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La democrazia compiuta sognata da Sandro Pertini

Sandro Pertini trascorse quattordici anni ininterrotti tra carcere e confino, dal momento del suo arresto nel 1929, quando era tornato in Italia dalla Francia sotto falso nome, al suo rilascio nell’isola di Ventotene, dopo la caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Fu privato della libertà a trentatré anni, la riacquistò a quarantasette. Gli anni più fecondi della vita di un uomo. Mai perse la sua fede nella libertà, nella democrazia, nel socialismo, giungendo fino a sconfessare la domanda di grazia che sua madre, Maria Muzio, sapendolo in pericolo di vita perché colpito da tubercolosi, aveva indirizzato al duce Benito Mussolini. Apparteneva per di più a quel Partito socialista che era il principale sconfitto dall’avvento del fascismo e gli si era avvicinato non nel momento del suo fulgore, ma quando veniva estirpato con la violenza dalla società italiana. Portato di fronte al Tribunale speciale del regime, era stato il solo che al momento della condanna aveva gridato “Viva il socialismo” mentre gli altri condannati gridavano in genere “Viva il comunismo” o “viva l’anarchia.”

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, Pertini fu uno dei capi della resistenza ai tedeschi e ai fascisti della Repubblica Sociale. Catturato a Roma e imprigionato a Regina Coeli, venne condannato a morte insieme all’altro socialista Giuseppe Saragat, anche lui futuro presidente della Repubblica. Il Psi riuscì a farli evadere con ordini di scarcerazioni falsi, grazie all’azione di Giuliano Vassalli e alla collaborazione del medico del carcere Alfredo Monaco e di sua moglie Marcella. Se non fossero riusciti ad evadere, i due esponenti socialisti sarebbero certamente finiti alle Fosse Ardeatine. Questo patrimonio di sacrifici, di fiducia e di coraggio, unito ad una personalità vigorosa e diretta, gli valse quel grande rispetto e considerazione che egli poté mettere a frutto quando, tra gli ottantuno e gli ottantotto anni, ricoprì l’altissimo incarico di presidente della Repubblica in un periodo difficilissimo della storia d’Italia.

La sua vita dall’incarcerazione fino alla Liberazione dell’Italia nel 1945 è il soggetto del film di Giambattista Assanti, Il giovane Pertini, che attualmente sta girando l’Italia, sia nelle sale cinematografiche che nelle scuole. Lo stesso Assanti ne ha curato la sceneggiatura insieme allo storico Stefano Caretti. Il ruolo del giovane Pertini è interpretato da Gabriele Greco, quello di Pertini anziano da Massimo Dapporto, mentre la madre di Pertini è Dominique Sanda, e la giovane fidanzata Camilla (una figura di cui non si conosceva l’esistenza) è Gaia Bottazzi. Lo stesso Caretti si è prestato a recitare una parte e così chi scrive, in una scena in cui mi trovo a dialogare con una drammatica Amelia Rosselli, magistralmente interpretata da Ivana Monti. In un momento in cui nelle giovani generazioni c’è molta confusione sul fascismo e sul regime del ventennio (“sì Mussolini con gli ebrei aveva sbagliato, ma in fondo la sua era una dittatura bonaria, quasi necessaria in un Paese disordinato come l’Italia…”) spiegare invece come per un delitto di opinione (propaganda antifascista) si poteva tarpare la vita di un uomo, è estremamente importante ed è da augurarsi che il film abbia un’ampia diffusione e conosca un largo successo. Ma chi era Sandro Pertini? Sandro Pertini è stato il frutto migliore che la tradizione del socialismo riformista italiano dei Turati, dei Treves, dei Matteotti, ha da…

L’articolo di Valdo Spini prosegue su Left in edicola dal 3 gennaio

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Dall’Europa alla Libia, come si esternalizza un crimine

Guardare le persone annegare in diretta. Dai nostri droni. Barconi rovesciarsi come in un’immagine fissa, ripetitiva, anestetizzata. In cerchio, navi europee, osservano. Senza intervenire. Quello che descriviamo ancora come una “tragedia”, è in realtà, in modo innegabile, una politica intenzionale, attentamente calcolata e pianificata con cura. Un crimine linguisticamente “legittimato” con l’invenzione ex novo di una popolazione bersaglio – “i migranti” -, categoria senza volto né nome, perseguitabili ed “eliminabili” per il loro solo desiderio di movimento.

Una necro-politica che ha avuto come conseguenze il massacro sistematico di 20mila bambini, donne e uomini, in soli tre anni e il trasferimento forzato e la schiavitù di 50mila sopravvissuti nei campi di concentramento libici. Si tratta in realtà di “crimini contro l’umanità”, come accusa un team di avvocati internazionali, capeggiati da Omer Shatz e Juan Branco, che ha presentato alla Corte penale internazionale (Cpi), un esposto che accusa l’Unione Europea e gli Stati membri per le politiche migratorie. Sono 242 pagine che analizzano ogni scelta, decisione, dichiarazione pubblica dei funzionari e dei politici dei Paesi membri e delle istituzioni comunitarie. Tutto nero su bianco.

Al cuore della tesi di Shatz e Branco finora incontestata, la consapevolezza delle autorità italiane e europee delle conseguenze letali dei loro atti e dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. I capi d’imputazione sono sostanzialmente due: ommissione di soccorso – l’Ue non ha intenzionalmente salvato i migranti in difficoltà in mare per scoraggiare gli altri (deterrence), pur consapevoli del crescente numero di morti a seguito del passaggio da “Mare Nostrum” a Triton (2014-2016); svuotamento del mare Mediterraneo delle Ong criminalizzate; e crimini per procura – l’Ue ha delegato alla sedicente Guardia costiera libica l’intercettazione e il refoulement dei migranti nei campi libici, commettendo crimini contro l’umanità: persecuzione, deportazione, detenzione, schiavitù, stupro, tortura e altri atti inumani. In altre parole, l’Ue, resa de facto alle teorie della destra populista sulla presunta “sostituzione etnica”, paga milizie criminali e warlords per bloccare a tutti costi l’arrivo delle persone migranti sulle sue rive. Mentre in un orwelliano incubo, l’Ue continua a proclamare che “salva” la vita dei migranti e migliora le loro vite…

Dopo otto anni di indagine la Corte Penale Internazionale (Cpi), che era stata creata proprio allo scopo di limitare la violenza politica degli Stati, non ha processato alcun alto responsabile europeo, anzi, continua ad indagare per gli stessi crimini, solo gli attori africani, lasciando ai loro omologhi bianchi europei piena impunità. Dopo l’esposto, la Cpi non ha finora aperto alcuna indagine negli archivi di Roma, Parigi e Berlino. Quello che gli avvocati pro bono si apprestano ora a fare: indagare la zona grigia della catena di commando – i circa 200 burocrati (anaffettivi) europei che hanno preso decisioni o applicato ordini per la morte di massa della popolazione bersaglio.

Al cuore della vostra tesi ci sono consapevolezza, premeditazione e intenzionalità delle autorità italiane e europee nella creazione a tavolino della rotta migratoria più letale del mondo, e delle conseguenze letali dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. Ci spieghi meglio cosa intendete per “consapevolezza” (awareness) nel caso di cui ci occupiamo?
Nel 2012 la Corte europea dei diritti umani (Cedu) aveva dichiarato illegali i refoulement diretti della Ue e dall’Italia. Nel 2014, Frontex ha dichiarato che il rispetto del principio di non respingimento escludeva i respingimenti verso la Libia. Nel 2015, l’Unhcr ha invitato tutti i Paesi ad astenersi dal respingimento in Libia, e ha invitato i civili in fuga dalla Libia ad entrare in altri Paesi. Ma dal 2016 ad oggi, l’Ue ha trasferito in Libia, con la forza, 50mila civili in pericolo in mare. Poiché i funzionari dell’UE e dell’Italia erano a conoscenza dell’illegalità dell’espulsione collettiva di civili bisognosi di protezione internazionale verso la Libia, l’Ue e l’Italia hanno dovuto farlo indirettamente, affidando questa pratica ad una terza parte. Sulla base del Memorandum italo-libico del 2017 e della Dichiarazione di Malta dell’Ue, l’Italia e l’Ue hanno ricostruito e stipulato un contratto con un consorzio di milizie (che oggi chiamiamo la Guardia costiera libica), in cambio di denaro e di sostegno di materiale, disposto a commettere crimini contro l’umanità di morte per annegamento, persecuzione, deportazione, detenzione, schiavitù, stupro, tortura e altri atti disumani.
 Una settimana prima della conclusione del memorandum d’intesa, un rapporto confidenziale dell’Ue ha descritto torture, abusi sessuali, prostituzione forzata, schiavitù e maltrattamenti nei campi libici. A gennaio 2017, l’ambasciatore tedesco in Niger in visita nei campi libici ha inviato alla cancelleria Merkel un cablo confidenziale che descriveva «le condizioni nei campi libici simili a campi di concentramento», dove «uccisioni di un numero imprecisato di profughi … torture, stupri, deportazioni nel deserto e richieste di tangenti sono avvenimenti quotidiani (ecc…)». L’8 maggio 2017 la Procuratrice generale della Corte penale internazionale, nel suo tredicesimo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sulla situazione in Libia, esprimeva la propria preoccupazione con riferimento alla natura e alla portata dei crimini presumibilmente commessi a danno dei migranti in transito nel Paese nordafricano, dichiarando di valutare l’apertura di un’indagine in merito. In particolare, facendo esplicito riferimento all’allarmante numero di persone arbitrariamente detenute in condizioni disumane, il rapporto riscontrava la commissione delle fattispecie di omicidio (killings), stupro e altre forme di violenza sessuale (rape and other forms of sexual violence), tortura e lavoro forzato (torture and forced labour) e tratta di esseri umani (human trafficking). Ad agosto 2017, pochi giorni dopo che le nave italiane erano attraccate a Tripoli per facilitare le operazioni della guardia costiera libica, il viceministro degli esteri Mario Giro osservava che «riportarli [i migranti ] in Libia, in questo momento, vuol dire riportarli all’inferno».

Persino l’architetto del MoU, Minniti ammetteva che esisteva un problema per le condizioni di vita di quelli respinti in Libia.
Riguardo a questa questione il Rapporto Onu per le esecuzioni extragiudiziali incalzava la Cpi di aprire un indagine sui crimini atroci contro migranti e rifugiati in Libia (15 agosto 2017). Funzionari dell’UE e italiani erano anche a conoscenza della loro precedente politica, delle conseguenze letali del porre fine a Mare Nostrum e di lanciare Triton (senza salvataggi). I documenti interni dell’Ue rivelano che hanno stimato che un cambiamento di politica avrebbe causato un maggior numero di vittime e lo hanno usato come un atto deterrente: cioè sacrificare la vita di alcuni per dissuadere altri dall’attraversare il mare. Ma gli attraversamenti non diminuivano e la mortalità è aumentata di 30 volte. In sintesi, gli attori europei e italiani erano pienamente consapevoli delle conseguenze delle loro decisioni per quanto riguarda 50mila civili respinti in Libia e 20mila altri che hanno perso la vita in mare. La stessa UE ha dichiarato nel 2017 che «siamo pienamente consapevoli delle condizioni inaccettabili, spesso scandalose, anche disumane in cui i migranti sono trattati nei campi di detenzione in Libia». Dimitri Avramopoulos, commissario europeo per la migrazione e la sicurezza, ha dichiarato che «siamo tutti consapevoli delle spaventose e degradanti condizioni in cui alcuni migranti sono detenuti in Libia». Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per la schiavitù dei migranti in Libia e il Presidente francese Macron ha sintetizzato la situazione come crimine contro l’umanità (novembre 2017). Lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi) richiede tre livelli di consapevolezza: il primo riguarda il piano generale, delle politiche dell’Ue in materia di migrazione, le quali mirano ad arginare i flussi migratori dall’Africa; il secondo è la consapevolezza della commissione rispetto all’atto proibito, per esempio la deportazione o l’omissione di soccorso che comporta l’uccisione dei migranti per annegamento; terzo, la consapevolezza delle conseguenze ulteriori che queste condotte omissive e commissive possono avere in circostanze ordinarie, per esempio la consapevolezza della conseguenza di una deportazione sono i crimini di tortura e stupri che avvengono nei campi di detenzione. Tutti e tre livelli di consapevolezza sono presenti in questo caso.

L’Ue non ha personalità giuridica (come lo Stato) ed è stata condannata con varie sentenze nel quadro del diritto internazionale e regionale in materia di diritti umani (sentenza Hirsi, 2012), ma sembra che oggi non ci siano limiti alla sua violenza di massa, e ci sia una crescente impunità?
Ancora peggio. Non solo il diritto internazionale dei diritti umani non riesce a proteggere la vita e i diritti dei migranti. Ma questo fallimento dei diritti umani gioca anche un ruolo chiave nello spingere gli Stati ad adottare politiche ancora più violente contro i migranti; sono proprio queste politiche che raggiungono la soglia di crimini atroci: crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Prima della sentenza Hirsi, il fatto che l’Italia abbia rispedito direttamente in Libia i richiedenti asilo ha violato “solo” i diritti di coloro che sono stati rimandati indietro. Dopo Hirsi, l’Ue ha dovuto disumanizzare e colpire l’intera popolazione dei migranti al fine di consentire sia la commissione dei crimini contro i suoi membri, sia di facilitare l’accettazione nell’opinione pubblica di questi crimini, definendoli una “tragedia umanitaria”. Quindi il discorso sui diritti umani viene usato per coprire i crimini più orribili.

Mentre da un lato uccide, dall’altro l’Ue continua a parlare di salvataggi e di diritti umani. La propaganda è sempre stata intrinseca alla violenza politica di Stato…

Esatto, allo stesso modo del crimine organizzato, per consentire il pieno funzionamento delle sue operazioni e legittimarli, l’Ue paga de facto sia partners legittimi sia criminali. L’Ue paga le milizie libiche per eseguire i crimini di cui è complice, ad esempio il respingimento e l’internamento nei campi di concentramento; mentre paga anche l’Unhcr e l’Oim per mantenere in vita i sopravvissuti e farli accettare di tornare nei loro Paesi; l’Ue finanzia l’operazione Sophia per addestrare le milizie libiche e gestire i droni per monitorare il refoulement e l’uccisione dei sopravvissuti che cercano di fuggire da questo inferno; le armi Ue sono utilizzate da Haftar contro i campi di detenzione per migranti, e l’Ue sostiene al contempo il governo di unità nazionale che gestisce quei campi; l’Ue finanzia persino le Ong e gli istituti politici per discutere delle sue orribili violazioni dei diritti umani; e infine l’Ue paga, più di chiunque altro, la Cpi per garantire che non sarà mai processata per le proprie politiche. Abbiamo quindi a che fare con un apparato di potere molto sofisticato, che utilizza mezzi materiali, finanziari, tecnologici e simbolici per razionalizzare al massimo le proprie azioni illecite, tenerle lontane dall’attenzione pubblica ed evitare le proprie responsabilità.

L’Europa, per la sua storia e la Shoah, non può oggi permettersi sul proprio territorio, i campi di sterminio, ma può spostare altrove, in Libia, nel deserto e nel mare, e delegando ad altri l’operatività del “crimine”, uccidendo per delega?

In primo luogo, anche durante la seconda guerra mondiale e durante l’Olocausto c’era un livello di coloro che premeditavano, progettavano e orchestravano la politica (i funzionari tedeschi) e di coloro che la eseguivano sul campo (principalmente polacchi e altre nazionalità dell’Europa orientale). Questa struttura di joint impresa criminale o di co-perpetrazione (corresponsabilità) in cui la politica è congiuntamente mandante e si serve di esecutori, è un classico nella legge penale internazionale. In secondo luogo, l’Ue ha capito che non solo questi campi non sarebbero tollerati sul suo suolo, ma che non possono nemmeno accadere nelle acque sue: i naufragi di Lampedusa del 2013 hanno portato a Mare Nostrum e la settimana nera di aprile 2015 ha portato ad un cambiamento di strategia dell’Ue: per mantenere i crimini contro i migranti lontani dall’attenzione pubblica, l’Ue li delega ad altri, e li copre con il finanziamento a organismi come Unhcr, Oim e persino la Cpi.

Secondo il giurista italiano Luigi Ferrajoli, assistiamo alla nascita di un nuovo“popolo migrante” (“Popolo costituente e migrante”, cfr. Manifesto 24.10.2018), che perché in movimento, non ha finora diritti e che l’esistente diritto penale internazionale, spesso impotente, fa fatica a proteggere… Non sarebbe necessario oggi fare emergere nuove categorie e strategie del diritto (nell’accezione della sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli)?

Non penso che abbiamo bisogno di più leggi né di più diritti. Abbiamo bisogno di far applicare la legge esistente e di rispettare i doveri dello Stato per garantire i diritti individuali. Ma dobbiamo ricorrere al diritto penale internazionale piuttosto che ai diritti umani. Attraverso la reificazione e la disumanizzazione, i migranti non sono una categoria di per sé, ma una categoria inventata per prenderli di mira (perseguitarli), tramite lla loro discriminazione, criminalizzazione, rifiuto e ultimamente il loro sterminio. Mentre c’è poco di comune tra i membri di questo gruppo “migrante” a parte la loro caratteristica di essere in movimento: provengono da diverse nazionalità, religioni, culture e contesti socioeconomici, le loro motivazioni per il transito sono diverse.

Vedete la possibilità, intanto, di un movimento di coscienza e di disobbedienza civile, europeo o mondiale, per fermare questa necro-politica di cui siamo i complici? In Italia per esempio rifiutando di pagare la quota delle nostre tasse usate per finanziare la sedicente guardia costiera libica e accordi bilaterali letali?
Non credo sia possibile. A differenza di altri gruppi perseguitati oggi nel mondo, i rifugiati, come scriveva la Arendt, per tutte le conseguenze pratiche sono di fatto apolidi. Non avendo alcuna autorità e potere politico, sono il perfetto capro espiatorio indifeso. Poiché la sinistra liberale ha adottato le opinioni della destra popolare secondo cui i migranti sono un “problema” e nonostante i numeri siano estremamente bassi, il loro arrivo una “crisi”, non vedo le condizioni per il sorgere di un tale movimento. Dobbiamo anche ricordare che i responsabili dei crimini europei contro l’umanità, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, non sono dei nazifascisti, ma “progressisti” con le loro politiche “progressiste” sull’immigrazione, non l’estrema destra ma i liberali seduti a Bruxelles. L’unico modo per fermare la loro campagna sistematica è quello di ritenere responsabili individualmente coloro che oggi godono dell’impunità. Ma per questo è necessario un tribunale penale internazionale davvero imparziale.

L’intervista di Flore Murard-Yovanovitch a Omer Shatz è uscita su Left del 3 gennaio 2020

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Il proibizionismo è un favore alle mafie, eppure…

MATTEO SALVINI GIORGIA MELONI GIOVANNI TOTI PRESIDENTE REGIONE LIGURIA

«Anche se è un sostituto imperfetto, la cannabis light produce danni alla criminalità organizzata per il 10-11% del loro fatturato», spiega a Left Luca Marola, creatore di Easy Joint, citando i dati di una ricerca della York University redatta da tre italiani (Do it yourself medicine? di Carrieri, Madio, Principe, 2019) da cui si ricavano anche le evidenti ricadute della cannabis light e di quella terapeutica sulle prescrizioni di oppioidi, ansiolitici, sedativi, antidepressivi ecc. «Lo stato di Washington ha visto crollare i prezzi nel mercato illegale per effetto della legalizzazione», segnala a Left Federico Varese, criminologo a Oxford e autore, fra l’altro, di Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori (Einaudi, 2011).

Pochi giorni fa, la presidente del Senato, la forzista Casellati, ha dichiarato inammissibile un emendamento alla manovra che avrebbe chiarito la legalità del mercato di quella sostanza, infiorescenze comprese, fino allo 0,5% di Thc, considerato il limite di psicoattività. Una norma attesa da tutta la filiera e che avrebbe fruttato mezzo milione di euro di accise all’erario, ma che s’è infranta contro la barriera del proibizionismo di Lega, post-fascisti, integralisti cattolici. La guerra alla droga ha voluto assumere i contorni surreali di guerra alla non droga. Perché quella light è “canapone”, lontanissima dall’immaginazione allegorica «messa a disposizione del pensiero dall’ebbrezza dell’hashish» di cui parlava Benjamin nei Passages. È marijuana che non sballa, rilassante (il Cbd, cannabinolo, agisce contro stress, ansia, dolore e insonnia) ma non psicotropa.

Così, mentre nel mondo anglosassone il dibattito è su quale modello scegliere per la legalizzazione, se quello dei “cannabis social club” oppure il “profit-driven” con le multinazionali a farla da padrone «e il rischio di ingresso di capitali illegali e di costituzione di una lobby che riduca il lavoro sull’educazione», avverte Varese, qui da noi la nuova guerra è…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 3 gennaio

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Omicidio Soleimani: «Un candelotto di dinamite in un barile di polvere da sparo»

«Qassem Soleimani stava pianificando un attacco sanguinario nei confronti degli Stati Uniti, per questo motivo è stato ucciso». Così il presidente statunitense, a Miami per un comizio degli Evangelici per Trump, ha giustificato l’assassinio del generale iraniano. The Donald ha proseguito dicendo che gli Usa non vogliono la guerra, non vogliono cambiare i regimi, ma come presidente non vacillerà mai nel difendere la sicurezza dei cittadini americani, un monito questo a tutti i terroristi che hanno intenzione di colpire il Paese.
L’assassinio del generale Soleimani, comandante delle Quds Force (Brigate Gerusalemme) e considerato l’uomo più potente del Medio Oriente, rischia di avere gravi conseguenze sui già instabili equilibri internazionali. L’Iran ha promesso vendetta e l’Ayatollah Ali Khamenei ha detto che gli Stati Uniti devono cominciare a «preparare le bare per i (loro) soldati», una dichiarazione a cui è seguita la decisione del Pentagono di inviare altri 3500 militari nella zona.

Soleimani, uomo del regime e amico intimo di Khamenei, è stato fondamentale con le sue Brigate per sconfiggere l’Isis in Siria, e già diversi analisti ritengono che la sua uccisione possa dare nuovo slancio a un possibile ritorno in auge del Califfato. Il generale è già diventato un martire non solo in Iran, ma in tutto il Medio Oriente, dove le persone sono scese in piazza con le effigi di Soleimani. Non sono mancate nemmeno le bandiere americane date alle fiamme.

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1212924762827046918

La Stars and Bangles è stata protagonista anche di un altro episodio: proprio negli istanti in cui Soleimani veniva ucciso dal missile lanciato dal drone Usa, il presidente Trump twittava la foto di una bandiera americana, senza alcun testo di accompagnamento. Twitter, una delle armi preferite di The Donald, si è però ritorto contro di lui: tra il 2011 e il 2013 aveva scritto svariati post in cui, tra le altre cose, accusava il presidente Obama di aver intenzione di scatenare una guerra con l’Iran per farsi rieleggere. Curiosa coincidenza, visto che anche Trump ora lotta per un possibile secondo mandato in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 3 novembre. Prima, però, il tycoon ha un altro scoglio da superare: il processo di impeachment che si aprirà nei prossimi giorni al Senato. Non è la prima volta che un presidente che rischia di essere messo in stato d’accusa utilizza gli attacchi militari per distrarre l’opinione pubblica. Nell’agosto del 1998 Bill Clinton, alla sbarra per il Sexgate in cui si indagava la sua relazione con Monica Lewinsky e le bugie dette dal presidente mentre era sotto giuramento, diede l’ordine di bombardare il Sudan e l’Afghanistan. Nel primo caso, la motivazione ufficiale fu che si credeva di colpire una fabbrica in cui si produceva gas nervino per Osama bin Laden, già noto all’intelligence americana ben prima dell’11 settembre 2001.

Bisogna chiedersi, a questo punto, perché Trump abbia deciso proprio ora di dare l’ordine di agire, quando sia Bush jr che Obama avevano deciso di lasciare in vita Soleimani, seppur considerato da Usa e Israele un terrorista, per timore di una pesante escalation di violenza nel Medio Oriente, nonché di ritorsioni contro gli Stati Uniti. Alcuni analisti, tra cui quelli di The Atlantic, parlano di un effetto «wag the dog», ispirandosi al titolo del famoso film Sesso e potere di Barry Levinson. Nella pellicola, un immaginario presidente riconducibile a Clinton decide di attaccare l’Albania come diversivo per coprire uno scandalo che lo coinvolgeva a pochi giorni dalle elezioni. Secondo Nicola Pedde (direttore dell’Institute for global studies), invece, l’uccisione di Soleimani si ripercuoterà con forza contro Washington, perché ora a governare l’Iran ci sarà la parte peggiore del regime. Di certo, da Teheran arrivano già le prime minacce di ritorsione: Khamenei ha detto che le forze iraniane colpiranno quando lo riterranno più opportuno e che sono presenti in posti in cui gli Usa non immaginano nemmeno.

L’aumento della tensione preoccupa non poco il resto della politica americana. Mentre Donald Trump si vanta della giustezza della sua decisione e il segretario di Stato Pompeo definisce (erroneamente) Soleimani uno degli architetti dell’11 settembre, la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi prende nettamente le distanze dalla decisione della Casa Bianca, affermando che questa «è un’azione di guerra. Il Congresso andava consultato» e che «la priorità dei leader Usa è difendere le vite e gli interessi degli americani, non di metterli a rischio con atti provocatori». Dura anche la reazione dei candidati Dem alle primarie: Joe Biden, ex vicepresidente di Obama, ha dichiarato che «Trump ha lanciato un candelotto di dinamite in un barile di polvere da sparo». Seguono questa linea anche gli altri candidati Dem, secondo i quali una nuova guerra sarebbe vicina e che l’essere un assassino non giustifica l’uccisione del generale iraniano.

Figura oscura, cresciuto in campagna, a vent’anni Soleimani si è unito ai pasdaran, le guardie rivoluzionarie iraniane, ha partecipato alla guerra Iran-Iraq cominciando così la sua scalata verso i vertici militari. Soleimani era più di un generale, era colui che teneva le fila dei precari equilibri in Medio Oriente. Sembrava molto plausibile l’opzione di una sua candidatura alla presidenza dell’Iran nel 2021 contro l’attuale ministro degli Esteri, il riformista Zarif. Nonostante, infatti, il generale agisse nella penombra, i suoi consensi in patria erano molto alti. La sua brutale uccisione, in seguito alla quale il suo corpo è stato riconosciuto solo grazie all’anello che portava, non farà di certo piacere a chi già odia gli Stati Uniti nell’area mediorientale. Una mossa che contraddice la volontà, tanto sbandierata dal presidente Trump, di volersi disimpegnare da tutti i teatri di guerra in cui sono coinvolti gli Usa. Presto capiremo quali saranno le conseguenze della scelta di voler soffiare sul fuoco di Teheran.

Gramsci: L’impegno politico va insieme alla capacità d’amare

Il 14 ottobre 1926 Antonio Gramsci scrisse una lettera a Giulia in cui scherza su un assurdo concorso del quotidiano Il Piccolo intorno ai diversi gradi di felicità delle donne sposate, chiamando in causa Alexsandra Kollontaj, la rivoluzionaria russa che auspicava un cambiamento nelle relazioni tra uomini e donne al tempo del sogno socialista. Nello stesso giorno Gramsci scrisse un’altra lettera, di ben diverso tenore, indirizzata a Palmiro Togliatti, a Mosca, affinché recapitasse al Comitato centrale del partito comunista russo il suo chiaro messaggio: non fate una scissione adesso perché avete una responsabilità enorme nei confronti delle masse popolari e degli altri partiti comunisti.

In questo contesto storico si dipana la storia d’amore tra il comunista sardo e la giovane Giulia Schucht, conosciuta in Russia alla fine del 1922, mentre Gramsci si trovava a Mosca per partecipare ai lavori dell’Internazionale comunista. Dal 1922 al 1937, l’anno della morte di Antonio dopo undici anni di carcere, i due vissero uno straordinario e intenso rapporto da cui nacquero due figli. A parte i brevi periodi in cui poterono frequentarsi, tra il soggiorno di lui a Mosca fino a quasi tutto il 1923 e quello di lei a Roma nel 1925, la loro storia d’amore si manifestò tutta attraverso uno scambio epistolare.

Può una raccolta di lettere d’amore contenere anche un significato politico dirompente? Leggendo le lettere d’amore, fervide e appassionate, di Antonio Gramsci a Giulia Schucht, si ha l’impressione di ritrovare…

L’articolo di Giuseppe benedetti e Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 3 gennaio

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L’Australia va in fumo mentre il governo nega il climate change

In this image dated Dec. 30, 2019, and provided by NSW Rural Fire Service via their twitter account, firefighters are seen as they try to protect homes around Charmhaven, New South Wales. Wildfires burning across Australia's two most-populous states Tuesday trapped residents of a seaside town in apocalyptic conditions, destroyed many properties and caused fatalities. (Twitter@NSWRFS via AP)

In Australia fuoco e fiamme hanno ricominciato a divampare. Se durante le feste natalizie gli incendi che proseguivano da luglio scorso avevano concesso una tregua, il pericolo ora è tornato. Dall’inizio della stagione dei roghi, a settembre, sono morte 18 persone. E solo nell’ultima settimana almeno 17 persone sono state dichiarate disperse. Intanto nel Paese continua un’accesa discussione attorno alle conseguenze del climate change e sulle mancanze del governo di centrodestra per mitigarne e prevenirne gli effetti.

Già a novembre si gridava alla “catastrofe”: un milione di ettari di terreno erano stati bruciati negli stati orientali del New South Wales e del Queensland, che avevano dichiarato lo stato di emergenza. Proprio il New South Wales aveva catalogato appunto come “catastrofico” il rischio incendi, per la prima volta nei dieci anni in cui viene usato l’attuale sistema di classificazione.

La notte di Capodanno, nello Stato di Victoria, in migliaia si sono dovuti rifugiare in spiaggia, mentre le fiamme lambivano la costa. Nonostante gli interventi da parte del governo conservatore in carica dal 2013 – e ora in crisi di consensi – come la creazione di corpi volontari di vigili del fuoco, la recente scelta di premiare con 4mila dollari i volontari attualmente impegnati a spegnere i roghi, o l’invio di aerei e navi militari per trasferire le persone intrappolate sulla costa, la portata degli incendi non sembra scemare.

È proprio il New South Wales, lo Stato più popoloso, ad aver pagato per ora lo scotto della tragedia: 15 sono le vittime accertate in questa area, tra le 18 totali, e circa 1.300 le case devastate. E poi ci sono 17 persone, tutt’ora disperse, tra il New South Wales e lo Stato di Vittoria. Le fiamme si sono spinte fino a ricoprire un’area di circa 50mila chilometri quadrati (più di sei volte la superficie bruciata nel 2018 dagli incendi in California). I roghi stanno inoltre mettendo in crisi l’ecosistema del Paese: sarebbero 480 milioni gli animali morti dall’inizio dell’emergenza, secondo una stima dell’Università di Sydney. Moltissime strade sono state bloccate dalle code di turisti e residenti obbligati ad abbandonare le case e gli alberghi seguendo le istruzioni delle autorità.

L’allarme maggiore deriva dall’evidenza che nel 2019 gli incendi hanno cominciato a propagarsi già da luglio, ossia almeno tre mesi prima del solito. Infatti, la stagione del fuoco sarebbe dovuta cominciare ad ottobre. Tema centrale ritorna, così, il cambiamento climatico e l’inefficacia del governo nell’implementazione di politiche atte a combatterlo. Difatti, gli esperti hanno riconosciuto che le cause principali dei focolai sono la siccità che ha colpito la parte orientale del continente tre anni fa e la vegetazione secca che ne è derivata, oltreché l’innalzamento delle temperature. È del 18 dicembre la rilevazione del giorno più caldo mai registrato nel Paese, con una media termica di 41,9 gradi. In aggiunta a questi primi fattori (anche nell’ultima settimana sono stati registrati più di 40 gradi in tutti gli Stati australiani), vi sono i forti venti, principali agenti nella propagazione delle fiamme.

Già a dicembre scorso alcuni ex vigili del fuoco avevano domandato al governo di prendere in considerazione misure contro il riscaldamento globale, in modo da intervenire anche sugli incendi in aumento. Il primo ministro Scott Morrison, però, di tutta risposta aveva portato la famiglia in vacanza alle Hawaii, e sarebbe tornato in patria solo dopo la morte di due pompieri e una valanga di critiche ricevute. Morrison non avrebbe, comunque, intenzione di modificare le politiche della coalizione liberal-conservatrice pensate per affrontare l’emergenza climatica.

La politica dell’attuale governo prosegue sulla scia di quella dell’ex primo ministro liberale John Howard, e nega di fatto l’urgenza degli allarmi che si levano dagli ambientalisti. Anche l’odierno vicepremier Michael McCormack non crede al collegamento tra i roghi, il cambiamento climatico e l’industria del carbone australiana. La coalizione di governo ha abolito la tassa sul carbone introdotta dal precedente esecutivo laburista, istituendo un fondo da 3,5 miliardi di dollari australiani (corrispondenti a 2,2 miliardi di euro) da dividere tra chi accetta di ridurre le emissioni. Il carbone è, comunque, al secondo posto tra le esportazioni del continente ed è utilizzato per generare quasi due terzi dell’elettricità.

Sta di fatto che le fiamme non accennano a diminuire e anche Sydney è in pericolo. L’aria in città è tra le più inquinate del pianeta, e in ampie zone del Sud Est del Paese il cielo è grigio, arancione e ocra a causa delle ceneri sollevate dagli incendi. Il fumo e la cenere sono arrivati fino in Nuova Zelanda, dove le nevi e i ghiacciai sono ricoperti da uno strato di polveri marrone. Basti pensare che la disponibilità di mascherine e altri dispositivi per aiutare la respirazione è terminata in moltissimi negozi del Paese. Secondo gli esperti, la devastazione degli incendi è destinata a continuare: ecco perché, per il governo, trovare delle misure che contrastino il cambiamento climatico è ormai un obbligo più che un’opzione.

Idolatria

L’idolatria delle rock star nelle fasi adolescenziali risponde alla necessità di coltivare una dimensione che possa andare oltre quella della propria identità non ancora definita.

Negli adulti, invece, l’idolatria risponde alla necessità di chi deve colmare le frustrazioni e i fallimenti, spesso di chi vive troppo a lungo nell’emarginazione o comunque nella difficoltà, ma anche semplicemente in una esistenza piatta e priva di significative gratificazioni.

Si affida al proprio idolo una funzione benefica, si cerca il contatto fisico e non è infrequente che l’adulto idolatrante possa travalicare ogni regola della comune distanza tra individui, tanto più se il proprio idolo si presenta addirittura come un intermediario del divino.

Gli idoli, dal canto loro, sanno come nutrire i fan.

Stringere le mani a folle plaudenti è la modalità più comune per mantenere alta la soglia della idolatria, e poiché le folle, per loro natura, sono irrazionali, occorre munirsi di pazienza e di guardie del corpo.

Bergoglio non ha solo le guardie del corpo ma cecchini pronti a sparare da postazioni nascoste, dunque non rischia mai nulla in mezzo alla folla perché ogni percorso è attentamente pianificato in termini di sicurezza.

Per quanto i credenti si approprino del loro Gesù, mangiandolo simbolicamente, in una infinita parcellizzazione, nei rituali ripetuti della teofagia, non possono sottrarsi alla venerazione dell’uomo che lo rappresenta, perché ritengono che Gesù, nella sua interezza, alberghi nel corpo di Bergoglio attraverso l’intermediazione di un’altra divinità denominata Spirito Santo.

Dunque avere un contatto fisico con Bergoglio, nelle manifestazioni delle idolatrie, significa avere un contatto fisico con il proprio dio.

Bergoglio lo sa, è un gesuita, e non può ignorare queste banali dinamiche di psicologia di massa, sicché si mostra fintamente sorridente, fintamente socievole, fintamente proteso verso i poveri sudditi della sua monarchia, almeno fino a quando restano stipati dietro le transenne a credere felici che lui sia fatto di essenza divina.

Mentre stringeva le mani ai sudditi, una credente lo ha strattonato e Bergoglio, esageratamente stizzito, si è svincolato dalla presa molesta e ha dato uno scapaccione sulla mano della donna.

Bergoglio è consapevole che i suoi sudditi credono che lui abbia una natura divina, ma quel gesto è preoccupante per le prospettive parassitarie della sua monarchia, perché con quel gesto ha rotto un incantesimo, ha detto a tutti che lui, di divino, non ha proprio nulla, ha detto al mondo intero che è un vecchio di ottantatre anni infastidito da una donna molesta, e, ha detto a tutti che le sue reazioni sono identiche a quelle di un vecchio repulsivo qualsiasi, e non del Vicario di Gesù.

Insomma, il “porgi l’altra guancia a chi ti fa del male”, che costituisce da duemila anni uno dei pilastri centrali della induzione alla passività e remissività delle masse, in un secondo si è tradotto in “dai pure una sberla a chi di certo non vuole farti del male, ma ti adora in modo molesto”.

Che il clero faccia in privato il contrario di ciò che sostiene in pubblico, è un dato acquisito, ma questo episodio contiene una novità curiosa perché ha mostrato in pubblico un aspetto che avrebbe, semmai, dovuto mantenersi celato.

Quanto accaduto potrebbe avere delle ripercussioni economiche per le casse vaticane: non si finanzia una favola se il protagonista ti spoilera che non è affatto un dio ma un semplice ottantenne stizzito.

In una società abituata a uomini che picchiano, violentano, uccidono le donne come piovesse, un uomo che si svincola dalla presa di una donna dandole un colpo su una mano, non è stato un bel vedere, e se ne è accorto persino lui quando è corso ai ripari per chiedere pubblicamente scusa.

La massa plaudente, ivi inclusi atei devoti e cattocomunisti, ha provato vagonate di sentimenti negativi di fronte alla donna che lo ha strattonato, colpevole di averlo provocato, perché in sintesi “se l’è cercata”.

Nessuno ha pensato a quanto tempo costei aveva aspettato per toccare il suo dio.

Nessuno ha pensato a quanto possa essere stato mortificante per quella poveretta essere stata oggetto di una reazione di stizza da parte del suo dio.

Nessuno saprà se ha versato lacrime per aver ricevuto un rifiuto dal suo dio.

Nessuno si è soffermato a valutare come e chi ha fomentato e sfruttato la sua idolatria al punto da farle perdere il contenimento dei suoi gesti.

E nessuno ha pensato a quanto potrebbe essere stato devastante per quella donna essere redarguita da colui che per lei rappresenta la personificazione del bene, della speranza, della trascendenza, della divinità infallibile.

Ma non è mai troppo tardi, forse questa vicenda potrà farle aprire gli occhi perché l’infallibile si è disvelato fallibile, e ha mostrato il volto arcigno della sua autenticità.

La nascita della sinistra

©William Santero e Daniele Carlevaro -AULAMAGNA 2015

La ricostruzione della sinistra, questa attività che ormai in tanti danno per essere qualcosa di inutile, legato ad una idea utopica di società, è qualcosa che forse va chiamata in un altro modo. Si tratta in realtà della costruzione ex novo e non di ricostruzione di qualcosa. Va infatti pensato che la sinistra, con le sue varie e diversissime forme in cui si è manifestata nel corso di oltre due secoli, sia qualcosa che in realtà deve ancora nascere. I due secoli sono chiaramente quelli che iniziano con la Rivoluzione francese e con il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali. Quelli che oggi nessuno (o quasi nessuno) si sogna di mettere in discussione, almeno in principio. In particolare, la libertà e l’uguaglianza che sono a fondamento dei diritti universali dell’essere umano che a loro volta sono a fondamento delle carte costituzionali di gran parte dei Paesi del mondo.

Va però compreso che quelle due parole, da sole, non sono sufficienti ad affermare un diritto. Perché non spiegano su cosa si fonda quel diritto e quale sostanza esso abbia, di cosa sia in realtà fatto. Sicuramente c’è nella Rivoluzione francese e nei principi che porta un’universalità che prima non c’era, quando afferma che quei diritti riguardano tutti gli uomini. Peccato che, appunto, quelle affermazioni avessero dimenticato le donne e i bambini… e riguardassero soltanto gli uomini, intesi come esseri umani di sesso maschile. L’universalismo del diritto era basato sull’idea che ci fosse una caratteristica comune a tutti gli uomini che però non era sviluppata nelle donne e nei bambini. Questa caratteristica sarebbe la ragione. Allora così come ciò che faceva i cittadini romani uguali tra loro e più uguali di quelli che erano schiavi era per l’appunto essere civis romanus, allo stesso modo ciò che farebbe uguali tra loro tutti gli esseri umani sarebbe la ragione. Chi non ha quella caratteristica comune non è uguale agli altri, è di fatto un essere sicuramente inferiore che come tale può essere trattato.

La logica porta con sé che non essendo veramente un essere esso è di fatto un non essere. Non esiste infatti compromesso per la ragione. L’uguaglianza tra pochi pari ha come conseguenza che la libertà è qualcosa di riservato solo alla élite degli uguali. Non ha senso pensare ad una libertà per gli altri, perché essi in realtà non sono. Nel corso del XIX secolo, la grande rivoluzione portata dalle idee della Rivoluzione francese nella forma degli Stati e nel riconoscimento di nuovi diritti dove non ce n’erano e contemporaneamente l’impetuoso sviluppo delle economie in conseguenza delle innovazioni portate dalle straordinarie scoperte scientifiche da Newton in poi, determinano un generale aumento del benessere e la formazione di quella che si sarebbe poi chiamata la classe media. Ma accanto a questo sviluppo c’è anche la comparsa della classe operaia.

Enormi quantità di persone si spostano dalle campagne alle città, che diventano sempre più grandi, attirate dalla possibilità di maggiore guadagno che nel lavoro dei campi ma anche, evidentemente, dall’idea di un futuro diverso, di un miglioramento delle proprie condizioni di vita. È in questo periodo che si sviluppano le idee che poi diventeranno fondanti per la sinistra attuale. Sono idee che si sviluppano come opposizione a ingiustizie evidenti, a negazioni di quei principi di libertà e uguaglianza affermati, seppur con tutti i limiti detti prima, dalla Rivoluzione francese. Opposizione ad una universalità affermata ma non rispettata veramente. L’analisi politica, la ricerca di strumenti per opporsi, lavora sugli aspetti economici e dimentica che l’universalità dei diritti di libertà e uguaglianza della Rivoluzione francese era basata sulla universalità della ragione, su una cosa che sarebbe caratteristica esclusiva dell’essere umano e comune a tutti.

In altre parole, la base della Rivoluzione francese, del suo straordinario successo, era prima di tutto un’idea di essere umano. La società, che poi è quella in cui noi tutti viviamo tutt’oggi, è conseguenza di quell’idea di essere umano. Io credo che il grande errore sia non aver compreso questo. È necessario prima avere un’idea di essere umano, di quale è la verità della sua realtà. Solo in conseguenza di questo è possibile pensare ad un modello di società diverso. È facile vedere che le forze politiche di destra hanno una visione dell’essere umano come violento e sopraffattore. Quella sarebbe la natura umana e la politica quindi deve prendere atto di questa natura e agire coerentemente. Si potrebbe quindi ingenuamente pensare che le forze politiche di sinistra non la pensino così, che pensino ad una realtà umana che sia al fondo buona. In realtà non è così.

Purtroppo, il pensiero di sinistra non ha compreso questo passaggio fondamentale e si è lasciato ingannare sul pensiero sulla natura umana. Infatti, anche a Sinistra si pensa ad una realtà umana che al fondo sarebbe cattiva e il cui unico scopo sarebbe quello di sfruttare e sopraffare gli altri. Se questo è il pensiero sull’essere umano, l’uguaglianza sarebbe qualcosa che in realtà non esiste ma che va costruito. Qualcosa di artificiale di cui lo stato è garante. E il motivo è debolissimo: perché sarebbe più giusto così. L’uguaglianza diventa così una cosa astratta che non avrebbe in realtà alcun fondamento. Non si capisce da cosa deriverebbe l’uguaglianza. E questo può portare (e ha portato) alle distorsioni estreme delle giacchette grigie, per cui saremmo uguali solo quando vivremo tutti vite materialmente uguali…

Tornando al punto di partenza è allora evidente cosa sia necessario fare per costruire la sinistra. È necessario prima di tutto comprendere la realtà umana. Come essa si forma, come si sviluppa e quale sia il suo scopo. Dobbiamo iniziare comprendendo che ciò che fa l’essere umano diverso dagli animali non è la ragione. Se definiamo infatti la ragione come ciò che serve per l’utile e la sopravvivenza, tutto ciò che permette all’individuo di affermare la propria esistenza nel mondo, è banale osservare che l’essere umano ha delle caratteristiche che non sono ragione in quanto non servono per l’utile e la sopravvivenza. Bisogna quindi considerare anche questa realtà in ciò che fa l’essere degli esseri umani e non soltanto la ragione. Per far questo bisogna prima liberare il proprio pensiero da tante idee che la nostra società e la nostra cultura considera come assolute e incontestabili. Bisogna fare ricerca sulla realtà umana. Una ricerca che la politica e i politici non fanno mai. Il pensiero politico sugli esseri umani non può esaurirsi in una astratta questione morale che dice “non si ruba” o peggio appiattirsi sul pensiero cristiano-cattolico per quello che riguarda la realtà umana.

Questo giornale ha ospitato ogni settimana per 11 anni il pensiero e la ricerca di Massimo Fagioli, uno straordinario psichiatra che nella sua vita ha fatto una ricerca originalissima sulla realtà del pensiero umano e la sua origine. Nel 1965 ha scoperto

L’articolo di Matteo Fago prosegue su Left in edicola dal 3 gennaio

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Anno nuovo, un Paragone

Due giorni due di giornalismo, parliamo dell’1 e del 2 gennaio 2020, e subito si scorge la dimensione di quello che sarà.

A capodanno si discute di un ex ministro, quello che annusa ogni presepe di provincia e che sbaciucchia ogni rosario o crocifisso che gli venga a tiro, che prende in giro il Papa. Lui, Salvini: il molesto feticista del cattolicesimo (interpretato alla sua maniera) diventa improvvisamente laico e difende la satira contro Papa Francesco che ha recitato per i suoi social insieme alla sua fidanzata. Uno legge di questa vicenda e pensa “no, dai, non può interessare a nessuno una notizia del genere” e invece diventa l’apertura dei siti di informazione e il segretario del Pd Zingaretti trova addirittura il tempo e il modo di rispondere. Il segretario del Pd, quello che ancora tace sui decreti Sicurezza. Ohibò.

La seconda grande notizia dell’anno (iniziato alla grande, si direbbe…) è che Paragone viene espulso dai probiviri del Movimento 5 stelle e il solito Di Battista ne approfitta per recitare la sua parte da bastian contrario. Dice Di Battista che Paragone è molto più grillino di tanti altri grillini e dicendolo dimostra che non solo il Movimento 5 stelle non è diverso da qualsiasi altro partito, ma che nel Movimento 5 stelle siamo già addirittura alla gara del più puro che ti epura. Nel momento in cui si decide di rilasciare la patente del vero grillino significa che ormai si è alla frutta. Ora a rigor di logica si potrebbe dire quindi che Di Battista sia fuori dal Movimento 5 stelle, no? Oppure semplicemente che questi si comportano esattamente come gli altri con la sola differenza di essere terribilmente più sgraziati.

Le prime due notizie di politica di quest’anno sono due notizie che andrebbero infilate nelle pagine delle curiosità e invece sono diventati i temi fondamentali. Mi raccomando: l’importante è non parlare di politica. Mai. In compenso in Spagna si preparano a votare un programma di governo che sarebbe da mandare a memoria. Ma che palle, ‘sti programmi, eh.

Buon venerdì.

La sinistra che verrà

Le piazze italiane che sul finire dell’anno scorso sono state invase da giovani donne e giovani uomini riuniti nel movimento delle sardine ci dicono, in modo inequivocabile, che esiste una foltissima popolazione che non condivide affatto il discorso politico cavalcato dalle destre populiste e xenofobe fatto di violenza verbale e slogan tanto semplici quanto privi di intelligenza. Le sardine dimostrano che c’è una popolazione che ha voglia di incontrarsi nelle strade e nelle piazze, che rifiuta una descrizione della realtà e delle persone falsificata e che ha urgente bisogno di contarsi e di gridare «noi non ci stiamo». E una sinistra che verrà – si spera prima o poi – non può perdere questa ennesima occasione. Sembra infatti che alla politica manchi capacità di analisi della realtà e di intercettare interessi e desideri del proprio corpo elettorale. Nei buoni propositi del 2020 bisognerebbe che, oltre a mettere da parte leaderismi personali e tendenze scissionistiche, la sinistra cominciasse a leggere o rileggere alcuni autori che studiarono, teorizzarono e lottarono in quei terribili anni Venti del ‘900 che videro in Italia e in Europa l’affermazione dei partiti nazi-fascisti e la fine del sogno rivoluzionario sovietico. Le tragiche analogie storiche tra ieri e oggi, oltre a preoccuparci, dovrebbero infatti stimolarci a studiare quel passato per almeno tentare di non ripetere gli errori di un tempo.

Ripescare quei pensatori che riflettevano sui motivi di una crisi politica e sociale che la sinistra di allora non seppe interpretare, facendosi strappare di mano una società civile desiderosa di essere compresa nelle sue angosce del dopoguerra e spianando la strada all’avvento dei populismi totalitari. E allora prima di tutto bisognerebbe andare a rileggere la Rivoluzione liberale di Piero Gobetti che rifletteva proprio sulla «anomalia italiana» che non aveva saputo completare il proprio risorgimento e aveva mantenuto una divisione nord-sud che faceva del nostro stivale una penisola troppo eterogenea dal punto di vista economico, culturale, linguistico per poter parlare di sentimento italiano (oggi potremmo domandarci perché si fa tanta fatica a “sentirci europei”). A un secolo e mezzo dall’avvenuta unità d’Italia scopriamo ancora che il sud è nettamente scollato dal resto della penisola e sta letteralmente sprofondando in termini sia sociali che economici. E Gobetti, a soli vent’anni, rifletteva sulla mancanza di “autonomia” degli italiani e sul loro bisogno di mettersi sotto l’ala protettiva dell’uomo forte, del padre padrone. Gobetti allora insisteva sulla capacità di indignazione che andava instillata al posto di quello spirito di rassegnazione tipicamente italiano. A tal fine l’intellettuale torinese portò avanti una vera e propria mobilitazione culturale (a soli vent’anni aveva diretto un giornale, fondato una rivista e una casa editrice) perché la lotta per la libertà non è qualcosa di astratto, ma qualcosa che si radica nelle coscienze degli esseri umani. Per lui la rivoluzione doveva avvenire a partire dal basso, dagli individui e non essere proposta dall’alto, dalle mani di un partito. Una rivoluzione che doveva essere guidata dalla classe operaia del nord d’Italia perché secondo lui l’immaturità economica andava di pari passo con una maggior adesione al fascismo.

Ecco perché si incontrava con il pensiero di Gramsci che allora capeggiava l’occupazione delle fabbriche torinesi. La guerra al fascismo si compiva per entrambi a suon di intelligenza e cultura. Occorrerebbe recuperare poi quella tradizione socialista limpida e fiera di Giacomo Matteotti che osò sfidare la violenza e l’antiparlamentarismo di Mussolini e delle sue camicie nere. Quel Matteotti che fu lasciato solo dai compagni socialisti che dopo il suo assassinio attuarono la “secessione dell’Aventino” lasciando gli scranni del Parlamento vuoti in segno di protesta, ma, di fatto, sgomberando il campo al regima fascista. Rileggere Salvemini e le sue analisi sul sud d’Italia e gli scritti su Le origini del fascismo in Italia e poi ancora Carlo Rosselli e il suo socialismo liberale che si interrogava se il marxismo e la sua filosofia non ingabbiassero troppo la storia in un determinismo che allineava i fatti secondo schemi e previsioni meccaniche che perdevano di vista l’azione imprevedibile degli esseri umani. Autori che facevano incontrare tradizione socialista e tradizione liberale all’insegna di un pensiero laico che osteggiava fortissimamente qualsiasi potere burocratico e religioso, che pretendeva unità nella lotta antifascista e fermezza assoluta di posizioni. Quella tradizione che persistette fino al secondo dopoguerra nel Partito d’azione e in autori quali Guido Calogero, Norberto Bobbio, Altiero Spinelli…, ma che fu poi messa fuori gioco dai due grandi Moloch del Partito comunista di Togliatti e della Democrazia cristiana che monopolizzarono l’intera scena politica dagli anni Cinquanta fino al crollo del muro di Berlino. Oggi dopo la caduta delle ideologie risulta invece fecondo andare a studiare chi quelle ideologie le aveva criticate e, al tempo stesso, si era posto una domanda fondamentale: “Dove abbiamo sbagliato?”. Riscoprire quei pensatori liberi, privi di collusioni con i poteri forti, coerenti nella vita e nel pensiero, e proprio per questo messi a tacere, è un dovere intellettuale e restituisce un’identità culturale a chi voglia mettere in campo, contro questa destra becera, ignorante e violenta, un discorso politico alternativo.

L’editoriale di Elisabetta Amalfitano è tratto da Left in edicola dal 3 gennaio

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