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«Forse questa è la mia occasione»

«Amico, hanno aperto i confini. Migliaia di rifugiati stanno partendo per il confine. Sto pensando se farmi lo zaino e partire». 28 febbraio, mattina. A scrivermi è Ahmed, rifugiato siriano arrivato 7 anni fa in Turchia con l’idea di andare in Europa, un’idea svanita nel corso del tempo. 

«Se andare in Europa significa finire in un campo profughi, preferisco rimanere qui» mi ha sempre detto. Amante della musica, si sta costruendo una carriera nella scena del quartiere asiatico alternativo di Kadikoy, ma da tempo sogna Barcellona: «Decine di miei amici vivono lì e sento che forse questa è la mia occasione». É inquieto e allo stesso tempo su di giri quando raggiungo casa sua.

Nonostante il blocco dei social media implementato dal governo di Ankara, in seguito all’uccisione di almeno 33 soldati turchi a Idlib ad opera dell’esercito siriano, cerchiamo di capire cosa sta succedendo. Il telefono di Ahmed squilla di continuo. A chiamarlo sono i suoi amici siriani e palestinesi di Istanbul che come lui cercano di farsi un’idea se partire o meno. Nel quartiere storico di Costantinopoli, a Topkapi, già in mattinata sono stati messi a disposizione degli autobus per i rifugiati che vogliono dirigersi al confine, alcuni gratuiti, altri a cifre modiche.

Qualche ora dopo saranno già in centinaia a…

Il reportage prosegue su Left in edicola dal 6 marzo 

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Invece questa è fame

(So che non è elegante citarmi, non si dovrebbe fare. Ma ho scritto un libro che molti definiscono giustamente dispotico, è un libro che racconta di un mondo che scivola in fondo all’orrore. C’è una lettera di una donna, alla madre, che vede quello che accade intorno. Pensavo che valesse la pena rimettere qui l’incipit. Mi si perdoni l’autopromozione)

Cara madre, Ti scrivo in fretta e di nascosto e con dolore. Le comunicazioni con l’esterno sono regolamentate dal controllo asfissiante delle autorità municipali e Ciro è l’uomo che per conto del sindaco controlla la corrispondenza in entrata e in uscita, le conversazioni telefoniche sono registrate. So mamma che questa lettera ti coglierà ti sorpresa. Non è vero che sto bene, non è vero che la bambina è tranquilla, no, non stiamo tutti bene. Stiamo male. E va male. Malissimo. Non credere a niente di ciò che hai sentito uscire dalla mia bocca. Niente. Ogni nostra telefonata in questi mesi è stata una recita che mi sono imposta illudendomi che qualcosa cambiasse, sperando che qualcuno fermasse questa discesa verso il baratro e confidando che il mondo non permettesse che la città in cui vivo con mia figlia si trasformasse in miniera di odio. Mi vergogno, mamma, di ogni volta che ho creduto di essere disperata prima di oggi. In città si respira una ferocia che sta nelle piccole cose: gli anziani mal sopportati, i malati trattati con sufficienza, i bambini continuamente zittiti. Non è solo questione di quei poveri diavoli che arrivano morti dal mare. Mi sono ripetuta cento volte che a quelli avremmo anche potuto abituarci, come succede alle infermiere degli ospedali per malati terminali, con una pietà levigata dall’ordinarietà di cadaveri sbattuti sulla barriera. Invece questa è fame. La fame di chi ogni giorno si allarga un centimetro di più lo stomaco e domani avrà bisogno di più carne per sfamarsi. Mamma, quello che senti e vedi per radio e alla televisione è niente. I nonni portano i nipoti tenuti per mano a osservare i cadaveri che sbattono sul plexiglass prima di accumularsi nelle tubature e scolare verso la fabbrica. Le donne si scambiano complimenti per l’ultima borsa ambrata di pelle di quelli, le carbonelle in giardino arrostiscono le mani e i piedi e le cosce di quelli, poi ci si lamenta dei capelli trovati tra la carne, delle interiora pulite male dal macellaio del supermercato, del cuoio sul divano fatto con uno di quelli non abbastanza resistente. Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia. La famiglia non esiste più, qui.

Buon giovedì.

L’arte della resistenza alle discriminazioni

Il rischio di chiusura del Centro di accoglienza straordinario di Ciampino è sempre più reale. Il Cas attualmente ospita 40 ragazzi che hanno chiesto asilo e fatto ricorso dopo il primo diniego (ricorrenti) e questa è una delle drammatiche conseguenze della Legge 132/2018 (di conversione del c.d. Primo decreto Sicurezza di Salvini), che si è inserita in un clima di slatentizzazione della violenza xenofoba generato a suo tempo dal governo giallo-verde.
Attraverso un provocatorio progetto artistico #Borderlessbeauty – Cas Ciampino, curato da Barbara Martusciello, il fotografo Raffaele Marino ha portato a conoscenza dell’opinione pubblica la realtà dei ragazzi ospiti beneficiari del Cas. Sul finire del mese di gennaio, manifesti misteriosi sono apparsi nelle piazze romane con la scritta “Portami a casa”. Ritraevano sette di loro vestiti come modelli dell’alta moda dalla designer Karen Papace. «Protagonisti consapevoli – ha dichiarato l’autore – di un progetto partecipato, collettivo … che ha come fulcro caratterizzante la creazione di una provocatoria campagna, simile nella forma a quelle pubblicitarie ma contraddistinta da una prima veicolazione street, illegale e quasi carbonara, come nella miglior tradizione di UrbanArt».
Dopo poco più di un mese, il mistero è stato svelato. «I modelli ritratti in realtà sono immigrati ospitati nel Centro di accoglienza straordinario per migranti di Ciampino». Il progetto vuole così riflettere sul «rapporto tra Bellezza ufficializzata e dunque socialmente riconosciuta e il pregiudizio che non permette di identificarla …».
La mostra, che si svolge dal 3 al 7 marzo presso la galleria Howtan Space (Roma, via dell’Arco de’ Ginnasi 5) alla presenza dei protagonisti e dei responsabili del Centro, ha voluto porre dunque in primo piano, attraverso un linguaggio artistico dalla forza cromatica prorompente, la realtà dei migranti che vivono nei Centri di Accoglienza straordinari.
Se un progetto artistico ufficialmente riconosciuto ha dunque dalla sua la possibilità di creare provocazione destando un’immediata attenzione, rimane una profonda amarezza nel dover constatare che, di ragazzi e ragazze migranti che da anni vivono insieme a noi, ci si occupi solo in seguito ad eventi estremi. Torna così l’emergenza.
C’è invece una vita quotidianamente vissuta, fatta di abitudini e di occasioni nuove; di avvocati, di Questura, di scuola, di amicizie, di amori, gioie e delusioni. Realtà accompagnate da un costante esercizio di vitalità che loro stessi mettono in gioco per resistere. Resistere ad una società che difficilmente riesce ad ascoltarli e vederli per quello che realmente sono: persone, esseri umani spinti dal desiderio di nuove possibilità di vita e dalla voglia urgente – tutta giovane – di realizzare i propri sogni.
Si manca così – nella vita di tutti i giorni – di cercare per scoprire relazioni affettive sincere che contribuirebbero a destrutturare il pensiero monolitico fondante la nostra cultura occidentale. Un pensiero che, sin dall’antica Grecia, ha costruito la propria identità ponendo “il diverso” al confine politico e culturale della pòlis, edificando barriere e dissolvendo la ricchezza della differenza nella costruzione dell’altro, del non conosciuto, come disordine e violenza. Una visione dell’identico che continuamente rimanda a sé stesso.

Il Super tuesday restringe il campo degli sfidanti dem: ora è testa a testa Sanders-Biden

Democratic presidential candidates, Sen. Bernie Sanders, I-Vt., left, and former Vice President Joe Biden, right, participate in a Democratic presidential primary debate at the Gaillard Center, Tuesday, Feb. 25, 2020, in Charleston, S.C., co-hosted by CBS News and the Congressional Black Caucus Institute. (AP Photo/Patrick Semansky)

Le votazioni delle primarie del Partito democratico statunitense che si sono tenute nel famoso Super tuesday hanno ristretto il campo della corsa alla nomination a due candidati: Joe Biden e Bernie Sanders. Con il vicepresidente di Obama che ha vinto nove Stati sui 14 (più la Samoa americana e i Democrats abroad, gli americani all’estero) in palio, la corsa di Sanders si fa in salita. Certo il senatore del Vermont ha conquistato la California, il primo premio immaginario di questo martedì elettorale quanto a numero di delegati in palio, ben 451 che sono però comunque da spartire anche con gli altri contendenti che abbiano ottenuto più del 15% dei voti. In California, l’86% dei giovani ha votato Sanders. Il candidato socialista ha vinto anche in Utah, Colorado e nel “suo” Vermont (mentre in Maine ancora si sta consumando un testa a testa).

Grafico del New York Times, dati aggiornati al 4 marzo 2020, ore 12:30

L’apparente sconfitta di Sanders nel Super tuesday non ha comunque fiaccato lo spirito del movimento che è nato per portare Bernie alla Casa Bianca. Sui social spopolano gli hashtag #FeeltheBern e #NotMeUs, simbolo della sua campagna elettorale.

D’altronde, questo Super martedì ha rappresentato il vero inizio delle primarie. Dopo la falsa partenza in Iowa, con i risultati elettorali dispersi per ore senza che il partito Dem facesse sapere nulla al riguardo, e i risultati eterogenei di New Hampshire, Nevada e South Carolina (nei primi tre casi Bernie Sanders si era assicurato la maggioranza dei voti popolari, mentre Biden ha vinto in South Carolina), le primarie hanno subito diverse svolte. In particolare, i ritiri sorprendentemente vicini al giorno del Super tuesday di due candidati importanti in queste primarie, cioè Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, e il loro immediato endorsement a Joe Biden sono parse a molti una coincidenza davvero strana. A poche ore dalle votazioni si è creato un fronte compatto di sostenitori di Biden fino a quel momento insospettabili: oltre ai due ormai ex candidati, è arrivato l’endorsement anche di Beto O’Rourke, ritiratosi a novembre da queste primarie e sconfitto per un soffio alle elezioni di midterm del 2018 per la carica di senatore del Texas.

Alla vigilia del Super tuesday c’era poi l’incognita Michael Bloomberg, che nonostante i 500 milioni di dollari investiti nella sua campagna non si è dimostrato all’altezza nei dibattiti televisivi, in cui è apparso insicuro e non pienamente in grado di sostenere una discussione su temi che riguardano le persone comuni. Il Super martedì è stato il suo primo banco di prova elettorale, per sua scelta. Ma si è arrivati alle urne con la sensazione che la sfida sarebbe stata tutta incentrata sul duello Sanders-Biden, vecchio e nuovo, radical contro moderato. Una sensazione che si è rivelata giusta, visto che il miliardario newyorkese ha guadagnato un numero irrisorio di delegati tra quelli in palio durante il Super martedì.

Dopo questa tornata elettorale, è emerso più che mai che la maggioranza degli afroamericani e degli over 65 preferiscono Biden, i giovani e i latinos invece votano più per Sanders, anche grazie all’appoggio di Alexandria Ocasio-Cortez al senatore del Vermont. I potenziali elettori del Super tuesday erano composti al 53% da bianchi, al 25% da ispanici, all’11% da afroamericani, al 7% da asiatici e al 4% da altre etnie. Ben 15,5 milioni sono gli ispanici che vivono in California, mentre l’Alabama ha alcune contee abitate solo da afroamericani. Molto bassa l’affluenza alle urne degli under 29: solo il 13% di loro si è recato alle urne, dieci punti percentuali in meno rispetto alla fascia 30-44, come ha riportato Nbc news.

Bernie Sanders non è l’uomo che il partito vorrebbe come candidato alle presidenziali contro Donald Trump. Ma l’emergenza coronavirus ha messo in evidenza uno dei cavalli di battaglia di Tìo Bernie, cioè la sanità pubblica. Mentre il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo prova a prendere iniziative per non bloccare l’accesso ai test per il virus a causa di problemi economici, l’importanza di un sistema sanitario nazionale “all’europea” inizia a diventare palese agli occhi anche dei più scettici. Un malaugurato vantaggio di cui avrebbe potuto godere anche Elizabeth Warren, anche lei sostenitrice del Medicare for all, ma da cui sembra non aver ricevuto alcun effetto positivo: durante il Super tuesday non è riuscita a conquistare nemmeno lo Stato in cui è senatrice, il Massachusetts, andato invece a Biden.

Ora le statistiche vedono Sanders dietro Biden, rispettivamente con l’8% e il 31% di probabilità di ottenere la nomination. Ma la possibilità più quotata è quella di avere una cosiddetta brokered convention, cioè la possibilità che alla convention democratica che si terrà a luglio a Milwaukee non si presenterà un chiaro vincitore delle primarie. In quel caso, sarebbero i delegati a decidere chi sfiderà Donald Trump a novembre, senza rispettare le indicazioni del voto popolare, oppure il partito potrebbe addirittura proporre una figura terza. Se Sanders vuole davvero rivoluzionare l’America, ora è il momento di spingere sull’acceleratore.

Riduzione dei parlamentari, tre motivi per votare No al referendum

Ho appena aderito al “Coordinamento per la democrazia costituzionale per il No del referendum sulle modifiche alla Costituzione sulla riduzione del numero dei Parlamentari” presieduto dal professor Massimo Villone, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Napoli. L’ho fatto perché credo siamo chiamati ancora una volta a scegliere tra democrazia parlamentare e sistema oligarchico. In fondo, mi guidano le stesse motivazioni che mi spinsero a votare No al referendum del 4 dicembre del 2016.

Come dico sempre ai miei studenti, ribadisco al lettore che l’elemento più importante della Carta Costituzionale, è la spinta unitaria verso tutti i Costituenti dell’epoca. Si unirono tutti attorno al valore sacro della persona umana. L’individuo finalmente inteso non più come mezzo ma come fine primario dell’ordinamento giuridico e sociale. Si tracciò così una visione della persona non più statica ma dinamica, poiché titolare di diritti e di doveri, diretta allo sviluppo, non solo economico ma sociale e culturale. La persona, però, non può realizzarsi completamente se non in condizione di libertà indissolubilmente connessa al concetto di uguaglianza.

Entrata in vigore il 1° gennaio 1948, a tre anni dalla Liberazione della Nazione e dalla fine della seconda guerra mondiale, è, a mio avviso ancor oggi, una delle più avanzate del mondo, soprattutto perché è costruita in modo da non limitarsi a elencare i diritti, ma dare indicazioni per la loro effettività e per la loro attuazione. Piero Calamandrei nel suo famoso discorso agli studenti nel 1955 rimarcò come la Costituzione non fosse una macchina che una volta messa in moto andava avanti da sé. «La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica».

Nella nostra Costituzione c’è la nostra storia, il nostro passato, i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Al suo interno ci sono anche valori intrinseci, non sempre esplicitamente dichiarati, ma chiaramente desumibili: la persona, il lavoro, la dignità, la libertà e l’uguaglianza, la democrazia, l’etica, la legalità; non dimenticando, peraltro, che nella schiera dei valori vanno considerati anche i doveri e tra di essi emergono principalmente la solidarietà e la partecipazione attiva.

Quando all’art. 1 si scrive che l’Italia è una “Repubblica democratica”, si dichiara una scelta e si evidenzia un valore: la democrazia. Da cittadino ritengo che la democrazia sia il governo di molti e non di pochi. La democrazia esprime partecipazione e legame stretto tra elettore ed eletto. La democrazia è il governo del popolo. La nostra si qualifica come parlamentare (che vuol dire strutturata attorno ad un Parlamento che esercita il potere legislativo), ma non esclude, e anzi esplicitamente prevede anche forme di partecipazione diretta dei cittadini (l’iniziativa popolare delle leggi, il diritto di petizione, il referendum e così via).

La democrazia è l’humus necessario della convivenza civile. Un valore che noi cittadini abbiamo l’obbligo morale e materiale di proteggere e tutelare contro ogni attacco e contro ogni rischio, soprattutto in un Paese che ha vissuto la dittatura. Il valore della partecipazione attiva è fondamentale. Pericle nel suo discorso agli ateniesi già nel 431 a.C. affermava: «Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore».

Pericle ci insegna che il cittadino, non solo deve esercitare la sovranità popolare partecipando alle elezioni (quali che siano le sue scelte), ma poi deve chiedere conto ai suoi “delegati” di ciò che fanno nell’interesse comune, deve far sentire la propria voce, partecipare al dibattito pubblico sulle questioni di fondo, indignarsi per le cose che non vanno, svolgere azioni concrete di controllo sul bene comune. Questa è la cittadinanza attiva che, alla fine, è il valore più rilevante di ogni altro, non solo perché è il sale della democrazia, ma anche, e soprattutto, perché è la maggior garanzia del rispetto e dell’attuazione di tutti gli altri valori costituzionali. Il distacco, l’indifferenza, non appartengono alla democrazia e non la qualificano; non valorizzano la persona e non ne esaltano la dignità.

L’invito che implicitamente ci rivolge la Carta Costituzionale è di essere cittadini partecipi e consapevoli. Per questo, bisogna conoscere la Costituzione, approfondirne le norme specifiche ed i principi, estrarre consapevolmente i valori che essa emana e farli vivere nelle istituzioni, nella politica, nella società, ed anche nei comportamenti quotidiani, convincendosi che anche nei momenti difficili sta nella Costituzione e nei suoi valori, l’unica e vera prospettiva di rinnovamento e di riscatto. Ma soprattutto bisogna amarla, questa Costituzione: è la base e il fondamento della nostra convivenza civile per la quale in tanti hanno sacrificato la loro vita.

Sono profondamente convinto che il prossimo 29 marzo con il nostro voto saremo chiamati a decidere non tanto se vogliamo la Costituzione del ’48 per il suo prestigio e il suo valore simbolico, ma dobbiamo optare tra democrazia parlamentare e sistema oligarchico. Questo referendum verterà sul carattere centralistico, oppure pluralistico e partecipativo della nostra democrazia. La nostra Costituzione è stata concepita per unire non per dividere: è questa la sua essenza rivoluzionaria. La riforma proposta si caratterizza, sin dal metodo, come una Costituzione che non unisce ma, di fatto, divide. L’attuale Costituzione è nata dal consenso unanime di quasi tutti i partiti politici dell’epoca e per questo ha in sé ha un enorme valore aggregante e democratico. Una Costituzione che legittimerebbe una oligarchia sarà giocoforza regressiva e non avrà più il prestigio, il valore che deve avere la Costituzione in un sistema democratico solidaristico-sociale.

In questi anni è stato smantellato lo Stato sociale, è stato distrutto il diritto del lavoro, la sanità non più solidale e gratuita perché si è economizzata e pesa sulle spalle soprattutto dei più poveri. Lo smantellamento di tutti questi diritti è possibile solo se prima di tutto si smobilita la società, e cioè si indeboliscono i partiti, e i cittadini sono ridotti a spettatori davanti alle televisioni a guardare gli scontri fra i politici, che naturalmente si scontrano su questioni secondarie. Ciò che viene perseguito è prima di tutto la neutralizzazione del controllo dal basso, del radicamento sociale, e in secondo luogo la neutralizzazione dei limiti e dei vincoli dall’alto, e cioè da parte delle Costituzioni, perché le Costituzioni sono ormai scomparse dall’orizzonte della politica.

Con questa riforma il Parlamento conterà sempre di meno, sarà per l’appunto una maggioranza di parlamentari, fortemente vincolati da chi deciderà della loro successiva elezione, a causa anche della disarticolazione sociale dei partiti, della loro neutralizzazione come fonti di legittimazione titolari delle funzioni di indirizzo politico, di controllo e di responsabilizzazione. Il nostro voto è una scelta o a favore della democrazia pluralistica costituzionale oppure a favore di un’involuzione personalistica e autocratica del sistema politico. Per tutti questi motivi all’interno della cabina elettorale occorre meditare e riflettere profondamente sul nostro prossimo futuro prima di votare per il Sì o per il No.

Io voterò convintamente No essenzialmente per tre ragioni. La prima: con la attuale legge elettorale e con listini bloccati e candidati nominati, i nuovi parlamentari saranno tutti indicati dalle segreterie di partito, sottraendo di fatto al popolo sovrano totalmente il diritto di scegliersi i suoi rappresentanti. Deputati e senatori risponderanno al segretario del partito e non più agli elettori. La seconda: con questa riforma la rappresentanza politica sarà concentrata nelle aree più popolose del Paese, a scapito di quelle con meno abitanti ma territorialmente più vaste, ed inoltre non tutela in modo adeguato le minoranze linguistiche. La terza: eletto ed elettore, non avranno più legami e ciò favorirà ancor di più il distacco dei cittadini dalla politica, ampliando l’astensionismo e il disinteresse nei confronti delle pubbliche Istituzioni, soprattutto del Parlamento, l’unico luogo dove il cittadino dovrebbe vedersi democraticamente rappresentato. Un Parlamento con meno eletti, per giunta nominati, creerà di fatto una nuova cerchia ristretta di potenti.

Vincenzo Musacchio è un giurista

I pessimi venditori

Immaginate un rappresentante, quelli che una volta si chiamavano così e invece oggi sono agenti di vendita o promoter o qualsiasi altra formula inglese che poi sostanzialmente fanno il lavoro di promuovere un prodotto o un servizio, immaginiamo, che ne so, un venditore di scope elettriche che vi bussi a casa, che si sieda molto contrariato a mostrarvi la sua scopa, che vi dica che in azienda fa tutto schifo e che il suo capo è un imbecille, che vi confessi che il suo prodotto è molto rumoroso, spreca molta energia e non aspiri per niente bene e in più che vi dica che c’è un problema tecnico che ne limita la durevolezza che non riescono a individuare. La comprereste?

Oppure immaginate un parrucchiere, voi vi sedete sulla poltrona, mentre vi taglia i capelli vi racconta che ha litigato con il suo capo perché è un pessimo capo e poi vi confessa che non si farebbe tagliare mai i capelli in quel salone perché non si sente al sicuro, che so, vi dice che avrebbe paura di rimetterci un orecchio.

Oppure immaginate un autista di un taxi. Voi chiamate il taxi quello arriva e vi dice che l’auto è molto sporca perché la cooperativa di taxi è gestita in modo irresponsabile e il responsabile della pulizia è un cretino patentato. Vi dice che guiderà controvoglia perché le strade sono molto pericolose e non si sa mai che gli possa succedere qualcosa mentre si trova alla guida.

Bene, nessuno di questi lavoratori eviterebbe di essere considerato un pessimo venditore di se stesso, del servizio che propone e sicuramente non vi invoglierebbe. Probabilmente sarebbe anche punito per le sue lamentele e la sua mancanza di intervento sulle lacune.

Noi siamo la scopa elettrica, quel salone di parrucchieri e i soci della cooperativa di taxi. Noi, italiani. E il pessimo venditore è qualcuno di quei politici che pur di riuscire a farsi notare nel suo gnegneismo è pronto a distruggere un Paese. Di solito sono anche quelli che si lamentano del crollo del turismo e della credibilità dell’Italia, che in fondo è la scopa elettrica che rimane invenduta.

Perché il turismo, ad esempio, è così: non si vede ma si sente quando manca. Eccome se si sente.

Buon mercoledì.

Dammi il coraggio di provare il dolore

Migrants arrive at the village of Skala Sikaminias, on the Greek island of Lesbos, after crossing on a dinghy the Aegean sea from Turkey on Monday, March 2, 2020. Thousands of migrants and refugees massed at Turkey's western frontier, trying to enter Greece by land and sea after Turkey said its borders were open to those hoping to head to Europe. (AP Photo/Michael Varaklas)

Se dovessi scegliere un regalo, se domattina svegliando mi trovassi il destino o il suo collega genio della lampada seduto sul tavolo della cucina che mi chiedesse che qualità potessi desiderare per il futuro gli chiederei il coraggio di provare dolore.

Di provare dolore pubblicamente, oscenamente, senza ritegno, nelle cose che faccio e nelle cose che scrivo e pure nel mio lavoro, un dolore finalmente non travestito da sdegno degli sdegnati consumati e nemmeno travestito da pietismo. Dolore nudo, dolore crudo, dolore fitto, dolore appuntito.

Se mi chiedessero di esprimere un desiderio chiederei per favore di non farmi abituare, di non scivolare nell’abitudine di ritenere un danno collaterale un bambino annegato nella giungla di Lesbo e nemmeno un quindicenne morto, quali siano le mie posizioni politiche, qualsiasi siano le colpe dei cadaveri quando erano vivi.

Vorrei anche gridare che è un enorme arretramento di civiltà questo nuovo dovere che ci siamo inventati per cui bisogna essere addolorati ma con garbo, con la giusta distanza, con equilibrio e con tutti quelli altri aggettivi che sostanzialmente servono ad arrogarsi il diritto di fottercene.

Se sentissimo il dolore che c’è intorno come dolore nostro sarebbe un mondo migliore e noi saremmo persone migliori. E allora, pensateci, perché ci vergogniamo di rischiare di essere migliori?

Buon martedì.

Un inverno a Lesbo nel campo profughi Moria

Cortei e le proteste per le condizioni disastrose del campo profughi di Moria, nell’isola di Lesbo, in Grecia, stanno diventando sempre più frequenti. Richiedenti asilo e abitanti del posto si sono riversati sulle strade dell’isola greca dalla fine di gennaio al grido di “libertà”, per chiedere uno sblocco delle richieste di asilo e una soluzione per il sovraffollamento del campo. Quello di Moria è diventato un inferno di tende e lamiere, un luogo dove la mancanza di diritti e della possibilità di accedere al minimo necessario per condurre una vita sana e dignitosa, stanno trasformando un centro per profughi in una bomba ad orologeria. Originariamente questi campi nelle isole greche, secondo gli accordi tra l’Unione europea e la Turchia di Erdogan, avevano l’obiettivo di bloccare i flussi migratori. Erano degli “hotspot”, ossia servivano a ospitare i migranti nei confini del campo, per identificarli, raccogliere le loro richieste di asilo e, in parte, respingerli in Turchia. Come del resto si legge sul sito dell’Ue: «In seguito all’accordo raggiunto tra l’Unione europea e la Turchia, dal 20 marzo 2016 tutti i nuovi migranti irregolari in viaggio dalla Turchia verso le isole greche dovranno tornare in Turchia».

Questa strategia ha provocato un afflusso enorme di persone dentro i campi, costrette ad attendere mesi, se non anni, una risposta dall’Ue. Il campo, adibito per accogliere 3mila persone, oggi ne ospita più di 19mila. Tra gli uliveti circostanti sono iniziati ad apparire labirinti di abitazioni fittizie, fatte di tende, plastica, rami d’albero, rottami e pallet di legno. Due terzi delle persone che abitano nel campo-lager sono interi nuclei familiari. Complessivamente, il 34% sono bambini, scappati da guerre e conflitti armati, che da anni mettono in ginocchio la Siria, l’Afghanistan e l’Iraq. In questo campo si trova una piccola struttura che funziona da clinica, gestita da due Ong. Un’infermiera volontaria, una amica, partita insieme all’associazione Medical volunteers international, mi ha raccontato attraverso email, foto, video e tanti messaggi su Whatsapp la situazione disastrosa nella quale si trovano 19mila anime, prima traumatizzate dalla guerra, poi dalla noncuranza europea. Questa è la sua testimonianza.

«C’è sempre un vento gelido qui. Sempre più spesso vedo persone in ciabatte, con sandali aperti o infradito. Anche bambini piccoli. Non hanno scarpe. A volte nemmeno calzini. A tanti manca un sacco a pelo. Dormono avvolti da una coperta sottile sul pavimento freddo della tenda. Non hanno niente se non i loro vestiti. Tanti pazienti della clinica dove lavoro si lamentano di dolori diffusi su tutto il corpo. Non c’è da stupirsi, visto che passano 24 ore su 24 al freddo, costretti a dormire per terra. La maggior parte non si può nemmeno riscaldare con una tazza di tè caldo perché non hanno modo di bollire l’acqua». E ancora, a proposito delle condizioni igieniche: «In tutto il campo vi sono pochissimi impianti igienici. Tanti non hanno la possibilità di lavarsi i vestiti, se non a mano e con acqua fredda». L’infermiera mi racconta in che stato si trovano i servizi igienici: «Nel campo ci sono delle latrine, contenenti un bagno alla turca e un tubo dell’acqua fredda che funge da doccia. Tutto in un unico ambiente, non più grande di uno sgabuzzino. Lo scarico e la serratura della porta sono rotti e il pavimento pieno di escrementi. Qui si dovrebbero fare la doccia? E lavare i propri bambini?».

«In queste miserabili condizioni igienico-sanitarie si è diffusa la scabbia. Ogni giorno vengono circa dieci pazienti con questa malattia, i quali dicono che nella loro tenda ci sono altre 4-5 persone che soffrono della stessa patologia. Non possono neanche essere trattati adeguatamente perché l’istituzione sanitaria statale addetta posticipa regolarmente gli appuntamenti dei pazienti, in quanto carente di risorse materiali e umane. Il forte prurito che provoca la scabbia causa ulteriori ferite sulla pelle dei migranti. Per via delle cattive condizioni igienico-sanitarie, le ferite si infettano facilmente e si possono diffondere su tutto il corpo. Così, oltre al prurito, hanno delle ferite con pus dolorosissime. È terrificante!».

Le condizioni di grave disagio e lo stress psicologico che i migranti sono costretti a vivere hanno portato a un’escalation di violenza nel campo-lager di Moria. La volontaria continua a descrivermi ciò che pensavamo non potesse mai accadere in Europa: «Mi ricordo in particolare di una sera. Un ragazzo con molteplici lesioni da arma da taglio venne portato da noi, nella clinica. Era stato accoltellato da altri cinque uomini, con la sorella costretta a guardare la scena e che subì, subito dopo, un attacco di panico. Durante questo turno, ho assistito tre pazienti con lesioni e tagli da arma, un adolescente con tagli autoinflitti su tutta la pancia, un uomo con sangue dal naso a causa di una rissa. Tutto in poche ore». Il racconto continua: «Nel campo è difficile proteggere quel poco che si ha dal furto, le violenze sessuali avvengono con impunità, non esiste una pattuglia di polizia nel campo». Autolesionismo e tentati suicidi sono all’ordine del giorno. A queste persone non è dato nemmeno il diritto di protestare. La polizia fa uso sproporzionato di gas lacrimogeni contro manifestanti pacifici. L’infermiera mi ha raccontato di quante volte ha dovuto sciacquare gli occhi arrossati di donne e bambini colpiti dai gas durante le manifestazioni. Avvengono arresti arbitrari di chi scende in piazza e l’uso del manganello non è cosa rara.

Così che la pagina vergognosa europea possa continuare. Dove ha lasciato l’Europa il suo premio Nobel per la pace? Se l’Ue fosse veramente unita, i 27 Paesi che ne fanno parte, ridistribuirebbero i 19mila migranti del campo Moria, facendone così diventare 685 per ogni nazione. Non considerando il fatto che pochi anni fa erano molto meno numerosi. L’opportunismo, la mancanza di collaborazione e di unione di intenti, mostrano sempre di più, purtroppo, i loro effetti distruttivi: provocano realtà infime, parallele alla vita della comunità. Nascono nuovi problemi e luoghi fin troppo simili a un campo di concentramento.

L’articolo è tratto da Left del 14 febbraio 2020

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D’Alema: Un riformismo che balbetta è destinato a fallire

Gli uffici della Fondazione ItalianiEuropei di cui Massimo D’Alema è presidente affacciano su due degli scorci più belli della Roma rinascimentale: da un lato Campo de’ Fiori e dall’altro piazza Farnese. È un luogo, al terzo piano di un austero e un po’ appassito palazzo seicentesco, che è come sospeso fra terra e cielo sulla testa dei romani e dei turisti che tutti i giorni e a tutte le ore formicolano da quelle parti ignari di molte cose, tra cui la vicinanza di uno degli ultimi capi di un comunismo che non c’è più, né in Italia né altrove. Un “ex capo” che tuttavia riceve ancora, in questo spicchio sorprendente e saporito della Roma dei papi, una sempre nutrita schiera di potenti e di gran commis, di intellettuali e capitani d’industria che gli fanno visita, lo consultano, si confrontano, chiedono e danno “benedizioni”. Mangia ancora una banana per pranzo, Massimo D’Alema, e si aggira per questi stanzoni ampi e dai soffitti con le volte a crociera, le pareti affollate di libri, i tavoli lunghi e spaziosi e di design, come un sacerdote con i suoi riti, dedito alla scrittura e alla lettura di libri, più propenso a coltivare gli studi che l’agone politico. E per un combattente della politica e un maestro dell’arte del governo, per un capo che non ha mai rinunciato alla sua vocazione leaderistica, l’idea di una sua estraniazione dalla competizione in campo aperto stride rumorosamente con una storia e un presente che talvolta anche suo malgrado lo vedono ancora protagonista polemico e “informato dei fatti”.

Ma perché lei vuole a tutti i costi dare di sé questa immagine distaccata, quasi da stilita, del suo rapporto con la politica e i politici italiani?

Ma perché è così, è la verità. Mi sono messo in pensione da tutto questo: dalle polemiche, dalle grida, dalle competizioni sgangherate, ma non mi sono appollaiato su una colonna. Provo a dare il mio contributo alla politica e alla cultura di sinistra studiando, scrivendo, riflettendo senza dovermi ogni volta assoggettare al peggio che solo una certa politica sa esprimere.

Ma nel frattempo coltiva relazioni importanti, capeggia riunioni, si dice anche che dispensi consigli a certi suoi successori istituzionali in difetto di esperienza…

Non ci siamo capiti: non mi sono dimesso dalla politica, ma dalla praticaccia della politica del giorno per giorno. Ho fatto anche scelte dolorose per evitare di essere invischiato umanamente in un cattivo rapporto tra le persone e, diciamo pure, mi sento meglio e più libero di pensare e di dire. Lavoro molto, come sempre, e mi fa piacere se qualcuno mi chiede pure consiglio: non potendo dare cattivi esempi, provo a dare buoni consigli, come ci cantava Fabrizio de André….

D’Alema, che significato ha per lei la parola Socialismo?

È una parola grande che, storicizzandosi, ha in parte esaurito la funzione che ha avuto nel corso del ‘900. Quel movimento di idee e di uomini ha…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 28 febbraio

SOMMARIO

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Sparatoria e morti: il virus da cui non guariamo

A Napoli è morto un sedicenne e mentre lui moriva un ventitreenne si ritrovava con la vita rovinata per sempre. È successo quello che succede (troppo) spesso per le nostre strade e quello che continua a succedere a Napoli mentre una rapina andata male ha lasciato un ragazzo per terra, un carabiniere fuori servizio che si è ritrovato a difendersi sparando e risparando e un processo che si annuncia già doloroso.

Come se non bastasse i famigliari hanno distrutto un Pronto soccorso e alcuni spari sono stati sparati contro la caserma dei carabinieri. Scene da Far West e scene di una gioventù fragile che sembra abbiamo ormai dato per persa: la criminalità infantile e giovanile è una piaga che ha a che fare con il presente e soprattutto con il futuro del Paese ed è qualcosa che dovrebbe essere un’emergenza nazionale. E invece niente. Niente.

Poi ovviamente ci sono i giudizi, come al solito, fermi e convinti: si dice che un ragazzo di quindici anni con una pistola in mano che rapina Rolex è semplicemente una scheggia impazzita di un sistema che funziona e invece no, non funziona niente: ci sono zone in Italia in cui ci sono non bravi ragazzi figli di non bravi genitori che sono il risultato dell’assenza dello Stato. Ci sono medici che mentre lavorano al Pronto Soccorso si ritrovano a vivere scene degne di una serie televisiva sul narcotraffico.

C’è un virus grave di cui si parla poco e che sembra scomparso dall’agenda politica: la criminalità che infesta interi quartieri di diverse città. Tutti parlano di sicurezza eppure pochi sembrano avere voglia di analizzarne le cause. Oltre alla propaganda servirebbe un vaccino. Oltre alla repressione (che non sempre funziona) servirebbe un lavoro serio.

Buon lunedì.