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Allons enfants, come si fa uno sciopero generale

Protesters are standing behind a large banner that reads "Students, workers, unemployed, all in solidarity" and a sign that reads "Let's Revolt Up" on Thursday, December 5, 2019, the first day of a major strike against pension reforms, a major demonstration was announced in Paris. About 65,000 people walked between the Gare de l'Est and Place de la Nation. Clashes between police officers and demonstrators took place on the Place de la République and at the end of the demonstration. (Photo by Samuel Boivin/NurPhoto via Getty Images)

Da circa due anni la Francia è percorsa da conflitti sociali profondi, di lunga durata, che sono sfociati, a dicembre, nel grande sciopero generale contro la riforma delle pensioni che sta paralizzando la Francia. Il governo Macron, già indebolito dalla protesta dei Gilet gialli, è sul punto di crollare. Diamo qui una breve cronaca diretta degli eventi principali.

Primo giorno di sciopero generale (5 dicembre 2019, giovedì)
Già dalla mattina Alitalia ha soppresso il volo per Parigi delle 10.20. Spostato sul volo delle 15.20, sbarco all’aeroporto Charles de Gaulles che trovo assai meno animato del solito. Anzi, quasi silenzioso. La Francia è bloccata dal più grande sciopero generale dell’ultimo ventennio, dal lontano dicembre del 1995, quando contro un analogo progetto del governo Juppé di «riforma» (imbroglio) dell’intero sistema di protezione sociale, comprese le pensioni dei lavoratori dei trasporti e della funzione pubblica, per tre intere settimane, fino a Natale, i lavoratori fermarono un intero Paese, con la piena solidarietà e collaborazione di tutti i cittadini. Milioni di francesi solidali.

Io c’ero, in quella circostanza. Mi trovai catapultato da Roma in una Parigi surreale, bellissima, che raggiunsi in autostop dall’aeroporto di Orly Sud. Il clima di solidarietà e di festa era inconcepibile, mai visto: la gente s’aiutava senza chiedere nulla in cambio; il covoiturage – il prendere l’auto in comune – era diventato il solo mezzo per spostarsi dentro Parigi, era gratuito, funzionava e stava diventando un importante momento di socializzazione e di condivisione della lotta.

Questa volta, il 5 dicembre 2019, nel primo giorno di sciopero, prevale la gran quantità di bici elettriche e di trottinettes, monopattini elettrici sparsi un po’ ovunque in Parigi. E i bouchons, i mega-ingorghi: più di 550 km di code solo attorno alla cintura della Périphérique (il raccordo anulare) della capitale, il doppio del normale. Un’ora e un quarto per raggiungere Porte de Clichy da Porte de Clignancourt. Ma anche questa volta la solidarietà ha…

Il reportage di Paolo Quintili prosegue su Left in edicola dal 27 dicembre 2019

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Le sardine neonate e le lacrime di Batavia

Centomila sardine in piazza S. Giovanni a Roma il 14 dicembre, piazze piene in tutta Italia e anche all’estero: il movimento ha centrato tutti gli obiettivi previsti e sembra marciare a gonfie vele. Questa nuova creatura apartitica ma politica è stata paragonata ad un bambino che ha solo un mese di vita: suscita quindi la speranza in un qualcosa di nuovo mentre è evidente la sua fragilità. Innumerevoli le adesioni pubbliche, i commenti entusiastici, i sarcasmi e le critiche. Per esempio il nome stesso, ispirato a una specie ittica ha suscitato perplessità: si sarebbe preferita una denominazione più altisonante e battagliera.

In realtà il termine “sardine” , che rimanda ad una stretta contiguità, al contatto fisico dei partecipanti è quantomai azzeccato in quanto esso è una citazione involontaria di Elias Canetti. L’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo, affermava quest’ultimo: «Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto». All’interno della massa chiunque ci venga addosso è uguale a noi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada come in un unico corpo. Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa.

Nella formazione di una moltitudine che assomigli ad un unico organismo denso e compatto, le angosce persecutorie suscitate da un’alterità vissuta come estranea ed inquietante si placano di colpo per un processo irrazionale e danno vita ad un sentimento di comune appartenenza. Paradossalmente la politica della Lega e della destra in Italia, tesa a fomentare l’odio e la paranoia per tutto ciò che appare come diverso e a creare aggregazioni sottomesse ciecamente a leadership carismatiche, ha gettato i presupposti per una reazione contraria e speculare, per un movimento collettivo dove tutti si…

 

L’articolo di Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola dal 27 dicembre 2019

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Politici come rockstar senza voce

"Babbo Natale mi avrà voluto mandare un messaggio..??". Così il segretario federale della Lega, Matteo Salvini, in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, 25 dicembre 2019. TWITTER MATTEO SALVINI +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Matteo Salvini ha cantato in playback di fronte all’albero di Natale per condividere il video sul social TicToc, quello dove ci stanno i ragazzini. I ragazzini e i Salvini.

Giorgia Meloni si è fotografata con il cappello di Babbo Natale. Una donna travestita da Babbo Natale tra l’altro è assolutamente contro le sue teorie: un Natale gender. Roba da mettersi le mani nei capelli.

Silvio Berlusconi si è fotografato mentre palpeggia una palla del suo sontuoso albero tutto sbriluccicante. Una foto tutta metallizzata.

Il Natale per i politici italiani è il momento più caldo dell’appuntita attività social quotidiana, tutti impegnati a rassicurare, a mostrarsi come noi, a spremersi per sembrare interessanti ma intelligenti ma simpatici ma non troppo melensi ma non troppo uguali ai concorrenti politici.

Gli uomini pagati e eletti per trovare soluzioni spremono energie, idee e soldi per partorire messaggi social che possano aumentare un consenso che si basa tutto sull’empatia, tutto di pancia, senza contenuti, senza progetti. Stimolare simpatia come primo obiettivo di un politico è un obbrobrio a cui ci siamo abituati ma non per questo è meno deplorevole. E ci siamo abituati. E quelli ne approfittano ed è tutto una discesa verso il basso.

Immaginate un dentista che provi a convincervi a estrarvi un dente mostrandovi quanto è bravo a ballare la Macarena; oppure immaginate un fruttivendolo che vuole vendervi le mele per la simpatia con cui monta un mobiletto in cucina oppure un idraulico che vi invita a dargli fiducia perché mangia lasagne con un bicchiere di vino rosso.

Ma non vi fa schifo? Anche con tutto lo spirito natalizio possibile, non è una miseria di contenuti?

Fanno i politici perché non sanno cantare per diventare rockstar e non sono abbastanza abili nel dribbling per diventare calciatori. Usano il podio mica per fare i comizi: solo per stare più in alto.

Buone feste.

Buon venerdì.

Perché per vincere le mafie non basta dire “Io sto con Gratteri”

Nicola Gratteri durante la relazione conclusiva della Commissione Antimafia della XVII legislatura, Roma, 21 febbraio 2018. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Premetto che ho conosciuto Nicola Gratteri e lo ritengo persona preparata e onesta ma, quando leggo in questi giorni le innumerevoli attestazioni di stima nei sui confronti e per la grande operazione anti-ndrangheta condotta, mi lascia stupefatto la frase fatta: “Io sto con Gratteri”.

Mi torna continuamente in mente un concetto espresso da Rita Atria: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici». Guardando l’Italia di oggi mi chiedo: siamo davvero con Gratteri? Io credo di no! Lo siamo a chiacchiere ma con i fatti certamente no! Provo a dimostrarlo.

Siamo con Gratteri quando sistemiamo nostro figlio in un posto di lavoro, togliendolo ad un altro che lo meriterebbe poiché nostro figlio è un asino? Siamo con Gratteri quando da imprenditori partecipiamo ad un appalto ottenuto con un giro losco che ci ha permesso di vincerlo a discapito di altri imprenditori onesti? Siamo con Gratteri quando corrompendo abbiamo ottenuto ciò che non ci spettava? Quando scavalchiamo le liste di attesa per un esame medico passando avanti a chi ne ha più bisogno di noi, siamo sicuri di stare con Gratteri?

Perché a chiacchiere tutti noi odiamo la mafia, ma poi se ci servono voti per essere eletti non esistiamo a stringere la mano a qualcuno in odore di mafia che può procurarceli. Quando ci voltiamo dall’altra parte e lasciamo spazio a chi uccide la speranza dei nostri figli sostituendosi allo Stato e alla legalità rinneghiamo l’operato di Gratteri. Non stiamo con lui neanche quando nostro figlio fa il bullo con i suoi coetanei e noi andiamo a difenderlo a scuola contro tutto e tutti. Non siamo con Gratteri neanche quando non trasmettiamo ai nostri giovani l’amore per la conoscenza, il rispetto per il sacrificio e approviamo l’idea che “tanto alla fine i corrotti hanno successo e gli onesti no”.

Ricordiamoci però che quei corrotti spesso sono mafiosi o amici dei mafiosi. La nostra mafiosità, non così troppo occulta, sta proprio nell’accettazione del vantaggio non meritato, nel concetto di “adeguati alla illegalità se vuoi far carriera”. Perché se la mafia ha permeato ogni angolo dello Stato (Università, ospedali, istituzioni pubbliche e private di ogni genere) è perché in fondo siamo anche noi, in parte o totalmente, mafiosi dentro, non lo ammetteremo mai eppure lo siamo. Probabilmente abbiamo assorbito il virus della mafiosità e la loro mentalità e non ce ne siamo accorti e quando ce ne siamo accorti ad alcuni di noi è convenuto utilizzarla per il proprio tornaconto.

Siamo consci che con i nostri comportamenti siamo esattamente ciò che Gratteri e tantissimi magistrati come lui – Falcone e Borsellino prima di loro – combattono ogni giorno? Siamo sicuri che quando scriviamo “Io sto con Gratteri” non scriviamo una frase fatta priva di contenuto? So di essere stato troppo caustico in ciò che ho scritto e sto per scrivere ma ritengo che noi italiani non siamo degni di Nicola Gratteri, come non eravamo, e non lo siamo ancora, degni di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di tutte quelle persone uccise dalle mafie di cui non abbiamo più alcun ricordo né memoria alcuna.

L’Italia non è degna di queste persone eccezionali, perché non abbiamo imparato nulla dal loro sacrificio! Mi rivolgo soprattutto ai ragazzi: proviamo a non girarci dall’altra parte davanti a un sopruso. Proviamo a cambiare noi per primi non dando linfa vitale alle mafie. La mafia è tra noi ogni giorno, proviamo a non chiudere gli occhi! Liberiamoci dalle catene della mafia definendola una vera e propria “putrefazione della società”. Proviamo a portare un barlume di speranza a questo nostro Paese sempre più in declino. Uniamo le forze per eliminare questa piaga che affligge la società e la nostra gioventù, “perché il cancro delle mafie non può essere affrontato agendo isolati”.

Per debellare questa metastasi che colpisce ormai ogni organo vitale del Paese, occorre un movimento popolare, un’iniziativa che parta dalla società a ogni livello. Noi faremo la nostra parte, ma se ci fermiamo alle dichiarazioni d’intenti come “Io sto con Gratteri” senza riempirla di concretezza, non andremo lontano. Mi auguro che questa mia critica sia intesa come stimolo di un impegno continuato che vada ben di là di un proclama, diventando un tema prioritario e un impegno concreto nella lotta alle mafie.

Il mio maestro Antonino Caponnetto, mi ha inculcato l’idea che la cultura vince sulle mafie e la scuola sull’ignoranza. Se è così, e io ne sono fermamente convinto, dobbiamo far comprendere ai nostri giovani che l’illegalità non paga ma i libri e la conoscenza sì. Se riusciremo in questa impresa allora potremo affermare con la coscienza a posto: “Io sto con Gratteri”!

Vincenzo Musacchio, giurista, associato per il diritto penale
alla School of Public Affairs and Administration della Reuters University di Newark

Sardine di tutto il mondo unitevi

L’immagine del banco di sardine che, pur essendo individualmente piccolissime, stando vicine, risultano più grandi dello squalo e lo allontanano, è un’immagine potente. C’era un cartello fatto in casa che diceva: “Sardine di tutto il mondo unitevi!”. Ma chi è lo squalo? E cosa tiene unito il banco di sardine?

I temi ascoltati in piazza San Giovanni a Roma compongono anch’essi un’immagine potente. Si è parlato dei decreti “sicurezza”. Tolgono agli immigrati le possibilità di base per vivere costruendo aggregazioni fatte di lavoro e dignità, spingendoli alla disperazione e rendendoli preda di delinquenti spesso molto italiani. I decreti “sicurezza” creano insicurezza e degradano la convivenza civile.

È tipico degli squali creare insicurezza sociale per poi fare decreti sicurezza sempre più disumani. La storia di Riace è emblematica. Distruggere una realtà di pacifica aggregazione civile laddove il paese si spopolava e avanzava la desertificazione, è l’unica “sicurezza” che risulta da queste norme. Le conseguenze sono il proliferare di situazioni di stile concentrazionario e del caporalato schiavista. È di questi giorni la notizia che anche nel nord Italia sono stati scoperti casi di immigrati sfruttati e ricattati costretti a lavorare venti ore al giorno! Per gli squali le regole della convivenza fra cittadini non sono fatte per favorire l’intesa fondamentalmente naturale fra gli esseri umani, ma per stabilire a priori chi è umano, chi semi-umano e chi non lo è affatto.

In piazza San Giovanni altro tema centrale è stato l’antifascismo inscritto nei contenuti della nostra Costituzione. A tal proposito, il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Simona Maggiorelli su Left del 22 novembre 2019 riporta i dati Eures sul femminicidio in Italia. A fronte del calo di omicidi in totale, dal 2000, sono aumentati i femminicidi, soprattutto in famiglia. Non dalla presenza di immigrati quindi derivano i crimini, ma da una cultura patriarcale e religiosa, esaltata dalle destre. L’aumento dei femminicidi ci accomuna alla Spagna. È interessante la riflessione che Maggiorelli fa sulla carenza di elaborazione riguardante il passato fascista di Italia e Spagna. I sovranisti, riproponendo le ideologie di Dio, Patria e Famiglia, ci offrono l’occasione di fare finalmente qualche nuova elaborazione. Le tradizioni religiose monoteiste sono il terreno di coltura delle dimensioni patologiche che agiscono la violenza sulle donne.

La patria è intesa come una istituzione contrapposta per sua natura a un nemico esterno e, per il fascismo, fu strutturalmente connotata dal colonialismo basato sull’idea della superiorità della razza italica.  La traduzione odierna di questa concezione usa il termine “sostituzione etnica” per paventare il pericolo che l’etnia superiore italica venga sostituita da una inferiore straniera. La famiglia è “istituzione” prima che luogo di incontro fra esseri umani diversi che si realizzano nella loro diversità. La donna è al servizio di questa istituzione per produrre figli.

Marina Turi, anche lei su Left del 22 novembre, ci racconta dell’avanzare della formazione politica Vox, che ha aumentato il consenso in Spagna, la quale arriva a negare l’esistenza dei femminicidi e, per bocca di una sua deputata, afferma che vorrebbe istituire l’obbligo per le scuole di insegnare, invece che il femminismo, il cucito: perché «cucire un bottone dà molto potere». Anche da noi esponenti della destra sovranista rilasciano interviste in veste di donne che avrebbero lottato contro la discriminazione sessista.

A volte gli squali si mascherano da sardine. Il lavoro più difficile è non farsi confondere.

C’è una proposizione di Massimo Fagioli nella quale si coglie profondamente questo aspetto. Effettuando una critica, che egli sulla rivista Il Sogno della Farfalla (n. 4 del 2013) definisce “coraggiosa”, a Marx, afferma: «…proponeva solo una liberazione dalla repressione e non una ricerca per la realtà umana che ancora non era formata. C’era l’idealizzazione dell’oppresso, del diseredato, dello sfortunato, ignorando completamente la possibilità della complicità della vittima con il carnefice».

L’editoriale di Elena Ilardi è tratto da Left in edicola dal 27 dicembre

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Arrivano le sardine nere

A woman holds a placard reading "Rome does not bind" (playing on words with Lega, which is the Italian name of the far-right League party) during a demonstration of the "Sardine Movement", formed to oppose the far-right League party, on December 14, 2019 in Rome. - Italy's youth-driven "Sardine Movement", formed to oppose the far-right League party, was launched by four little-known youths saying the anti-immigration League party led by Matteo Salvini represents hate and exclusion. The sardine has become a symbol of protest against Salvini, a former interior minister. (Photo by Andreas SOLARO / AFP) (Photo by ANDREAS SOLARO/AFP via Getty Images)

Ad un mese e mezzo da quando a Bologna tutto iniziò, il movimento delle sardine si è arricchito di voci, slogan, corpi. Di settimana in settimana, ad ogni bagno di folla che invadeva le piazze italiane, maturava la consapevolezza di quanto fosse ricca e composita la galassia di esseri umani che dicono «no» a Salvini e ciò che rappresenta. Un rifiuto espresso prima di tutto attraverso la propria presenza fisica, la propria partecipazione ad un rito laico collettivo e pacifico, in cui lo stringersi insieme di persone diverse per Paese d’origine, sesso, classe sociale, prelude ed evoca una democrazia inclusiva oggi minacciata dai politici della paura.

In questo Mare magnum, poi, c’è anche chi cerca di fare un passo in avanti, e dotare il movimento di alcuni punti programmatici. Per andare oltre alla pur indispensabile – ma giocoforza indefinita – negazione delle politiche dell’odio. Stiamo parlando delle “Sardine nere”. Nate all’interno del movimento Migranti e rifugiati di Napoli, sono stanche di «parole e proclami»: vogliono un piano di azioni concrete contro il razzismo, che li riguarda in prima persona. In quanto profughi, sans papier, titolari del permesso di soggiorno per motivi umanitari che Salvini ha voluto abolire. Una serie di soggetti da anni nel mirino della politica di destra e purtroppo anche di centrosinistra, che hanno deciso di prendere parola. Chiedono l’abolizione dei decreti Minniti, Salvini I e II; la rescissione degli accordi con la Libia, una sanatoria che non colleghi il titolo di soggiorno al possesso di un lavoro, lo ius soli per tutti gli immigrati nati qui. L’hanno ribadito anche dal palco di San Giovanni, a Roma il 14 dicembre. Prima di farli salire, gli organizzatori hanno opposto qualche resistenza. D’altronde, il loro intervento non era in scaletta. Poi sono stati concessi loro alcuni minuti.

«Crediamo che non si debba aver paura di parlare di certi temi. Intolleranza e razzismo crescono proprio perché molte persone ne sono a digiuno, non li hanno mai affrontati in profondità – dice a Left Abdel El Mir, 29enne di origini marocchine, portavoce delle Sardine nere -. Oggi assistiamo ad una propaganda continua sul tema immigrazione, senza peraltro che i soggetti direttamente coinvolti trovino…

 

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 27 dicembre

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La storia è una bussola civile

Anche in epoca di crisi, nel 2008, la Germania e altri Paesi europei hanno investito nella scuola e nell’università come volano di sviluppo, non così in Italia. All’epoca di Berlusconi furono drasticamente tagliati i fondi alla scuola e alla cultura. E da allora non c’è stato alcun reintegro. Abbiamo chiesto cosa ne pensa al ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti.

Ministro Fioramonti, lei più volte ha posto la questione dei fondi per la scuola e per la ricerca, come settori strategici per il futuro dei giovani e per la crescita democratica del Paese. È urgente un cambio di rotta?

È più che urgente. È necessaria un’importante inversione di tendenza. Questa sensibilità nel nuovo esecutivo l’ho colta, ma ora servono i fatti. Risorse. Stanziamenti. È vero: i grandi Paesi in Europa hanno investito nell’istruzione e nella ricerca, con il risultato di una spinta decisiva alla loro economia. Investire sulla formazione non incide solo sul prodotto interno lordo, ma anche sulla qualità di quello che si fa e si produce. Non c’è futuro senza un’economia della conoscenza. Aver tagliato i fondi all’istruzione ha reso l’Italia meno reattiva alle sfide contemporanee, dallo sviluppo tecnologico alla riconversione industriale in senso sostenibile. Per questo ogni giorno mi batto per incrementare gli stanziamenti. A Bruxelles, dove sono stato recentemente per la riunione del Consiglio dell’Unione Europea sull’educazione, anche tutti i ministri delle Finanze hanno convenuto su come sia indispensabile investire in formazione e ricerca. Prendendo spunto da questo, se è l’Europa che indica questa strada, bisogna che consenta a tutti i Paesi di avere lo stesso passo. Un’idea è che questi investimenti siano scorporati dai parametri di bilancio richiesti dall’Unione.

I giovani dei Fridays for future pongono domande radicali non solo per fermare il climate change ma anche parlando di sviluppo sostenibile, immaginando un modo diverso di fare società. Inserire un insegnamento ad hoc su questi temi, come lei ha proposto, può essere un primo passo, in che modo? Sarà a costo zero?

Dal prossimo anno scolastico tutte le scuole dedicheranno 33 ore, quindi un’ora a settimana, all’educazione civica. Stiamo lavorando a un modello innovativo. Vogliamo centrare l’educazione civica anche sulle grandi questioni legate ai cambiamenti climatici, sui diritti ambientali, sulla lotta alle disuguaglianze. Punto di riferimento saranno i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Dobbiamo ascoltare le richieste dei giovani di un cambiamento culturale incentrato sul pianeta. A gennaio partirà la formazione dei docenti.

L’hate speech si combatte anche a scuola? Occorre rafforzare l’insegnamento di storia oltreché ripristinare la traccia di storia all’esame di maturità?

Sì, si combatte anche a scuola, dove si devono offrire strumenti per un linguaggio consapevole. E il ruolo dei docenti, ovviamente, è fondamentale anche in questo: spetta a loro educare gli studenti all’uso responsabile delle parole. Le scuole devono essere il posto dove si impara a contrastare l’odio, anche attraverso lo studio della storia. La storia è una bussola civile, non può essere solo una sequenza di date. E ripristinarne la traccia alla Maturità è il primo passo di un percorso più articolato che restituisce centralità a questa disciplina.

I costituenti pensarono e scrissero con grande lungimiranza l’articolo 9 che tutela il patrimonio artistico e il paesaggio legandolo alla ricerca. Ma il ministro Gelmini del governo Berlusconi ha tagliato l’insegnamento della storia dell’arte. Cosa ne pensa?

La storia d’Italia non prescinde dalla storia dell’arte. Siamo il Paese nel mondo che custodisce quello che è di gran lunga il più grande patrimonio artistico e culturale e una riflessione su come recuperare questo insegnamento la stiamo già facendo.

La scuola deve essere aperta a tutti. Una sentenza della Corte europea ha stigmatizzato la presenza del crocifisso nelle aule come elemento discriminante, appendere alle pareti mappe geografiche o articoli della Costituzione tutelerebbe di più credenti e non?

Lei cita una sentenza di una decina d’anni fa, ma poi la Corte europea si è espressa anche in modo diverso, accogliendo proprio un ricorso del governo italiano che difendeva l’esposizione del crocefisso nelle aule. Ho già detto qual è il mio pensiero di laico, un pensiero cauto e problematico, ed è stato deformato e strumentalizzato affermando che volevo togliere i crocefissi dalle classi. La scuola ha bisogno di tante cose, a cominciare dalla messa in sicurezza degli edifici, ma non ha bisogno di polemiche dove la tutela dei credenti o degli atei non è più un tema di rispetto delle diverse sensibilità ma è soltanto un pretesto.

Che effetti produrrebbe l’autonomia differenziata? L’Italia, una e indivisibile, sarebbe messa in discussione come luogo dell’esigibilità di diritti garantiti per tutti?

L’autonomia differenziata nella scuola è una falsa soluzione. I criteri divisivi non portano a nulla.

I sindacati hanno lanciato una mobilitazione a causa degli impegni disattesi sul concorso della scuola, come affrontare la questione?

I sindacati fanno la loro parte, sarebbe un problema il contrario. Difendono i diritti dei lavoratori della scuola con molte buone ragioni. Ma sul concorso della scuola abbiamo trovato un difficile percorso di stabilizzazione, e l’abbiamo trovato insieme ai sindacati. Più insegnanti di ruolo e meno precari. Io chiedo solo, come ministro, che ci vengano date le risorse per non scontare altri ritardi su questo percorso condiviso.

L’articolo 28 della legge di stabilità istituisce l’Agenzia nazionale della ricerca i cui vertici saranno in gran parte di nomina politica. Cosa ne pensa? Non dovrebbe essere guidato da una figura di alto profilo scientifico?

Un’Agenzia nazionale servirà a portare ricerca e formazione al centro della nostra politica economica. Dovrà essere governata dalla comunità scientifica, come nelle migliori pratiche internazionali, e non dalla politica. Sono sicuro che la discussione parlamentare porterà miglioramenti e offrirà indicazioni utili. Ritengo che la scelta sulla governance dell’Agenzia vada stralciata dalla manovra e rinviata a una norma successiva dopo un confronto con la comunità di ricerca.

Cosa rispondere ai tanti ricercatori che vorrebbero poter scegliere anche di restare in Italia?

È grave che vi siano ricercatori italiani costretti ad andare a lavorare all’estero. Va bene fare un’esperienza di formazione all’estero. Ma che questo avvenga perché si è costretti, no, non va bene. Ogni ricercatore per la sua preparazione ci costa trecentomila euro. Se poi va a lavorare fuori dall’Italia è come se noi questi soldi li avessimo regalati all’economia di un altro Paese. È necessario ragionare su un nuovo modello di sviluppo che porti al centro la ricerca. Servono finanziamenti, risorse, idee della politica. Le energie e le qualità umane ci sono.

Intervista pubblicata su Left del 15 novembre 2019

Riportiamo la persona al centro della politica

ROME, ITALY - DECEMBER 14: People take part in a rally protest organized by the new anti-fascist ideological movement, Le Sardine, at San Giovanni, on December 14, 2019 in Rome, Italy. The Sardine, new anti-fascist ideological movement is born to challenge the politics of Lega political party leader, Matteo Salvini, and to express its opposition to populist forces.(Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

«Come abbiamo già annunciato a Roma, continueremo a scendere in piazza. Per questo, dopo esserci incontrati, stiamo lavorando alle diverse iniziative che verranno realizzate in tutti i territori, a cominciare naturalmente dall’Emilia Romagna. Nelle prossime settimane ne daremo comunicazione», promette Massimiliano Perna di 6000sardine, il comitato che ha dato il la al movimento e che ha stilato il manifesto antileghista subito diventato virale e in cui si legge: «Cari populisti non c’è niente da cui ci dovete liberare, siamo noi che dobbiamo liberarci della vostra onnipresenza opprimente, a partire dalla rete. E lo stiamo già facendo. Perché grazie ai nostri padri e madri, nonni e nonne, avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare».

L’antirazzismo e il riferimento al fronte ampio dell’antifascismo sono ciò che caratterizza il movimento fluido e magmatico delle sardine che ha riempito le piazze emiliane, per inondare Firenze, Torino, Roma e molte altre città in giro per il mondo.

«L’antifascismo è alla base della nostra Costituzione nata dalla Resistenza, condotta con generosità da donne e uomini con idee e visioni politiche diverse. Socialisti, liberali, comunisti, repubblicani, cattolici, persino monarchici, uniti dalla voglia di liberare il Paese e donare la libertà alle generazioni successive», commenta Perna, giornalista, scrittore e attivista del movimento.

E oggi cosa vuol dire essere antifascisti per te? «Significa…

 

L’intervista di Simona Maggiorelli a Massimiliano Perna (6000 sardine) prosegue su Left in edicola dal 27 dicembre

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Mai più. La vergogna italiana dei lager per immigrati – introduzione

Migrants wear Id bracelets aboard of the Norwegian Siem Pilot ship during a migrant search and rescue mission off the Libyan Coasts, Tuesday, Sept. 1, 2015. Four dead bodies and hundreds of migrants were transferred on the Norwegian Siem Pilot ship from an Italian Navy ship and a Doctor Without Borders vessels after being rescued in different operation in the Mediterranean sea. (AP Photo/Gregorio Borgia)

«Centri di permanenza temporanea e assistenza» fu il nome che venne dato alle prime strutture di detenzione amministrativa per migranti sorte in Italia dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano. Correva l’anno 1998 e già da allora si diceva, nel centro sinistra, che bisognava coniugare accoglienza e sicurezza, ponendo l’accento sempre più sul secondo termine. I Cpta, acronimo delle strutture (ma la «a» di assistenza venne dimenticata), vennero realizzati in maniera improvvisata prima ancora di dare loro un quadro normativo. Per la prima volta nel nostro Paese, nel resto d’Europa era già prassi, si potevano privare le persone della libertà personale in virtù del fatto che la loro presenza non era considerata regolare. La finalità dei centri riguardava gli «stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile». Persone che non avevano commesso reati, rinchiuse per ciò che erano. Per facilitare i rimpatri delle persone non gradite, l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano si affrettò a siglare i primi accordi bilaterali di riammissione con alcuni Paesi del Nord Africa che raramente produssero i risultati sperati. I centri, in cui si poteva restare rinchiusi fino ad un mese in attesa dell’espulsione, nacquero da un giorno all’altro e senza organicità.

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Nel 2006 si aprì il Cpt di Gradisca D’Isonzo, ribattezzatola «Guantanamo italiana» per l’uso di tecnologia avanzata atta a impedire fughe, rivolte, socialità eccessiva fra gli “ospiti”. Sì, perché chi vi era trattenuto non era considerato detenuto bensì ospite, al punto che se riusciva a fuggire, nonostante si scatenassero cacce all’uomo, gli addetti alla vigilanza delle strutture non potevano essere perseguiti per negligenza. A Ragusa ne aprì uno solo per donne in pieno centro città con telecamere interne alle stanze delle “ospiti” e con personale quasi esclusivamente maschile, chiuse quello di Agrigento per difficoltà di gestione e ne venne aperto uno a Caltanissetta (località Pian Del Lago), si spostò quello di Bari, per pochi mesi ne restò aperto uno a Trieste mentre nelle altre città si rese difficile la loro realizzazione. Per l’opposizione degli enti locali, o più spesso perché popolazione, movimenti sociali – insieme alle difficoltà di reperire strutture idonee – ne impedirono la realizzazione. Come nel caso di Corridonia, nel maceratese. Nel frattempo, nel 2002, era entrata in vigore la Bossi-Fini, che raddoppiava i tempi massimi di trattenimento (da 30 a 60 giorni) ma si andava rapidamente dimostrando il fallimento di tale approccio all’immigrazione. I centri sin dalla loro apertura si erano dimostrati luoghi da cui si tentava di fuggire e in cui si moriva. La notte di Natale del 1999 veniva trovato morto, nel Cpt di Ponte Galeria, Mohamed Ben Said, 39 anni, mascella rotta e forse imbottito di psicofarmaci.

C’è un calcolo macabro scomparso dalla storia ufficiale, quello di coloro che hanno perso la vita a causa della detenzione in questi spazi in cui non valevano e non valgono nemmeno le garanzie dei regolamenti penitenziari, spazi pensati esclusivamente come zoo temporanei per persone. Per parecchi anni, soprattutto fino al 2007, si sono realizzate mobilitazioni per chiedere la chiusura dei centri – la più grande a Torino nell’inverno 2002 -, numerose e praticamente in ogni città in cui c’erano Cpt o dove si minacciava di aprirli. I “clandestini”, in parte rinchiusi nei centri dopo periodi di detenzione in cui non erano stati identificati, i cui provvedimenti di convalida del trattenimento erano affidati a giudici di pace (mai utilizzati fino a quel momento per autorizzare la limitazione della libertà personale), una volta non rimpatriati tornavano fuori in condizioni di irregolarità, con l’obbligo di lasciare entro pochi giorni il territorio nazionale. Solo propaganda insomma e costruzione della fortezza escludente per rinchiudere il “nemico interno” e dimostrare che lo Stato si prende cura della sicurezza dei cittadini. Nel 2006 venne istituita una Commissione indipendente per analizzare il funzionamento dei Cpt, presieduta dal diplomatico Staffan De Mistura, che presentò un suo rapporto il 1 febbraio del 2007. La conclusione era pilatesca: i Cpt non dovevano essere chiusi ma «superati», riducendo al minimo il numero delle persone da trattenere, il tutto proprio mentre si riconosceva il fallimento di tali strutture. Nel 2009 col cambio di governo, il nuovo ministro dell’Interno, Roberto Maroni, incentivò invece l’utilizzo dei trattenimenti. I Cpt cambiarono acronimo diventando Cie (Centri per l’identificazione e l’espulsione), rompendo almeno una ipocrisia lessicale di fondo, e si portò a sei mesi il tempo massimo di trattenimento, trasformandoli di fatto in carceri senza neanche gli elementi propri di un sistema penitenziario e dando via così a un ciclo di rivolte e sommosse.

Nel 2011 il governo arrivò a vietare a giornalisti, operatori di organizzazioni umanitarie non accreditati, amministratori locali e a tutte le altre figure esterne, l’accesso ai Cie. Da un appello di alcuni operatori dell’informazione raccolto dalla Federazione nazionale della stampa e dalla mobilitazione di settori sensibili di società nacque la campagna LasciateCIEntrare. Il successivo governo Monti, con la ministra Cancellieri, sospese l’efficacia della circolare che vietava l’accesso ai centri ma il potere di limitare le visite restò nelle mani dei prefetti. Nel frattempo furono tante le rivolte che scoppiarono e portarono a dover chiudere sezioni dei centri quando non le intere strutture. In poco tempo i Cie aperti si ridussero a quattro, ma intanto si stava entrando già nel periodo vicino ai giorni nostri. Il ministro Minniti rinominò i centri che diventarono Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). In tutti questi cambiamenti di acronimi ci sono modifiche normative che illustreremo in seguito, ma il tentativo – da anni perseguito – è quello di aprirne almeno uno in ogni regione. Infine, menzioniamo due capitoli che meriterebbero da soli ulteriori e attenti approfondimenti. Per l’autunno 2019 sono previste mobilitazioni per impedire la riapertura o la apertura di Cpr e per denunciare l’inaccettabile prolungamento a 180 giorni dei termini massimi di trattenimento in queste strutture, come previsto dal primo decreto sicurezza firmato da Salvini, mentre alcune forze politiche vorrebbero si arrivasse al tetto di 18 mesi di detenzione.

Il futuro dei Cpr è incerto. Tutti i tentativi di dichiararli incostituzionali sono falliti seppure la stessa sovraordinante direttiva europea 115/2008 consideri il trattenimento come una estrema ratio e non la norma. Il decreto sicurezza permette ad oggi di trattenere chi risulta privo dei requisiti per restare in Italia anche in luoghi diversi dai Cpr ritenuti idonei. Quali sono? Zone aeroportuali, camere di sicurezza, sezioni riservate di penitenziari? Tutto è possibile con le nuove norme. Le strutture di detenzione amministrativa sono state pensate e potenziate per proteggere i confini europei e garantire la sicurezza interna, ma si sono rivelate enormi voragini in cui sparivano persone, soldi pubblici e moriva lo Stato di diritto. Una ragione in più per parlarne con maggior cognizione di causa e per tornare a chiederne a gran voce la definitiva abolizione, anche in quanto istituzioni totali dove neanche i più elementari diritti delle persone possono essere rispettati. Ps. Il testo che segue e che proponiamo è un lavoro collettivo che non può, ovviamente, esaurire del tutto quanto accaduto in ventuno anni. Non troverete alcune tra le molte vicende importanti nell’ambito delle politiche sull’immigrazione e mancheremo di citare molte persone che negli anni si sono impegnate sui temi qui narrati o che hanno dato vita a mobilitazioni e campagne. Sono numerose le soggettività che hanno provato a far sì che questo angolo nero della Storia italiana non venisse rimosso o dimenticato. Ma questa è soprattutto una storia di donne e uomini che abbiamo incontrato, che in prima persona hanno pagato le conseguenze di un sistema ingiusto, alcuni perdendo anche la vita. A loro è dedicato questo lavoro, perché nessuno possa più dire domani: «io non sapevo».

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La festa del Sole e l’invenzione del Natale

A eccezione del 25 aprile, del primo maggio e del 2 giugno, ricorrenze laiche per eccellenza, le festività del calendario in Italia sono tutte religiose. Molte lo sono diventate nel corso dei secoli, quando il cristianesimo prima e la Chiesa cattolica poi si sono appropriati di antiche feste e riti pagani come strumento per sradicare i culti politeisti preesistenti, evangelizzare le popolazioni, uniformare ed estendere il proprio potere.

Il Natale non fa eccezione, perché deriva dalla celebrazione del solstizio d’inverno, oggi convenzionalmente fissato il 21 dicembre. Il solstizio è il momento dell’anno cui corrisponde, a causa della posizione che il sole assume rispetto al piano equatoriale, la notte più lunga e il giorno più corto. Questo fenomeno nell’antichità veniva interpretato in chiave religiosa: il Sole, giunto al minimo della sua potenza, sembrava improvvisamente rinascere, riconquistava le tenebre e diventava invincibile. Ed ecco che in quei giorni i Romani festeggiavano il Sol invictus (Sole invincibile, appunto), gli Egiziani la nascita di Horus, gli Indopersiani quella di Mitra, i Siriani quella di El Gabal, i Greci quella di Helios. Ma l’elenco delle divinità celebrate nel mondo durante il solstizio d’inverno è lunghissimo, a indicare come il culto del dio Sole fosse radicato in tutte le civiltà.

Fu Aureliano il primo imperatore romano a istituire ufficialmente il 25 dicembre la festa del Sol Invictus, nel 274. Costantino poi, nel 330, trasformò la ricorrenza in celebrazione cristiana facendovi coincidere la nascita di Cristo, fino ad allora festeggiata in date diverse a seconda del luogo (ma più diffusamente il 6 gennaio, giorno dedicato in seguito all’Epifania). E fu sempre Costantino a cambiare nome all’ultimo giorno della settimana, che da dies solis (giorno del Sole, significato che ancora rimane nell’inglese sunday e nel tedesco sonntag) diventò dies domini (giorno del Signore).

Nonostante l’ufficializzazione della data di nascita di Cristo, il culto del dio Sole rimase ben radicato persino nelle popolazioni cristiane. Così scriveva nel 460 papa Leone Magno: «E’ così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella basilica di San Pietro, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana». Ci vollero la soppressione del culto di Mitra, le persecuzioni dei riti politeisti e i decreti di Giustiniano sulla chiusura dei templi pagani per far sì che il Natale si affermasse lentamente – e per editto – come festa cristiana in tutto l’Impero.

L’articolo originale è stato pubblicato su Cronache laiche, testata fondata e diretta da Cecilia M. Calamani