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Socialmente pericolosi per aver combattuto l’Isis

In tribunale per aver combattuto l’Isis. Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, Jacopo Bindi e Paolo “Pachino” Andolina, sono tre ragazzi che, nel 2017-2018, entrarono nel nord della Siria come combattenti e volontari civili al fianco dei curdi del Rojava. E ora – una volta rientrati in Italia – si ritrovano davanti a un giudice del tribunale di Torino. La vicenda è più che surreale. All’inizio di questa settimana, la pm, Manuela Pedrotta, ha chiesto che venga applicata per tutti e tre la “misura di sicurezza preventiva” della “sorveglianza speciale” (due anni per Eddi e Jacopo, uno per Paolo), una misura fortemente repressiva introdotta nell’ordinamento giuridico italiano durante il fascismo e mai rimossa. Adesso, entro 90 giorni, i giudici devono emettere il loro decreto, che, se dovesse accogliere le richieste della pm Pedrotta, risulterebbe in un restringimento gravissimo delle libertà personali di Eddi, Jacopo e Paolo. Ne abbiamo parlato con Davide Grasso, arruolatosi nello YPG curdo nel 2016, giornalista e autore, fra le tante pubblicazioni, del libro Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria (Alegre, 2017).

Prima di tutto: chi sono Eddi, Jacopo e Paolo?
Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, è una ragazza romana che è stata nel 2018 in Rojava, arruolata nell’Unità di Protezione delle Donne (YPJ), mentre Paolo “Pachino” Andolina è stato nell’Unità di Protezione Popolare (YPG), l’esercito curdo gemello della YPJ, che fa parte delle forze Siriane Democratiche. Lì hanno combattuto contro l’ISIS e, in particolare, nel 2017 Paolo ha preso parte alla battaglia per liberare la città di Tabqa. Jacopo Bindi, invece, è stato in Rojava nel 2018 come volontario civile, militando nel Movimento per una società democratica (TEV-DEM) fondato proprio dai curdi del Rojava. Lì ha aiutato le popolazioni civili sfollate e ha contribuito a fare informazione sull’invasione di Afrin per mano della Turchia che era in atto in quel periodo.

Eddi, Jacopo e Paolo, però, non sono sotto processo…
No, non hanno nessun processo a carico per essere stati in Siria, non sono accusati di nulla, non verranno condannati a nessuna pena. Verso di loro è stata aperta una cosa che non è un processo, bensì una procedura speciale. Questa procedura si chiama “misure di prevenzione” e, anziché appurare un fatto avvenuto nel passato ed eventualmente classificarlo come reato, cerca di fare un pronostico sul comportamento futuro delle persone attraverso quello che dovrebbe essere uno studio della loro personalità. Quindi una cosa tipica dei regimi totalitari. E, infatti, è stata introdotta da Mussolini nel 1931 e, benché sia stata modificata nel ’56 e nel 2011, non è mai stata abolita. Ogni tribunale italiano ha una sezione speciale per le misure di prevenzione. Per Eddi, Jacopo e Paolo sono stati elencati una serie di loro comportamenti: il fatto di essere andati in Siria, di avere combattuto contro l’ISIS, di avere usato armi (almeno nel caso di Eddi e Paolo, poi Jacopo era un volontario civile, ma la procura di Torino, non si capisce su quali basi, ha sostenuto che avrebbe imparato a usare le armi in Siria). E poi sono state elencate varie manifestazioni a cui hanno partecipato al ritorno dalla Siria e, tutto insieme, è stato utilizzato per definirli socialmente pericolosi.

Cosa prevede la sorveglianza speciale?
Nel caso venissero messi sotto sorveglianza speciale, Eddi, Jacopo e Paolo sarebbero espulsi dalla città di Torino, dovrebbero eleggere domicilio in un’altra città, che poi non potrebbero più abbandonare (infatti questa è la legge del confino fascista), rimanere a casa dalle 7 di sera alle 7 di mattina, presentarsi regolarmente all’autorità giudiziaria, non potrebbero riunirsi con più di due persone, partecipare a manifestazioni politiche o iniziative pubbliche, verrebbe loro sequestrato il passaporto, annullata la patente (tra l’altro per poterla riottenere dovrebbero rifare l’esame, chiedendo però prima il permesso al prefetto). E, infine, dovrebbero sempre tenere con sé un libretto di colore rosso su cui poi, ogni giorno, la polizia annoterebbe i loro comportamenti. Di nuovo si vede come questa legge sia un’anticaglia che è vergognoso che esista ancora nel 2019, perché ha tutte le caratteristiche di una legge scritta ai tempi del fascismo.

Puoi ricostruirci la storia di questo procedimento?
Questo procedimento – che inizialmente ha riguardato anche me e un altro ragazzo, Fabrizio Maniero – si è sviluppato in maniera piuttosto particolare. Appena iniziato, è caduto martire in Siria un nostro amico, Lorenzo “Orso” Orsetti. Quando è morto Lorenzo, a marzo, c’è stata una grande attenzione sulla questione curda. Questo ha indotto i giudici – che hanno sempre dimostrato di essere molto favorevoli alla procura – a rimandare più volte l’udienza per evitare che ci fosse attenzione mediatica sulla loro decisione. L’attenzione mediatica si è risvegliata a ottobre con l’invasione turca del Rojava. E, di nuovo, i giudici hanno rinviato. Adesso che l’attenzione è calata, hanno cercato di finire tutto in fretta e quindi hanno concluso lunedì le udienze e si sono presi 90 giorni di tempo per decidere il loro decreto (decisione che deve avvenire entro 90 giorni, quindi potrebbe arrivare anche fra una settimana). Questo decreto verrà notificato dalla polizia direttamente alle abitazioni degli interessati.

Su cosa si basano le accuse di pericolosità sociale?
Soprattutto su degli incartamenti preparati dal dirigente della polizia politica di Torino, Carlo Ambra. Questi incartamenti contengono una serie di riflessioni della polizia sui comportamenti di Eddi, Jacopo e Paolo che però non sono mai state corroborate dal giudizio in tribunale, quindi l’avvocato della difesa, Claudio Novaro, ha chiesto che venissero espunte tutte quelle affermazioni della polizia che non hanno mai avuto l’assenso di un giudice, perché potrebbero essere false o parzialmente false. I giudici hanno invece rifiutato di espungere queste affermazioni e hanno quindi deciso di giudicarli sulla base di queste opinioni unilaterali della polizia (nello specifico dell’ufficio politico). In aggiunta, quando l’avvocato Novaro ha chiesto che venissero sentiti dei testimoni su quei fatti – che riguardano in gran parte piccole manifestazioni, presidi, aperitivi politici a Torino – i giudici hanno rifiutato l’80% dei testimoni dichiarandoli irrilevanti, hanno perimetrato persino il tipo di domande che la difesa poteva fare ai testimoni e hanno rifiutato di mettere in controinterrogatorio in aula i poliziotti che avevano fatto quelle affermazioni. Quindi, di fatto, i giudici hanno anche fortissimamente leso il diritto di difesa, che è un diritto umano, un diritto costituzionale, persino in un procedimento che già di per sé è un processo alle intenzioni e perciò è totalmente anti-giuridico da un punto di vista dello Stato di diritto.

Cosa possono fare le persone per non lasciare soli Eddi, Jacopo e Paolo?
Ora che le udienze sono finite e che ci sono 90 giorni per conoscere la decisione dei giudici, il problema è fondamentalmente politico. Quello che si poteva fare in aula da parte della difesa – poco, a causa delle limitazioni di cui sopra – è stato fatto. Invece quello che ancora è necessario fare è mantenere alta l’attenzione sui media e sui social network su questa vicenda e tenersi pronti, soprattutto, a informare e manifestare qualora venisse presa la decisione di applicare, anche soltanto a uno di loro tre, la sorveglianza speciale. Infine, bisogna accompagnare tutto questo con una discussione pubblica su quanto sia legittimo che in Italia esista la possibilità per lo Stato di limitare la nostra libertà senza accusarci di nulla e senza condanne. E se un’eredità del fascismo debba essere conservata nel nostro ordinamento.

 

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Piromani che si lamentano degli incendi

"Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate! E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione". Così il segretario federale della Lega, Matteo Salvini, in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, 18 dicembre 2019. TWITTER MATTEO SALVINI +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

A Sondrio è successo qualcosa di indecoroso, oltre al razzismo, ai limiti della bestialità: mentre una madre nigeriana piange in una sala del Pronto soccorso la morte della figlia di cinque mesi per arresto cardiaco e tra le persone in sala d’attesa «chi parla di riti tribali, chi di satanismo, chi di scimmie e manicomi. Tanta cattiveria che non si è arrestata neanche di fronte alla morte di una innocente, le voci malvagie di quegli individui non sono mai calate», come racconta un testimone su Facebook.

Ieri Giorgia Meloni è intervenuta con giuste parole di condanna: «Da madre non posso che provare profondo disprezzo per chi è così infame da insultare una donna straziata dal dolore più atroce che un essere umano possa provare. Non ho parole, che schifo».

Ieri anche Matteo Salvini (devono essersi messi d’accordo i due sovranisti) ha giustamente lamentato la maleducazione di una ragazza che ha pensato bene di fotografarsi con lui addormentato sullo sfondo mentre mostrava il dito medio (e se si chiede la buona educazione alla politica in piazza non si vede perché si dovrebbe esultare per la maleducazione, eh).

I piromani che si lamentano degli incendi però sono delle figure che andrebbero studiate, proprio dal punto di vista antropologico: aizzano gli elettori spingendosi ogni giorno un po’ più in là per farsi notare, cominciano a esistere solo grazie alle loro provocazioni, escono dalle nebbie per la ferocia di alcune affermazioni e poi subito dopo si mettono a rincorrere anche i voti dei moderati fingendosi improvvisamente lindi e addirittura stupiti dagli incendi che loro stessi hanno appiccato.

L’aspetto più inquietante è che pare addirittura che funzioni: la memoria a breve termine con cui si maneggia la politica può rendere tutti diavoli e poi santi nel giro di poche ore. Hanno ancora il fiammifero in mano e già piangono per il troppo fumo.

Poi, volendo, ci sarebbe la coerenza, questa qualità ormai disabitata.

Buon giovedì.

Pedofilia nella Chiesa, in Italia rimane un segreto

Il papa ha finalmente tolto il segreto pontificio sui processi per pedofilia; ora, stando al comunicato del cardinale Parolin, il segretario di Stato, le magistrature civili di tutti i Paesi colpiti da questo fenomeno criminale potranno accedere agli atti dei processi canonici e agli archivi delle diocesi. L’eliminazione del segreto di Stato, da parte del capo della Santa sede, sui crimini pedofili compiuti da ecclesiastici è senza alcun dubbio un importante segnale in direzione della trasparenza e della collaborazione con le istituzioni straniere e internazionali, che può avere importanti ripercussioni in favore delle vittime in attesa di giustizia. Ma dal punto di vista della prevenzione è bene dire subito che non sposta nulla. Andiamo per ordine.

Il segreto pontificio venne codificato nel documento “Secreta continere” di Paolo VI il 4 febbraio 1974. Alla fine del preambolo si legge che “in taluni affari di maggiore importanza si richiede un particolare segreto, che viene chiamato segreto pontificio e che dev’essere custodito con obbligo grave”. Vale a dire, pena la scomunica. Sotto il segreto imposto dal pontefice ricadevano, appunto, tra gli altri reati, le violenze su minori. Questo ha comportato per esempio che la vittima di un sacerdote pedofilo sottoposto a processo canonico non venisse informata dell’esito del giudizio. Ma anche che i pedofili giudicati dalla magistratura ecclesiastica potessero rimanere “sconosciuti” a quella civile. Con ovvie conseguenze, purtroppo, sull’incolumità di decine di migliaia di minori in tutto il mondo, poiché i sacerdoti pedofili, terminato il periodo di preghiera e penitenza previsto come sanzione per il loro “peccato”, possono tornare a esercitare nelle parrocchie, a insegnare nelle scuole religiose, a frequentare oratori, campi scout e così via. Insomma, la segretezza è stata per decenni una delle matrici della diffusione della pedofilia clericale nel mondo. Ora con colpevolissimo e inaudito ritardo almeno a questo sembra che la Santa Sede voglia porre rimedio. Va ribadito però che per decenni in nome della “ragion di Stato” un crimine violentissimo nei confronti degli esseri umani più indifesi è stato sepolto più che coperto sotto una gigantesca e diffusa cappa di omertà, complicità, silenzio impossibile – umanamente – da accettare.

Cosa accadrà in Italia? Su Left, e poi nel libro Giustizia divina con Emanuela Provera (Chiarelettere, 2018), per primi e unici abbiamo bucato la cappa di cui sopra che grava sui tribunali ecclesiastici sparsi nel nostro Paese e presenti in ciascuna delle oltre 220 diocesi. Riporto qui un brano del racconto di Giada Vitale, vittima a 13 anni di un parroco 55enne: don Marino Genova.

«Nella stanza eravamo in tre: io, il giudice don Antonio De Grandis e don Michele Valentini, il notaio della Curia di Termoli. Valentini lo conoscevo già, perché prima dell’udienza, mi chiamò e mi consegnò una richiesta del giudice ecclesiastico. Voleva una copia della mia denuncia alla procura di Larino». Giada sostiene che il suo avvocato acconsentì alla richiesta, mentre il legale – interpellato da noi – nega di aver dato l’assenso. Fatto sta che questa copia è arrivata sul tavolo del giudice ecclesiastico. «Ero sola, hanno detto che il mio avvocato non poteva essere presente. Il legale di don Marino invece sì, e io potevo accettare o rifiutare. Ho detto no. Mi ha interrogata il giudice, cercava di farmi dire che provavo affetto per il mio violentatore ma io, come convenuto con il mio legale ho voluto solo precisare che quando sono iniziati gli abusi avevo tredici anni». Dal giorno dell’audizione, Giada non ha più saputo nulla in via ufficiale. «Non mi hanno mai comunicato l’esito del processo né so in che modo le mie dichiarazioni sono state utilizzate.» E aggiunge: «Oggi mi rendo conto che è stato un errore presentarmi, all’epoca mi fidavo ancora della Chiesa e pensavo, illudendomi, che quello lì sarebbe stato punito a dovere».

Dicevamo, cosa accadrà in Italia? Altre vittime, diversamente da Giada probabilmente potranno d’ora in poi conoscere l’esito del giudizio canonico. Ed è già qualcosa, perché gli atti del processo canonico potrebbero tornar utili in quello penale e civile italiano (fin qui come abbiamo denunciato su Left questo è un “privilegio” riconosciuto solo ai sacerdoti imputati). Ma quello che forse più ci dovrebbe interessare è la possibilità di collaborazione delle autorità ecclesiastiche con quelle civili. Da questo punto di vista la “svolta” di Bergoglio non sposta nulla. Al punto 4 dell’Istruzione divulgata dal sottosegretario Parolin c’è scritto: «Il segreto d’ufficio non osta all’adempimento degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, compresi gli eventuali obblighi di segnalazione, nonché all’esecuzione delle richieste esecutive delle autorità giudiziarie civili». Quindi, poiché la legge italiana – diversamente da quella francese, per esempio – per reati di questo tipo prevede l’obbligo di denuncia solo per i pubblici ufficiali e non per tutti i cittadini, i vescovi che pubblici ufficiali non sono continueranno a fare quello che hanno sempre fatto: continueranno a non denunciare i preti sospettati all’autorità civile. Tanto più che la Conferenza episcopale italiana nelle linee guida antipedofilia ha in pratica ribadito chiaro e tondo che finché la legge italiana resterà così, i vescovi non saranno obbligati nemmeno da Casa madre.

Se a questo si aggiunge che il Nuovo Concordato del 1985 all’articolo 4 solleva i vescovi dall’obbligo di collaborare con l’autorità civile ecco che restano irrisolti tutti i nodi che limitano fortemente nelle indagini la magistratura italiana con il rischio di impedire l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei preti sospettati di pedofilia e dei “superiori” che trasferendoli di parrocchia in parrocchia consentono loro di rimanere in contatto con minori e di ripetere l’abuso. Abuso, è bene ricordare, che la nostra controparte considera ancora oggi, nel 2019, un delitto contro la morale, un’offesa a Dio, un atto impuro in violazione del sesto comandamento, e non la violenza efferata contro una persona. Di conseguenza la vera vittima sarebbe Dio e il peccatore (che sotto sotto per certa cultura è anche il bambino, che istigherebbe l’adulto) secondo la visione degli appartenenti al clero, deve rispondere alla persona che rappresenta l’Altissimo in Terra (il papa), e non alle leggi della società civile di cui fa parte. Di tutto questo non tiene conto lo Stato italiano nel tenere in vita il Concordato (siglato durante il Ventennio fascista e anche rinnovato), sebbene dal 1996 in poi la nostra legislazione in materia di reati a sfondo sessuale sui bambini (e le donne) abbia fatto enormi progressi.

Dunque, in conclusione, bene l’abolizione del segreto pontificio – perché in qualche modo, ma non in Italia, può agevolare l’azione della magistratura civile – ma non basta. Occorrerebbe un salto di paradigma culturale che porti il Vaticano e gli uomini di Chiesa a “vedere” lo stupro per quel che è: un crimine violentissimo che distrugge la vita di chi lo subisce. Esseri umani in carne, psiche ed ossa. Ma ciò significherebbe, per gli ecclesiastici tutti, negare il VI Comandamento, uno dei cardini del potere religioso e politico della Chiesa cattolica e apostolica romana.

COP25, la montagna non ha partorito nemmeno un topolino

Il fallimento del vertice di Madrid sul clima, la COP 25, non sorprende. Quante/i hanno veramente a cuore la salvaguardia del pianeta lo avevano ampiamente previsto e denunciato. D’altronde che non avrebbero deciso nulla, lo anticipava il ritiro degli USA dagli accordi di Parigi. È evidente che la loro scelta di escludere il Paese che, insieme alla Cina, manda più gas serra in atmosfera, paralizza ogni decisione di tutti gli altri. A cominciare dall’Europa, che al di là dei proclami sull’agenda verde, non ha né la sufficiente unità, né la volontà politica di gesti unilaterali vincolanti. Prevederne quindi il fallimento non era complicato, ma questo non deve consolare nessuno, tanto meno impedire di essere impauriti dalla mancanza di decisioni capaci di contrastare il cambio climatico.

Questa volta non aver trovato un accordo è più grave. Dire, come di fatto dice la risoluzione finale della COP25, che un accordo ambizioso lo si troverà la prossima volta, cioè fra un anno, nei due vertici programmati di Bonn e Glasgow è allucinante. Soprattutto dopo che la comunità scientifica aveva avvertito che il tempo stava scadendo, che restano cioè solo 10 anni per invertire la tendenza e contenere l’aumento delle temperature nei due gradi o meglio in quel grado e mezzo, che la scienza consiglia. Scienziate/i a parte è la realtà drammatica e diffusa di eventi estremi, che vive buona parte della terra, devastata da inondazioni, uragani e desertificazioni, a dirci quanto deprimente sia questo ennesimo fallimento. Buttare via altro tempo, del poco che è rimasto, spinge all’impotenza e fa diventare, nella testa di tante/i, una chimera l’obiettivo di un aumento di soli due gradi. Da tempo è noto che governare il clima è un lavoro di lunga lena, che richiede, oltre alla volontà politica, tanto tempo.

Se nemmeno la dura realtà e i moniti pressoché unanimi del mondo scientifico hanno spinto i cosiddetti grandi della terra ad agire, non si capisce più cosa possa smuoverli.

Da oltre un anno, grazie a Greta Thumberg, è nato FridayForFuture, capace di manifestare con continuità la sua preoccupazione per il pianeta, oltre una angosciosa domanda alla politica di agire. Se ne sono accorti un po’ tutti, compreso i media, anche se spesso in modo truffaldino, tutti meno i decisori, quelli importanti e quelli meno. Mai come ora i due mondi, quello della società civile e quello della politica sono apparsi tanto distanti e senza comunicazione fra loro. E’ una rottura che fa paura, non perché ci mostra la loro insensibilità, ma perché racconta anche la nostra debolezza. Come è possibile che dopo un anno di mobilitazioni, i decisori politici ci ignorino e non sentono l’urgenza di prendere qualche decisione?

Parlare male dei Trump, Bolsonaro serve a poco, così come denunciare l’impotenza di Europa, Cina, Russia e India. Forse è bene che si affrontino anche i nostri limiti, capendo che quello che fin qui abbiamo messo in campo è insufficiente. Non gli fa nessuna paura di essere cacciati dal potere, l’unico linguaggio che sentono.

Prendere atto della nostra debolezza è facile a dirsi e difficile a farsi. Non basta riprendere le nostre manifestazioni se non si capisce come fare perché incidano di più. Il movimento ha bisogno di cambiare pelle, definire un suo progetto e trasformarlo in vertenze. E’ tempo di allargare lo sguardo, incontrare gli altri movimenti e le loro ragioni, quello femminista, quello per la pace e contro gli armamenti, quello per la giustizia sociale, quello per le libertà e nuovi diritti. Sarebbe straordinario e coinvolgente legare le mobilitazioni studentesche all’apertura, scuola per scuola, di una vertenza per avere i luoghi in cui si studia ad emissione zero. Altrettanto mobilitante sarebbe rispondere al destino precario, a cui vengono condannati milioni di giovani donne e uomini, coinvolgendoli nella costruzione di un nuovo modello energetico, rinnovabile e poco bisognoso di energia, proponendo nuovi stili di vita, la difesa del territorio, una riduzione del consumo di suolo, come le chiavi per produrre lavoro e ricchezza, smettendo di illuderli che la medicina possa essere la crescita, che da anni è senza lavoro e senza benessere. Allargare lo sguardo al movimento femminista che lotta contro il patriarcato, capendo che l’altra faccia del dominio sulla donna, è la violenza sulla natura.

Insomma la continuità della mobilitazione è indispensabile, ma per durare nel tempo e incidere nelle decisioni ha bisogno di vertenzialità e soprattutto di contaminare e farsi contaminare.

The Niro: «Il mio viaggio nella musica e nella poesia di Jeff Buckley»

L’inizio è epico . Una introduzione da concept album. Tre parti di chitarre elettriche. Si rincorrono come voci, come in un dialogo tra persone, che in cerchio parlano, discutono , scambiano suoni e sensazioni, idee e rimandi. Un dialogo tra Gary Lucas, incontenibile chitarrista, un immaginario Jeff Buckley ma presente come autore dei testi e delle melodie e The Niro, interprete straordinario di un sogno che esplode letteralmente lungo l’arco che gli stessi protagonisti tendono con dodici meravigliosi poemi.

Il cuore e la passione vivono in questi lavori destinati irrimediabilmente all’oblìo se Lucas, e la coraggiosa quanto lungimirante etichetta Esordisco di Pierre Ruiz, non fossero intervenuti proprio a venticinque anni di distanza da quel capolavoro, Grace che Buckley aveva sapientemente cesellato e poi pubblicato in quella torrida estate del 1994, anno orfano di Kurt Cobain, che qualche mese prima si era suicidato.

Ma un 1994 anche da ricordare per questo autore, Jeffrey Scott Buckley, anche lui prematuramente scomparso (maggio 1997) dopo una intensa manciata di canzoni, un album solista e altri postumi, come vuole da sempre la cinica legge del mercato. L’avventura era iniziata qualche anno prima, tra il 1991 e il 1992 quando il Buckley, chitarrista e cantante, abbandonando la natìa California , con un cognome pesante da portare (il padre Tim era stato un innovatore folk-singer della fine anni ’60 ricordato soprattutto per la estrema versatilità vocale) e come il padre altrettanto capace di mirabolanti imprese sonore, approda a New York, altro ombelico del mondo dell’arte dove aderisce al progetto di Gary Lucas. “Gods and Monsters”, è un ensemble dedito al rock e alla psichedelìa e che nei pensieri dello stesso chitarrista di Syracuse doveva diventare una sorta di band simil-Led Zeppelin.

Buckley diventa così la “voce” di Gary, in un connubio, all’interno della band, che si esibirà dal vivo solo un paio di volte. In quel lasso di tempo i due però, inizialmente affiatati ma concentrati al contempo su progetti personali, scriveranno ben dodici canzoni registrate in forma demo. Alcuni brani vedranno la luce in una elegante confezione box del 2002 dal titolo Song To No One, e, per incanto, in modo diverso e unico, su questo prezioso album che si presenta coraggiosamente, e a ragione, sul mercato mondiale intitolato The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook – The Niro featuring Gary Lucas.

Una copertina semplice con una esplosione di colori; la tavolozza del pittore che fa presagire sfumature, toni forti, tinte indelebili per delle straordinarie composizioni affidate alle dorate corde vocali di The Niro – al secolo l’italiano Davide Combusti – che conduce le danze fin dalla prima traccia, “No One Must Find You Here”, provocatoriamente pubblicata come singolo (9 minuti e 12 secondi la durata). Questa lunga suite detta subito le direzioni di una imbarcazione pronta a salpare su quell’oceano di rumore (cit.) che i protagonisti – una band di elevato livello interpretativo – affronteranno per un’ora, navigando con lo scopo preciso di arrivare a scoprire la loro “America”, rappresentata da quel nugolo di canzoni – di cui cinque mai sentite prima da nessuno.

L’incipit dei tre suoni, come anticipato, è forse la ricerca di un rapporto; la narrazione di tre voci che ricordano tremendamente la musica “raga” e le influenze di Buckley, particolarmente Nusrat Fateh Ali Khan, re del Qawwali, la musica devozionale del Pakistan. Artista al quale Jeff aveva spesso rivolto lo sguardo artistico per catturarne le ombre più nascoste, forse il senso di una spiritualità che lui, voce d’angelo, avrebbe voluto sviluppare meglio se non avesse perso la vita in un fatale incidente.

The Niro, forse inconsciamente, affronta e arrangia con Lucas, Francesco Arpino e il notevole bassista Phil Spalding, già alla corte di Roger Daltrey, Mick Jagger e Elton John, questa lunga composizione, che ha picchi e valli in continuazione, proprio come deve essere certa musica “alta”; pensata sì, ma con le autentiche intenzioni di dar vita a un bambino che rischiava di non nascere mai. E’ questa la strabiliante scoperta sonora che il cantante porta alla luce, senza nessun timore verso la figura di Buckley, gigante indiscusso e autore di quel già citato album seminale – Grace – che indurrà tanti artisti a dover rivedere i propri piani. The Niro è al centro esatto di quelle composizioni laddove, forse per orgoglio e giustificate velleità, lo stesso Jeff le aveva in parte lasciate.

Una raccolta che brilla per l’intelligente abilità del chitarrista Lucas che ha visto in The Niro l’unico possibile interprete di quel tesoro custodito in un forziere. Combusti, senza nessuna mappa, ha accettato di scoprire e interpretare alla sua maniera i brani, rimanendo rispettoso delle parti originali ma disegnando il proprio tratto stilistico in una serie di passaggi che i suoi più attenti fan avranno sicuramente notato.

Lucas, poliedrico scultore sonico, capace di raccontare su tutte le tracce dell’album la storia della musica contemporanea, porta gli ascoltatori a riscoprire il rock classico, la world music, il country folk, il punk, il blues, la psichedelìa, l’avant-garde. Questo album è un capolavoro, inserito in un contesto musicale certamente affollato da milioni di musicisti, ma che spicca per il livello qualitativo delle composizioni, delle sperimentazioni in esse contenute; per le ritmiche indiavolate e per i cambi di groove; per le tastiere mai invadenti che sottolineano l’evidente cura che la produzione artistica ha saputo infondere in un progetto sfidante e che ha avuto già la sua première in quel di New York, proprio dove nacquero le canzoni.

“Story Without Words”, con un riff di chitarra acustica che corre lungo tutto il brano (che se fosse al rallentatore ricorderebbe quello di “Big Love” dei Fleetwood Mac), si alterna al tempo “tagliato” punkeggiante dove basso e batteria accompagnano solidamente la voce. Il terzo brano, “In the Cantina” (che sarà anche un video-clip prossimamente in rotazione), è un brano d’atmosfera, dove l’elaborato organo di Arpino fa da tappeto sonoro, quasi floydiano, alla canzone, in cui The Niro ci fa vivere quella matrice folk di fondo nella reiterazione del ritornello, incastrando voci misteriose alla principale, in un mix di suoni davvero intrigante. Si cambia marcia con “Bluebird Blues”, ed è ancora la chitarra del Professor Lucas che ci consegna una ballad country-gospel con tanto di hand-claps, dove il dialogo tra la voce e lo strumento si dipana lungo tutta la traccia alternando stop e ripartenze. Davvero divertente, giocosa.

“In “Distortion” si inizia ad intravedere qualcosa ancora di più delle idee, musicali, originali, di Lucas che qui vengono mutuate dagli interventi della band . Forse uno dei brani più complessi. Ma è con la rilettura di “Mojo Pin” che si approda alla prima isola conosciuta, il Buckley più noto, dove un elegante lavoro alle voci di The Niro, ne caratterizza la rilettura. E’ in versione acustica, come nei demo del 1991 “presentata” dagli autori originali, ma che dà la possibilità a tutti di apprezzare le notevoli nuance del cantante italiano, che sa aggiungere il proprio modo interpretativo, lasciando all’originale quella drammaticità, che se replicata in questo contesto avrebbe di certo fatto gridare al “clone”. Così come è assolutamente acustica, forse tra i migliori episodi di questo album, la “Song to No One” dove la immensa cultura di Lucas – che ricordiamo già con la Magic Band di Captain Beefhart, e collaboratore di un numero elevatissimo di artisti (Lou Reed, Nick Cave, John Cale, Leonard Bernstein, Patti Smith, Iggy Pop, Brian Ferry), attinge sommessamente alla open tuning di “Little Martha” degli Allman Brothers Band e a certe modalità di Joni Mitchell prima maniera, regalando agli ascoltatori un piccolo viaggio negli anni ’70. “She is Free”, che già nel demo originale presentava un riff davvero “catchy”, è giustamente il singolo da trasmettere in radio e per il quale la Esordisco ha prodotto anche un video-clip, dove i due artisti, The Niro e Lucas, non appaiono, lasciando così parlare le immagini.

Cercatelo, perché sono tre minuti e mezzo di tenerezza che vi accompagneranno nelle prossime giornate invernali. Il coro potrebbe diventare un gioco da condividere dal vivo con i musicisti chiamati con questo pezzo pop anche a divertirsi. “Harem Man” è uno dei brani che omaggia i Led Zeppelin, antichi amori di Buckley e Lucas. La rilettura e gli arrangiamenti, decisamente contemporanei, non abbandonano questa antica passione che The Niro ci fa vivere pienamente con una voce forse meno tirata ma che nel brano “Cruel”, con un riff di chitarra elettrica da ricordare (Stratocaster e leva) tocca l’apice. I ritmi e le influenze di Buckley, Lucas e The Niro sono anche tutte presenti in “Malign Fiesta (no Soul)” dove il cantautore italiano mostra controllo, intonazione, estensione e ritmo. Il disco cresce ogni volta che si riascolta, e ci si rende conto che l’ensemble, messo insieme dalla produzione, è di notevole fattura: Puccio Panettieri alla batteria (già con Mannarino e Carmen Consoli), coadiuvato dal citato Spalding e dal creativo bassista Maurizio Mariani (già con Barbarossa, P.Pravo, Banco, Panceri), hanno personalità ed ecletticismo da vendere.

Nulla da invidiare a dischi d’oltreoceano. Questi musicisti narrano molto di loro nella sfida che hanno voluto raccogliere, infondendo alle composizioni attualità e tecnica. Capaci coralmente di esprimere rispetto verso le idee originali, rendono questo lavoro davvero un’opera di pregio. E il tocco di classe in diversi episodi è l’aggiunta del violoncello di Mattia Boschi che nella linearità delle note si affianca alla voce e al piano, come accade nella reinterpretazione di quella “Grace” che chiude un disco, che se da una parte arricchisce elegantemente il catalogo di Buckley, dall’altra, porta The Niro e Lucas verso una nuova sfida che gli stessi potrebbero lanciare in una prossima pubblicazione. Una nuova strada che li possa allontanare con affetto dal loro “dream brother”, che come una stella cadente ha attraversato un periodo di tempo davvero infinitesimale ma che per la forza posseduta è rimasta lì, ferma, a brillare per tutti . The Niro e Lucas lo raccontano con coraggio in queste dodici tracce; non un punto d’arrivo ma l’inizio di qualcosa di nuovo e bello che ci auguriamo possa rivelarsi in un cielo pieno di suoni.

Di seguito la lunga chiacchierata con The Niro. Ringraziamo  Maria Grazia Umbro per la disponibilità presso
la  caffetteria Blue Room di Roma

Ciao Davide, la prima cosa che ti vogliamo chiedere è come nasce questa esperienza e come è nato questo incontro con Gary Lucas, un chitarrista molto sofisticato, non conosciuto da molti.
The Niro : Mi è capitato recentemente di fare un’intervista con una radio svizzera che trasmette brani da tutto il mondo. Una Babele di musiche, suoni…. non so, ad esempio un brano di 007 fatto dalla banda rom jugoslava oppure il pezzo finlandese. Ad un certo punto mi fanno ascoltare un brano che sembrava qualcosa degli Yellow Jackets, un po’ jazz, e mi chiedono ”Alla chitarra hai riconosciuto chi c’è?” – Beh, penso, se me lo chiedono…mi butto…“Gary Lucas?!” rispondo io…”Sì” – Questo era un pezzo totalmente folle, fuori di testa. Tornato a casa ho approfondito i lavori di Lucas. E’ uno che spazia dalla musica di Taiwan, a cose legate a Israele oppure musica cinese e altro.
 E’ pazzesco. E’ eclettico.
Sì, è un personaggio incredibile.
 Sappiamo che insegna, fa lezioni di musica
Sì è un docente universitario. Sulla pagina di Facebook vai lì e ti comincia a postare tantissime cose. Di ogni genere. Cose conosciute e cose sconosciute.
 E’ un ricercatore…
Sì, un ricercatore. Credo che questa cosa sia iniziata quando iniziò a collaborare con Captain Beefhart. Iniziò questa ricerca sul suono da trasporre poi sulla chitarra. Un’altra cosa che mi aveva colpito era il continuo cambiare accordatura allo strumento.
Che poi è anche una caratteristica di tutta quella musica proveniente dalla California con un uso di accordature aperte abbastanza elevato, a partire da Joni Mitchell, David Crosby ecc
Sì esatto..in Re e Sol aperto ma lui poi ne inventa altre che penso siano solo sue. Quando capita di fare promozione per riproporre questi brani devo un po’ personalizzarli, altrimenti dovrei chiamare Gary ogni volta e chiedergli che accordature bisogna usare di volta in volta.
 Nella prima esibizione in assoluto, avvenuta a Roma, te non suonavi però. C’era solo lui con la chitarra e di volta in volta passava del tempo tra un pezzo l’altro proprio per il cambio delle accordature…
No, non suonavo…ha suonato qualcosa il pianista (Francesco Arpino, produttore, tastierista e chitarre all’uopo, ndr) . No, io l’impegno grosso l’ho messo sulla voce. La data fu confermata abbastanza a ridosso del concerto stesso e i brani sono abbastanza impegnativi. Non solo a livello vocale ma anche a livello testuale. Un paio di brani in particolare, “Distortion” e “Malign Fiesta”, che sono degli scioglilingua , soprattutto la seconda. Quindi mi sono concentrato sulla voce. Magari più avanti…
Come inizia questo rapporto con Lucas?
Questo rapporto inizia tramite Gigi Pastore, che è un ragazzo che collabora con la mia agenzia di booking, che un giorno mi manda uno screenshot di una conversazione avvenuta in inglese, di qualcuno che diceva “Conosco The Niro, grande voce, grande chitarra, mi piacerebbe andare in tour con lui, digli che ho delle canzoni scritte con Jeff Buckley inedite da fargli cantare”. Io chiamo Gigi e gli chiedo “ Bello, ma chi è?” – “Come chi è? E’ Gary Lucas!”. Pastore e Lucas si erano conosciuti qualche anno prima a Bologna in occasione di un concerto. Gigi prosegue : “Gli ho chiesto quando tornava in Italia…e lui mi risponde che gli piacerebbe e che gli servirebbe un Jeff Buckley, qualcuno che canti questi brani …ma The Niro lo conosci?” – Lucas: “Sì lo conosco”. Quindi chiedo a Gigi di mettermi in contatto con lui. Lucas probabilmente mi conosceva perché qualche anno fa, in occasione di un concerto tributo a Rimini dedicato a Buckley – organizzato anche dalla mamma di Jeff, Mary Guibert (il concerto alla fine non si terrà, ndr), durante la fase preparatoria un mediatore mi contattò come vocalist e io risposi “No, grazie”. All’epoca l’accostamento a Jeff Buckley mi dava particolarmente fastidio. Ma non era per un discorso di valore artistico…per carità…avrebbero potuto accostarmi a qualcosa di peggio ah ah ah…ero felice, certo…ma Buckley non era un mio riferimento musicale. Mai stato. Poi io nasco batterista, figurati. Prima metallaro, poi punk per arrivare al brit-pop, al grunge, alle band. I cantautori non li seguivo. Quando ho iniziato a fare il cantautore, allora mi hanno iniziato ad accostare..però in realtà è tutto uno sviluppo mio. Sono figlio di mille artisti che ho ascoltato. Ascoltavo musica inglese o portoghese. Joao Gilberto, Deodato. Ho tutte queste influenze. Anche l’approccio con lo strumento avviene con la chitarra classica che secondo me viene da quella musica; anche dalla bossa nova, che sono riuscito ad acquisire tramite le colonne sonore. E quindi questo accostamento con Buckley non lo sentivo “mio”. Tutti mi dicevano questa cosa “mi ricordi Buckley” e un po’ mi dispiaceva. Perché invece sentivo di esprimere qualcosa di personale. E all’epoca rifiutai l’invito. Probabilmente Lucas si ricordava di questo episodio ed essendo una persona curiosa, avrà poi approfondito i miei lavori. Per cui forse il motivo della mia conoscenza può essere questo. Sono passati degli anni e di questo aspetto, quello di essere accostato a qualcun altro, non me ne importa più niente. Da una parte non mi dà più fastidio; dall’altra mi viene riconosciuta una personalità. A livello compositivo, interpretativo. E tornando all’idea di Gary, riflettendo sulla proposta mi dico “Sai che c’è? Lo faccio”. E così chiedo a Pastore di mettermi in contatto. Soprattutto ero incuriosito da questi brani inediti. Così mi arriva la mail di Gary, che rompendo gli indugi, invece di scrivermi “voglio andare in tour con te” scrive una cosa sorprendente “Quello che ti propongo Davide, è racchiudere i dodici brani che io ho scritto nel periodo in cui ho collaborato cin Jeff Buckley, di cui due fanno parte di Grace, cinque fanno parte di “Song To No One” e cinque brani mai stati pubblicati prima. In più se vuoi, potremmo fare tre cover, un pezzo di Van Morrison “Sweet Thing”, uno di Dylan “Dingo’s song”, e “Hymne à L’amour” di Edith Piaf…Di questi tre brani non ne ho mai parlato a nessuno.
Poi volevo dirti, a proposito, di questo materiale inedito, che tempo fa mentre mi incuriosivo di questa tua storia, andando a rileggere un’intervista del passato di Buckley, lui dichiarava che con Lucas aveva scritto dodici o tredici brani…i dodici sappiamo quali sono. Tu sai qualcosa di questo altro brano?
Io so che Gary ne aveva scritto un altro per Jeff, però poi non ci ha lavorato. Forse ha detto tredici perché contava di lavorare su questo tredicesimo, però forse non l’ha mai inciso insieme a Lucas…e poi spesso loro lavoravano a distanza. Gary mandava le musiche e lui ci cantava sopra.
 Però il demo , insomma il cd che uscì nel 2002, sembrava proprio come se l’avessero registrato insieme…
Quello è live! Quelle versioni sono realizzate durante un concerto dei Gods & Mosters alla St. Ann Church a Brooklyn, in cui Jeff Buckley cantava. Fecero tutti e dodici i brani, mi risulta…il giorno dopo questa esibizione Jeff chiama Gary dicendogli “io voglio fare il solista”, arrivederci e grazie. Dopo due anni Gary viene richiamato da Jeff “Ho firmato per la Columbia, ti andrebbe di registrare le chitarre per un paio di brani (su Mojo Pin e Grace, infatti c’è la “Magic Guitarness” di Lucas citata nei credits, ndr) che avevamo fatto insieme?” In realtà provarono a registrarne altri due: “She’s free” fu rifiutata da Buckley in quanto troppo pop. Quindi non era nel contesto di “Grace”. Poi magari poteva riuscire in un altro momento. E provarono a fare anche “No One Find Must You Here”. Non so se poi esistono anche delle demo o delle registrazioni di queste.
 E quindi arriva la mail…dove Lucas ti propone l’incisione di un album…
Beh, prima di tutto, mi sono fatto un viaggio interiore…che faccio?…mi hanno sempre detto che sembro Buckley, vuoi fare Buckley…tutta la vita…
Eri ossessionato…
sì…ero…Poi la cosa si è ripresentata e ho iniziato a pensare…mmm…qui posso dare anche il meglio di me comunque i fan mi massacreranno…quindi devo essere a posto dentro di me nell’accettare una cosa del genere…
 Che poi c’è un altro aspetto…te per anni hai rifiutato quel ruolo..adesso invece “ah vedi ora lo fa…” “ci ha ripensato”…ah ah
Esatto…però la risposta che mi sono dato è “Però me l’ ha chiesto lui” ah ah ah
Ma la risposta artistica è di grandissimo livello. Il disco è fatto veramente molto bene.
Di questo sono molto felice.
 Ci sono sonorità e sperimentazioni all’interno del disco. Che è godibilissimo. Non so chi ha potuto fare una recensione negativa come dicevi prima di iniziare questa intervista…
Ma è una persona che forse non l’ha sentito. Perché dice che tutto il disco è “pop”. Non è possibile dire una cosa del genere…
Il disco spazia…qui si vede la grandissima esperienza e cultura di Lucas. Ha un tipo di scrittura che passa dal country folk con le accordature aperte, ai Led Zeppelin e altre cose che ci sono dentro. E’ a 360° su tutta la musica.
Infatti nelle interviste quando mi chiedono…rispondo: questo è un viaggio nella musica, perché c’è tutto. Tocca talmente tanti generi in un album solo. Finisci di ascoltarlo e dici “ah..che bello” – a prescindere dagli aspetti vocali. E’ proprio l’elogio della scrittura di uno che finalmente ha potuto dire la sua.
E’ un compendio di musica. Poi tu hai questa grandissima capacità vocale che completa questo suo lavoro di ricerca. Poi Buckley c’è. Sta lì come autore delle melodie originali e dei testi. Però c’è anche il tuo apporto che mi sembra notevole.
Grazie.
Poi tu lo sai, il giornale Left è una rivista in un certo modo. Ci interessano molto le sensazioni, i sentimenti…capire in profondità le cose..quindi vorrei chiederti che tipo di rapporto hai avuto con queste composizioni. Penso che tu abbia letto molto bene i testi. Che ci racconta Buckley? E tu come ti sei rapportato con i pezzi scritti da un altro, scritti tempo fa?
Tecnicamente è stato un viaggio impegnativo..perché mi ha anche “costretto” a cimentarmi con l’hard-rock, con il blues, quindi modi di cantare non propriamente miei…mi ha fatto crescere…e quindi c’è stato un lavoro. In realtà a livello emotivo non ce ne è stato molto perché…nel senso che ho empatizzato immediatamente con le tematiche esistenziali, relazionali ..si sentiva che c’era qualcosa ..qualche problema affettivo che lui viveva…
Cosa ci hai trovato di te stesso?
Tutto.
 Tocca dei temi universali…
Tocca dei temi universali ma io a livello affettivo ho cercato di risolvere i miei scompensi sentimentali nella musica (nel frattempo, diabolicamente arriva una chiamata di Lucas…, ndr).
Come ti sei relazionato con queste canzoni anche perchè Lucas non lo conoscevi e Buckley, come detto, non lo avevi “idolatrato”…so che avete impiegato solo dieci giorni per incidere l’album…quale è stato il processo…
Abbiamo passato i primi tre giorni a registrare le chitarre di Gary. Subito con Francesco Arpino abbiamo iniziato a capire le strutture. E’ stata una operazione “taglia e cuci”. C’erano brani molto lunghi. Altri che avevano solo un ritornello. Abbiamo cercato di ottimizzare la scrittura perché quei brani lì erano figli di un primo concerto, che avrebbero subito sicuramente un processo di …..Nella testa mia e di Francesco è nata l’esigenza di come sarebbero potuti diventare nella loro testa e come avrebbero potuto invece diventare nella nostra. Un po’ come il processo dello zucchero. Abbiamo tentato di raffinare il tutto e di renderle canzoni. Ci sono brani di nove minuti come la prima (originariamente di dodici) che abbiamo appunto tagliato. C’erano delle parti lunghe che abbiamo ridotto. Ma il brano finisce che sembra sia passato un attimo. Forse la magia della canzone sta lì. Oppure in altri brani abbiamo aggiunto un ritornello alla fine come in “She Is Free”. Poi abbiamo trascorso due giorni al MOB studio, sempre a Roma per registrare le ritmiche. C’erano dei ragazzi di Studio35 live che collaborano spesso con Sky Arte che sono venuti e hanno girato un documentario. E in quelle giornate abbiamo suonato anche cinque versioni live con Phil Spalding al basso, Mattia Boschi al violoncello, Panettieri alla batteria, Arpino al piano, Lucas e io alla voce.
 Questo video esce…?!
Esce un “Making Of” per Rolling Stone in questi giorni e nella versione in vinile dell’album ci saranno anche un paio di brani live di “In the Cantina” e “Cruel”. Ma ne abbiamo anche altri tre volendo, che sono “No One Find You Must Here”, “Grace” e “Mojo Pin”.
Quali sono i brani invece dove ti sei trovato più a tuo agio?
“In the Cantina”…un pezzo che avrei potuto scrivere io…mi capita spesso di suonarlo dal vivo, voce e chitarra…fa parte ormai del mio repertorio..non solo del progetto The Niro / Lucas. E “Mojo Pin”, pure è un altro brano che sento particolarmente mio, perché ogni volta lo faccio in modo diverso. Come se fosse creta nelle mie mani e nella mia voce. Invece gli altri brani , secondo me, possono venire benissimo solo con Gary. Lui ha un modo di suonare particolare. Non mi sono cimentato.
Anche la stessa “Song To No One” mi sembra particolare. Tra l’altro con la chitarra acustica. A differenza del demo originale che era realizzato con la chitarra elettrica se non vado errato, secondo me funziona di più come l’avete fatta voi…però è anche vero che lì era un demo!
Certo!
Chissà come sarebbe potuta essere!
The Niro: E’ esattamente quello il punto…
 Quindi tu hai ascoltato i demo originali. Come cantati da Buckley…
Sì. E Il lavoro è bello perché , sebbene i cinque pezzi inediti un po’ in giro si trovavano, anche se ripresi alla buona… è che quelli , aggiunti ad altri cinque, non erano mai stati registrati in studio prima d’ora.
Diciamo che questo progetto ti lascia immaginare, ti lascia viaggiare con la testa…chissà Buckley come l’avrebbe realizzato; però poi, di contro, c’è questo risultato che mi sembra straordinario, che aggiunge un capitolo alla storia di questo sfortunato autore americano che aveva intrapreso una strada creativa bellissima.
Sì, certo.
Accennavi ai componenti della band. Secondo me straordinari e il disco è di caratura internazionale. C’è una grandissima versatilità nei suoni. Questi musicisti sono quelli che ti accompagnano dal vivo?
Puccio Panettieri è stato il batterista per una decina d’anni di Carmen Consoli e ora suona con Mannarino. Maurizio Mariani che suona il basso, ha lavorato con Barbarossa, Zarrillo, Patti Pravo. ”. Mattia Boschi con Giusy Ferreri. Di partenza sembrerebbero “turnisti”. Potrebbero suonare con chiunque. Ma so che amano suonare con me perché faccio della musica insolita. Ci sono delle parti musicali nel mio repertorio (5/4 ,7/8 ecc)…la scrittura è insolita e loro si divertono da morire a suonare con me. A volte hanno rifiutato tour importanti con artisti che magari garantivano di più, per venire a suonare nelle mie canzoni. Si sente che si divertono. Puccio Panettieri ad esempio ha fatto delle take di batteria pazzesche…si vedeva che era “preso”…è gente che ama particolarmente la musica…per lavoro fanno tutto… però..
 …e quindi non è soltanto un discorso di “mestiere”…fortunatamente…
No, no..assolutamente…e tra l’altro ho sempre lasciato mano libera…nei primi album solisti solitamente suonavo tutto io, però, siccome rispetto molto le personalità di chi suona con me, ovviamente cerco gente che abbia un modo di suonare abbastanza affine. Non ho mai detto, a parte alcuni “canovacci” per me indispensabili, “risuonate esattamente quella cosa come è”…e quindi la cosa bella, quando andiamo in tour in trio, è che il pubblico capisce che c’è una libertà espressiva da parte di tutti che sembriamo, non dico in dieci, ma emotivamente travolgenti…o almeno questo è quello che arriva. Spero di tornare a suonare presto con loro, anche perché ultimamente ho fatto diverse date solo chitarra e voce.
 Non abbiamo ancora parlato di Phil Spalding al basso…all’interno del disco c’è qualche traccia dove c’è questo importante musicista..
Phil Spalding collabora spesso con Francesco Arpino (produttore e tastierista, ndr)… io e Francesco ogni tanto ci divertiamo a scrivere delle canzoni; canzoni che scriviamo in cinque minuti del tipo “ho questa strofa” , lui mette il ritornello ecc…Mi ricordo che un giorno scrivemmo in dieci minuti un paio di pezzi che sembravano perfette per Robbie Williams. Le mandiamo a Spalding. Spalding suona anche con Williams…Un giorno venne in Italia e sovraincise pure il basso…
 Si tra l’altro lui suona pure con Mick Jagger, Elton John…
Sì, ha suonato tanto con Elton John, anzi sicuramente ci suona ancora oggi…e…ha suonato anche con Roger Daltrey, quindi conosce tutti gli Who…è un bassista fenomenale..lui è venuto, non aveva studiato niente (dei brani con Lucas, ndr)…ha sentito le canzoni, si è messo a scrivere e in breve tempo “dai sono pronto”…e quello che senti sul disco sono le parti che ha imparato lì in studio…su “Distortion” ha scritto tre pagine tanto per dire…per farti capire la difficoltà…e ha detto che è stata l’esperienza più entusiasmante che abbia mai avuto…considerando tutto quello che ha fatto…a livello di scrittura…si è emozionato assai..
Quel brano è molto particolare…
Molto particolare…lì il basso ha avuto molto coraggio.
Devo ancora cogliere delle cose di quel brano, non tanto della struttura, quanto del senso…
…la circolarità?!… io per cantarci sopra ho impiegato tre giorni…all’inizio non riuscivo a capire l’attacco…e poi ci sono dei momenti soprattutto quando c’è il crescendo di batteria, che ho dovuto contare “ventidue”…se ti distrai un attimo..dovrebbe esserci qualcuno che “conta” per poterla eseguire identica al disco…lì Spalding ha avuto il coraggio di eseguire una nota singola…lui non cambia mai accordo..avremmo potuto osare di più inserendo un organo anni ’70 che poteva cambiare l’armonia…A livello di scrittura è un bel viaggio anche quella canzone.
Sì è davvero particolare…Gary Lucas ha usato diverse accordature con la chitarra. Durante le registrazioni hai potuto catturare qualche segreto…?…c’è stato uno scambio tra di voi?
Non molto..
Mi pare di capire che la registrazione è avvenuta abbastanza velocemente… ed è anche una cosa straordinaria, perché realizzare un album così in poco tempo…
…E’ stato un miracolo.. …beh sì erano tutti ispiratissimi quei dieci giorni…
Una sorta di esaltazione collettiva!!
Tra l’altro in quel periodo ero anche in tour…la sera andavo a suonare poi la mattina tornavo in studio…avevo delle date abbastanza vicine..ma è stato un massacro..ci sono quelle foto in studio con Lucas…che non sono il massimo…sembro un cadavere..era difficile supervisionare tutto…un sonno…(risate)
Andiamo un po’ più in profondità…alcuni aspetti che ci interessava cogliere..parliamo di The Niro come artista..quanto delle tue liriche, dei tuoi testi si avvicinano a quelle di Buckley? Secondo me ci sono un po’ di cose in comune….forse c’è un romanticismo di fondo che vi accomuna…Lucas, conoscendoti, non pensi che ti abbia chiamato, non solo per le capacità tecniche, ma anche per i testi, per la narrazione, per il sentimento?
Beh sì… è probabile…forse lo struggimento sentimentale, esistenziale…ora non mi ricordo quella famosa frase di chi era che diceva “…scrivo solo quando sto male, quando sto bene esco” (Luigi Tenco, ndr)…forse è un po’ questo che ci ha accomunati…nel senso che..i miei conflitti interiori li risolvo attraverso la musica…per me è una sorta di auto-analisi…per me è importante…la magia di scrivere le canzoni…è proprio quella…che magari un problema insormontabile lo racconto in una canzone; è come se la canzone diventasse una bolla che racchiude determinate cose irrisolte…che poi se si risolvono o meno è marginale…
 La scrittura ti aiuta anche a ricordare o a definire delle cose, probabilmente..
A sciogliere dei nodi, esatto… e quelle emozioni, ogni volta che ri-canto quelle canzoni, le riavverto tutte.
Riesci a cantare qualcosa che hai scritto rispetto ad una storia tua privata…anche a distanza di tempo? Riesci ad avere lo stesso sentimento per reinterpretarla di volta in volta? Oppure no, questa è una cosa del mio passato, che ho superato, non me ne importa più niente…
No,no.. io canto anche brani di quindici anni fa e la sensazione…mi rimane..i visi spariscono, i colori si affievoliscono…un po’ come il profumo… lo senti e ti riporta istantaneamente ad una persona, a un ricordo. E le canzoni mi danno quella sensazione…una scìa..una particella infinitesimale che mi riporta a quel momento, a quelle sensazioni. Quindi sì.
 Oltre al tour imminente , ci sarà ancora una collaborazione tra te e Gary prossimamente?
Sì, Gary registrerà delle parti di chitarra nel disco che ho iniziato da poco. Poi non so se ci sarà in futuro..magari un Gary Lucas featuring The Niro…gli restituisco il favore…
Beh anche leggendo le cose che si leggono in giro, sarebbe un peccato non continuare…
A me farebbe piacere…penso che proprio a Natale registreremo delle cose proprio mentre saremo in tour..su delle mie cose nuove…
Oltre a “She Is Free” ci sarà un altro video?
Si ci sarà “In the Cantina” al quale sta lavorando Paolo Soriani…
Che è il fotografo…
Sì…ci sta seguendo lui…ci ha seguito anche a New York..io sto curando la supervisione; sono un appassionato anche di cinema. Mi è capitato di curare spesso il montaggio dei miei video-clip. Ho una visione d’insieme..poi il nome d’arte tradisce un po’ questa passione, The Niro…
Sappiamo che c’è stata questa premiere organizzata dalla Esordisco…come è andata questa esperienza al Cutting Room di New York lo scorso 20 settembre?
E’ stata pazzesca…non pensavamo che…io non sapevo cosa aspettarmi..sai, un italiano che va a cantare a New York i brani di Jeff Buckley..boh, vediamo che succede..non so….mi ero immaginato…forse un pregiudizio…invece già dal primo brano ho visto le persone ..gente che è venuta da tutto il mondo, dall’Australia..gente di New York ovviamente, tedeschi…un pubblico molto vario e la cosa bellissima è stato vedere le persone piangere…quella sera era come se fossi stato toccato da qualcosa di ultra terreno ..non ho mai cantato così…
Avete registrato?
Sì sì…mentre cantavo pensavo “no…quando ricanterò così”…
No vabbè, dai..non è vero…ma hai una voce straordinaria, dai (risate)
The Niro: Ti ringrazio..no..ma a livello di interpretazione…non lo so…
 C’era un alone magari attorno a quel momento
Sì..cantare e basta per me è una novità…io sono sempre stato..
 Tu stai sempre con la chitarra…
Esatto. Io mi sento proprio nudo senza la chitarra. Ho fatto un Sanremo senza chitarra. Sono stato mesi a guardare il soffitto “che cazzata!!!” (risate)
Sì me lo ricordo!!..Insomma che avete suonato lì a New York…come avete organizzato la scaletta?
Abbiamo fatto sette dei dodici brani. Eravamo io Arpino e Lucas..ed è per questo che siamo fiduciosi per il tour. Poi abbiamo fatto un pezzo io. Gary ha fatto un paio di brani strumentali. E “In the Cantina” l’abbiamo suonata un paio di volte. Anche “Mojo Pin”, piano e voce è venuta molto bene.
Senti ma non sarebbe il caso di andare in giro anche in Europa?
The Niro: Beh magari…sto leggendo tante recensioni molto belle da tutta l’Europa…teoricamente… non so se ne sta occupando qualcuno. Mi piacerebbe tantissimo.
 Ma il disco che stati scrivendo adesso uscirà sempre con la Esordisco oppure con la Universal tua “vecchia” etichetta?
Io ho avuto un rapporto con la Universal che si è interrotto in un periodo in cui ho perso il mio storico produttore, Gianluca Vaccaro. E’ accaduto un paio di anni fa..ma ora ho firmato con la Esordisco. Ho firmato questo contratto con Pierre. Sto bene.
 Ma l’idea della copertina?
E’ di Pierre. Inizialmente era stata commissionata a Beppe Stasi l’idea di utilizzare alcuni disegni miei e di Lucas..Non ci piaceva …poi alla fine è partita questa altra idea, questo tripudio di colori…questo era quello che mi sembrava più carino…
Ti corrisponde questa immagine?
A livello sinestetico sì..
Invece della foto di voi due è stata messa questa immagine. C’è stato qualche confronto ?
No, io non volevo proprio comparire…per me doveva essere una copertina nera con la scritta The Niro featuring…e basta. L’idea era “parla la musica”. Però per certi versi questa esplosione di colori rappresenta il disco…
 Non so perché ma queste cose che stai dicendo le ho scritte nella recensione!
Dai!, grande! Allora è giusta!!
Domanda un po’ delicata…ma Mary Guibert (la mamma di Jeff Buckley, ndr) che dice di questa pubblicazione? Visto che c’è stato il recupero di questi brani…
Io non ho avuto il piacere di parlarci. Non ne so molto. Non so se con Gary c’è stato qualche contatto. Lei è una persona che…non so… hanno per esempio spesso pensato di fare un film sul figlio che curiosamente annunciano ma poi non si fa mai..forse, immagino, ci siano sempre delle resistenze, della premura nel voler rispettare la memoria del figlio… in questo caso specifico di come l’abbia presa, non ne so nulla…però alla fine il disco è uscito; quindi penso che non l’abbia presa male.
Abbiamo notato nella discografia diverse collaborazioni per colonne sonore. E poi c’è un numero elevato di videoclip. C’è questo amore per le immagini. Puoi raccontarci di questa passione?
+ Quando ho iniziato a scrivere era un periodo durante il quale mi ero fissato nel poter cambiare le musiche dei film che vedevo. Guardavo dei film e quasi in maniera irridente, magari vedevo delle scene che mi sembravano molto allegre, sotto io eseguivo delle musiche diverse, e capivo il potere della musica sulle immagini. Questa cosa mi ha dato il la nello scrivere poi musica. All’epoca facevo solo il batterista ma suonavo anche la chitarra da tempo. Quindi ho iniziato così, con l’idea che un giorno avrei fatto il compositore.
E poi sono capitate delle occasioni in cui hai scritto dei brani per film…
Sì esatto, e ho fatto anche delle colonne sonore intere. Ho lavorato col regista di “V per Vendetta” (James McTeigue, ndr) che dopo avermi sentito suonare mi ha proposto di comporre un brano per un cortometraggio tramite la partecipazione ad un contest, accanto ad altri compositori americani. Mi mandò la sceneggiatura. Scrissi il pezzo in venti minuti, un po’ orientato sull’elettronica. Alle cinque del mattino mi arrivò la mail dove il regista mi comunicava , felice, che sarei stato inserito nel film che avrebbe avuto come protagonista il premio Oscar, Richard Dreyfuss.
Sappiamo che hai lavorato anche con la regista e autrice Iole Natoli…
Sì certo, come no…”Incanto” !!
Come è nata la collaborazione?
Ho conosciuto Iole nel luglio 2008. Fuori dopo un concerto fatto alla Cavea dell’Auditorium a Roma tramite vecchie conoscenze. Siamo amici tuttora e abbiamo lavorato non solo su quel corto ma la nostra collaborazione è proseguita sul suo percorso da poetessa…
 Recentemente ha vinto un premio…
Sì… abbiamo lavorato insieme sulle sue poesie, con io che facevo il commento sonoro e Barbara Folchitto e Carolina Crescentini che leggevano , abbiamo creato un reading dal titolo “Una serata incantevole”. Facemmo un paio di serate con una affluenza davvero grande, circa 700 persone. Iole come sai ha sempre un grande seguito.
Leggemmo anni fa una tua intervista dove ti veniva fatta la “solita” domanda del perché canti in inglese. E tu hai rispondesti che “l’inglese è un idioma come un altro”. Sappiamo che i vocaboli in inglese, il loro suono, hanno delle possibilità diverse rispetto a quelli in italiano. Che differenze hai trovato a scrivere un album nella tua lingua madre,(The Niro pubblicò un album per la Universal nel 2014, partecipando anche a Sanremo col brano 1969) visto che eri abituato a farlo in inglese ?
Sicuramente mi trovo molto più comodo in inglese. Riesco ad esprimere più concetti con meno sillabe… a meno che non ceda al teatro-canzone…perché è dove il cimento è maggiore…non so …c’è un paradigma: testo bellissimo / musica d’accompagnamento; musica bellissima/testo d’accompagnamento.
Difficile trovare poi l’equilibrio perfetto tra una musica di scrittura complessa “alta” e un testo “alto”
Devi trovare quell’alchimia perfetta.

L’alchimia sicuramente la scopriranno gli appassionati di queste originalissime composizioni che fanno parte di questo The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook prodotto da The Niro e Francesco Arpino assieme alla Esordisco.

Gary Lucas e The Niro saranno in tour in questi giorni in Italia per promuovere l’album. Non perdeteli!
Ecco le date:

19 dicembre, Pordenone, Astro Club
20 dicembre, Milano, Serraglio
21 dicembre, Perugia, Bad King
22 dicembre, Bologna, Area Fuori Tema
23 dicembre, Correggio (RE), I Vizi del Pellicano
26 dicembre, Torino, Blah Blah
27 dicembre, Roma, Monk
28 dicembre, Taranto, Mercato Nuovo
29 dicembre, Bari, Anche Cinema

“Meccanismo europeo di stabilità” significa austerity. Ma il trattato si può (e deve) riformare

Mess in inglese significa «casino» e si pronuncia esattamente come l’acronimo del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Un casino su cui occorre fare un po’ di chiarezza, per quanto riguarda: caratteristiche del trattato, pacchetto di riforme che prevede, e proposte radicali di cambiamento.

1) Il trattato intergovernativo che ha introdotto il Mes è stato firmato nel 2012 dai governi dell’area euro (il governo Monti per l’Italia). La sua abrogazione non è in discussione, essendo in corso di revisione solo 4 articoli su 48. È stato introdotto per colmare una delle tante incompiutezze della governance europea, che prima di quell’innovazione istituzionale non prevedeva di dover affrontare crisi. Il Mes o Fondo salva Stati è stato quindi tardivamente concepito per tutelare l’Unione monetaria. Ha già fornito assistenza finanziaria a Cipro, alla Spagna, al Portogallo, all’Irlanda e soprattutto alla Grecia, umiliata da una sorta di colonialismo da indebitamento. Il Mes è concepito come un baluardo dell’austerità e agisce come una banca privata. Esso segue un approccio che si è dimostrato fallace in più occasioni: emblematico è il caso della Grecia che nel 2015 (quando è stato votato il terzo prestito del Mes, contro il volere del referendum popolare) aveva un rapporto debito-Pil del 175,6%. A fine “cura”, ossia nell’estate 2018, aveva un rapporto debito-Pil del 181,2%, nonostante le misure “lacrime e sangue”

Il Fondo salva Stati ha come limite principale il fatto che, a differenza della Bce, non ha la prerogativa di battere moneta; se dovesse scatenarsi uno tsunami finanziario, il suo patrimonio di 704,8 mld non sarebbe sufficiente. A questo va aggiunto: il metodo non democratico e non trasparente sia per la gestazione degli allegati tecnici, sia per la gestione del Mes in generale (data l’immunità penale, civile e amministrativa di cui godono i vertici). È inoltre uno strumento sistemico di controllo dei governi nazionali, fatto apposta per renderli impotenti, come lo stesso Varoufakis nel suo ultimo libro sintetizza: «Un ministro delle Finanze che voglia fare proposte per la ristrutturazione del debito non riesce ad avere il nome di una persona con la quale parlare o un numero di telefono al quale rivolgersi per cui, lui o lei, non sa cosa fare». Infine, con i vincoli della sostenibilità del debito e della capacità di rimborso del beneficiario, precondizioni per accedere all’assistenza finanziaria, il dispositivo somiglia ad un “ombrello per quando non piove”.

2) Per avere pieno potere negoziale è fondamentale valutare la riforma del Mes all’interno del combinato disposto dell’intero pacchetto di riforme. Prima parte, le riforme del Mes ovvero la revisione delle “note esplicative” sulle clausole di azione collettiva (Cacs), la suddivisione tra la linea di credito condizionale precauzionale (Pccl) e quella a condizioni rafforzate (Eccl) e i prestiti del Mes al Fondo di risoluzione unica per la gestione delle crisi bancarie. Seconda parte, l’approvazione dello schema comune di assicurazione dei depositi (Edis). Terza parte, le nuove modalità di cooperazione tra il Mes e la Commissione europea e il relativo Memorandum. Solo all’esito della versione finale del pacchetto sarà possibile un giudizio generale. Bisogna scongiurare, una volta per tutte, il rischio di misure punitive nei confronti dei Paesi più indebitati e gli automatismi alla ristrutturazione del debito, espliciti o surrettizi, ribaltando l’idea di fondo che la disciplina di bilancio si ottiene accrescendo la probabilità di una crisi finanziaria.

3) È necessario approfittare del negoziato sul “pacchetto” per mettere in discussione l’intera logica neoliberista che sottende l’architettura dell’area Euro e la politica economica Ue, con proposte concrete e radicali:

• per la complementarietà della funzione che il Mes svolge rispetto alla Bce, andrebbe valutata la possibilità di fare rientrare le competenze del Mes tra le funzioni della Banca centrale, avvicinando così le sue prerogative a quelle della Federal reserve che ha un dual mandate: non solo la stabilità dei prezzi, ma anche quello di contenere il tasso di disoccupazione;

• l’esigenza di ritornare su un sentiero di rientro del debito pubblico – precondizione per la stabilità finanziaria – non può continuare a puntare sugli avanzi primari, ma su altre leve. Come una massiccia crescita degli investimenti pubblici per la transizione ecologica (500 mld all’anno nella Ue per i prossimi 5 anni) escludendoli dai parametri del patto di stabilità. La transizione ecologica deve diventare una «realizzazione in comune», come quella di cui si parla nell’articolo 125 del Tfue, quello del no bail-out: «Gli Stati membri non sono responsabili né subentrano agli impegni dell’amministrazione statale, degli enti regionali, locali… di un altro Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico». Serve inoltre un safe asset, un comune strumento obbligazionario free risk dell’area Euro. Uno strumento di alta qualità con conseguente maggiore stabilità finanziaria. Si abbasserebbe così il costo del servizio del debito per i Paesi più indebitati e si supererebbe l’anomalia dei tassi negativi per gli Stati in avanzo di bilancio. Uno strumento emesso dalla Bce sulla base della conversione di titoli sovrani già in circolazione, per un controvalore equivalente alla quota del parametro di Maastricht (60% debito Pil). Meno lo Stato membro supera tale limite, maggiore sarà la percentuale del suo debito pubblico coperto con i rendimenti ultrabassi delle obbligazioni della Bce;

• una politica di seria penalizzazione degli strumenti finanziari più speculativi da inserire negli allegati tecnici del package (le attività di tipo 2 e 3 nei bilanci delle banche, di cui le banche francesi e tedesche sono piene), da contrapporre alla provocatoria proposta del ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz sulla ponderazione per il rischio dei titoli di Stato.

* Antonella Trocino fa parte del Coordinamento Diem25 del Lazio

Lo Stato spacciatore

20050802 - NAPOLI - CRO - SIGARETTE, ARRIVA IL PREZZO MINIMO - Ufficializzato con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale l'introduzione del prezzo sul pacchetto di sigarette: da oggi non potra' costare meno di 3 euro. ''Il prezzo minimo di vendita - si legge nel provvedimento in vigore da oggi e che fa suo una norma della Finanziaria 2005 - e' individuato in una percentuale del prezzo medio ponderato di vendita al dettaglio di tutte le sigarette iscritte nella tariffa ed effettivamente commercializzate. Il valore assoluto del prezzo minimo non potra' essere superiore al prezzo registrato dalla sigaretta piu' venduta''. CIRO FUSCO/ANSA/TO

Secondo il Global status report on alcohol and health 2018 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicato il 21 settembre 2018, l’uso di alcol nel 2016 ha causato nel mondo circa 3 milioni di morti, ossia il 5,3% di tutti decessi e il 5,1% degli anni di vita persi a causa di malattia, disabilità o morte prematura attribuibili all’alcol. Più di tre quarti dei decessi si è verificato tra gli uomini. Il consumo di bevande alcoliche è responsabile o aumenta il rischio dell’insorgenza di numerose patologie: cirrosi epatica, pancreatite, tumori maligni e benigni (per esempio quello del seno), epilessia, disfunzioni sessuali, demenza, ansia, depressione.

Che il fumo di sigaretta sia dannoso per la salute umana non è più materia di discussione da moltissimi anni; ciononostante il consumo di sigarette è ancora elevatissimo e il prezzo pagato è salatissimo; secondo i dati dell’Oms, per esempio, il fumo di sigaretta rappresenta la seconda causa di morte a livello mondiale nonché la prima causa di morte evitabile! Ogni anno, circa 6 milioni di persone muoiono a causa dei danni da fumo; il 10% di questi sono soggetti non fumatori esposti al fumo passivo. Insomma, si tratta di numeri da epidemia.

Lo Stato italiano incassa circa 15 miliardi di euro dal fumo e ne spende circa la metà in sanità, con un bilancio comunque attivo. Incassa circa 1 miliardo di euro da prodotti alcolici.

A proposito dello Stato spacciatore e di come venga facile di questi tempi allarmare su cose non allarmanti (come la cannabis light) e continuare a non vedere gli allarmi diventati cronici.

Cin cin.

Buon mercoledì.

Una volta qui era tutta antimafia

Che brutta fine che ha fatto l’antimafia che prima era dappertutto, quando ci dicevano che la lotta alla criminalità valesse pure qualche film bruttino, qualche messa sciacquata e qualche eroe da bancarella ma si insisteva nel convincersi che l’importante era parlarne, che se ne parlasse, che fosse all’ordine del giorno. Finito il lato spettacolare dell’antimafia (a parte qualche film, sempre bruttino) la politica è riuscita comunque a scrollarsela di dosso come se fosse stata solo una moda passeggera, qualcosa che era importante attraversare per dire “io c’ero”. Anche i movimenti civici sembrano averla retrocessa tra le priorità di cui parlare solo “se c’è tempo”.

Mentre in Italia le associazioni e gli studiosi (tanti, bravi e competenti) insistono nello studiare, discutere e imparare le pratiche antimafiose, la politica italiana, tutta, ha dimenticato il fenomeno dando la preoccupante percezione di averlo perfettamente assorbito, esattamente come temevano e denunciavano molti di quelli che ci sono morti, per mano della mafia.

La Procura antimafia di Torino negli atti del processo contro 19 persone in Val d’Aosta (si è dimesso il presidente della regione, tanto per dare un’idea delle proporzioni dello scandalo) racconta come Antonio Raso (calabrese di origine ma valdostano per imprenditoria nel campo della ristorazione) abbia gettato già da tempo le basi per eleggere sindaci e senatori che fossero a disposizione della cosca per assunzioni, per la lubrificazione di pratiche amministrative e per altri favori.

La locale ‘Ndrangheta di Aosta avrebbe addirittura “influenza” su diversi candidati di diversi partiti, creando una sorta di oscena alleanza trasversale che troppo spesso capita di vedere nella politica italiana. I fratelli Di Donato (che secondo gli inquirenti sarebbero a capo del clan che controlla Aosta) avrebbero incontrato il governatore dimissionario Fosson ma anche gli ex governatori Augusto Rollandin, Laurent Viérin e Pierluigi Marquis. Un’infiltrazione che comincia addirittura nel 1999 con la costituzione del Movimento Immigrati ValdostanoPer gli inquirenti le indagini (come le precedenti inchieste) «hanno rivelato che il ‘volere’ elettorale del locale ha condizionato gli ultimi decenni della storia politica valdostana creando un connubio politico-criminale ben radicato».

Un bubbone enorme. Eppure poiché la destra non può usarlo come manganello contro la sinistra e la sinistra non può usarlo come manganello contro la destra va a finire che non commenta nessuno. Una volta qui era tutto antimafia, ora è roba solo per affezionati.

Buon martedì.

Elly Schlein: Per vincere in Emilia Romagna ci vuole coraggio, di cambiare

Il conflitto politico, in vista delle elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia Romagna è entrato nel vivo: la lotta vedrà opporsi soprattutto Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia da una parte, e dall’altra la lista del candidato presidente Bonaccini, il Pd e la lista ecologista e di sinistra “Emilia-Romagna Coraggiosa” (ed eventualmente le altre che dovessero riuscire a raccogliere le firme). Ci saranno forse anche altre liste a sinistra fuori dalla coalizione, per le quali, grazie alla nostra brutta legge elettorale fortemente maggioritaria, sarà quasi impossibile il raggiungimento della soglia di consensi minima per eleggere un loro rappresentante. Il rischio concreto che il turno unico possa favorire le destre nazionaliste spingerà molti a preferire il voto ad una delle forze della coalizione.

La posta in gioco è altissima e riguarda sia il futuro governo di una delle più importanti regioni italiane che le conseguenze, inevitabili e di lunga durata, che l’esito del voto avrà sugli equilibri nazionali. Se fosse sconfitta, la destra rappresentata da Salvini e Meloni – liberista e subordinata ai ceti dominanti in economia e nelle politiche contro l’ambiente, filopadronale nelle relazioni sociali e del lavoro, razzista e contigua in maniera esplicita al neofascismo – potrebbe iniziare il suo declino. Al contrario, se Bonaccini e la coalizione che lo sosterrà dovessero perdere, l’egemonia della Lega si rafforzerebbe in maniera forse decisiva anche a livello nazionale.

In questo scenario il ruolo della lista “Coraggiosa”, il cui progetto politico è sintetizzato dall’affermazione «non esiste giustizia sociale senza giustizia ambientale, e viceversa», si mostra come determinante: battere la destra è importante quanto condizionare da sinistra le politiche future della Regione. L’esperienza di governo di Bonaccini si segnala per…

L’intervista di Mauro Sentimenti a Elly Schlein prosegue su Left in edicola dal 13 dicembre

SOMMARIO ACQUISTA

Un referendum costituzionale per difendere la democrazia parlamentare

Ok definitivo dell'Aula della Camera al taglio dei parlamentari, Roma, 08 ottobre 2019. Il disegno di legge costituzionale che riduce i deputati a 400 dai 630 attuali ed i senatori a 200 dagli attuali 315, è stato definitivamente approvato a Montecitorio con 553 voti a favore, 14 contrari e due astenuti. Trattandosi di un disegno di legge costituzionale, era richiesta la maggioranza assoluta dei componenti dell'Assemblea, pari a 316 voti. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

La riduzione dei parlamentari, come scritta dalla Lega (programma 2018) e fortemente sostenuta dai leader del M5S, è stata approvata. Anche dal Pd, non per convinzione ma solo per fare il governo. Dopo che aveva sempre votato contro e solo pochi mesi fa la definiva: «Una ferita alla democrazia parlamentare».

Si sono propagandate le motivazioni facendo soprattutto leva sui – purtroppo molto spesso giustificati – sentimenti negativi dei cittadini verso i parlamentari.
Nessun particolare risalto è stato dato dai maggiori organi di informazione, salvo episodiche eccezioni. I cittadini poco o nulla sanno sulle conseguenze: equilibri istituzionali e disuguaglianza ulteriore tra Regioni, rappresentanza dei cittadini e rappresentatività dei soggetti politici. Conseguenze non sanabili dagli annunciati “interventi di garanzia” o da una legge elettorale che, comunque, si auspica proporzionale.

Altrove abbiamo già scritto le ragioni del nostro No a questa riduzione, basata su motivazioni demagogiche, fragili, incongrue. Le ricordiamo in sintesi.

1) Risparmio, sintetizzato nel fuorviante slogan: “1 miliardo per i cittadini”.
“Tagliare le poltrone” è slogan già usato da Renzi. Si può però seriamente pensare di risparmiare sulla democrazia? I Costituenti, nell’immediato dopoguerra, momento ben più difficile di quello attuale, non si fecero condizionare dalla spesa che, comunque, “dev’essere messa in rapporto al bilancio” (Luigi Einaudi, II Sc., verbale del 18.9.1946)

In questo caso il risparmio (500 mln lordi per anno) ne rappresenta lo 0,007% (Osservatorio Cpi): meno di un cappuccino all’anno per cittadino (Codacons).
Poi perché non si è iniziato col taglio degli indennizzi, da sempre bandiera del M5S?

2) Efficienza, per velocizzare le leggi.
Statistiche alla mano però non si fanno poche leggi e non è vero che occorra sempre tanto tempo: per alcune sono bastati pochi giorni (come 20 per il Lodo Alfano) e la velocità non è, di per sé, una garanzia per i cittadini. Per il Salva-Italia di Monti e Fornero occorsero solo 16 giorni, generando “gli esodati”.
Una “maggior velocità” nelle dinamiche parlamentari è comunque già ottenuta attraverso i regolamenti parlamentari. Senza contare che l’eccessivo ricorso a decreti legge e questioni di fiducia da tempo comprime il dialogo politico e ridimensiona la funzione dei Parlamentari, indipendentemente dal numero.

3) “Standard europei”, fantomatici, non se ne parla in Costituzione o altrove.
Vero è che l’Italia ha il maggior numero di parlamentari elettivi in Europa, ma è una lettura semplicistica che non tiene nemmeno conto del numero degli abitanti e dei diversi Ordinamenti, alcuni monocamerali. Lo stesso Servizio studi del Senato ritiene che «più agevole a rendersi è la comparazione tra le Camere “basse” […] che sono tutte elettive dirette». Così, da un confronto più congruo (Camere Basse in rapporto alla popolazione) si riscontra che, già in linea con gli altri grandi Stati europei, con questa riforma l’Italia andrebbe all’ultimo posto.

Di ben altra portata le conseguenze, fondamentali nella nostra democrazia rappresentativa.

1) Equilibri istituzionali.
Maggior “peso politico” dei 5 senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica (da 1,6% su 320 senatori a 2,4% su 205) e dei 58 delegati regionali nell’elezione, a Camere congiunte, del capo dello Stato. In relazione poi ai sistemi elettorali si potrebbero aver ulteriori e ben più gravi distorsioni su dinamiche delicatissime come la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica, le elezioni dei componenti parlamentari del Csm e le modifiche stesse della Costituzione in relazione ai relativi quorum richiesti. Oltre alle difficoltà di funzionamento delle Camere, da diversi segnalate, e non del tutto sanabili dai regolamenti parlamentari, che dovranno comunque essere rivisti.

2) Rappresentanza dei cittadini.
I Costituenti determinarono il numero dei parlamentari stabilendo delle proporzioni in merito alla popolazione: 1 deputato per 80mila abitanti e 1 senatore per 200mila. Nel 1963 si passò ai numeri fissi attuali e i rapporti oggi sono: 1 ogni 96mila alla Camera e 1 ogni 192mila al Senato, sostanzialmente invariati. Con la riduzione i valori salirebbero rispettivamente a 1 per 151mila e 1 per 302mila. Rapporti che aumentano quando ribaltati sui collegi elettorali, soprattutto al Senato: 1 ogni 800mila e anche oltre.

Evidente che meno facile, diretto e continuativo finisce per essere il rapporto “umano” coi candidati/parlamentari. Occorrerà ricorrere sempre più ai mezzi di comunicazione multimediale che non potranno mai sostituire il confronto diretto, oltre a richiedere maggiori risorse, anche finanziare, per le campagne elettorali, a tutto vantaggio dei più facoltosi.

Al Senato poi il “taglio” non colpisce omogeneamente tutte le Regioni: il Trentino Alto Adige riceve un “trattamento privilegiato” con 3 seggi per Provincia (omaggio per l’autonomia) a danno, nella ripartizione seggi, di altre Regioni. Come la Sardegna, che avrà un rapporto quasi del doppio.

2) Partecipazione delle formazioni politiche minori.

È stato calcolato che al Senato si creerebbero soglie implicite dal 10% in su, escludendo così anche formazioni politiche con risultati ragguardevoli. Con ripercussioni nei lavori parlamentari e, in particolare, nella partecipazione alle Commissioni. Soprattutto al Senato, dove si passerebbe dagli attuali 20 componenti circa a 12 o 13. I gruppi maggiori potrebbero mandarne in ciascuna 2 o 3. Quelli medi e piccoli forse solo 1 (e su più commissioni). Le leggi elettorali maggioritarie possono aggravare la situazione, ma nessun proporzionale, per quanto puro, potrà “creare nuovi seggi” disponibili per le minoranze.

Occorre quindi riconsiderare questa riforma che sembra avvantaggiare solo capi politici e segreterie, che potranno esercitare maggior controllo su candidati (prima) e sui parlamentari (poi).

Magari si valuti la abolizione (vera) del Senato. La cui differenziazione originale dalla Camera verrà del tutto meno qualora dovessero passare le annunciate riforme sull’età degli elettorati rimanendo, forse, la sola distinzione “regionale”.
Vi è ancora la possibilità di parlarne: il Referendum costituzionale! Ulteriore baluardo di garanzia e la cui natura oppositiva si evince dai verbali della Costituente e dalla logica stessa del percorso disegnato, come la mancanza di quorum. Come nel 2016, quando i cittadini, informati, si sono espressi sulla riforma di Renzi ribaltando i pronostici iniziali.

Così, nel silenzio dei media, si stanno raccogliendo le firme necessarie per indirlo. Sia tra i cittadini, con le relative difficoltà anche burocratiche, che in Parlamento e dovrebbe interessare chiunque si batte per una democrazia più partecipata e diretta ma non per questo meno…  rappresentativa.

Francesco Montorio fa parte del Comitato per la Democrazia costituzionale di Milano e aderisce all’associazione “Comma2-Lavoro è Dignità”

Sul referendum costituzionale v. editoriale di Simona Maggiorelli