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Marco, Fabo e il coraggio di scrivere le regole

L'attivista dei Radicali italiani Marco Cappato abbraccia la fidanzata di DJ Fabo, Valeria Imbrogno, durante l'udienza del processo in cui e' indagato per aiuto al suicidio, Milano, 23 dicembre 2019. ANSA / MATTEO BAZZI

Tutti in piedi a applaudire Marco Cappato che ieri è stato assolto per avere liberato Dj Fabo da una morte che gli era caduta addosso molto prima di essere burocraticamente certificata. E tutti a dire che bravo Cappato, per fortuna c’è Cappato, e tutte quelle belle frasi che servono per esprimere solidarietà gratis, quando viene facile facile.

Eppure Marco Cappato non è solo stato assolto ma soprattutto ha deciso di riscrivere delle regole che riteneva ingiuste prendendosi tutte le responsabilità legali e costringendo la politica a farsi carico delle responsabilità politiche. In un Paese in cui tutti i potenti cercano di schivare i processi, si ingegnano per promettere di cambiare le regole ma poi ci spiegano che non ci sono riusciti oppure si dicono sempre pronti a sacrificarsi per la patria e poi cercano di sgaiattolare il prima possibile.

La lezione di Cappato, di Fabo e della sua famiglia sta tutta nell’affrontare ciò che si ritiene ingiusto prendendosi il vento in faccia, guardando il futuro dritto negli occhi e combattendo per ciò che si ritiene giusto. La frase combattendo per ciò che si ritiene giusto è una frase annacquata dall’essere usata troppo e malamente ma quando accade per davvero mette i brividi.

E alla fine a vincere sono i diritti in mezzo a tutte le parole e viene così facile valutare le stature dei protagonisti che vincono e di quelli che continuano a stare fermi e, al massimo, applaudire.

I diritti aumentano se si svolgono con onore i propri doveri: questa è la lezione.

Buon martedì.

Buon anno, sicurezza

La combo mostra il vicepremier e segretario della Lega Matteo Salvini (S) durante il comizio a Castel San Giovanni, il vicepremier e capo politico del M5S Luigi Di Maio durante il comizio a Roma e il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti (D), durante il comizio a Milano, in occasione della chiusura della campagna elettorale per le Europee, 24 maggio 2019. ANSA/PIER PAOLO FERRERI-ANGELO CARCONI-DANIEL DAL ZENNARO

A Prato, lo scorso 16 ottobre, 21 lavoratori della Tintoria Superlativa di via Inghirami a Prato sono scesi in piazza per protestare contro le allucinanti condizioni di lavoro: «Lavoro nero, turni di 12 ore per 7 giorni la settimana, paghe di mille euro, niente ferie, malattie o permessi. Condizioni confermate dal controllo dell’Ispettorato territoriale del lavoro che per la terza volta in 4 anni procedeva alla sospensione dell’attività e all’apertura di un fascicolo presso la Procura della Repubblica per sfruttamento», hanno raccontato i sindacalisti. Durante la protesta alcuni operai sono anche stati travolti da un’auto. Qualche giorno fa si sono visti recapitare multe fino a 4.000 euro. Il motivo? Il bene noto decreto Sicurezza voluto dall’ex ministro Salvini. L’applicazione del decreto Salvini contro le legittime proteste di gente che reclama i propri diritti rende perfettamente l’idea del pericolo per lo stato di salute delle libertà democratiche. Lo scrivevamo in molti, lo ricordate? Lo urlava anche il Partito democratico, quando stava all’opposizione.

Il 19 dicembre, pochi giorni fa, il Servizio centrale Sipromi ha inviato una circolare agli enti locali titolari dei progetti Sprar in scadenza a fine anno per “sollecitare” l’uscita dal sistema di accoglienza entro il 31 dicembre 2019 dei titolari di protezione umanitaria in accoglienza. Sono tra 15.000 e 24.000 le persone stimate che potrebbero ritrovarsi letteralmente per strada, in pieno inverno. Vi ricordate quando scrivevamo che il decreto Sicurezza avrebbe riempito le strade di immigrati che si sarebbero ritrovati espulsi dal sistema di accoglienza? Vi ricordate quando si scriveva che sarà facile per Salvini invocare ancora più sicurezza per una situazione che di fatto ha voluto lui? Ecco, sta accadendo.

Che i decreti Sicurezza voluti dal ministro dell’interno Salvini fossero una schifezza in fondo lo sapevamo già. Ma che nonostante il cambio di governo (e ora governano quelli che se ne dicevano scandalizzati) quei decreti Sicurezza riescano ad arrivare intonsi nell’anno nuovo rende perfettamente l’idea del crogiolo di responsabilità che sarebbe troppo facile attribuire a Salvini.

Buon anno, sicurezza.

Buon lunedì.

Brexit ma non solo, analisi di una sconfitta

A man in a Union Jack suit walks in Green park, London on December 13, 2019. - Conservative Prime Minister Boris Johnson today hailed a political "earthquake" in Britain after a thumping election victory which clears the way for the country to finally leave the EU next month after years of paralysing deadlock. (Photo by Niklas HALLE'N / AFP) (Photo by NIKLAS HALLE'N/AFP via Getty Images)

La sconfitta del 12 dicembre ha per il Labour dei risvolti drammatici che vanno al di là dei seggi persi e della grande maggioranza ottenuta da Boris Johnson.
La ragione che rende la sconfitta drammaticamente preoccupante per il Labour è che, a differenza di quelle del 2010, del 2015 e del 2017, ne mette in discussione la natura e persino l’esistenza.

Nel 2010 la sconfitta dei laburisti aveva delle ragioni chiare, analizzabili e affrontabili: il Labour di Blair veniva da tre vittorie consecutive e c’era una naturale voglia di cambiamento, la guerra in Iraq aveva allontanato molti giovani e attivisti e soprattutto la crisi economica aveva picchiato duro ed era facile darne la colpa al governo di turno. Se a questo si aggiungevano due leader rampanti e molto abili come David Cameron e Nick Clegg, contrapposti ad una figura ormai logorata come quella di Gordon Brown, ecco che l’analisi della sconfitta era tutto sommato facile.

Nel 2015 la sconfitta di Ed Miliband sembrava avere ragioni politiche altrettanto semplici: le lotte letteralmente fratricide tra la sinistra e la destra interna del Labour avevano reso la linea politica dei laburisti poco chiara, né moderata né radicale, una via di mezzo che non ha convinto gli elettori anche grazie ai terribili attacchi inflitti dai media al leader laburista, vittima di campagne stampa pesantissime. Già nel 2015, tuttavia, si inserì una variabile di complicatissima gestione e cioè quella dell’insorgere a livello elettorale dei nazionalisti scozzesi che, forti della campagna referendaria del 2014, spazzavano via dalla Scozia – storicamente rossa – i laburisti impartendo a Miliband una sconfitta durissima a livello parlamentare.

Nel 2017 Jeremy Corbyn riuscì in una rimonta clamorosa nei confronti di Theresa May, perdendo di una manciata di voti percentuali e togliendole la maggioranza in Parlamento, una vittoria di Pirro conservatrice che tuttavia ha trasformato i due anni successivi in un estenuante dibattito sulla Brexit e il suo rinvio.
La sconfitta del 12 dicembre invece pone degli interrogativi drammatici e ai quali non c’è un’analisi “facile” da fare. Il tracollo dei laburisti nella red wall, le roccaforti laburiste del Nord Est ex minerario, rischia infatti di…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola dal 20 dicembre

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Attraverso il Mediterraneo, per vivere

I canti del 2011, quelli della rivoluzione, hanno riecheggiato di nuovo la notte delle elezioni di Kais Saied, neopresidente della Tunisia. La speranza di cambiamento continua a far battere i cuori dei giovani, stanchi della crisi che non si è mai trasformata in nuove prospettive post rivoluzione. Ora in molti confidano nel giurista che il 13 ottobre è divenuto presidente, lui che si batte contro la corruzione, il RoboCop della politica tunisina: Kais Saied appunto.

Negli ultimi anni il vento della crisi continua ad arrivare dal sud. Da lì molti ragazzi decidono di partire. In molti sono laureati, altri, troppo poveri per continuare a restare. Il salario medio è di venti dinari al giorno, ovvero sette euro. La vita resta cara.

Spacchiamo il Paese con un autobus. Le folate di vento che spingono su sabbia e canti ci portano a Gabes. Quando la luce cala i bar si riempiono. Shisha e tè da bere, ogni sera, con le stesse facce, gli stessi lamenti e le ore a guardare videoclip musicali che portano dall’altra parte del Mediterraneo. Si canta d’Italia, d’Europa, della speranza che qui sembra essere morta. C’è anche chi vorrebbe restare, per lavorare qui.
«Io ho una laurea in ingegneria informatica – racconta un ragazzo mentre fuma – ma il salario comunque non lo porto a casa».

Gli stessi giovani ogni mattina si svegliano e devono guardare un mare divenuto distesa di liquame nero, contaminato dal Gruppo chimico tunisino (Cgt), che sta intossicando questa costa.
La società è pubblica ed estrae fosfati dal 1970, riversando poi in mare, ogni giorno, circa 14 mila tonnellate di prodotti. L’inquinamento è capillare. Entra nelle falde, nei terreni e nell’aria. Ci si ammala da anni nell’indifferenza delle…

Il reportage di Giuseppe Borello e Lorenzo Giroffi prosegue su Left in edicola dal 20 dicembre

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Italiani brava gente? La storia dice altro

È il rapporto col presente – con la vita, per dirla con Pierre Nora – ciò che soprattutto differenzia la memoria dalla storia. Quest’ultima è infatti rappresentazione del passato, di ciò che non c’è più; mentre le memorie collettive sono il frutto di processi di selezione e di interpretazione di quel passato alla luce del presente, e del punto di vista dei gruppi sociali che le producono. Se ripercorso al contrario, dalla memoria verso la storia, il processo di creazione delle memorie e delle narrative che le sostengono è capace di dirci molto della realtà attuale: soprattutto ci dice come i fatti del passato sono stati selezionati, e perché le diverse memorie si sono modificate col modificarsi della realtà, o sono state difese.

In quest’ottica la storia degli “italiani brava gente”, elemento centrale della memoria collettiva sul colonialismo italiano, sembra capace di dirci qualcosa sull’Italia repubblicana.
La formula “italiani brava gente” non nasce in relazione con la questione coloniale, ma è stata elaborata nel dopoguerra ad indicare una generale attitudine, attribuita al popolo italiano in contrasto con quello tedesco, a non essere mai veramente crudele, violento, e razzista ma piuttosto empatico e al massimo vittima delle contingenze.

La formula si è però dimostrata particolarmente efficace per sintetizzare gli elementi portanti della narrazione egemone sul colonialismo, incentrata sui coloni italiani, descritti come lavoratori, per di più lavoratori migranti; e sull’effetto positivo del loro lavoro nei territori coloniali, in particolare nel campo delle infrastrutture.
Alla base di questa narrazione, come sempre capita ai miti, ci sono alcuni fatti reali: è vero che l’Italia investì notevolmente nel campo delle infrastrutture, anche se più che un atto di bontà si trattava di un’azione fondamentale per l’occupazione e il controllo del territorio. Ne è dimostrazione, ad esempio, il fatto che…

Ricercatrice di Storia contemporanea all’Università di Cagliari, Valeria Deplano è studiosa di storia del colonialismo italiano. Nel 2009 e 2010 ha lavorato presso il Libyan studies centre di Tripoli. Dal 2016 è responsabile del ciclo dei seminari di ricerca Sissco sul tema “L’Europa tra migrazioni, decolonizzazione e integrazione
(1945-1992)”.

L’articolo di Valeria Deplano prosegue su Left in edicola dal 20 dicembre

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La balla delle radici cristiane dell’Europa

Matteo Salvini che bacia il crocifisso dopo la vittoria elettorale e che, dal palco di piazza Duomo a Milano, dice di affidarsi al «cuore immacolato di Maria» e «ai santi patroni d’Europa». Il capo leghista Salvini che in veste di ministro degli Interni partecipa all’oscurantista Congresso mondiale delle famiglie di Verona in nome di Dio, patria e famiglia. Mentre Giorgia Meloni, da leader dei Fratelli d’Italia, brandisce sulla scena pubblica il suo essere madre, bianca, cristiana. In barba alla Costituzione e a ciò che ha scritto la Corte costituzionale in una sentenza del 1989 riconoscendo nella laicità il principio supremo dello Stato.

I nuovi crociati irridono il trattato di Lisbona (2007) che mantenendo l’impronta laica della Costituzione europea (che era stata bocciata nel 2005) non fa alcun riferimento alle presunte radici giudaico-cristiane dell’Europa. Tirate in ballo a destra e a manca, a partire dall’ex laico Marcello Pera dal convertito al cristianesimo Magdi Allam ma anche da Khaled Fouad Allam che ebbe a dire: «L’Europa è debitrice verso il cristianesimo perché, lo si voglia o no, esso le ha dato forma, significato e valori». Peccato che la verità storica mostri tutt’altro. Fin dalla prima affermazione del cristianesimo come religione di Stato, a partire da un falso come la donazione di Costantino, smascherata dall’umanista Lorenzo Valla nel 1517. Come hanno documentato molti libri e di recente Catherine Nixey con il saggio Nel nome della croce, la distruzione cristiana del mondo classico (Bollati Boringhieri) il cristianesimo si insinuò nei gangli dell’impero romano cancellando ogni precedente tolleranza e pacifica convivenza politeista. Arrivando a sussumere i precedenti riti pagani per cambiarne il segno in una univoca e autoritaria direzione monoteista.

Alle origini del Natale, per fare un esempio, c’è la festa pagana del Sole, Sol invictus, da cui si era sviluppato il culto di Mitra. «I demoni, dicevano gli uomini di Chiesa, dimoravano nelle menti di chi praticava i vecchi riti. Chiunque criticasse il cristianesimo, avvertiva l’apologeta Tertulliano, attaccava il cristianesimo perché sotto il controllo di Satana», scrive Nixey. Non fu il solo. Basti dire che Agostino «fu maestro del paradosso pio “Oh crudeltà misericordiosa!». E ferocissima fu la persecuzione. Nel IV…

L’articolo di Simona Maggiorelli prosegue su Left in edicola dal 20 dicembre

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Teen dating violence, facciamo chiarezza

Pensive woman sitting near the window.

Ogni due giorni una donna viene uccisa da chi diceva di amarla; 7 milioni di italiane nella vita hanno subito violenza ma meno del 12% sporge denuncia e solo il 4% chiede aiuto in centri dedicati (Istat). Dati sconcertanti ma, per chi opera nella prevenzione della malattia mentale, colpisce pure la percentuale di vittime che riconosce essere reato la violenza subita: solo 30 su 100. Le altre 70 pensano «che lui abbia fatto una cosa sbagliata». Uno sbaglio può essere, però, un errore, una svista, un equivoco. Non un delitto. Pare non ci sia conoscenza sufficiente. La violenza va vista e nominata: quella visibile che si palesa nel comportamento, quella più nascosta in credenze, opinioni e atteggiamenti e quella invisibile che si manifesta nel malessere dell’altro.

Consapevoli del quadro d’insieme, dovremmo chiederci della qualità delle prime relazioni amorose e di eventuali tratti prodromici di una futura violenza nella coppia. Eppure, mentre si parla molto della violenza nelle coppie adulte, anche in questo caso gli adolescenti vivono quel mondo di sospensione e attesa che li rende pressoché invisibili. Come piuttosto invisibili sono stati per quanto riguarda gli studi sulle loro prime relazioni sentimentali. Mentre la tradizione popolare disegna immagini di adolescenti innamorati che prendono consapevolezza di sé e della propria sessualità, l’amore, l’infatuazione, l’innamoramento – che rappresentano i temi preferiti a cui si volge la mente dell’adolescente – sono stati a lungo considerati dalla ricerca internazionale un puppy love, ossia una banale cotta che poco ha da offrire all’interesse di studiosi autorevoli.

La coppia di adolescenti merita invece una considerazione più accorta sia quando si muove nella naturale e spesso travagliata esplorazione del rapporto con il diverso da sé, sia quando scivola in dinamiche violente, quando confonde cioè la premura con la prepotenza, il gesto d’amore con la possessività, l’attenzione con il controllo. Una violenza con reciprocità di genere nella prima adolescenza ma che poi si definisce e perdura prevalentemente nei maschi. Allarma, infatti, la ragazza che…

Psicologa psicoterapeuta, Cecilia Iannaco è socia fondatrice di Netforpp Europa. Oltre all’attività clinica, organizza corsi di formazione per docenti.

L’articolo di Cecilia Iannaco prosegue su Left in edicola dal 20 dicembre

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Gli insospettabili sospettati da sempre

Imponente operazione antimafia ieri in Calabria. Ne esce Vibo Valentia completamente assoggettata alla cosca dei Mancuso, ne escono cittadini lavoratori costretti a subire angherie di ogni tipo ed esce quella ‘ndrangheta che sembra essere completamente scomparsa dai radar delle agende politiche (ne parlavo proprio qui qualche giorno fa, che curiosa coincidenza) fatta di massoneria, mala politica e protezioni in alto.

Giancarlo Pittelli, ad esempio, a Catanzaro era (fino a ieri) uomo conosciuto e fin troppo riverito. Era lo stesso Pittelli che odiava pubblicamente De Magistris perché dodici anni fa aveva osato descriverlo in modo molto simile al suo ritratto che esce dalle carte dell’indagine coordinata da Gratteri. Più volte parlamentare di Forza Italia (e da poco passato a Fratelli d’Italia, come ogni buon annusatore del vento) è descritto come cerniera tra il mondo criminale e quello della politica, dell’imprenditoria, dell’università, sempre con la massoneria sullo sfondo. Eppure Pittelli a Catanzaro è il maestro di tanti avvocati che lo veneravano. Oggi, ovviamente, spariranno tutti: la caduta dei mostri sacri come Pittelli indica che sono cambiati i rapporti di forza.

L’ex vicepresidente della regione Nicola Adamo era anche lui nell’inchiesta di De Magistris di dodici anni fa. Altra sponda politica: ai tempi era il segretario regionale dei Ds. Poi è finito nell’inchiesta Eolo nel 2012, poi Rimborsopoli e a ottobre la procura di Catanzaro aveva chiesto il suo rinvio a giudizio per l’inchiesta sugli appalti riguardanti la costruzione della metropolitana leggera destinata a collegare Cosenza, Rende e l’Università della Calabria oltre al nuovo ospedale di Cosenza.

Persone insospettabili sospettate da sempre che rimangono dove sono perché la politica non ha gli anticorpi per prenderne le distanze. Ma mica solo la politica: sono sostenuti dai salotti, dai loro cortigiani, da pezzi interi delle città in cui vivono.

Gli insospettabili sospettati da sempre sono un classico letterario nelle nostre città: camminano fieri, a testa alta, fanno anche la morale agli altri (chiedete in giro di Giorgio Naselli, ex comandante del Reparto operativo nucleo investigativo dell’Arma di Catanzaro) e poi quando decadono sembra che non li conoscesse nessuno.

C’è bisogno di tanta vigliaccheria perché trionfino i prepotenti. E poiché la vigliaccheria non è reato quelli, i vigliacchi, si salvano sempre.

Buon venerdì.

Il grande imbroglio dell’homo oeconomicus

Sull’idea occidentale di natura umana Marshall Sahlins ha scritto un magnifico libretto dal titolo Un grosso sbaglio (elèuthera, Milano, 2010). Ma si è trattato di un grosso imbroglio.
La visione dell’“uomo economico”, dell’essere umano come soggetto mosso esclusivamente dal proprio interesse personale e in grado di realizzarlo nel migliore dei modi perché dotato di una capacità di scelta perfettamente razionale ci viene imposta, a partire dal Settecento, come un modello di vita e pensiero cui conformarsi. Ed è bene allora raccontare anche che tale è stata la natura umana sin dalle origini: l’homo sapiens sarebbe stato tale perché oeconomicus.

È Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni, pubblicata nel 1776, che segna l’inizio della teoria economica moderna, il primo a parlare di «una certa propensione della natura umana … a trafficare, barattare e scambiare una cosa con l’altra». L’uomo “primitivo” (maschio), quando esce da una condizione iniziale di sostanziale isolamento, manifesta un’innata tendenza all’arricchimento. Come soggetto razionale, capisce che gli conviene specializzarsi in una determinata attività e scambiare il proprio prodotto con quello di altri. Ciascuno, specializzandosi, risulterà più produttivo e, dunque, potenzialmente più ricco, che se avesse preteso di produrre ogni cosa. La divisione del lavoro e il conseguente scambio, nella forma del baratto, sono il risultato di una propensione naturale, il portato del comportamento razionale umano.

Gradualmente l’essere umano razionale capisce che il baratto non è una modalità di scambio efficiente. I “costi di transazione” sono molto elevati, perché lo scambio può avvenire solo in presenza di una bilaterale corrispondenza reciproca tra bene posseduto e bisogno. Si comincia allora ad accettare, in cambio del proprio prodotto, un altro bene che non soddisfa immediatamente un bisogno, ma che si sa potrà essere facilmente ceduto ad altri. I beni più facilmente vendibili, più “liquidi”, si affermano come mezzo di scambio. Quando tale mezzo di scambio diventa un oggetto, magari di nessuna o limitata utilità pratica, ma cui viene generalmente riconosciuto un valore intrinseco (l’oro, l’argento), il processo…

L’articolo di Ernesto Longobardi prosegue su Left in edicola dal 20 dicembre

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Viva l’Italia che non abbocca

Tra le fake news più pericolose degli ultimi anni c’è quella che riguarda la sbandierata quanto inesistente invasione dei migranti in Italia. Su cui il capo leghista Salvini, citando un fantomatico piano Kalergi di sostituzione etnica, ha costruito narrazioni paranoiche che istigano all’odio e indirettamente legittimano le azioni squadriste dei gruppi di estrema destra.

Ma in questo ultimo scorcio dell’anno il volto impietrito di Medusa di un’Italia terrorizzata e irretita si è sciolto in un mare di sardine. D’un tratto, per iniziativa di quattro ragazzi che hanno saputo cogliere uno Zeitgeist che aleggiava ed era ancora invisibile, è emersa la rappresentazione plastica di un’Italia che non ha abboccato alla propaganda dai contenuti cinici e violenti.

Il cosiddetto movimento delle sardine ha invaso le piazze con i libri e con parole nuove che sanno di accoglienza, cultura, antifascismo, parlando di gratuità dell’arte e della bellezza di ritrovarsi insieme. L’onda ha portato via la fissità della paralisi e l’isolamento in cui vorrebbero confinarci le politiche della paura che generano insicurezza. Abolire i due decreti Salvini, divenuti legge, è la priorità.
Cancellare provvedimenti basati su una pericolosa falsificazione della realtà e sulla criminalizzazione del fenomeno dell’immigrazione è quanto mai urgente.

Non c’è mai stata e, come conferma anche l’ultima indagine Istat, non c’è alcuna invasione. Anzi. Nel 2018 gli ingressi in Italia hanno subito una battuta d’arresto. In particolare «sono nettamente in diminuzione le immigrazioni provenienti dal continente africano». Mentre continua, invece, una massiccia emigrazione di italiani all’estero. Le minacce per la sicurezza in Italia non vengono dai migranti. I reati sono in calo, salvo i femminicidi. E a uccidere le donne non sono gli stranieri ma fidanzati e parenti….

Per quanto dolorosa e scomoda «la verità è sempre rivoluzionaria», diceva Gramsci. Costringe ad aprire gli occhi. Poiché non ci rassegniamo a credere alle fandonie propalate dai libri sacri ma anche dai media mainstream abbiamo invitato economisti, storici, antropologi e scienziati a smontare una serie di colossali balle dure a morire. A cominciare dalle bufale complottiste come il piano attribuito a Kalergi (che in realtà era un illuminista fautore del meticciato!), secondo la quale dietro le migrazioni attuali ci sarebbe nientemeno che un progetto per distruggere l’identità europea.

Il mito auto assolutorio “italiani brava gente” (volto a coprire la ferocia del nostro passato coloniale) viene qui decostruito sul piano documentale dalla storica Valeria Deplano ricordando il gesto agit prop di femministe che sulla statua dedicata a Indro Montanelli hanno apposto la targa «stupratore di bambine» denunciando una vicenda troppo spesso lasciata in ombra dalla stampa nostrana. Ovvero l’acquisto da parte dell’esimio giornalista di una ragazzina, una moglie dodicenne presa quando si trovava nel Corno d’Africa, durante la guerra d’Etiopia. Sposa bambina che in un’intervista Montanelli descrisse come «un animalino docile» sostenendo impunemente che in Africa una dodicenne sarebbe già donna.

Bufale pericolose e imperiture sono quelle che ci propinano da millenni le ideologie religiose e oggi nuovi crociati – da Salvini a Meloni – che vorrebbero farci credere alle radici esclusivamente cristiane dell’Europa, negando il contributo e il valore delle altre culture. Bufale che mettono a rischio la nostra salute fisica e psicologica sono quelle che provengono dalle pseudoscienze e da autentiche truffe come il metodo Stamina e la costruzione del falso nesso fra vaccini e autismo, che nel lontano 1998 fu confezionato ad hoc da Wakefield ma che, nonostante lui sia stato condannato e radiato dall’ordine dei medici, continua ad alimentare le battaglie oscurantiste dei no vax.

Costruzioni non meno ideologiche sono quelle che provengono dall’economia che, nonostante la crisi economica del 2008 e il feroce aumento delle disuguaglianze, continua a predicare la fede nella mano invisibile del mercato che si auto regola, producendo ricchezza e benessere per tutti. Di questo si occupa l’economista Andrea Ventura mentre l’economista Ernesto Longobardi smonta il mito dell’Homo oeconomicus che viene spacciato come verità antropologica. Secondo questo modello saremmo solo consumatori e/o individui dotati di una razionalità strumentale tutta volta alla massimizzazione del profitto. Se così fosse, che ne sarebbe della complessità e profondità della realtà umana fatta di affetti, emozioni, sogni, creatività, fantasia, sessualità, gioia di vivere e di stare con gli altri?

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 20 dicembre 2019

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