte dei partiti e movimenti politici, Potere al Popolo lancia il “Babysitting popolare” in diversi territori e nei quartieri periferici della Capitale. «Con le scuole chiuse a causa dell’emergenza coronavirus, centinaia di famiglie si trovano in difficoltà nell’assistenza ai propri figli, così come decine di lavoratori pubblici e studenti universitari sono a casa. Se sei un genitore che non può seguire in propri figli in questi giorni, contattaci». Anche in questa esperienza, la valutazione della sicurezza è al primo posto e si chiarisce che le modalità di erogazione dell’intervento avverrà in luoghi non pubblici e sarà stabilito caso per caso in accordo con le famiglie coinvolte.

Dal fronte più in emergenza, la Lombardia, da Codogno prende la parola Gianni Barbaglio, consigliere di opposizione e psicologo. Qui la vita è scandita dalle restrizioni, dall’attesa e dalla paura. «La paura del contagio e l’incertezza lavorativa creano una situazione surreale e assolutamente difficile da gestire individualmente. L’economia non è rallentata è bloccata, come gran parte della vita civile. Come psicologi ci siamo riuniti in “psicologi in prima linea”, una sorta di associazione che interviene a supporto della popolazione più fragile, che in questo momento non è soltanto quella che si trova a vivere l’elaborazione del lutto». Nella pagina facebook relativa, l’associazione mette a disposizione numeri di telefono e contatti, con la dicitura “tariffa: gratuito”.

A Cremona, alla luce dell’ultimo decreto zona rossa come tutta la Lombardia, l’Auser, una storica associazione di volontariato agisce con i suoi 50 circoli e più di mille volontari. È una struttura consolidata del terzo settore, che in convezione con molti comuni del Cremonese e a livello nazionale gestisce servizi alla persona. «I nostri centri sociali devono chiudere alla luce dei decreti sull’emergenza» dice Donata Bertoletti, presidente dell’Auser di Cremona. «Come associazione ci stiamo adeguando alla situazione, abbiamo un servizio volontari che porta medicine salva vita e generi alimentari a casa delle persone più fragili, e in questo momento aumentano. È chiaro che per chi è in isolamento dobbiamo coordinarci con il servizio socio-sanitario». L’associazione ha messo a disposizione dei Comuni il suo numero verde nazionale (800995988), proprio per poter dare un punto di informazione e sollievo per chi è solo o rischia di rimanerci.

Nella Capitale del Nord, Milano, nei giorni scorsi una rete di operatori economici, del mondo della cultura, dell’associazionismo politicamente più impegnato ha chiesto una scossa di interventi di sostegno al governo e si è messo a disposizione dell’amministrazione comunale per una alleanza per il bene di tutti i cittadini milanesi. È l’altra faccia dell’emergenza, quella economica, integrata e connessa con quella sociale e sanitaria. «Milano è una città che ha costruito una narrazione sulla sua produttività, sul successo, sul “siamo motore culturale ed economico”. Bisogna ammettere che questa logica, se ha aiutato in termini morali, di costruzione identitaria e di recupero di zone di degrado e di esclusione, dall’altra ha evidenziato il limite di lasciare indietro chi è più fragile» dice Franz Purpura dell’associazione Rob de Matt, una impresa sociale comunitaria molto attiva nella metropoli. «Alle prime avvisaglie delle conseguenze dovute alla giuste restrizioni, è nata una rete composta dai locali e attività culturali, dei luoghi più “fighetti” a quelli più impegnati, dai profit alle realtà no profit. Il dato comune è che questa forza economica e sociale, produttiva e inclusiva ha chiesto al sindaco di prendere le parti della città, della comunità locale. Il dialogo tra ibridi e diversi è forse la cosa più interessante di questo grido che chiede interventi efficaci per aggredire il collasso economico e sociale».

Proprio in queste ore, in diverse città del Paese, questa reazione si fa più attiva, sono decine le iniziative che prendono il largo e si misurano con le nuove direttive. Iniziative che regolano le proprie modalità in base ai nuovi dati sulla diffusione del virus, guadagnando la sfera virtuale come quella più efficace per tenere insieme sostegno alle persone più fragili o indebolite dalla crisi economica e sanitaria con la sicurezza pubblica. È solo l’inizio di un impegno civico nuovo, dentro uno scenario che già sta cambiando stili di vita e modalità di gestire le azioni di aiuto e mutuo soccorso.

Il coronavirus e le contraddizioni della sinistra succube del neoliberismo

Foto Claudio Furlan - LaPresse 10 Marzo 2020 Brescia (Italia) News Tende e strutture di emergenza degli Spedali Civili di Brescia per l emergenza coronavirus Photo Claudio Furlan/Lapresse 10 March 2020 Brescia (Italy) Tents and emergency structures of the Civil Hospitals of Brescia for the coronavirus emergency

Il dilagare del coronavirus, al netto delle implicazioni sanitarie, fa emergere tutta una serie di contraddizioni in seno alla sinistra, in seno al modello della globalizzazione e addirittura in seno al funzionamento della forma di stato democratica. Andiamo con ordine.

La sinistra: la prima contraddizione che emerge, lampante, di fronte alla sinistra, ai suoi partiti, finanche ai suoi sostenitori (non escluso chi scrive) riguarda il funzionamento del sistema sanitario. L’emergenza Covid-19 sta mettendo a dura prova la tenuta del Ssn, che per la prima volta sta rischiando seriamente di non reggere la sfida che gli si pone davanti, e tutti ormai ci rendiamo conto quanto sarebbe stato provvidenziale, oggi, non aver tagliato gli ospedali ieri, non aver limitato le assunzioni di personale medico, non aver riconosciuto stipendi adeguati a chi si occupava della salute pubblica in prima linea. Tutti oggi ci rammarichiamo di non aver investito in ricerca e salute in questi quaranta (QUARANTA!) anni di rincorsa sfrenata al profitto e alla crescita economica. La responsabilità della sinistra sta nell’aver disertato, nel non aver mantenuto una posizione che era chiamata a difendere unguibus et rostro ma dalla quale, invece, ha preferito smarcarsi, in nome delle magnifiche sorti e produttive dell’ultima era del mondo, l’era del trionfo capitalistico sull’orbe terraqueo, che in questi anni realizzava l’utopia reale dell’ecclesia diffusa su tutta la Terra.

La seconda contraddizione che scoppia in mano alla sinistra, in un certo senso collegata alla prima, è relativa all’idea che bastasse garantire i diritti individuali per adempiere al suo compito storico. Libertà di muoversi ovunque, libertà di esprimere ciò che si vuole, libertà di consumare tutto ciò che si può. In una parola, libertà di esprimere se stessi, violando ogni struttura, norma sociale, tradizione o convenzione che possa fungere da limite alla libertà. Ma, esattamente come non può pensarsi il freddo se non si conosce il caldo, la notte senza il giorno, la vita senza la morte e via discorrendo, la libertà non può esprimersi se non all’interno di un recinto limitativo, che (guardacaso) coincide con il vecchio adagio di Martin Luther King (che di certo non era un marxista) secondo il quale “la mia libertà finisce dove inizia la vostra”. La sinistra ha sostenuto per anni l’idea di un’estensione ad libitum della libertà individuale, senza rendersi conto che stava scivolando pericolosamente lungo il greto scosceso dell’edonismo individualista, assurto ormai a religione laica inviolabile, soprattutto per le nuove generazioni.

Dopo quarant’anni di prediche in senso consumist-edonistico, in cui ci si è sentiti liberi semplicemente per il fatto di poter godere della libertà di sorseggiare uno spritz a 10 euro sui Navigli, a piazza Trilussa o ai Murazzi, oggi ci troviamo nell’incapacità di uno Stato di far passare un messaggio di buonsenso e di prudenza, perché quel messaggio cozza con l’esecuzione del rito laico del consumo edonistico. In altre parole, abbiamo cresciuto una generazione (o forse più di una) che si esprime solo consumando, e se non può consumare non riesce ad esprimersi. Il risultato è che la sera del sabato in cui il presidente del Consiglio decreta le zone rosse e fa appello alla massima cautela e collaborazione, orde di giovani si sono recate nelle vie della “movida”, completamente indifferenti alla questione. Non è una questione di informazione, o di ignoranza, come si potrebbe pensare, la questione è ben più profonda, ed è esistenziale. Se viene meno la possibilità di consumo, viene meno lo zeitgeist, lo spirito della storia di una generazione. Individualismo edonistico che fa il paio con l’individualismo egoistico di chi, non appena appresa la notizia della chiusura delle zone rosse, si è precipitato a fare il biglietto del treno per tornare a sud, rischiando di beccarsi il virus in treno, qualora non lo avesse ancora preso, di diffonderlo ai propri cari e, in seguito di diffonderlo anche al sud, dove il sistema sanitario è già sul punto di collassare in condizioni di normalità, figuriamoci nel caso di una diffusione di coronavirus.

La terza importante contraddizione, anch’essa strettamente correlata con le due precedenti, riguarda l’atteggiamento nei confronti della centralità statale da parte della sinistra, ed in particolare dell’autorità dello stato centrale. La sinistra politica, che nasce come forza statalista, a sostegno del pubblico sul privato, dell’intervento pubblico in materia economica, della tassazione progressiva, del welfare e delle garanzie sociali collettive, ha mano a mano spostato il suo modo di agire, cominciando ad individuare nello stato centrale non più lo strumento in grado di garantire, superando le differenze di classe e di ceto, i diritti universali, non più uno strumento di garanzia contro le diseguaglianze, non più il prodotto razionale del patto sociale, bensì un intralcio alla crescita, un freno all’economia, un laccio al collo alle imprese strozzate dal fisco, un impedimento alla legittima espressione della sanità e dell’istruzione privata, un coacervo di sprechi, un gendarme illiberale. Insomma, la sinistra ha contribuito ad allontanare l’autorità dello stato sovrano in nome, ancora una volta, delle libertà individuali di ognuno, esattamente nel solco tracciato dall’aratro della “lady di ferro” che diceva che la società non esiste, esistono gli individui.
Dopo anni di questa lettura è entrata in testa alle masse l’idea che lo Stato non possa arrogarsi il diritto di chiedermi di starmene a casa, e i risultati li vediamo oggi, in emergenza, nell’immensa difficoltà che incontriamo nel far rispettare le regole.

Il mondo globale: eravamo all’inizio degli anni 2000 quando l’idea che un altro mondo fosse possibile morì, a Genova, in piazza Alimonda, alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto. Allora uno degli slogan era “voi G8, noi 6.000.000.000”. Venti anni dopo, nel mondo si è aggiunto un altro miliardo di persone a quei sei di allora, ma invece di rinforzarsi, quel movimento e quell’alternativa si sono disperse. L’occidentalizzazione del mondo, che ha invaso anche realtà con sistemi di vita totalmente diversi dai nostri (la Cina, il Sud America, il mondo arabo, perfino i monaci del Monte Athos qualche anno fa hanno attivato un accesso ad internet), è ormai imperante in tutto il mondo, e porta con sé il suo bagaglio valoriale. Laddove le civiltà si identificavano nella sacralità, nel rito, nella convivialità, nella frugalità, in un comunitarismo in cui era possibile individuare la propria appartenenza, l’occidentalizzazione ha portato un nuovo sistema di principi: velocità, produttività, efficienza, superamento di ogni limite o barriera che la natura possa metterci di fronte.

Se il sistema valoriale è questo, non esiste specie in via d’estinzione in Amazzonia che possa impedirci di disboscare, non esiste fiume che non si possa drenare, non esiste lago che non si possa adibire ad allevamento ittico, non esiste confine di stato o dogana che possa impedirci di ordinare on line, non esiste barriera che possa impedirci di continuare quella forsennata corsa al consumo illimitato in un sistema limitato. E però questo pone un piccolo inconveniente: se non ci fermiamo noi, non si fermano nemmeno le conseguenze di ciò che noi facciamo. E allora basta il battito d’ali di un virus a Wuhan per scatenare un uragano in tutta l’Europa e, di conseguenza, in tutto il mondo. L’avvento violento del Covid-19 ha fatto crollare in un attimo l’illusione mondialista che i confini, gli stati, le differenze fossero solo i lacci e lacciuoli al collo della tigre consumista, che forte del vento del futuro che soffia alle sue spalle, deve avere il diritto (e se non le viene concesso se lo prende da sola) di divorare tutto ciò che trova. Il mercato globale, oltre ad aver prodotto ricchezze smodate per le multinazionali e diseguaglianze profonde tra gli stati e negli stati, è anche il principale vettore incontrastato di ogni disastro in tutto il mondo. Un altro mondo era possibile allora, oggi diventa più che mai necessario.

La democrazia classica: la contraddizione più inquietante, però, è quella che sta emergendo prepotente in seno alla nostra forma di stato. Di fronte all’emergenza dilagante nella provincia di Hubei (60 milioni di abitanti) la Cina, che non vanta certamente una forma di governo sul modello della democrazia rappresentativa, è stata in grado di arginare e confinare l’epidemia quasi esclusivamente a quell’area, mettendo in atto una politica di domiciliazione coatta dei cittadini residenti in quell’area, che sta dando i suoi frutti e sembra funzionare. L’Italia e le nazioni occidentali, per ovvie ragioni, non hanno l’autorità politica per rinchiudere in casa milioni di cittadini, ma la conseguenza è che quella che, generalizzando non poco, viene definita una dittatura, è in grado di garantire la sicurezza dei propri cittadini, la democrazia occidentale, potrebbe non essere in grado di farlo. Con questo non sto certo dicendo che dobbiamo buttare a mare la nostra democrazia per abbracciare sistemi autoritari a partito unico, ma è evidente che la concorrenza di un sistema statale alternativo al nostro potrebbe far crescere l’idea, in occidente, che forse un po’ di dittatura non sarebbe così male. E ci vuole davvero un attimo perché un Junio Valerio Borghese qualunque si alzi una mattina e dica “datemi i pieni poteri, ci penso io a gestire la questione”.

La Cina, che è in grado di gestire la questione in maniera pianificata, pone una sfida enorme al modello occidentale il quale, se non vuole soccombere, deve trovare il bandolo della matassa per salvare la capra della democrazia evitando, però, che si mangi i cavoli della sicurezza collettiva. Come fare? La prima cosa che mi viene in mente di fare è quella di sottrarmi alla questione e analizzare meglio. In effetti, è vero che la Cina ha messo in atto una domiciliazione forzata, ma è pur vero che i cittadini cinesi non hanno protestato troppo, hanno accettato di buon grado, hanno compreso che il sacrificio che il governo stava chiedendo loro era necessario per la sicurezza di tutti, per i loro concittadini, per il mondo intero. Allora il dubbio che mi viene in mente è il seguente: ammesso che il sistema cinese possa avere una maggiore libertà coercitiva rispetto a quello occidentale, ma è possibile che abbia giocato un ruolo rilevante anche il sentimento di fiducia che il popolo cinese nutre nei confronti della propria classe dirigente?

Sì, perché la Cina sarà anche una dittatura, ma i dirigenti del Partito comunista cinese sono molto attenti a tenere alto il consenso della popolazione nei confronti del potere centrale, attraverso una macchina propagandistica imponente, attraverso l’inclusione di fasce sociali, attraverso la realizzazione di infrastrutture in grado di ridurre la povertà e le diseguaglianze, insomma, benché illiberale, la classe dirigente cinese gode di una fiducia sicuramente maggiore di quella che i cittadini italiani rivolgono alla propria classe politica. E se fosse questa la chiave di lettura giusta? Non ne ho la certezza, ma credo che prima di correre il rischio di rinunciare alle nostre strutture democratiche, varrebbe la pena tentare di difenderle.

E la strada non può che essere quella del rinforzamento del sistema politico. Una riforma dei partiti si rende necessaria, è necessario che tutti i partiti si dotino di uno statuto, che la si smetta con le forme liquide e si ritorni a partiti piramidali, organizzati, formati da tesserati, che si torni al finanziamento pubblico dei partiti, che la si smetta di pensare alla politica come un costo, che ogni partito si doti di organi di formazione delle nuove classi dirigenti. Una società forte, è una società che ha forti le sue strutture, e non esiste regime autoritario al mondo che possa reggere al lungo senza un consenso nella popolazione. Certo, rimarrebbe tutto in piedi il problema che i partiti sono fatti da uomini, e di certo non esiste legge che possa costringere chi detiene il potere ad esercitarlo in maniera illuminata. Ma in questo sta proprio il succo della grande sfida che ci aspetta: o saremo in grado di cambiare noi stessi e rinforzare il nostro senso di comunità, oppure qualcun altro lo farà per noi.

Laureato in Relazioni Internazionali, Simone Ceccarelli fa parte della segreteria romana di Articolo Uno

Il reddito di quarantena

È apprezzabilissimo lo sforzo di chi ogni giorno ci ricorda che rimanere a casa sia la soluzione più immediata e più intelligente per sconfiggere il coronavirus ed è apprezzabilissimo lo sforzo del governo che ci ripete di evitare gli spostamenti e i contatti sociali. Ci sono anche questi bei video, di influencer e testimonial, che ci invitano a leggere un libro (il loro, magari) o ascoltare buona musica (la loro) e lo fanno dai loro bei salotti. State a casa, dicono. Stiamo a casa.

Ma gli operai? Quelli non possono mica portarsi a casa un pezzo della linea di produzione, non esiste la catena di montaggio a domicilio. Anzi, volendo vedere si fatica anche non poco a mantenere le disposizioni di sicurezza dentro la fabbrica. E quelli (e sono tantissimi) che se non lavorano non guadagnano? Prendete le ferie!, dicono. Sì, ciao. Le Partite Iva le ferie se le sognano, per loro le ferie significa semplicemente non fatturare. E quelli che ne stanno approfittando per licenziare usando la scusa del coronavirus? Ne vogliamo parlare?

È vero che stare. casa significa rendersi conto che non si vive solo di diritti ma quelli che hanno l’inderogabile dovere di uscire? Di prendere i mezzi pubblici? Quelli li diamo per persi? È gente che va a lavorare per mantenersi e per mantenere la famiglia, che si fa?

E quelli che stanno perdendo il lavoro? E quelli che hanno un negozio e non vendono e comunque alla fine del mese devono pagare le tasse e l’affitto?

Insomma, c’è un sottobosco (forse più ampio del bosco) di cui si dovrebbe parlare di più. Sono quelli già sconfitti dal coronavirus perché sono già allo stremo. Se lo Stato impone una misura dovrebbe sapere che ci vuole qualcuno che paghi il danno di quella misura. E guarda un po’ è lo Stato.

Qualcuno ci ha pensato al reddito di quarantena?

Buon mercoledì.

Lettera aperta al ministro della Salute, Roberto Speranza, su possibile uso medicina cubana contro il Covid-19

Residents walk for a mall to open near Chinese new year advertisement as businesses slowly restart in Beijing on Sunday, March 8, 2020. As China's coronavirus cases and death steadily falls, authorities are trying to restart its businesses and factories after a virtual shutdown which has had a ripple effect affecting the global economy. (AP Photo/Ng Han Guan)

Ill.mo Ministro Speranza,

In relazione all’attuale emergenza sanitaria, con la presente desideriamo portare alla sua attenzione la disponibilità di un farmaco prodotto a Cuba, che si è reso utile per affrontare l’epidemia del nuovo coronavirus Covid-19. Si tratta dell’interferone cubano alfa 2B (IFRrec) adottato dal mese di gennaio dalle autorità sanitarie cinesi insieme ad altri farmaci e che risulta abbia dato ottimi riscontri (per approfondire, v. la biotecnologa Rosella Franconi su Left del 28 febbraio 2020, ndr).

Come le è noto Cuba è all’avanguardia in tutto il mondo nel campo della ricerca scientifica e della salute, nonostante il blocco economico, finanziario e commerciale a cui è sottoposta da parte degli Stati Uniti da quasi 60 anni. L’eccellenza del suo Centro di Ingegneria Genetica e Biotecnologica e dell’industria biotecnologica sono una realtà di livello internazionale, così come la produzione di farmaci di elevata tecnologia come l’interferone alfa 2B.

L’affidabilità scientifica del prodotto è sancita da numerose ricerche e sperimentazioni sul campo effettuate nel corso degli anni e che hanno determinato ottimi successi. Ciò è riscontrabile tramite le fonti specialistiche ufficiali, ma anche dall’ampia disponibilità di articoli sul tema .

Il farmaco peraltro è già in uso in altri Paesi come il Messico e la Spagna in Europa.

Ci rivolgiamo pertanto a Lei in qualità di Ministro competente per verificare la possibilità di prendere in considerazione l’importazione e l’utilizzo di tale farmaco anche in Italia.

Riteniamo fondamentale utilizzare ogni strumento, come appunto quello dell’interferone alfa 2B per contribuire ad aiutare nello sforzo di combattere il coronavirus.

Inoltre, vista la carenza di personale sanitario disponibile, ci permettiamo di suggerirle di promuovere un Accordo con le autorità cubane competenti per richiedere la collaborazione di medici e infermieri cubani, nelle strutture ospedaliere italiane.

L’elevata competenza, preparazione e specializzazione del personale medico cubano, così come l’esperienza nel campo delle malattie infettive ed epidemiologiche, hanno avuto importanti riconoscimenti a livello internazionale. In questa direzione, la stessa OMS ha dichiarato che Cuba è stata esemplare nella lotta contro l’epidemia del virus Ebola in Africa.

Nel trasmetterle il nostro apprezzamento per la serietà e competenza con la quale sta affrontando la gestione del fenomeno, rimaniamo a completa disposizione.

In attesa di un suo cortese cenno di riscontro, con l’occasione i più cordiali saluti e auguri di buon lavoro.

Irma Dioli, presidente associazione Italia-Cuba

Sindaco di Roma, non cadiamo nella trappola del voto utile

Foto Vincenzo Livieri - LaPresse 14-11-2019 - Roma Cronaca Centocelle. Manifestazione di solidarietà dopo l’incendio dei locali La pecora elettrica, la pizzeria Cento55, Baraka bistrot Photo Vincenzo Livieri - LaPresse 14-11-2019 Rome News Centocelle. Demonstration of solidarity after the fire of La pecora elettrica, la pizzeria Cento55, Baraka bistrot

Come ormai capita da almeno un quindicennio, anche in questa circostanza, all’approssimarsi delle elezioni amministrative a Roma, che si dovrebbero tenere tra un anno, sta scattando il meccanismo del voto utile. Non che lo si evochi ancora in modo esplicito, ma la costruzione delle alleanze nell’alveo del centro-sinistra sta già prefigurando uno “stringiamoci a coorte” contro i nuovi barbari, siano essi le temibili schiere celtiche di Matteo Salvini o i foschi manipoli indigeni di Giorgia Meloni.

Se fosse la prima volta, potremmo dissentire, ma comprenderemmo lo spirito da redde rationem. Ci troviamo invece di fronte a una malsana coazione a ripetere, laddove gli errori del passato, che hanno coinvolto la gran parte della componente progressista e di sinistra, vengono semplicemente rimossi, pronti a essere replicati in caso di vittoria elettorale. Non una riflessione su quello che ha significato il Modello Roma, sul rapporto fra centro-sinistra e rendita immobiliare, sull’abbandono delle periferie e degli ultimi, sui processi di privatizzazione, sulla svendita dei beni pubblici, sull’incapacità di proporre un modello istituzionale per Roma Capitale e per i suoi Municipi, sull’assenza totale di un’idea di servizio pubblico (trasporti, rifiuti, partecipate), sull’incapacità di proporre assi di sviluppo innovativi per la città e, quindi, di creare lavoro e redistribuire risorse. Ed è proprio sulla mancanza di ripensamenti critici, sulle omissioni e sulle rimozioni, che diventa poi fisiologico schierarsi muti e acefali come sia e purché sia. Per rifare gli stessi errori.

Ma oltre a essere discutibile e pernicioso, tale approccio rinuncia a leggere l’attuale realtà romana, riproponendo proprio quei modelli politici che l’hanno indebolita e disumanizzata. Per distruggere una casa (la sinistra), occorrono pochi giorni. Per ricostruirla, sono necessari tempi infinitamente più lunghi. Ed è proprio su questo cimento che le forze in campo si dovrebbero misurare, nella consapevolezza che per rimettere in campo una soggettività che sia in grado di dare risposte alle crescenti disuguaglianze, occorrono tempo (un progetto di lungo periodo), una visione alta della città, una pratica quotidiana nel territori. Né possiamo cavarcela immaginando di camuffare dietro un indefinito civismo le dinamiche politiciste che ingombrano da tempo le nostre discussioni.

Quello che appare chiaro è che i partiti oggi non sono in grado di rispondere a questa esigenza e che probabilmente l’unica via percorribile è quella di guardare alle tante realtà che attraverso le reti, il mutualismo sociale, l’attivismo nei settori più diversi, animano la nostra città. Non che ci si debba aspettare un approccio taumaturgico, anzi, spesso quelle stesse realtà tendono a rinchiudersi in un soggettivismo asfittico, anelando non di rado a una relazione con le istituzioni subalterna e utilitaristica. Ma la via sociale alla costruzione di una nuova soggettività politica, pare l’unica via percorribile.

Come uscirne dunque? Complessa la risposta, anche perché le variabili in campo sono molteplici, a partire dal proliferare di un approccio individualistico ai temi di cui stiamo parlando. Paradossalmente, oggi sarebbero necessari requisiti che appartengano a pieno titolo alle categorie della politica, sebbene felicemente la sentimentalizzino: generosità, disponibilità a mettersi a mettersi al servizio di un progetto comune, visione di lungo periodo. E, soprattutto, una nuova classe dirigente. Ciascuno di noi reca con sé questo fardello e questa responsabilità, ossia praticare la politica nei luoghi da cui essa è stata scacciata. Un po’ come diceva Calamandrei sui luoghi dove è nata la Costituzione, ossia quelli della Resistenza. E da questo partire per costruire insieme una città più giusta, meno diseguale.

Ci sono molte soggettività che condividono tale aspirazione: manca ancora un progetto che assieme bisogna costruire. Invertendo il senso del Montale degli Ossi di Seppia, verrebbe da dire: codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che siamo, ciò che vogliamo.

Roberto Giordano è uno degli autori del libro collettivo “Povera Roma. Sguardi, carezze e graffi”, pubblicato da Left. È un racconto corale di attivisti, associazioni, comitati, urbanisti, a testimonianza di un tessuto sociale e culturale vivace che lotta per difendere i diritti e si mobilita per una città giusta e accogliente.

Il libro “Povera Roma” qui

Irresponsabili, presuntuosi e incapaci

Ad alimentare il virus c’è il contagio, in primis, e poi c’è l’irresponsabilità, la presunzione e l’inettitudine.

L’incapacità di comunicare, ne abbiamo già parlato da queste parti, sottende l’incapacità di fare politica: la politica è comunicazione e la comunicazione è politica. In tempi di allarme il peso e la forma di ogni parola assume un valore esponenzialmente più alto e la valutazione dell’impatto di ogni piccolo gesto da parte della classe dirigente è una delle caratteristiche richieste. Comunicare un decreto come quello che di fatto mura metà del Pil italiano con qualche soffiata a qualche amico giornalista è roba da quarantena nel senso che dovrebbero autoescludersi dalla politica e riflettere su se stessi.

L’irresponsabilità è di chi di fronte a una decisione del governo, presa in accordo con la comunità scientifica, pensa bene di anticiparne gli sviluppi burocratici salendo sul primo treno, come se fosse la firma del Presidente del Consiglio a validare i comportamenti responsabili da tenere e come se le raccomandazione fossero parole inutili che se le porta via il vento. I Navigli pieni a Milano, le feste ai centri commerciali, gli aperitivi per sfregio e i pranzi universitari “contro la paura” sono reazioni pecorelle di chi vorrebbe apparire rivoluzionario e invece è solo un bimbominchia.

Poi ci sono i presuntuosi: vale per tutti quel tizio che scappa dalla zona rossa e dice di sentirsi un profugo. Bravissimo: uno di quei profughi economici che si vorrebbero rinchiudere in un vasetto e che se la vedano loro. Ora tocca a noi. Ma i presuntuosi peggiori sono quelli che vedono nell’epidemia del coronavirus l’occasione per far cadere Conte (sono riconoscibili, non serve nemmeno scriverli, e non stanno mica solo a destra) e fingono di essere responsabili convinti davvero che da fuori non si veda cosa siano, cosa facciano e come lo facciano. E poi ci sono i presuntuosi che non sono d’accordo con le istruzioni date dalla comunità scientifica ma non hanno istruzioni da dare: rivendicano il diritto di dissentire ma rivendicano pure il diritto di non avere motivazioni per dissentire e quindi di non esporre tesi diverse. Questi ultimi si notano ai tempi del coronavirus ma sono in giro da molto prima, fateci caso.

Buon lunedì.

L’onda lunga, senza frontiere, della lotta delle donne in Spagna

Da Bilbao a Cadice, passando per Barcellona, Madrid o Valencia. Quest’anno in Spagna non c’è stato né uno sciopero femminista, né un appello alle donne per fermarsi, ma, dopo tantissime assemblee, un invito alla mobilitazione diffusa su tutto il territorio. Novecento manifestazioni, decine di migliaia di persone scese in strada dimostrando ancora una volta che il femminismo è il movimento con la maggiore capacità di mobilitazione.

Nel 2018 e nel 2019 la Spagna è stato il Paese che ha cambiato l’8 marzo mettendosi all’avanguardia dei femminismi europei, quando il movimento femminista è riuscito a convocare uno sciopero globale a cui hanno aderito milioni di persone, mettendo in difficoltà il funzionamento dell’intero Paese per un giorno. Quest’anno non si è trovato un consenso tra tutte le assemblee femministe per la chiamata allo sciopero a livello statale. E poi è stato un 8 marzo di domenica e le assemblee femministe hanno deciso che forse era l’occasione giusta per reinventarlo.

Se c’è una cosa che caratterizza le femministe spagnole è l’essere innovative, creative e con una grande intelligenza collettiva e disponibilità al dialogo, così si è deciso di mettere al centro delle tantissime manifestazioni territoriali il tema della cura, del lavoro riproduttivo, perché anche nel giorno che per molti è di riposo, le donne continuano a lavorare. Anche se lo sciopero è stato uno strumento fondamentale per fare ascoltare la voce delle donne alla società, si è capito che non è l’unico.

«Con diritti, senza barriere, femministe senza frontiere» è stato lo slogan che ha caratterizzato, nella comunità di Madrid, un 8M lungo un mese, iniziato l’8 febbraio con una catena umana di 8mila donne che hanno attraversato la città. #RivoltaFemminista per tutto un mese, per dare a ogni rivendicazione sociale il suo spazio, dal femminismo antirazzista ai diritti sessuali e riproduttivi, dalla violenza maschile all’importanza della quotidianità, per ricordare che la lotta è permanente, senza interruzioni.

Il femminismo ha mostrato la sua forza di mobilitazione, nonostante la paura del coronavirus e la situazione di allarme sanitario in tutto il mondo, ma ancora poco in Spagna, ha comunque influenzato una minore affluenza di persone alla manifestazione, ma «il patriarcato uccide più del coronavirus» si è letto su diversi striscioni. I femminismi spagnoli, però, godono ancora di buona salute, nonostante un contesto di crescenti discorsi reazionari che, sia in Spagna che a livello globale, vorrebbero rimettere in discussione trasformazioni sociali e conquiste che i movimenti delle femministe e delle soggetività GLBTI sono riusciti a strappare.

«Donne con il pene, donne con la vagina. Ci sono molte più donne di quante possiate immaginare» è uno degli striscioni alla testa del corteo di Madrid. Le richieste dei collettivi transgender o dei collettivi di sex-worker sono stati, negli ultimi mesi, elementi di tensione cresciuti all’interno delle realtà femministe in Spagna dove, questo 8M, è stato segnato anche dalle polemiche sul disegno di legge di garanzia integrale per la libertà sessuale.

Il testo, promosso dal ministero di Eguaglianza guidato da Irene Montero, esponente di Podemos, mette al centro il consenso della donna e prevede una riformulazione dell’articolo 178 del codice penale. Parla di libera manifestazione «per atti esterni, conclusivi e inequivocabili» della volontà di «partecipare all’atto». Finora, per considerarla violenza sessuale, ci devono essere violenza e intimidazione, altrimenti è un abuso, reato meno grave. Con la nuova legge, l’attenzione si concentrerà sul consenso e sarà considerata violenza sessuale «qualsiasi atto che viola la libertà sessuale di un’altra persona senza il suo consenso». Si tratta di un passo storico e una vittoria soprattutto dei movimenti femministi spagnoli e della mobilitazione delle tantissime donne che in questi anni sono scese in piazza e hanno chiesto di garantire che “Solo Sì è Sì”.

Il progetto di legge prevede di modificare il codice penale anche su altri aspetti, includendo tra i delitti contro la libertà sessuale il matrimonio forzato, la mutilazione genitale femminile e la tratta di essere umani, stabilisce pene per le molestie sessuali arrecate all’interno di una relazione di lavoro e individua le molestie cosiddette “di strada”. All’interno del governo di coalizione la discussione tra Psoe e Podemos è stata sui difetti procedurali del documento, sui supposti errori tecnici della squadra di Irene Montero, che danno un’idea di inesperienza, ma non sminuiscono in alcun modo lo sforzo fatto.

Altra polemica è quella cresciuta negli ultimi mesi tra il femminismo cosiddetto classico e i collettivi più vicini alla teoria queer che difendono il diritto delle donne trans all’identità di genere e all’autodeterminazione. La legge presentata fa riferimento, in diversi articoli del testo, proprio all’identità di genere e si teme, da parte di un femminismo classico, che la lotta dei collettivi GLBTI possa mettere in ombra quella delle donne. Da qui le accuse di transfobia nei confronti di quelle femministe che chiedono il ritiro dalla legge delle espressioni che negano la realtà del sesso biologico. Il dibattito si estende e assume un importante sfondo politico perché il cosiddetto femminismo classico, dell’uguaglianza, è unito intorno al Psoe, mentre in Podemos – seppure con posizioni diverse tra loro – si difende il diritto all’identità di genere. Così c’è anche una lotta di potere politico e sociale.

Basta tabù. Parliamo di mestruazioni

La Scozia ha promulgato una legge che renderà completamente gratuiti tamponi e assorbenti. È la prima in Europa. Si chiama Period pruducts Scotland Billed ed è stata presentata dalla laburista Monica Lennon. La battaglia contro l’Iva sugli assorbenti è molto accesa in Europa, perché in diversi Paesi è molto alta, quasi fossero prodotti di lusso. Tanto che nel 2020 in Scozia si registra ancora un problema di «period poverty» con ragazzine delle classi più indigenti che saltano la scuola nei giorni del ciclo. Per combattere questo problema, che non è solo economico, ma anche culturale, già da alcuni anni grazie all’iniziativa dei laburisti erano comparsi distributori gratuiti di assorbenti igienici in alcune scuole, college e università scozzesi. Ora è stato fatto un passo ulteriore e molto importante contro questo stigma di classe e di genere. Un passo avanti che tanti altri Paesi del mondo aspettano, specie quelli segnati da forti disparità sociali, oppressi da culture, tradizioni e religioni dove le mestruazioni sono ancora motivo di condanna delle donne e di vergogna interiorizzata fin da giovanissime.

Il film PadMan diretto da R. Balki lo racconta bene, denunciando le discriminazioni che le donne subiscono nell’India rurale, ma anche ripercorrendo la storia dell’attivista Arunachalam Muruganantham che è riuscita a migliorare la condizione di molte donne inventando una macchina per confezionare assorbenti a basso costo. «Secondo i dati di una ricerca Nielsen, il 70% delle donne in India non si possono permettere prodotti igenico sanitari, il 23% delle ragazze lascia la scuola al momento del raggiungimento della pubertà, anche per le umiliazioni subite dai propri compagni di scuola maschi e per l’impossibilità di avere accesso a servizi igienici privati e puliti». A denunciarlo è ActionAid, organizzazione attiva in varie parti del mondo con progetti contro la violenza sulle donne e di empowerment femminile.

«Ho sentito dire che è una malattia. Riguarda soprattutto le ragazze, giusto?», così una ragazzina di Hapur, vicino Delhi risponde imbarazzata all’insegnante che domanda alle alunne cosa sanno del ciclo mestruale. È una scena di un docufilm girato nel 2018 da Ryka Zehtabchi e descrive una situazione purtroppo molto diffusa. «Lo stigma che vede il periodo mestruale come una malattia, è molto radicato», rimarca ActionAid tracciando una mappa che va dall’India al Bangladesh ad altri Paesi asiatici e che coinvolge gran parte dell’Africa, dove la maggior parte delle ragazze non va a scuola nei periodi mestruali (si parla di 8 ragazze su 10) e il ritiro dalla scuola è non di rado accompagnato da un matrimonio precoce. 

Molto violento è lo stigma sulle mestruazioni in Nepal, dove si arriva a mettere a rischio la vita stessa delle donne durante il ciclo. ActonAid ha messo a punto un piano speciale di lavoro contro il Chaupadi, l’esilio mestruale, che costringe adolescenti e donne con le mestruazioni ad allontanarsi da casa e a dormire in capanne esposte a intemperie e ad aggressioni di animali.  Ishu ha 14 anni e deve isolarsi in un rifugio quando ha le mestruazioni. «Ho paura di rimanere sola nella capanna», dice alle attiviste di ActionAid. «Ho paura dei serpenti e di alcune persone cattive». È accaduto più di una volta che in quei luoghi insicuri e malsani le donne siano state uccise da morsi di serpenti o da incendi accesi per scaldarsi. 

Benché la promulgazione della nuova costituzione nel 2015 abbia segnato una svolta, riconoscendo alle donne un nuovo ruolo nella società, insieme al diritto di ereditare e di potersi difendere dalla sopraffazione maschile in famiglia, l’antica tradizione del Chaupadi (legata all’induismo), benché messa fuori legge nel 2005, continua a mietere vittime, specie dopo il terremoto del 2015. Non avere più una casa, dover vivere in baracche aggrava ulteriormente la condizione delle donne, che non hanno spazi di intimità e sono considerate impure durante il periodo mestruale. La superstizione locale dice che se durante il ciclo toccano erbe e piante esse muoiono, proibisce loro di toccare cibi, di entrare in cucina perché giudicate sporche e contagiose. Una concezione barbarica, inumana, che ha contrassegnato lungamente l’Occidente cristiano con migliaia di donne condannate come streghe magari perché affette da endometriosi i cui sintomi venivano letti come segnali di possessione demoniaca. Tutti e tre i monoteismi, come ben sappiamo, si sono accaniti sulle donne, condannate anche per le mestruazioni. Nel Levitico si dice che «quando la donna ha il flusso il sangue rimarrà per sette giorni nell’impurità mestruale».

La donna mestruata nella religione ebraica è stigmatizzata come impura. Altrettanto accade nella religione musulmana e in quella cristiana. Le ragazze in quei giorni vengono allontanate dalla vita collettiva, devono sottoporsi a rituali di purificazione prima di pregare, ma soprattutto viene trasmesso loro un senso di inferiorità, l’idea di essere sporche, inadeguate e un fatto naturale, biologico, come il ciclo viene utilizzato per ledere la loro autostima. Ancora oggi «nonostante la sua banalità naturale, resta un fenomeno misterioso, circondato da leggende e superstizioni, reticenze e stereotipi, la cui persistenza non può che stupire» scrive Elise Thiébaut nel libro Questo è il mio sangue (Einaudi), un pamphlet che quando è uscito in Francia due anni fa ha acceso il dibattito mostrando come anche nella società occidentale dove le donne hanno conquistato molti diritti civili ancora esista un non detto sulle mestruazioni. Se ne parla a bassa voce tra donne, si chiede alle colleghe se per caso hanno un assorbente, non come si chiederebbe un fazzoletto se butta sangue il naso o un cerotto se ci siamo accidentalmente tagliate. Per non dire dei pregiudizi che ancora circolano nella evoluta Europa: per cui quando una «ha le proprie cose» non dovrebbe fare attività fisica, non dovrebbe fare il bagno, mentre c’è chi addirittura sconsiglia di impastare il pane e montare la maionese perché impazzirebbe! Quasi non si contano tante sono le superstizioni legate al ciclo della luna.

La superstizione riguardo alle mestruazioni e la negazione dell’identità della donna, uguale e diversa dall’uomo hanno radici millenarie, come ci ricorda qui l’antichista Maria Pellegrini. Se Tommaso D’Aquino negava che la «Vergine Maria» potesse aver avuto le mestruazioni, gli esegeti degli altri monoteismi non erano da meno. 

Ma cosa accadeva prima dell’instaurazione di un pensiero unico di un dio onnipotente e maschile? Riguardo al modo di considerare le mestruazioni è interessante tornare a leggere Questo è il mio sangue

Quando il dominio patriarcale si è saldato con il monoteismo per le donne non c’è più stato scampo. Nella religione islamica le mestruazioni (Middah) si accompagnano alla paura maschile di essere contaminati. Il Corano definisce le mestruazioni un male, un’infermità. «Non abbiate contatto con le donne mestruate», viene prescritto agli uomini. «Statevene a distanza finché non si siano purificate». 

Qualcosa di analogo prevede anche la religione ebraica. Ma è sempre stato così? Cosa accadeva nelle società pagane? E nel più remoto passato preistorico? A questo proposito alcuni antropologi hanno ritenuto che durante il paleolitico le donne per evitare predatori attratti dall’odore di sangue nei periodi mestruali avessero preso l’abitudine di isolarsi in luoghi protetti. Secondo Chris Knight, durante il ciclo, le donne si sarebbero ritirate in grotte dove realizzavano pitture rupestri, come ha dimostrato in tempi recenti l’antropologo Snow studiando le impronte di mani femminili rinvenute accanto alle più importanti espressioni artistiche del paleolitico. In quelle circostante avrebbero realizzato anche tatuaggi e decorazioni sul corpo col sangue mestruale. 

Come in tempi recenti ha fatto l’artista curda Zehra Dogan, ingiustamente imprigionata dal regime di Erdoğan e privata di ogni mezzo di espressione nelle prigioni turche, dove ha realizzato pitture con il sangue mestruale.

Tornando all’epoca antica sappiamo che ad Artemide si offrivano panni intrisi di sangue mestruale e che molti cicli pagani si legavano al ciclo femminile e lunare. Nella tradizione pagana esisteva una leggenda della nascita dell’uomo da una mestruazione lunare che poi fu sussunta dal Cristianesimo che parla di Adamo creato da Dio e «fatto di sangue e terra». E chissà, suggerisce Elise Thiébaut, che la formula «bevetene tutti questo è il mio sangue» non provenga da antichi misteri che facevano ricorso al sangue mestruale. Ancora: leggendo il ricchissimo libro della collega francese si scopre che nell’antico Egitto i faraoni potevano diventare immortali ingerendo il sangue di Iside, la bevanda chiamata “SA”. In Persia, invece, l’elisir di immortalità era l’Amrita, «il latte della dea madre»; per i Celti l’idromele rosso era il dono di Mab, la regina delle fate, grazie al quale i re diventavano dei, mentre per i taoisti l’uomo poteva vivere molto a lungo assumendo sangue mestruale chiamato «succo rosso yin». 

Ma queste favole belle furono tutte cancellate dai monoteismi e/o da forme di organizzazione sociale rigidamente patriarcale (come il confucianesimo in Cina). Tanto che anche nella pagana Roma, ma regno del pater familias, Plinio fu fra i più grandi detrattori delle donne soggette a mestruazioni. Più libero da pregiudizi era stato Ippocrate, padre della medicina nella Grecia antica, ma contribuì fortemente a generare e a trasmettere l’idea che le emicranie, gli sbalzi di umore, i dolori, i crampi fossero causati dal cattivo sangue delle donne da cui dovevano liberarsi. Da qui l’idea di eliminare il sangue cattivo con i salassi. Ma questa è un’altra storia.

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 6 marzo 

SOMMARIO

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