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Libere di scegliere

many young happy women walking talking on background of old european city street, stylish hipster girls having fun, moments of happiness, friendship concept

«Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente da due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per un casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla “agreste”, ma d’un allevamento “in batteria”, nelle condizioni artificiali in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico…».

Questa citazione, lunga ma necessaria, è tratta da una lettera di Italo Calvino a Claudio Magris che circola in questi giorni nei social (e speriamo diventi virale), pubblicata dal Corriere della Sera nel febbraio del 1975. Calvino rispondeva a Magris che, come Pasolini, aveva pubblicamente, sempre dalle colonne del Corriere, preso posizione contro l’aborto. Pochissimi anni dopo, nel 1978, la legge 194 fu salvata grazie a un referendum, ma dopo più di quarant’anni è ancora sotto attacco. Come tutti i diritti delle donne, si può ben dire. Ma non è tutto qui, perché la lotta di liberazione delle donne porta con sé, anche inconsapevolmente, una nuova visione del mondo. Allora si raccontò di una conquista che finalmente riconosceva la gravidanza come una condizione che riguardava la madre più che il nascituro: ma era davvero così? O non bisogna finalmente scoprire che il destino della donna è indissolubilmente legato a quello del bambino, così che la salvezza e la realizzazione dell’una è la salvezza e la vita dell’altro?Sotto questa luce, la realtà della donna che si sottrae al “dovere riproduttivo” può essere vista nella sua umanità, nel dare alla vita umana, propria e altrui, il suo senso vero.

Il nostro mondo sovrappopolato (7,7 miliardi dicono gli ultimi dati), in continua emergenza umanitaria e ambientale, somiglia fin troppo alla stalla di conigli di Calvino, eppure qui da noi non si fa che gridare alla denatalità, a destra come a sinistra. E bisogna affermare con chiarezza che chiunque ponga la questione della denatalità, in Italia come nel resto del mondo occidentale, non può sfuggire a…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 6 marzo 

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Il patrimonio fragile

Le pagine di questa rivista hanno già accolto alcuni scritti sulla rivoluzione che ha riguardato i beni culturali e paesaggistici del nostro Paese attraverso una radicale trasformazione dell’assetto delle Soprintendenze e dei luoghi della cultura, musei, monumenti, siti, parchi archeologici (per praticità di seguito definiti “Musei”) del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.
Si rischia quindi di essere un po’ ripetitivi ma, come affermava Antonio Cederna, «scrivo da sempre lo stesso articolo, finché le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose» e senza la minima presunzione di poter emulare Cederna, è necessario ricordare quanto sia accaduto e come, implacabilmente, si proceda. Di riforma in riforma, in «questa eterna Fiera dell’est» che è diventato il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, come lo ha definito Tomaso Montanari lo scorso dicembre, non vi è tregua per le povere istituzioni costrette a rincorrere i cambiamenti con nuovi protocolli, indirizzi, carte intestate, email, poste certificate, accrediti della Pubblica amministrazione, altri bilanci, con gli archivi inconsultabili, nella incessante variazione di competenze (ma chi se ne accorge e forse meglio così!), fino alle miserie per l’accaparramento delle stanze, delle sedi, di quel che è necessario per poter lavorare, facendo fronte come si può alla dispersione delle pratiche, agli indebolimenti della tutela, ai ritardi di pagamenti a professionisti e imprese e tanto altro. Con le continue riforme, è evidente che gli aspetti burocratici hanno il sopravvento, a scapito dei compiti speciali ai quali i professionisti devono dedicare il proprio impegno per la tutela e la cura del patrimonio.

Occorre provare a evidenziare con ordine alcune delle più gravi criticità che hanno già compromesso il sistema e rischiano di produrre effetti rovinosi per diversi aspetti, pienamente consapevoli che le osservazioni che si vanno ripetendo ricevono scarsa attenzione, anche presso l’opinione pubblica, rispetto alla forza comunicativa del Ministero.

Il dovere di una amministrazione pubblica di procedere a forme di adeguamento e innovazione non può prescindere dalla considerazione delle specificità delle competenze e nel caso di questo Ministero la nuova organizzazione doveva partire dalla conoscenza delle esigenze dei beni culturali e paesaggistici: le carenze di personale, la formazione, una più equa distribuzione delle risorse, lo snellimento delle procedure e della struttura burocratica centrale, l’adattamento del codice che regola i lavori pubblici alla peculiarità delle opere di scavo, restauro, manutenzione del patrimonio stesso a cui gli istituti si dedicano e la pianificazione paesaggistica alla quale il Ministero sembra aver rinunciato, diversamente da quanto previsto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio.
La logica riformatrice, al contrario, ha operato con un approccio prettamente politico, applicando senza esitazione i modelli della new economy al patrimonio culturale, non più strumento per la crescita culturale e scientifica della nazione, elaborando…

Rita Paris è un’archeologa e presidente dell’associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli

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La culla dell’inciviltà

Una delle prime mosse fatte dal governo di destra di Kyriakos Mitsotakis dopo la vittoria elettorale dello scorso luglio è stata l’abolizione del ministero dell’Immigrazione, fondato dall’ex premier di sinistra Alexis Tsipras di fronte alla terribile ondata del 2016. Dopo pochi mesi, e dopo una girandola di ben quattro ministeri e ben sei ministri che avrebbero dovuto occuparsene, nel gennaio scorso il premier ha ripristinato il dicastero degli immigrati.

In un Paese normale sarebbe stato un importante passo in avanti. Ma non nella Grecia di Mitsotakis. A capo del nuovo ministero è stato posto Notis Mitarakis, un economista con nessuna esperienza politica. Il primo problema che si è trovato di fronte è la vergogna del campo di raccolta di Moria, a Lesbo, dove più di 15mila persone vivono da anni in tende. Tsipras aveva tentato di spostarli nella Grecia continentale ma l’accordo tra l’Ue ed Erdoğan lo vietava.

Neanche ora che l’accordo è crollato Mitsotakis può spostarli dalle isole: i presidenti di regione, tutti aderenti al suo partito Nuova democrazia, non glielo permettono. Ed ecco l’idea brillante: costruire campi chiusi nelle isole stesse. Ed ecco un decreto legge a effetto immediato che imponeva la confisca immediata di terreni e immobili.

Le tre isole maggiormente colpite, Lesbo, Chios e Samos, si sono ribellate. Al grido “ridateci…

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In prima linea contro la violenza sulle donne

ROME, ITALY - JUNE 22: tOccupants of the women's house Lucha y Siesta with thousands of people participate in the demonstration called "Rome does not close" (Roma non si chiude in italian) for a city of solidarity against the eviction of housing and social occupations provided for by the security decree of Minister Matteo Salvini on June 22, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images,)

La casa per le donne Lucha y siesta a Roma, quartiere Tuscolano, è in presidio permanente. Dal 25 febbraio, quando era previsto il distacco delle utenze disposto dal Comune di Roma e poi bloccato da attiviste ed operatrici, l’esperienza divenuta simbolo della lotta alla violenza di genere e per l’autodeterminazione delle donne resiste. Il destino dell’immobile, di proprietà dell’Atac – la municipalizzata dei trasporti – prevede la sua messa all’asta, come disposto dal tribunale fallimentare. Al Campidoglio la maggioranza Cinque stelle ha bocciato una mozione di Pd ed Italia viva in cui si chiedeva di non sospendere le utenze, mentre la giunta Raggi ha dichiarato di aver trovato un tetto per tutte le donne ospitate nella casa rifugio.

Alcune persone che hanno subito violenza sono state trasferite in cohousing messi a disposizione del Comune. Ma, ci dice Simona Ammerata, attivista di Lucha, «non si può ridurre la vicenda ad una questione abitativa». «La casa è un presidio territoriale contro la violenza di genere. Oltre ad organizzare ospitalità ed accoglienza h24, ci sono un atelier di sartoria dove lavorano tre donne, uno sportello di psicologia popolare con sei professionisti: del futuro di questo progetto l’amministrazione non è minimamente interessata».

L’Italia peraltro, anche in seguito alla ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013, si era posta come obiettivo di avere un centro antiviolenza ogni diecimila abitanti, mentre oggi siamo a quota 0,05. Le attiviste di Lucha, assieme alle realtà femministe di tutta Italia, avrebbero dovuto partecipare alle manifestazioni diffuse dell’8 marzo e allo sciopero globale del giorno successivo organizzati dal movimento internazionale Non una di meno. «Rivendichiamo liberazione ed emancipazione, un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Vogliamo aborto libero sicuro e gratuito, accesso alle cure e alla salute. Vogliamo autonomia e libertà di scelta sulle nostre vite», mettono nero su bianco le attiviste in una nota, in vista della mobilitazione.

E ancora: «Vogliamo l’abrogazione delle leggi Sicurezza. Vogliamo la chiusura dei Centri di permanenza per il rimpatrio per i migranti, un permesso di soggiorno europeo senza condizioni».
Mentre gli eventi di domenica 8 marzo (flashmob, cortei, ecc.) sono confermati, la Commissione di garanzia ha revocato lo sciopero indetto formalmente da alcuni sindacati di base per lunedì 9 causa emergenza coronavirus (quando Left va in stampa, il coordinamento di Non una di meno sta valutando il da farsi, ndr).
Nel frattempo, purtroppo, Lucha y siesta non è l’unico luogo delle donne sotto attacco in Italia…

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Informazione. La qualità alla riscossa

Diretto da Vittorini, voluto dal Pci e pubblicato da Einaudi, Il Politecnico uscì a Milano il 29 settembre 1945. C’erano la vitalità e la speranza della ricostruzione, l’inventiva, la ricerca creativa e la forza dell’antifascismo.
La rivista era espressione di un collettivo di intellettuali, veicolo di circolazione delle idee e confronto critico. Unire avanguardia e divulgazione era l’obiettivo.
Ad animare il dibattito era una idea non consolatoria della cultura intesa come nerbo della politica. Tutto questo contrassegnò la breve e brillante stagione de Il Politecnico. Oggi sarebbe ancora possibile un esperimento del genere? Abbiamo rivolto questa domanda a Bruno Simili, saggista e vice direttore della storica rivista Il Mulino, nata cinque anni dopo il Politecnico.
«Nel dopoguerra c’era una grande voglia di ripartire, di creare qualcosa di nuovo in un luogo di discussione aperto, molto franco», nota Simili. «Ora sarebbe molto più difficile, anche se ce ne sarebbe molto bisogno».
In effetti oggi sono piuttosto rari i collettivi che riflettono, discutono, si confrontano attraverso una rivista che ne è in qualche modo “il megafono”. «Non posso dire che a livello nazionale non ci siano gruppi di intellettuali che pensano – precisa il vice direttore de Il Mulino – ma sono molto istituzionalizzati. Manca quella “ingenuità” che era apertura a un mondo nuovo, condizione indispensabile per cavar fuori qualche possibile soluzione ai problemi che si prospettano, lo sappiamo bene dopo settant’anni di Repubblica. Il fatto è che oggi fra i giovani c’è disillusione rispetto alla possibilità di intervenire riuscendo a incidere e a cambiare le cose».
In questa non facile congiuntura tuttavia spiccano alcune esperienze vive e vivaci, come quelle che in Europa fanno rete con il circuito Eurozine e in Italia con il Cric, il circuito delle riviste culturali (presieduto da Valdo Spini) che continua ad alimentare il dibattito sul ruolo e il valore delle riviste politiche culturali con incontri e convegni in Italia e all’estero. Lo stessa rivista Il Mulino ne fa parte, insieme a Left: realtà diversissime ma accomunate dal filo rosso della ricerca su politica e cultura.
Nel caso della rivista il Mulino diretta da Mario Ricciardi, al trimestrale cartaceo si aggiunge l’online che quotidianamente approfondisce il dibattito politico, con articoli di lungo respiro, non meramente schiacciati sulla cronaca. Coniugare una lunga storia e le esigenze del presente ne è la chiave di volta.
«Quella de Il Mulino è davvero una lunga storia. Nasce nel 1951 e nel 1954 inizia a pubblicare libri, a cominciare da titoli della tradizione sociologica americana», ci aiuta a ricostruire Bruno Simili.
«La casa editrice a poco a poco è diventata la cosa più rilevante anche da un punto di vista aziendale, ma la rivista continua a mantenere una propria autonomia: è di proprietà dell’associazione Il Mulino fondata da un gruppo di intellettuali». L’obiettivo principe dunque è fare cultura, non solo fare profitto. «Non ci sono utili da reinvestire e se ci fossero sarebbero reinvestiti nella rivista. La proprietà non ha alcun interesse se non quello di prendere parte a un dibattito e a una discussione pubblica».
Negli anni Novanta, in particolare, c’è stata una svolta in questo senso? «È avvenuta con la direzione di Piero Ignazi e grazie al lavoro di politici e studiosi come Prodi e Scoppola, che figurano fra i soci fondatori», precisa l’attuale vice direttore.
«Allora fu lanciato il sito e arrivarono nuove forze dall’accademia italiana. Ma ancora oggi resta l’abitudine di allora di incontrasi e discutere». In particolare su alcuni focus tematici prioritari. «Cerchiamo di tenere i riflettori accesi soprattutto su alcuni ambiti: la scuola, l’università, l’istruzione in senso più ampio. Non solo evidenziando problemi ma cercando di mettere in luce alcune esperienze positive in Italia e all’estero».
Centrale è, più in generale, la politica. «È nel dna della rivista» sottolinea Simili. «Di recente, per esempio, sul cartaceo ci siamo occupati del sistema dei partiti, della rappresentanza. Abbiamo chiesto a Gianfranco Pasquino (che continua la sua brillante collaborazione dal 1970) un intervento sul tema del finanziamento dei partiti. È uno dei grandi temi presi di mira dalla spinta populista e anti casta che ha intaccato pesantemente l’equilibrio fra istituzioni e cittadini».
Il 29 marzo si terrà un referendum costituzionale (ora rimandato ad altra data per l’emergenza coronavirus) , pochi giornali ne parlano eccetto Left e la rivista Il Mulino… «Vedremo come andrà nel dibattito pubblico – dice preoccupato Bruno Simili -, purtroppo il referendum rischia di essere letto in una chiave non solo semplicistica, ma addirittura sbagliata».
Far circolare al massimo le idee è la “mission” di ogni buona rivista, ma le difficoltà oggi sono enormi, dovendo fare i conti con la distribuzione.
A Il Mulino si percepisce la crisi che colpisce tante riviste e i giornali in Italia? «Come tutti dobbiamo fare i conti con le difficoltà di circolazione sempre maggiori che incontrano le rivista cartacee» ammette Simili. «Abbiamo però il grande vantaggio di essere parte di un gruppo editoriale che pubblica 70 riviste. Siamo dentro al pacchetto di abbonamenti che viene venduto alle università e alle grandi istituzioni. E questo ci permette di avere molte letture, molti “scaricamenti” dalla nostra piattaforma».
Puntare sulla qualità, in ogni caso, è ciò che fa differenza. Oggi appare sempre più chiaro. Se fino a qualche anno fa per avere più pubblicità online la strategia era pubblicare il più possibile, avere più clic, più utenti unici, più introiti, oggi questa via non appare più così vincente.
«Il web è stato un grande vantaggio ma sono mancati selettori di fonti valide e attendibili e la ricorsa dei clic è stata distruttiva. Per quanto ci riguarda, per fortuna o sfortuna – chiosa il vice direttore de Il Mulino – non abbiamo pubblicità e non dobbiamo rendere conto di ciò che facciamo ad un inserzionista».
Alcune grandi e prestigiose testate hanno scelto di recente strade di “slow journalism”, con risultati sorprendenti. Le Monde per esempio ha ridotto il numero degli articoli del 14 per cento e al contempo ha aumentato il numero di giornalisti, proponendo più inchieste e più curate. Il risultato è stato l’11 per cento in più di utenti sia sul web che sulla carta.
Un’analoga tendenza si registra al New York Times che, su impulso dell’ad Mark Thompson (ex della Bbc), ha cancellato l’infotainment a favore della qualità e dell’approfondimento. Tutto ciò è possibile solo in quel vasto mercato anglosassone, spagnolo e francofono? «I risultati di Le Monde dimostrano che il pensiero breve, quello dell’informazione ridotta all’osso e banalizzata è da rifiutare. Per anni ci è stato detto che le persone non leggono pezzi superiori alle 4mila battute, specie online, ma non è così, lo vediamo anche dai nostri dati. Spero che gli imprenditori si rendano conto anche qui da noi, (per quanto l’italiano offra un pubblico più ridotto), bisogna andare nella direzione di un vero approfondimento… il giornalismo è un mestiere tanto importante quanto difficile».

Al confine tra Grecia e Turchia l’Europa ha cancellato la propria civiltà giuridica

Migrants and their children wait in line for food and water distribution at the port of Mytilene on the northeastern Aegean island of Lesbos, Greece, on Tuesday, March 3, 2020. Migrants and refugees hoping to enter Greece from Turkey appeared to be fanning out across a broader swathe of the roughly 200-kilometer-long land border Tuesday, maintaining pressure on the frontier after Ankara declared its borders with the European Union open. (AP Photo/Panagiotis Balaskas)

Viviamo in queste ore il precipitarsi, come in un condensato, di quello che potremmo definire “Fascismo della frontiera”; un fenomeno a cui si è arrivati dopo anni di contenimenti forzati, rimpatri, ronde, respingimenti, omissioni di soccorso. Anni in cui abbiamo visto persone perdere la vita in mare, imbarcazioni speronate nel Mediterraneo e nell’Egeo, persone scomparse nel silenzio di tutti, abbandonate dalle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerle.

Sul confine greco-turco si palesa la mostruosità di un continente che tortura l’altro per delega, lo respinge nei lager libici, lo fa sparire oltre i confini; e ha fatto dell’“espulsione dell’altro” la sua cifra identitaria. Adesso, in un passaggio all’atto (annunciato), compie la sua diretta eliminazione fisica.

La polizia e l’esercito greco sparano proiettili di gomma e lacrimogeni ai migranti che cercano di abbandonare la Turchia ed entrare in Europa, dopo l’apertura della frontiera operata dal sultano Erdogan. Mentre gruppi neonazisti, veri e propri squadroni della morte, colpiscono incontrastati per le strade delle isole elleniche e a mare stranieri, ong e attivisti. Notti di cristalli greche. (Al tema è dedicata la copertina di Left in edicola dal 6 marzo, ndr)

In questa situazione, l’Unione europea che da vent’anni fa la guerra ai migranti getta la maschera e applaude, utilizzando un linguaggio bellico, allo «scudo» greco – la definizione è di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue – che è stato opposto ai profughi. Donne e bambini scampati a bombardamenti e alla distruzione totale delle loro abitazioni e vite.

Così Commissione e Parlamento europeo consegnano il continente alle destre estreme. Che spesso le atrocità contemporanee siano state compiute da insospettabili burocrati, lo si sapeva da anni. L’esposto da un team di avvocati internazionali (Shatz e Branco) presentato a giugno 2019 di fronte alla Corte penale internazionale accusava l’Unione europea di “crimini contro l’umanità”, allegando una ricca documentazione, ma essa è rimasta muta e complice.

Sul fronte dei respingimenti, degli accordi tra Italia e Libia, più in generale delle politiche migratorie nel Mediterraneo e nell’Egeo, l’altro confine militarizzato, rispetto al quale sono stati siglati patti per bloccare esseri umani ridotti alla terminologia di “flussi” (l’accordo Ue-Turchia del 2016).

La Grecia da giorni sta violando la Convenzione di Ginevra e il diritto di asilo – «nucleo essenziale della Carta europea» (Luigi Manconi) e della nostra ex “civiltà” giuridica – e spara ad esseri umani in movimento. Come in un incubo, una civiltà esce dalla civiltà, compie una svolta autoritaria, dispotica. In un micidiale cortocircuito cognitivo-mediatico, l’epidemia della fobia dell’altro, rappresentato come “nemico” invisibile, si estende all’intero corpo psico-sociale e rischia di espellere l’altro da sé.

Nell’immagine del barcone respinto a Lesbo, al porto di Thermy (vedi l’intervista di Galieni a Nawal Soufi su Left del 6 marzo 2020, ndr), da folle fasciste e aizzate da Alba dorata, si cristallizzano 20 anni di politiche razziste, che hanno educato il corpo sociale a “immunizzarsi” contro un nemico inventato, ed a dedicarsi ad una “caccia al migrante” generalizzata. Ronde di frontiera, cani, manganelli e atti inumani e degradanti contro persone migranti sono la quotidianità sulla rotta balcanica, dove nei boschi e nei varchi di confine agiscono da anni impunite, guardie, polizie e unità speciali, ungherese, bulgare, croata; e greca.

Oggi, di fronte all’opinione pubblica, leader europei possono fare dichiarazioni sul sostegno militare incondizionato alla Grecia, senza nemmeno considerare l’esistenza di queste migliaia di esseri umani alla frontiera. Non esistono. La violenza invisibile, che pochi hanno voluto denunciare, serpeggia da anni nei campi profughi, nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e negli hotspot, dove le persone vengono distrutte psicologicamente e fisicamente. Mentre nel Mediterraneo la Guardia costiera libica finanziata da Europa ed Italia cattura i migranti che tentano di fuggire dal Paese nordafricano in guerra e li riporta nei lager.

Crimini di sistema, per così dire, che nessun vuole vedere, nessuno riconosce, se non in rari casi. Come quello della sentenza di Palermo del Tribunale permanente dei popoli, che di questi crimini aveva evidenziato la struttura e la trasversalità, legati come sono tra di loro da un filo insanguinato che unisce i confini esternalizzati dell’Europa, che proprio in questi giorni opera un gigantesco respingimento di massa.

«Non si può restare inerti davanti alla cancellazione della civiltà giuridica dell’Europa. Le politiche di esternalizzazione delle frontiere attuate dagli Stati Ue finiscono per produrre crimini contro l’umanità» ha dichiarato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

Ma i vertici europei – l’Alto commissario agli Affari esteri Borrell, la presidente della commissione Ue Von der Leyen, il presidente dell’Europarlamento Sassoli – benedicono le operazioni della agenzia di controllo delle frontiere Ue Frontex, sempre più saldate alle azioni delle autorità greche e dei fascisti. Mentre un popolo migrante senza territorio, stritolato tra nazioni, è invece in cammino.

D’altronde, in quale no man’s land gli Stati europei pensavano di poter continuare a stritolare le persone, di stringerle a tenaglia tra Paesi di confine? Dopo i confinamenti forzati e le detenzioni infinite dei migranti nelle isole greche, ora dove si pensava di respingerli? In un limbo al confine greco-turco? Nel fiume Evros? Nel mare? Dove? Quale pensiero si annida in queste decisioni burocratiche, se non la volontà di far sparire i migranti? L’Europa si palesa dunque come un mostro militare, una struttura genocidaria, perché è un «popolo migrante» (come lo ha definito Luigi Ferrajoli) quello colpito dalle sue politiche. Un popolo che ora richiede la nostra reazione e protezione.

Per approfondire leggi il nuovo numero di Left, in edicola dal 6 marzo 

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La moneta di scambio del Sultano

29 February 2020, Greece, Lesbos: Migrants from Africa arrive from Turkey in a rubber dinghy on the beach of the village of Skala Sikamias on Lesbos. According to the state news agency Anadolu, a spokesman for the Turkish ruling party AKP has hardly concealed his threat to open the borders for refugees in the country. 29 February 2020, Greece, Lesbos: Refugees and migrants from sub-saharan African countries arrive on a dinghy on a beach of village of Skala Sikamias on the island of Lesbos. Photo by: Angelos Tzortzinis/picture-alliance/dpa/AP Images

«Siamo intenzionati a non permettere a gruppi terroristici e ad un regime oppressivo di poggiare gli occhi sul nostro territorio». Con queste parole, il 2 marzo il presidente turco Erdoğan ha battezzato la sua quarta offensiva in Siria. Un’operazione chiamata “Scudo di Primavera” che, a differenza delle precedenti che avevano come obiettivo quello di impedire ai curdi del Rojava di formare un «corridoio terrorista» al confine meridionale con la Turchia, si presenta assai più complessa e geopoliticamente più pericolosa. Questa volta, infatti, il nemico dichiarato sono le forze governative siriane nella provincia di Idlib (nord ovest della Siria) e lo scontro è diretto, non più per procura.

I rapporti dei turchi con Damasco sono pessimi sin dall’inizio della rivolta contro il presidente Bashar al-Asad iniziata nel marzo 2011: Ankara non ha mai fatto mistero che avrebbe voluto la sua caduta ed era convinta, sbagliando, che la sua fine fosse imminente. Per raggiungere questo obiettivo, in questi anni ha aiutato gruppi di oppositori più o meno islamisti, dando luce verde anche all’autoproclamato Stato Islamico di imperversare indisturbato in Siria chiudendo gli occhi (e non solo) al passaggio dei miliziani sul confine condiviso tra i due stati.

Poi, però, l’ingresso dei russi a fianco di al-Asad nel 2015 ha cambiato il…

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La gestione dell’immigrazione ai tempi del coronavirus, una buona notizia

La sospensione di molte attività, per ora a breve termine, la necessità di intervenire in condizioni di “emergenza” non ha portato il governo ad intervenire unicamente accentuando in alcuni casi prassi di carattere repressivo o comunque di limitazione delle libertà personali in favore dell’interesse pubblico. Una gradita sorpresa è giunta dalla Gazzetta Ufficiale. Fra le pieghe degli interventi tesi a far fronte all’emergenza “coronavirus”, uno spicca per perspicacia e avvedutezza. Per 30 giorni sono sospesi, tramite decreto legge (2 marzo 2020, n 9), i provvedimenti relativi ai termini per il rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno per cittadini non provenienti dai paesi Ue. Quindi gli aventi diritto avranno più tempo a disposizione per ottenere ciò che spetta loro.

Il principio alla base delle decisioni adottate dal governo è uno solo: la possibilità di utilizzare per altri scopi, ritenuti non a torto preminenti, tutto il personale di polizia – solitamente addetto a tali pratiche burocratiche – ovvero come supporto a stemperare ogni forma di allarme sociale derivante dal virus. Il testo lo afferma esplicitamente ed è peraltro scritto anche con una chiarezza che non si percepiva da anni se non da decenni. Si tratta del decreto legge complessivo per definire le norme di sostegno per fronteggiare l’emergenza “coronavirus” che tocca numerosi aspetti. All’articolo 9, comma 1 si afferma che: a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, al fine di consentire la piena utilizzazione del personale della Polizia di stato, sono sospesi per la durata di trenta giorni: a) i termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi relative al rilascio delle autorizzazioni, comunque denominate, di competenza del Ministero dell’Interno […] in materia di soggiorno degli stranieri. b) i termini per la presentazione della richiesta di primo rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno previsti, rispettivamente, in 8 giorni lavorativi dall’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato e in almeno sessanta giorni prima della scadenza o entro i sessanta giorni successivi alla scadenza, in base ai limiti stabiliti dalla legge 25 luglio 1998 n 286 conosciuta ancora come Turco – Napolitano. Abbiamo ritenuto opportuno riportare il testo del decreto nel suo freddo linguaggio legislativo perché in maniera ancora più netta si evince come sia possibile, se si interviene con puro buon senso, produrre atti in grado di riportare il Paese alla normalità.

 

Non pensiamo di fare forzature interpretative ma: una persona che ha vissuto in Italia oggi non potrebbe serenamente essere rimpatriata nel Paese di provenienza in cui se va bene verrebbe messo in quarantena ma che, con molta probabilità non ne accetterebbe neanche l’ingresso su territorio nazionale. Sono molti i Paesi che non accettano o limitano gli ingressi a persone provenienti dall’Italia, senza contare il fatto che una espulsione dovrebbe essere effettuata col sostegno di personale italiano che a propria volta potrebbe essere considerato un pericolo per la salute pubblica. Inevitabile quindi che dovranno, per ora per 30 giorni ma non è detto che i termini non siano prorogati, essere sospesi i rimpatri su cui si gioca da anni una gara tristissima fra centro destra e centro sinistra. Ma non basta. La scelta saggia del Viminale di garantire una sospensione delle pratiche eviterà a molte persone di finire, almeno per ora, nel circuito dell’invisibilità a causa delle norme introdotte dai due precedenti ministri (Minniti e Salvini), primo gradino per perdere anche il diritto di esigere diritti e magari, nonostante la crisi occupazionale, consentirà ad alcune e alcuni di trovarsi un’occupazione e quindi di poter procedere al rilascio o al rinnovo dell’agognato pezzo di carta. Non è certo la giustizia di cui ci sarebbe bisogno ma un fatto positivo, inutile nasconderlo, che magari potrebbe indurre qualche legislatore un po’ lungimirante a domandarsi se sia o meno il caso di pensare a percorsi più semplici di regolarizzazione dei tanti e delle tante che ormai in Italia, – malgrado il coronavirus e infezioni ancora più malefiche come quella del razzismo e dello sfruttamento fondato sul ricatto, – ci vorrebbero continuare a vivere.

Da ultimo altri due effetti, interessanti derivanti dal fatto dal non essere più considerati un “paese sicuro”. I “dublinati” coloro che giunti in un Paese in cui sono stati identificati e hanno lasciato le impronte e che sono riusciti ad andarsene dall’Italia oggi non vengono più rimandati indietro in base appunto al regolamento DublinoIII che sancisce la responsabilità, soprattutto per le richieste di asilo, del paese di primo approdo. Almeno dalla Germania, che in passato è stata accusata anche di sedare le persone da rimandare indietro, (fonte documento di esperti del Parlamento Europeo consegnato il 20 febbraio alla Commissione LIBE), e sulla base di un accordo fra il primo ministro italiano e l’omologo tedesco, fino al 31 marzo è bloccata ogni procedura di riammissione in Italia. Da ultimo il coronavirus ha fatto scoprire, ma su questo non ci sono ancora direttive esplicite, che anche il trattenimento di persone provenienti da regioni diverse, spesso anche in condizioni di vulnerabilità, potrebbe creare problemi di salute pubblica. Forse è per questo che non si sente più parlare di inaugurazione, di riapertura o di ristrutturazione dei Centri Permanenti per i Rimpatri, anzi quello di Trapani è oggi chiuso mentre quelli di Caltanissetta (Pian del Lago) e Potenza (Palazzo San Gervasio) potrebbero esserlo a breve. Che il momento di difficoltà che sta attraversando il Paese possa avere anche un suo risvolto e portare a riflettere sul fatto che di determinati strumenti: dai rimpatri forzati, ai trattenimenti, all’irregolarità imposta, non producano solo danni ma si dimostrino, soprattutto in fasi come queste, inutili e controproducenti? Che questo sia un suggerimento.

Ora invocano le Ong

Foto Claudio Furlan - LaPresse 24 Febbraio 2020 Milano (Italia) News Conferenza stampa in regione Lombardia per fare il punto sulla emergenza Coronavirus Nella foto: Giulio Gallera, Attilio Fontana

Tra i vari contrappassi di questi giorni brilla la dichiarazione di ieri dell’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera che chiede aiuto alle Ong: «L’ho ripetuto più e più volte», ha detto Gallera, «abbiamo bisogno delle migliori energie, qualsiasi contributo, da specializzandi a medici in pensione alle Ong, non solo è benvenuto ma assolutamente necessario». Quando gli hanno chiesto se vi fossero già stati contatti Gallera ha chiarito «dalle Ong ci è arrivata per interposta persona una disponibilità di medici: ci stiamo mettendo in contatto con loro».

Sarebbe facile ora ricordare la criminalizzazione delle Ong da parte della destra (la stessa destra che governa la Lombardia) in questi ultimi anni. Si potrebbe ricordare come alti esponenti, addirittura ex ministri, abbiano più volte ripetuto che dietro le attività delle Ong ci siano loschi interessi e nessuna reale pubblica utilità oppure si potrebbe ripercorrere il tempo in cui gli appartenenti alle Ong (quelli che ieri sono diventati magicamente le migliori energie) venivano considerati semplici affaristi professionalmente inventati.

E invece non è così. Però si potrebbe anche valutare il lato positivo della dichiarazione dell’assessore lombardo: il Coronavirus potrebbe essere l’occasione per sviluppare quell’empatia che si era seccata, praticamente disidratata, in quest’epoca: capiremmo una volta per tutte che i diritti del mondo vanno parametrati sulle sofferenze e sulle fragilità del mondo e non su qualche privilegiato status quo. Si potrebbe comprendere che ora che i fragili siamo noi abbiamo l’occasione di capire quanto gli aiuti, tutti gli aiuti, siano necessari per rendere questo mondo un po’ più vivibile.

E per provare a non essere vendicativi ma piuttosto volare alto potremmo chiedere a Gallera solo una cosa: che si ricordi di questo bisogno anche dopo, quando (speriamo il più velocemente possibile) questa emergenza finirà, quando saranno altri e non noi ad avere bisogno.

Basterebbe questo.

Buon venerdì.

Grecia, Europa. Un lager a cielo aperto

01 March 2020, Greece, Lesbos: A boy is crying on the beach of the village Skala Sikamias after his arrival from Turkey with a rubber dinghy. Photo by: Angelos Tzortzinis/picture-alliance/dpa/AP Images

Un bambino è già annegato nelle acque tra le vicinissime coste della Turchia e quelle di Lesbo ed un altro si trova in condizioni gravi nell’ospedale dell’isola greca.
A parte le fake news del presidente Recep Erdoğan e dei ministri turchi riguardo all’uccisione di due persone da parte delle forze greche al confine di Evros la ripresa di venti forti in settimana può trasformare di nuovo il mar Egeo in un cimitero, mentre gli occhi sono puntati con preoccupazione sugli scontri tra profughi e immigrati con la polizia di Atene.

Solo il fumo dei lacrimogeni, le bombe assordanti e i potenti getti d’acqua provenienti dagli idranti delle forze dell’ordine riescono a passare da una parte all’altra, attraversando recinti e fili spinati. Da parte loro i profughi e gli immigrati rispondono tirando sassi ma anche qualche lacrimogeno di fabbricazione turca alla polizia greca.
L’aver sigillato la frontiera greca sembra aver portato un grande consenso al primo ministro Kyriakos Mitsotakis e non solo tra i suoi elettori. I metropoliti del clero nella zona del confine si sono trovati “soldati tra i soldati” con la polizia, i pompieri e l’esercito chiamato a difendere i confini della patria, mentre nelle loro parole sacre non hanno trovato nemmeno una sillaba per il dramma dei profughi.

Intanto in questo clima di paura degli invasori su qualche spiaggia di Lesbo la popolazione locale ha fatto un cordone “sanitario” per ostacolare l’arrivo di imbarcazioni.
Perfino gli striscioni del Fronte militante di tutti i lavoratori (Pame), dei sindacalisti e dei comunisti ortodossi del Kke affermano di non volere nessun hotspot sulle isole, né aperto né chiuso. In un modo o nell’altro i profughi e gli immigrati sono visti male. Questa volta però le televisioni degli armatori e quella pubblica, che dipende direttamente dall’ufficio del primo ministro, non possono dire che sia Syriza a far arrivare profughi e immigrati.
Di certo fomentano l’opinione pubblica insinuando che se il governo Tsipras fosse stato ancora in piedi i profughi invece di essere fermati sul confine sarebbero arrivati ad occupare Atene.

Erdoğan sembra utilizzare i profughi e gli immigrati come carne da cannone per vincere la battaglia ad Idlib in Siria e ha risposto no al primo ministro bulgaro Bojko Borissov che chiedeva un incontro a tre.
Mitsotakis da parte sua cerca di salvare il salvabile chiedendo l’aiuto dell’Unione europea e degli Stati Uniti contro la decisione di Erdoğan di facilitare l’arrivo dei profughi e degli immigrati al confine greco-turco, mentre il presidente turco fa accompagnare dalla sua guardia costiera le imbarcazioni fino alle acque territoriali della Grecia e gli aerei turchi continuano le violazioni dello spazio aereo greco.

Il primo ministro Mitsotakis ha accompagnato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il famigerato commissario per la Protezione dello stile di vita europeo Margaritis Schinas, insieme con altri dirigenti Ue, ad ispezionare dall’alto il confine greco-turco, incassando l’appoggio degli europei nel difendere i confini della Grecia e dell’Europa, con il presidente francese Emmanuel Macron in pole position, seguito dalla cancelliera tedesca Angela Merkel.

Su questa linea non ci sono schierati solo i Paesi di Visegrad ma anche i loro alleati un poco più a destra, come i fascisti spagnoli di Vox e quelli francesi di Marine Le Pen, ottenendo anche gli applausi di Salvini e di Meloni.
Il governo greco ha preso una decisione che va contro le leggi internazionali sospendendo per un mese il diritto d’asilo dei richiedenti.

Mitsotakis non ha nascosto mai la sua politica “salviniana” di blindare i confini, arrivando anche a proporre di mandare nelle isole deserte, in una sorta di confino contemporaneo, migliaia di profughi e di immigrati. La sconfitta che hanno avuto nei campi di battaglia di Lesbo e di Chios i suoi reparti di celerini della popolazione locale, dove estremisti di destra, nazionalisti e razzisti hanno cercato di avere le mani libere, ha evitato la costruzione con la forza di veri campi di concentramento per i profughi e gli immigrati. Per il momento.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 6 marzo 

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