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La versione di Sankara

«Non si può effettuare un cambiamento fondamentale senza una certa dose di follia. In questo caso si tratta di non conformità: il coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule, il coraggio di inventare il futuro. Ci sono voluti i folli di ieri per permetterci di agire con estrema lucidità oggi. Voglio essere uno di quei folli. Dobbiamo avere il coraggio di inventare il futuro». In questo brano di un’intervista realizzata nel 1985 che potremmo considerare la sua epigrafe, Thomas Sankara, leader rivoluzionario di sinistra che rinominò l’Alto Volta in Burkina Faso, ben sintetizzò il cuore della propria eredità storica e intellettuale.

Presidente del Paese africano dall’83 all’87, politico in prima linea contro la povertà, militare difensore della pace e dei diritti umani, chitarrista in gioventù, la «follia» di cui parlò nell’intervista, naturalmente, non è da intendersi nell’accezione patologica del termine. Indica piuttosto il rifiuto di una certa razionalità. Quella, spietata, del pensiero neocolonialista (e neoliberista) che nega l’uguaglianza degli esseri umani ma subordina coloro i quali vivono nel Terzo mondo, legittimando il furto dei loro beni materiali e, in definitiva, della loro possibilità di realizzarsi. In questo senso, il termine “follia” indica un ostinato ed appassionato impegno nel pensare fuori dagli schemi imperialisti e violenti, le «vecchie formule», per rimettere le persone e la loro uguaglianza al centro della politica. Un insegnamento straordinariamente attuale. Al pari – come vedremo – di molti altri che hanno costellato la sua particolare esperienza rivoluzionaria.

Uno dei gesti più significativi di capitan Sankara nel modificare l’immaginario dei cittadini, per tagliare definitivamente i ponti col passato coloniale, fu il cambiare nome al Paese in «Burkina Faso», ossia «Terra degli uomini integri». Modificò pure bandiera ed inno nazionale. Volle ricreare un Stato autonomo e libero dalle ingerenze predatorie straniere. Nelle sue celebri orazioni alle Nazioni unite sono sferzanti le critiche alle forze dominatrici occidentali, e non solo. Memorabile è il suo faccia a faccia col presidente Mitterrand, accolto in modo ben poco “diplomatico” nella ex colonia francese nel 1986, con un discorso che denunciava la compiacenza di Parigi verso il regime dell’apartheid in Sudafrica. Ma Sankara ebbe a condannare anche l’invasione sovietica in Afghanistan. Perché il suo era un socialismo non dogmatico e non allineato.

Quando prese il potere con un colpo di Stato, subito si impegnò a migliorare le condizioni di vita del popolo burkinabé. Per lui quella era la vera rivoluzione. Diede il via ad un avveniristico programma di riforme puntando su diritti delle donne, istruzione, sanità, lotta alla povertà, ambiente, taglio degli enormi privilegi della classe dirigente. Priorità che dovrebbero segnare la rotta pure per la sinistra di oggi, e non solo quella africana. Certo, la sua sfida era titanica. Per descrivere le condizioni in cui versava l’Alto Volta basta citare alcuni dati, come fece Sankara stesso all’Onu nel 1984: «Un Paese di sette milioni di abitanti, più di sei milioni dei quali sono contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un tasso di analfabetismo del 98%, se definiamo alfabetizzato colui che sa leggere, scrivere e parlare una lingua; un medico ogni 50mila abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16%». E poi, l’enorme zavorra del debito internazionale, che egli voleva cancellare con una azione non violenta e coordinata di tutti i Paesi africani.

Mentre ebbe successo nel restituire dignità almeno per un po’ ai propri concittadini, potenziando le scuole («un uomo che impara a leggere e scrivere – diceva – è come un cieco che riacquista la vista») e arrivando ad esempio a garantire per tutti i burkinabé due pasti al giorno e alcuni litri di acqua, fallì invece inesorabilmente sulla questione del debito. La sua strategia per creare un fronte panafricano contro il neocolonialismo era insopportabile agli occhi delle potenze occidentali. Se le idee di Sankara si fossero propagate, l’intero continente avrebbe potuto rialzare la testa, mettendo fine alla schiavitù finanziaria e alla rapina di materie prime pregiate a basso costo. Per questo il presidente burkinabé venne ucciso il 15 ottobre 1987 insieme a dodici ufficiali in un golpe organizzato dal suo ex compagno d’armi Blaise Compaoré, con la protezione dei servizi di Parigi e di Washington. (Cambiato contesto, attori e senza dubbio “metodi”, come può non tornare alla mente la crisi greca nell’estate 2015?). Alla sua morte lascia un magro conto in banca, quattro biciclette, un’auto – nel frattempo aveva sostituito le costose vetture di rappresentanza governative con delle frugali Renault -, tre chitarre e un frigo.

Ma «mentre i rivoluzionari come individui possono essere uccisi, non puoi uccidere le loro idee», come Sankara stesso disse nel suo ultimo discorso pubblico, ad ottobre del 1987, in onore di Che Guevara, assassinato esattamente vent’anni prima. E la veridicità di quella massima a ventisette anni di distanza è stata confermata, quando nel 2014 il suo volto è ricomparso su murales e cartelli nelle mobilitazioni che hanno portato alla caduta di Compaoré, ora in esilio in Costa d’Avorio.

«A livello personale, la sua semplicità, modestia e integrità morale sono un modello per tutti coloro che aspirano a gestire la cosa pubblica. A livello di lotta politica, non dimentichiamo il coraggio e la determinazione che ebbe nel costruire un Burkina Faso all’insegna di giustizia sociale e sviluppo inclusivo, che tenesse in considerazione sia l’ambiente che le future generazioni», ha dichiarato nel 2016 il rapper burkinabé Smockey, uno dei fondatori del gruppo di attivisti Balai Citoyen che ha contribuito all’insurrezione del 2014 diffondendo controcultura musicale che rinsaldava il mito di Sankara.

Perché è davvero una lezione attualissima, quella del “Che Guevara africano”. C’è chi riassume il suo punto di vista descrivendolo come un originale «marxismo umanista», che il presidente rivoluzionario avrebbe iniziato ad elaborare sin dagli anni della sua formazione militare. Questa è, ad esempio, l’opinione che il giornalista e ricercatore della Columbia University Ernest Harsch argomenta in A certain amount of madness (Pluto press, 2018), tomo fondamentale per comprendere il peso del lascito politico di Sankara e il suo riverbero nei movimenti sociali del XXI secolo.

Un lascito multiforme e diffuso, anche per quanto riguarda le politiche di genere. «Se perdiamo la lotta per la liberazione della donna – disse Sankara l’8 marzo 1987 – avremo perso il diritto di sperare in una trasformazione positiva superiore della nostra società. La nostra rivoluzione non avrà dunque più senso. Ed è a questa nobile lotta che siamo tutti invitati, uomini e donne». Per dargli spazio, Sankara incoraggia la ribellione al maschilismo imperante, vieta infibulazione e poligamia, promuove campagne contro l’Aids invitando ad usare i contraccettivi (mentre in Vaticano un altro capo di Stato ne scoraggiava fortemente l’uso), lotta contro la prostituzione, che considera «una sintesi tragica e dolorosa di tutte le forme di schiavitù femminile».

Inoltre, «di solito i politici maschi invocano la parità di genere come parte di un appello per “salvare” le donne dalla loro condizione di “vittima” nella società – ha sottolineato la sociologa e attivista Patricia McFadden -. Sankara invece ribadisce che la libertà delle donne e la loro emancipazione non sono qualcosa che viene concesso dall’uomo per una qualche forma di gentilezza o altruismo, bensì sono i risultati della lotta contro il patriarcato, praticato e difeso dai maschi». «Lo dicevamo già nelle prime ore della rivoluzione democratica e popolare – ribadì infatti Sankara in occasione della Giornata internazionale della donna – “L’emancipazione, come la libertà, non viene regalata, si conquista. E tocca alle stesse donne avanzare le loro rivendicazioni e mobilitarsi per farle arrivare a buon fine”». Nessun approccio caritatevole o paternalista alle questioni di genere, insomma.

E poi, ancora una volta anticipando i tempi, c’è la lotta di Sankara in difesa dell’ambiente. Oggi, mentre il movimento Fridays for future ravviva la sua battaglia globale contro il climate change, e affina i propri strumenti operativi e intellettuali, il chitarrista rivoluzionario offre una dritta sul “nemico” contro il quale indirizzare le forze. «Questa lotta per difendere gli alberi e la foresta è prima di tutto una lotta contro l’imperialismo – disse a Parigi nel 1986 -. Perché l’imperialismo è il piromane delle nostre foreste e delle nostre savane». Così, alla prima Conferenza sugli alberi e le foreste, Sankara andava come sempre al sodo nel denunciare i rapporti economici e di potere che sono alla base dell’inquinamento e della deforestazione.

Ma, ribadiva davanti alle Nazioni unite alcuni anni prima, nel 1984, «non pretendo qui di affermare dottrine. Non sono un messia né un profeta. Non posseggo verità. I miei obiettivi sono due: in primo luogo, parlare in nome del mio popolo, il popolo del Burkina Faso, con parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza; e poi, arrivare ad esprimere, a modo mio, la parola del “grande popolo dei diseredati”, di coloro che appartengono a quel mondo che viene sprezzantemente chiamato Terzo mondo».

L’augurio è che questo popolo, senza messia né profeti, torni a farsi sentire con forza in questo nuovo decennio.

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left del 3 gennaio 2020

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Continuare piuttosto che cominciare

C’è questa frase di Thomas Mann: «Il tempo non ha divisioni per segnare il suo passaggio, non c’è mai una tempesta di tuoni o squilli di trombe per annunciare l’inizio di un nuovo mese o anno. Anche quando inizia un nuovo secolo siamo solo noi mortali che suoniamo le campane e spariamo a salve».

Inizia il nuovo anno ed è costante la sensazione di scrollarsi quello vecchio. Tutti pronti a cominciare o a ricominciare come augurio del poter riuscire a fare ciò che non si è fatto. Ci basta poco, del resto, per tenere allenata la speranza: la chiusura di un capitolo trasmette la sensazione di libertà della pagina bianca come se tutto il pregresso ci impedisse la libertà.

Tutti ad aspettare il momento giusto. E quando il momento arriva e abbiamo la sensazione che non sia quello giusto (o semplicemente ci rendiamo conto di non potere raggiungere gli obiettivi) ecco allora che non vediamo l’ora che finisca il momento sbagliato in attesa del prossimo momento.

Il Capodanno in fondo sembra un condono del nostro passato, una cancellatura netta, come se tutto fosse un fardello. E invece mi viene da pensare che sarebbe bello e utile decidere di iniziare sempre, ovunque ci troviamo, e con qualsiasi strumento. Riuscire ad avere visioni lunghe e augurarsi il primo dell’anno di continuare.

E mi viene in mente Nicoletta Dosio che a 73 anni si ritrova in carcere per continuare la sua scelta. In carcere ha passato il Capodanno. Nicoletta è colpevole (secondo la sentenza) perché in una manifestazione No Tav “resse lo striscione ‘Oggi paga Monti‘” e “impedì fisicamente il transito degli automobilisti occupando, insieme ad altri la corsia del telepass”. “A nulla vale pertanto – si legge sempre nella sentenza – ribadire che l’imputata non ebbe alcun colloquio con gli automobilisti o che non ebbe a proferire espresse minacce”. Dal carcere ha scritto di essere contenta della propria scelta.

Ecco, continuare, senza bisogno di cominciare ogni volta.

Buon giovedì.

Ciascuno cresce solo se sognato

Niente discorsi di fine anno da queste parti ché siamo nel bel mezzo di tutto. Però per l’ultimo giorno dell’anno mi è tornata in mente una poesia, a pensarci ha una forza dirompente di questi tempi la poesia, di Danilo Dolci che in fondo è anche un augurio denso, bello, pulito.

«C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato».

Buon anno con l’augurio di essere sognati.

La fiction di corso Francia

Fiori e messaggi per Gaia e Camilla, le due ragazze sedicenni che hanno perso la vita dopo essere state investite su Corso Francia, Roma 23 dicembre 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Non si arresta l’immane mole di attenzioni che certa stampa continua a riversare sull’incidente a Roma in cui due ragazze hanno perso la vita e un giovane alla guida è finito agli arresti. Un incidente stradale che non contiene nessun mistero da risolvere e che è non è dissimile da molti altri incidenti che accadono spesso sulle nostre strade è diventato il fotoromanzo natalizio che inonda i giornali e i telegiornali.

Perfino i funerali sono diventati l’occasione per sciorinare dirette web con particolare attenzione sui visi affranti dei genitori e degli amici. Un incidente, per quanto violento e luttuoso, sembra essere la notizia su cui tutti ogni mattina pongono la propria attenzione e siccome non c’è molto da sapere di più delle indagini in corso allora è tutto un rovistare tra foto su Facebook, tra testimoni vari e perfino tra i contatti tra le famiglie dell’investitore e delle investite.

È un giornalismo emotivo che spinge sull’identificazione del lettore (in questo caso sono i genitori che pensano ai propri figli che si muovono per la città di notte con tutti gli eventuali rischi) e che usa un fatto di cronaca come lente per costruire elaborati discorsi antropologici e sociologici. Da qualche giorno sembra che su quel metro di asfalto si sia consumata una tragedia che spiega tutti i nostri vizi capitali degli ultimi dieci anni.

È una sorta di populismo giornalistico che ripete perfettamente le dinamiche di certo populismo politico, quello che usa la cronaca per corroborare una tesi. L’ultimo stadio di questa deriva consiste nel lanciare a briglia sciolta presunti giornalisti d’inchiesta per trovare adolescenti che attraversano la strada là dove non ci sono le strisce pedonali. Ieri addirittura è stata battuta la notizia di un’anziana signora che avrebbe tamponato l’auto che la precedeva per osservare i fiori lasciati in memoria delle ragazze.

Ma siamo sicuri che non ci farà male tutta questa abbuffata di complessità? Ma davvero?

Buon lunedì.

“Il mucchio selvaggio”: gli uomini che negano le donne

Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, forse l’ultimo e “definitivo” western della storia del cinema, compie mezzo secolo. Due volumi recentemente pubblicati celebrano sia il regista (1925-1984) con una corposa biografia di David Weddle Se si muovono, falli secchi per i tipi di Minimum Fax, che il suo capolavoro Il mucchio selvaggio, con un volume di oltre quattrocento pagine di William Kip Stratton pubblicato da Jimenez Edizioni.

La vicenda, ormai cronologicamente fuori dell’epopea del western “classico”, è infatti ambientata nei primi anni del Novecento al tempo della rivoluzione messicana di Pancho Villa, e racconta le avventure di una banda di gringos americani, comandati da un ormai maturo ex ufficiale – Pyke Bishop – sullo schermo William Holden – che, dopo una feroce rapina finita male, inseguiti dai cacciatori di taglie, sono costretti a sconfinare in Messico per organizzare un traffico di armi scendendo a patti con i sanguinari quanto infidi controrivoluzionari lealisti.

Seguendo la poetica del western maturo degli anni Sessanta e Settanta, che ha ormai definitivamente perduto l’innocenza, nel dipanarsi del racconto il confine tra i “buoni” e i “cattivi” si fa sempre più labile ed incerto. Resta solo un oscuro codice d’onore, basato sul mito dell’amicizia maschile, e che mantiene un labile confine tra coloro che, seppur dannati, hanno mantenuto a stento un barlume di umanità, e gli irrecuperabili, cieche belve affamate di cibo, sesso e denaro.

Dopo lungo peregrinare i nostri eroi giungono al villaggio di Agua Verde, presidiato dai lealisti del General Mopuche, dove Angel, il messicano, ritrova dopo tanto tempo, la sua fidanzata, Teresa, costretta a diventare ora una “mantenuta”.
L’uomo, così come raccontano le immagini del film, non crede ai suoi occhi. Quella donna dai capelli corvini e dalle labbra vermiglie, la “sua donna”, la più bella del villaggio, è al braccio del generale messicano, ostentando un sorriso manierato, ma la risata sfrontata sul volto di lei si incrina nel tono increspato della voce.

“Yo soy feliz!”
Le parole dichiarano felicità ma il loro suono evoca dolore e rimpianto.
(“Che tu sia maledetto, ti ho aspettato tanto, ma tu non c’eri!”).
“Putaaa!!!”

L’uomo spara: il colpo di pistola esplode come tuono ed una macchia rossa sul petto spezza la vita della giovane donna, il cui “tradimento” è quello di aver troppo sofferto e troppo amato.

Sam Peckinpah era un anarchico-individualista. La violenza, spesso cruda ed iperrealista, ma quasi mai gratuita, è la protagonista di tutti i suoi film. Una violenza nella quale la pietà per gli umili ed i vinti è pari alla pietà per gli stessi vincitori – illusori e momentanei – perché la sconfitta finale – la morte – non risparmierà nessuno.

Uomini senza donne: fuggiaschi, vedovi, abbandonati, traditori di donne ma soprattutto di sé stessi. La donna è un’immagine lontana ed ormai inarrivabile, ricreata nella memoria in una dimensione remota e quasi onirica, rincorsa attraverso i flash-back del racconto.

All’alba le giovani messicane costrette a fare le prostitute allattano i figli mendicando e strappando ai gringos gli ultimi spiccioli. Gli uomini indossano i cinturoni e, perfettamente consapevoli, seguendo un assurdo codice d’onore, vanno allo scontro suicida. Non è la retorica della “bella morte”, tutt’altro: non hanno più nulla da perdere, né mogli, né figli, né affetto né amore. Sono uomini soli, ed al mondo non c’è più posto per loro.

Il west è finito per sempre: recinti e steccati, strade ferrate, banche e compagnie ferroviarie, ma soprattutto banchieri, politici e azionisti ne decretano la fine. La comparsa improvvisa di un’automobile e di una mitragliatrice sigillano l’epilogo di un’epoca.

Da vero artista – forse senza rendersene conto – Peckinpah aveva colto e descritto mirabilmente la parabola dei suoi “eroi” che, perdendo il rapporto con l’immagine femminile, e di conseguenza con la realtà umana, soccombono al loro tragico destino.

Ne è presagio la scena della partenza dal villaggio, con la sfilata degli eroi a cavallo tra due ali di povera gente assiepata ai bordi della strada. Dalla folla si alza un canto sommesso – “La Golondrina”.  A donde ira/ Veloz y fatigada /La golondrina/Que de aquí se va/ Por si en el viento /Se hallara extraviada /Buscando abrigo/Y no lo encontrara (Ma dove andrà/veloce e affaticata,/la rondine/che passa di qua?/E se nel vento/si troverà /smarrita/cercando riparo/e non lo troverà).

Le giovani donne regalano fiori, le anziane cibo e frutta per il viaggio; chi manda un bacio, chi un saluto.

Persino Pike ed il suo amico Dutch – il grande Ernest Borgnine, la roccia – sotto l’apparente impassibilità tradiscono un crollo ineluttabile: qualcuno gli vuole bene, e questo, oltre che imprevisto, è davvero insostenibile!

 

W la scuola. Pubblica, laica e democratica – introduzione

Come è stato più volte detto e scritto, la grande partecipazione popolare alle primarie del Pd e il successo plebiscitario di Nicola Zingaretti segnano una svolta nella politica italiana. Non è come sostenuto da alcuni e non solo a destra, il ritorno dei “comunisti”. O meglio la classe dirigente che prenderà la guida del partito in effetti è la stessa che c’era prima di Renzi, a matrice Pci. Quindi in questo senso è senz’altro corretto affermare che c’è un ritorno al passato. La novità è in verità un’altra. La cosa interessante, quella da guardare e capire, è il movimento degli elettori e quello che significa.

Certamente c’è una ribellione fortissima al governo e alle sue politiche violente ed economicamente suicide. Il lettore di questo giornale sa bene, perché ce ne siamo occupati molto, di cosa sto parlando. Così come è stata una ribellione al governo la manifestazione di Milano, che più che antirazzista definirei pro-umanità. Ma l’altro aspetto fondamentale della grande partecipazione alle primarie è l’ennesimo messaggio all’ex segretario del Pd Matteo Renzi che non aveva ancora capito di dover togliersi di torno. Un messaggio indirizzato non soltanto a lui ma soprattutto a quanti nel Pd ancora pensavano (o magari ancora pensano) che il senatore di Rignano sia l’unica vera soluzione per il Pd e questo Paese. Non è così e i tantissimi votanti, molti dei quali non partecipavano da tempo alle primarie, dicono esattamente questo: basta con quel modo di fare politica.

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Ricordo che anni fa il direttore di un importante giornale mi disse “Renzi vince perché è un vincente ed è questo che la gente vuole”. Che la gente voglia politici che vincano è senz’altro vero. Ma d’altra parte se il vincere non corrisponde poi ad una politica che sia in grado di fare una attività politica e di governo veramente trasformativa della società allora a cosa serve vincere? Renzi è stato un abilissimo politico ma ha peccato di presunzione. I 10 miliardi usati per erogare gli 80 euro gli hanno garantito un risultato elettorale mai raggiunto nella storia da un partito di sinistra (oltre il 40%). Ma era un risultato evidentemente drogato. È stata un’ubriacatura per lui da cui (forse?) adesso inizia a riprendersi. Gli 80 euro, così come il reddito di cittadinanza, sono regalie. Sono assistenza che non cambia nulla. Non impattano in maniera sostanziale nell’economia e tanto meno nella qualità della vita delle persone. Certamente ci saranno situazioni di necessità in cui un sussidio dello Stato è utile, se non necessario, per la sopravvivenza. Ma non cambia nulla perché si tratta di assistenza che non ha un progetto di trasformazione, sociale o personale, ad esso collegato.

Un esempio può chiarire cosa intendo: se voglio aiutare un malato, diciamo un malato con un’insufficienza cardiaca che gli impedisca di muoversi, posso procurare un’assistenza al malato dandogli una sedia a rotelle. Risolverò il problema contingente della mobilità ma non risolverò, evidentemente, la causa dell’invalidità che è la malattia cardiaca. Se invece su quel malato intervengo non con l’assistenza ma con una cura che risolva l’insufficienza cardiaca risolverò per sempre il problema dando alla persona nuove possibilità che prima non erano nemmeno pensabili. Risolvendo un problema materiale (la malattia) si aprono quindi anche possibilità di realizzazione e soddisfazione non materiale. Serve in altre parole una politica che abbia a cuore non solo il benessere materiale dei cittadini, l’assistenza che ci deve senz’altro essere quando necessaria, ma anche la loro possibilità di cambiare, di rinnovarsi, di trasformarsi e migliorare.

Allora vorrei dare un’idea al segretario Zingaretti ma anche a tutti gli altri partiti e partitini di sinistra più o meno radicale. Costruite una proposta politica che sia centrata su un solo argomento. Uno soltanto che sia semplice, di immediata comprensione e interesse per chiunque. Un messaggio che interessi non soltanto a chi vota sempre a sinistra ma soprattutto a quelli che sono incerti, a quelli che se ne sono andati a votare il M5s o magari la Lega, a quelli che non votano perché delusi dalle tante fregature ricevute per le troppe speranze sempre deluse. Un solo tema che possa essere più forte dell’unico tema di Salvini che è “prima gli italiani” e dell’unico tema del M5s che è “reddito di cittadinanza”. E l’unico solo grande tema su cui puntare è la scuola.

Perché solo investendo in maniera massiccia nella scuola e più in generale nella formazione e nella ricerca l’Italia potrà uscire da quel ruolo di marginalità a cui la sua scarsa classe dirigente l’ha condannata. Abbiamo un problema di analfabetismo funzionale a tutti i livelli. È necessario allora un progetto strategico di investimento nella scuola, nell’università, nella formazione e nella ricerca che permetta tra 20 anni di avere una nuova generazione di persone che possano veramente cambiare questo Paese. Il tema della sinistra, l’unico tema da portare avanti senza tregua, insistentemente per i prossimi quattro anni fino alle elezioni politiche deve essere solo questo: la scuola.

Un solo argomento che tutti capiscano e che renda finalmente differente la sinistra dalla destra e dal centro. Il problema di Renzi è stato questo, di non essere veramente differente. Perché infatti votare Renzi che propone la stessa politica che porta avanti Berlusconi se posso votare l’originale? Perché votare il Pd che propone una politica di immigrazione con Minniti che è sostanzialmente la stessa sostenuta da Salvini se posso votare l’originale?

La sfida politica, in altre parole, non deve MAI essere inseguire l’avversario nel suo campo. Se Zingaretti insegue il M5S sul reddito di cittadinanza, perderà. Se Zingaretti insegue Salvini sul tema sicurezza, perderà. Se insegue Calenda e Berlusconi sul tema meno tasse, perderà.

Non che non siano temi che interessano i cittadini, ma non è inseguendo gli “originali” con proposte fotocopia che si ottiene o si recupera consenso. La scuola è stata dimenticata, da decenni. L’ossessione del risparmio economico di breve termine ha portato a ridurre gli investimenti nell’unica area dove non andavano ridotti (ma, semmai, aumentati) e a riformare in senso peggiorativo la scuola. E purtroppo va detto che a fare la prima mossa nella continua distruzione della scuola è stata la sinistra con la riforma Berlinguer. Seguito poi da tante altre riforme per finire con Renzi e la sua “Buona scuola”. È nella scuola il futuro dei nostri bambini ed è nella scuola il futuro di questo Paese. È con la scuola che può crearsi una nuova sinistra. W la scuola!

“Tutti, significa tutti”

TOPSHOT - A young Iraqi protester is blanket-tossed into the air by fellow demonstrators as anti-government rallies continue in Tahrir Square in the capital Baghdad, on December 3, 2019. - As anti-government demonstrations in Iraq's capital and Shiite-majority south enter their third month, they are being turned into plays, paintings, poems and literature. Tahrir square has become an art hub, a rare space for free expression in a country where conservative tribes, paramilitary forces and powerful politicians have at various points tried to snuff out criticism. (Photo by Hussein FALEH / AFP) (Photo by HUSSEIN FALEH/AFP via Getty Images)

Il 2019 sarà sicuramente ricordato come l’anno in cui i protagonisti sono stati centinaia di migliaia di comuni cittadini arabi. Da Algeri a Baghdad passando per Beirut, giovani e anziani, studenti e donne hanno sfidato con coraggio e stanno tuttora lottando contro un’intera classe politica corrotta e incapace di rispondere ai loro bisogni. Le piazze gremite del venerdì (Algeria), le tende di proteste allestite nelle principali piazze delle capitali (Libano e Iraq) hanno portato molti osservatori a parlare di una «seconda ondata delle Primavere arabe del 2011». «Le radici delle contestazioni che vediamo oggi hanno le loro basi nel 2011 – sostiene Mona Yacoubian, esperta di Medio Oriente allo United States Istitute of Peace – Chi protesta ora ha assorbito le lezioni delle precedenti rivolte e le ha sviluppate. In Libano e Iraq, i manifestanti protestano contro il settarismo invece di promuovere una più vibrante identità nazionale».

Da Algeri fino a Beirut, lo slogan contro l’intera classe politica di fatto è stato lo stesso: «Tutti, significa tutti». Le proteste hanno riscosso un enorme sostegno popolare e finora non hanno dato vita a ideologie divisive (come è invece avvenuto in Egitto). Pur nelle loro peculiarità trattandosi di contesti variegati e in certi casi lontani, esistono dei punti comuni che legano Algeria, Libano e Iraq. In primo luogo, in tutti e tre i Paesi i cittadini hanno scelto di manifestare pacificamente per non fare la stessa fine dei loro vicini regionali (Siria in particolare), per attrarre maggiore sostegno interno e internazionale e non dare ai loro governi la scusa di usare tattiche repressive. Altro elemento comune è il protagonismo femminile, un bello schiaffo in faccia per i tanti che in Occidente continuano a ritenere le donne arabe solo «angeli del focolare».

L’Algeria è stata la prima a rivoltarsi in massa. Qui le manifestazioni del movimento popolare (hirak) si sono…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola dal 27 dicembre 2019

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Hong Kong, la megalopoli ha sete di democrazia

TOPSHOT - Members of the territory's medical sector attend a protest in Edinburgh Place in Hong Kong on August 2, 2019, in the latest opposition to a planned extradition law that was quickly evolved into a wider movement for democratic reforms. - Hong Kong civil servants on August 2 night kicked off a weekend of anti-government protests and unsanctioned rallies, in defiance of warnings from China and after a prominent independence campaigner was arrested. (Photo by Anthony WALLACE / AFP) (Photo credit should read ANTHONY WALLACE/AFP via Getty Images)

Sono le prime ore del pomeriggio di un afoso mercoledì di metà giugno quando davanti ai palazzi del potere di Hong Kong la polizia alza per la prima volta la bandiera nera. È il segnale che gli agenti antisommossa sono pronti a sparare i lacrimogeni per respingere i manifestanti che tentano l’assalto al Consiglio legislativo. L’aria è carica di umidità e di tensione, mentre già da alcune ore in decine di migliaia – molti giovanissimi e vestiti di nero – sono tornati a costruire barricate e a occupare la trafficata arteria a otto corsie che passa tra i palazzi di vetrocemento e gli shopping mall di Admiralty. L’obiettivo? Bloccare l’approvazione da parte del mini – Parlamento dell’ex-colonia britannica della controversa legge sull’estradizione verso la Cina che consentirebbe di trasferire hongkonghesi e stranieri di passaggio davanti all’opaco sistema legale della Repubblica Popolare.

«Chit wui, ritiratelo, chit wui», scandiscono in cantonese i manifestanti, mentre una catena umana ben coordinata fa arrivare fino alle prime linee quel che serve per proteggersi dalle nuvole di gas e dagli spray urticanti: ombrelli e impermeabili, elmetti e maschere da sub. Per la prima volta dopo decenni la polizia di Hong Kong – a lungo considerata la migliore dell’Asia – spara pallottole di gomma su una manifestazione, mentre già cinque anni prima l’uso dei lacrimogeni aveva provocato un’ondata di sdegno in città e fatto montare il sostegno popolare per il Movimento degli ombrelli.

Negli ultimi sei mesi – stando ai numeri diffusi dalla polizia all’inizio di dicembre – gli agenti hanno sparato 16mila cariche di gas e oltre 10mila pallottole di gomma. «È chiaro che non sia più un’assemblea pacifica – dirà quel giorno la leader di Hong Kong, Carrie Lam – ma di una rivolta pubblica organizzata». Mai usata durante il Movimento degli ombrelli, la definizione di «rivolta» minaccia pesanti conseguenze legali per chi è in piazza: sulla base di una legge di epoca coloniale le condanne possono arrivare fino a dieci anni di carcere. Dopo l’oceanico e pacifico corteo contro la legge sull’estradizione del 9 giugno – che secondo il Civil human rights front ha visto sfilare oltre un milione di persone: un hongkonghese su sette – sarà però proprio la manifestazione davanti al Consiglio legislativo e la reazione delle autorità a determinare quel che è avvenuto nella metropoli nelle ultime 28 settimane. E che continua. A prima vista gli…

Il reportage di Francesco Radicioni prosegue su Left in edicola dal 27 dicembre 2019

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Dal rogo del Vulpitta ai nuovi Cpr, 20 anni di galere

Non ricordiamo questo solo perché sono passati 20 anni da un plurimo omicidio, tante altre morti fra “malori”, suicidi, tentativi di evadere ci sono stati negli anni successivi nei diversi centri di detenzione in Italia che cambiavano denominazione e acronimo ma producendo gli stessi osceni disastri. E a dire il vero la prima vittima delle galere create da un governo di centro sinistra, c’era già stata a Roma, nel CPTA di Ponte Galeria. Era la notte di Natale del 1999, si chiamava Mohammed Ben Said, venne ritrovato all’alba con la mascella rotta ed ecchimosi in tutto il corpo. Un’altra morte impunita, pochi giorni prima della strage di Trapani. Venti anni dopo cosa è cambiato? I centri hanno cambiato, si diceva, più volte denominazione, prima CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) con il ministro Maroni, nel 2009 e ora CPR, Centri Permanenti per il Rimpatrio, con il ministro Minniti. In 20 anni si è tentato in ogni modo di chiudere queste strutture, utilizzando dapprima una parte del mondo politico che conservava una idea di diritto, contemporaneamente grazie alle piazze che hanno visto grandi mobilitazioni per chiedere o la chiusura di un centro appena aperto o per impedirne l’apertura. E insieme si mossero giuristi, avvocati, giornalisti, uomini e donne che, cercando di creare un fronte ampio di consapevolezza, aspiravano a far comprendere i danni ed i costi umani, economici, culturali e politici che il rinchiudere e deportare persone per il solo fatto di esistere, avrebbero portato. Sono migliaia in tanti anni gli uomini, le donne e a volte anche i minorenni, che sono stati “ospiti” (questo è il termine con cui vengono chiamati), fra queste gabbie di ferro e cemento sparse per l’Italia, spesso ex caserme, a volte strutture create ex novo, da Torino a Caltanissetta, da Gradisca D’Isonzo a Lamezia, a Palazzo S.GervasioBariBrindisi,LecceCrotoneMilanoModenaBologna ed ltri ancora. Nel periodo del loro massimo “successo” furono 14 i centri sparsi per la penisola. Dal 2007 numerose ragioni portarono lentamente a chiudere alcuni centri. In primis le rivolte che scoppiarono soprattutto quando aumentarono i tempi di trattenimento, rivolte che portarono spesso a rendere inagibili interi settori, denunce per malagestione, suicidi, difficoltà rendere effettivi i rimpatri. Per un breve periodo addirittura si auspicò il superamento dell’istituto della detenzione amministrativa e il numero dei centri operativi, lentamente, si ridusse.

Nel 2011, all’inasprirsi delle tensioni nei centri rimasti operativi il Viminale reagì con una circolare che inibiva totalmente l’ingresso a operatori dell’informazione e ad associazioni di sostegno non riconosciute, la maggior parte. Nacque una campagna “LasciateCIEntrare” per provare a rompere la cappa di silenzio che era ormai caduta sui centri, a cui rimanevano ad opporsi pochi attivisti, qualche legale, aree molto limitate di movimento. Intervenne anche l’FNSI, l’Ordine dei Giornalisti e, con la crisi del governo Berlusconi/Maroni si giunse ad una sospensione della circolare. Di fatto l’accesso ai centri resta ancora oggi limitato ed a totale discrezione delle prefetture e quindi del competente Ministero dell’Interno. Ma il vero peggioramento è iniziato nel 2015 ed è in fase di realizzazione. Prima, attraverso il Migration Compact, concordato con l’Unione Europea, vennero realizzate ulteriori strutture di identificazione, gli hotspot, destinate a separare i richiedenti asilo sbarcati che potevano aver diritto ad alcune forme di protezione o allo status di rifugiato da quelli da rimpatriare. In assenza di una loro definizione giuridica non sono mai state ufficialmente spazi di privazione delle libertà personali ma, la loro collocazione, la lentezza delle prime procedure di fotosegnalazione e identificazione, a volte il sovraffollamento hanno soventemente bloccato gli “ospiti” per tempi mai regolamentati, anche nell’ordine di settimane. E non è bastata una condana dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Klhaifia, per impedire queste prassi che violano le garanzie costituzionali ed internazionali in materia di libertà personale. L’aumento temporaneo degli arrivi del 2016, il Memorandum con la Libia del febbraio 2017, l’assenza di politiche di regolarizzazione di chi perdendo il lavoro, perdeva anche il diritto a restare in Italia, ha fatto rilanciare l’idea che nuovi centri di detenzione fossero “necessari”. Il “piano Minniti”, reiterazione di quanto già affermato da precedenti inquilini del Viminale di identica o diversa appartenenza politica, prevedeva l’apertura di (Centri Permanenti per il Rimpatrio) CPR in ogni regione. Si è iniziato ripristinando la sezione maschile di Ponte Galeria (Roma), poi riaprendo Palazzo San Gervasio (Potenza). Da tempo era decisa l’apertura di almeno 4 o 5 Cpr ed erano già stati individuati i siti. Il primo ad aprire è stato quello di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia, nell’ex caserma Polonio. Il centro, trasformato in CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) dopo che peer 6 anni era già stato un centro di detenzione, ha riaperto i battenti, per ora a ranghi ridotti, il 16 dicembre scorso. Nella stessa area resta ancora uno spazio come CARA e un altro che è divenuto CPR, nei giorni scorsi una trentina di uomini, trattenuti nel CPR di Bari sono stati trasferiti a Gradisca, facendo già rialzare la tensione. Fra gli enti gestori che garantiscono i servizi nel centro, (le vecchie gestioni nel periodo di attività precedente furono coinvolti in inchieste che hanno visto al centro anche personale della prefettura) una delle cooperative già invischiata nel CAS di Cona, provincia di Venezia, dove ha perso la vita una ragazza.

L’apertura del Centro di Gradisca era annunciata da tempo, doveva servire anche a fomentare la campagna elettorale delle elezioni europee, ma per numerose ragioni anche di carattere burocratico, per mesi si attese da un momento all’altro, e quel giorno è arrivato. Si pensava di procedere prima alla riapertura del CPR di Via Corelli a Milano, uno dei primi a entrare in funzione alla fine degli anni Novanta. A Milano si era però già creata una rete composita e plurale contro il centro, manifestazioni, azioni di sensibilizzazione, nel frattempo il centro non ha ancora aperto i battenti anche se il momento pare vicino. Doveva essere già entrato in funzione anche il CPR pensato per la Sardegna nel nuorese, nell’ex carcere mandamentale di Macomer. Il paese era famoso negli anni passati perché luogo di destinazione “punitiva” per i militari di leva. La macchina si è fermata però a causa di un esposto presentato alla Corte dei Conti che intende fare alcuni rilievi. Per gli altri si fanno diverse ipotesile procedure di realizzazione di un CPR sembrano secretate, fra le più accreditate Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, (altro ex carcere mandamentale) nei pressi della tendopoli di San Ferdinando, dove alloggiano centinaia di lavoratori in agricoltura. E poi Modena, anche in questo caso sembra privilegiato l’ex CIE un tempo gestito dalle “Misericordie” di Daniele Giovanardi, fratello dello zelante uomo politico, situato in una caserma dismessa in Via La Marmora. Si tratta di uno dei centri che l’allora ministro Salvini, nell’ottobre 2018 dava come pronto per aprire, ad oggi, pur essendo tecnicamente pronto ancora permangono difficoltà nel farlo ripartire. Problemi di appalto ma soprattutto dissidi interni alla maggioranza di governo nel capoluogo emiliano, dove governa il M5S e alle divergenze nelle politiche nazionali si assomma la contrarietà della città che ha già potuto verificare l’inutilità di questi centri. A detta del Viminale si sta lavorando per l’apertura (ma non si hanno notizie di spazi individuati)di CPR in Veneto e Liguria, governate dal centro destra e mentre sta per partire la campagna elettorale per le elezioni regionali in entrambe le regioni. Formalmente il parere di Regioni ed enti locali non è vincolante per la realizzazione di un CPR ma di fatto non avere l’appoggio delle amministrazioni è importante sia per i servizi connessi alla gestione sia per i rapporti con il territorio.

Per approfondire

Ad esempio la Toscana, che ha sempre rifiutato la realizzazione di strutture di detenzione e in cui i sondaggi danno per vincente ancora forze di centro sinistra, non è ad oggi considerata come fra quelle in cui realizzare un centro. Anche per altre regioni, Marche, Abruzzo, Molise, Trentino Alto Adige mentre si vanno ampliando quelli di: Torino (da 175 a 210 posti), nonostante sia quello con maggiori tensioni e una morte ancora recente, Bari,riaperto nel novembre 2017, che passerà dagli attuali 90 a 126 po, poi con lavori più strutturali, Palazzo San Gervasio e Caltanissetta. Ribadire la contrarietà a tali strutture deve diventare un obiettivo praticabile di cui ormai debbono farsi carico le reti associative, di movimento, le attiviste e gli attivisti vecchi e nuovi, il mondo del diritto. La classe politica sembra voler ignorare che i CPR, in cui si potrà restare rinchiusi anche per sei mesi rischiano di divenire vere e proprie bombe ad orologeria in cui potrebbero facilmente riaccadere tragedie come quella con cui abbiamo iniziato questo racconto e che per il mondo antirazzista resta indimenticabile e inaccettabile. In 20 anni è stata prodotta una ampia letteratura sull’argomento, dai rapporti realizzati prima da MSF e poi da MEDU, al Libro Bianco mai pubblicato ma realizzato grazie al Comitato diritti Umani del Senato, a ricerche specifiche sui singoli centri e a relazioni delle istituzioni e del Garante per i detenuti e le persone private della libertà personale. Da ultimo un volume divulgativo edito dal settimanale Left di cui Adif è fra le forze che hanno contribuito a realizzarlo e dal titolo “Mai Più”. Una corretta comunicazione su queste strutture è determinante per svelarne il carattere nocivo, ma altrettanto importante è riprendere le mobilitazioni. L’11 gennaio, dopo un primo presidio a pochi giorni dall’apertura, si terrà una manifestazione a Gradisca D’Isonzo, il 18 una assemblea regionale a Milano per fermare l’apertura di Corelli. Ci auguriamo che sia solo l’inizio.

Articolo originale pubblicato su www.a-dif.org/

Laser, coni stradali, valigie: ad Hong Kong la protesta è creativa

epa07806511 Protesters with laser pointers gather during an anti-government rally in Hong Kong, China, 31 August 2019. Hong Kong has been gripped by mass protests since June over a now-suspended extradition bill to China that have morphed into a wider anti-government movement. EPA/VIVEK PRAKASH

Coni, laser, mascherine. La sfida, la battaglia, al di là degli ideali astratti, passa sempre per gli oggetti. Gli stessi mattoni disposti come delle mini-Stonehenge dai manifestanti sull’asfalto per rallentare carri e mezzi pesanti della polizia vengono risistemati, con grandi sorrisi a favore di camera, con malta e cazzuola da operosi militari del governo centrale in brachette corte.

I significati mutano a seconda del contesto, ognuno ci costruisce la narrazione che vuole. Come negli Stati Uniti, anche i meme e la sottocultura internet sono utilizzate come forma di lotta politica. Ma ad Hong Kong la figura di Pepe The Frog, rana verde dall’aspetto grottesco che negli Stati Uniti vuol dire alt-right e suprematismo bianco, qui – forse ignorando il significato che ha oltreoceano – è simbolo del movimento giovanile e della sua lotta per la libertà.

Ogni rivoluzione ha i suoi simboli, e i movimenti di Hong Kong non sono da meno. Nel caso dell’ex colonia britannica, le prime proteste pacifiche del settembre del 2014 sono associate in maniera inscindibile ad un oggetto, l’ombrello, in quel caso di colore giallo sgargiante.

Oggi le proteste si sono evolute rispetto ad allora, e a partire dai timidi appelli iniziali di rispettare la tanto agognata promessa di “un Paese due sistemi”, le richieste si sono fatte via via più ardite. L’annuncio di una legge sull’estradizione unito a violenze e soprusi da parte delle forze dell’ordine ne ha cambiato completamente i toni. La necessità era diventata combattere, anima e corpo, per difendere la propria identità, e quando non ha armi proprie uno inizia a ingegnarsi su come anche un oggetto comune possa contribuire alla causa.

Gli esiti creativi delle proteste erano stati già indagati sia dal New York Times che dal progressista South China Morning Post, che si era soffermato sul racconto di un vero e proprio “team creativo” che curava alcuni degli aspetti dell’estetica artistica dei movimenti.

In un clima sempre più polarizzato, la repressione passa anche per la messa al bando di alcuni oggetti, il cui acquisto o possesso viene limitato. Con le continue perlustrazioni nelle strade e nei campus, girare con determinati oggetti in tasca o nello zaino oggi equivale all’arresto. Anche il solo possedere abiti neri ora significa rischiare.

Le proteste si contaminano l’un l’altra, simboli e riti spesso ritornano nella Storia. Se i manifestanti di Hong Kong hanno deciso di non impiegare gli stessi oggetti dei caçerolazos cileni – pentole e suppellettili usati per fare rumore – movimenti nati per protestare contro il governo autoritario negli anni 70 e riapparsi sulla scena pubblica in tempi moderni contro Piñera, da loro hanno ripreso però alcuni riti. Un esempio sono i “canti delle dieci di sera”. Ogni giorno a quell’ora precisa, nel centro della metropoli, dalla sicurezza dei propri appartamenti, i manifestanti spezzano il rumore del traffico con un vociare continuo: slogan e cori pro-democrazia invadono il centro, «Liberate Hong Kong, rivoluzione ora» gridano e in una città così densa a livello abitativo la cosa fa un discreto effetto.

Terreno di scontro è anche la lingua, con l’imposizione forzata del mandarino (lingua ufficiale della Cina) che tenta in ogni modo di sovrastare il cantonese (parlato dalla gente di Hong Kong, Macao e dalla più ampia provincia del Guangdong), invadendo programmazione televisiva, radiofonica e con un revisionismo che parte dagli stessi testi di studio in uso nelle scuole. Hong Kong è fastidiosa per la Cina continentale anche perché ha università, intellettuali, scuole, e stampa libere.

Ogni protesta ha i suoi simboli, ogni protesta ha i suoi oggetti, e spesso le due cose coincidono. L’estetica, lungi dall’essere un elemento superficiale, si fa concreta, dà forma alle cose. Parte da qui l’idea dell’esposizione Default – A Hong Kong Study, realizzata dal collettivo ferrarese Hpo, ora in mostra nel loro nuovo spazio espositivo. «L’uso creativo di oggetti all’apparenza convenzionali ne modifica la funzione – commentano – i limiti del contesto dato portano a trovare soluzioni che sono tanto rilevanti quanto innovative, un’attitudine nei confronti della realtà strettamente legata alla professione architettonica, il cui scopo principale è proprio il risolvere i problemi o almeno ostinarsi nel tentare».

Tutto può avere una funzione che va ben oltre il suo utilizzo convenzionale: i puntatori laser vengono utilizzati per mettere fuori uso telecamere e sistemi di sorveglianza, i coni della segnaletica stradale vengono utilizzati per attenuare gli effetti dei lacrimogeni, i coperchi dei bidoni della spazzatura e le valigie diventano scudi. E poi c’è l’acqua, che è sia quella usata per lavare gli occhi dai fumi acri dei lacrimogeni, sia intesa in senso metaforico, come nella “predicazione del fluido” di Bruce Lee. Letterale e letterario.

Be water è uno slogan spesso messo in pratica dai manifestanti. Mai stare troppo a lungo nello stesso posto, per evitare sgomberi e attacchi da parte delle forze dell’ordine le manifestazioni devono essere fluide, non statiche, devono potersi muovere, di via in via, di stazione in stazione, da piazza a piazza, proprio come fa un liquido.