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Il fine settimana “in famiglia” di neonazisti e leghisti, insieme al raduno di Lealtà azione

Il Sindaco di Adro Oscar Lancini con in testa un elmo cornato, questa sera, sabato 5 marzo, alla Fiera di Bergamo che ospita la cena di festeggiamento dei 25 anni della Lega Nord-ANSA/MILO SCIAKY

Un fine settimana in famiglia. Si potrebbe commentare così la partecipazione di quattro europarlamentari e due consiglieri regionali di Lega e Fratelli d’Italia al raduno nazionale degli hammerskin italiani in programma il 5 e 6 luglio a Oleggio, in provincia di Novara. A promuoverlo Lealtà azione, gruppo di ispirazione neonazista nato in Lombardia e ora presente in una dozzina di città da Nord a Sud, da Udine a Catanzaro.

ll nome della due giorni da otto anni è lo stesso: Festa del Sole. Rievoca gli antichi rituali pagani della mitologia nordica, tanto cari anche alle Ss del Terzo Reich. Anche la grafica resta simile alle quella delle precedenti edizioni, con in primo piano un lupo, simbolo del sodalizio, che ieri reggeva una rosa tra i denti e oggi guarda ululando verso il cielo. Il luogo del raduno nero, tenuto segreto “per motivi di sicurezza”, è stato rivelato la mattina del 5 luglio, poco tempo prima dell’inizio, una modalità abituale per evitare contestazioni e problemi. La locandina diffusa in precedenza indicava Milano: improbabile, ma non impossibile considerando gli amici e le amiche della Lega in Regione. Oggi il mistero è svelato, si tratta del Lago degli Elfi, a Oleggio, un agriturismo che pare chiuso da qualche mese.

Nel luogo che verrà indicato convergeranno le comunità della rete nazionale di FederAzione, il nome che Lealtà azione ha scelto per darsi una veste comune nel Paese. Tra i loro riferimenti culturali, il generale nazista delle Waffen Ss Leon Degrelle e Corneliu Codreanu, fondatore della Guardia di ferro romena, movimento ultranazionalista e antisemita. L’organizzazione conta qualche centinaio di militanti attivi, uniti da un forte senso di appartenenza, che hanno però visibilità e in Lombardia sono riusciti a creare una collaborazione stabile e fruttuosa con il partito di Matteo Salvini e con Fratelli d’Italia. Dentro e fuori le istituzioni.

A dimostrarlo è il programma delle conferenze previste per sabato 6 luglio alla kermesse dell’ultradestra: il dibattito è egemonizzato dalle tematiche politiche della Lega che mette sul piatto le presenze di Angelo Ciocca, Danilo Oscar Lancini e Silvia Sardone, tutti e tre di fresca elezione a Bruxelles, a parlare di Europa e di come cambiarla. Con loro Carlo Fidanza, europarlamentare di Fratelli d’Italia, avvistato in occasione dell’ultimo corteo per Sergio Ramelli a Milano, impegnato nell’opera di mediazione con la questura per consentire lo svolgimento della manifestazione non autorizzata e preceduta da un paio di cariche della polizia.

Anche l’incontro sulla politica nazionale, titolo «Un modello federativo per un’Italia più forte», è totalmente appaltato ai salviniani con la presenza di Massimiliano Bastoni e Jacopo Alberti, consiglieri regionali di Lombardia e Toscana. Con loro anche Francesco Borgonovo, vicedirettore de La verità di Maurizio Belpietro e Giannino della Frattina de Il giornale, tanto per restare tra amici.

Lega e lupi hanno ormai un rapporto consolidato, diventato esplicito nel 2016 quando alle elezioni comunali di Milano venne candidato ed eletto come consigliere del Municipio 8 Stefano Pavesi, militante neofascista e consigliere leghista. Un rapporto che sembra destinato a diventare una corrente, specie in Lombardia. Gran cerimoniere di questa operazione Massimiliano Bastoni detto “Max”, consigliere regionale in Lombardia eletto nelle liste della Lega, cresciuto nell’Msi e vicinissimo a Mario Borghezio, che non perde occasione per dimostrare la propria appartenenza e riconoscenza al movimento neofascista, cementata dalla comune presenza fissa nella Curva Nord di San Siro. Lo scorso anno, qualche giorno prima del voto delle regionali, Bastoni pubblicò sul suo profilo Instagram una foto allo stadio dove, tra gli altri, apparivano anche due dei tre ragazzi vicini a Lealtà azione arrestati per la morte di Daniele Belardinelli, il tifoso di Varese rimasto ucciso in un incidente stradale durante gli scontri fuori da San Siro il 26 dicembre dopo Inter-Napoli. Nessun imbarazzo a posare indossando magliette di Lealtà azione ai raduni di partito o abbracciato al capo, Stefano del Miglio, detto Alpha. Dopo la sua elezione, dai profili dei camerati è apparsa una netta rivendicazione del suo successo.

Al contrario di CasaPound, che in questi giorni ha deciso di tornare alle origini privilegiando l’aspetto movimentista e abbandonando quello della politica istituzionale, Lealtà azione non ha mai mostrato interesse a trasformarsi in una forza politica strutturata come un partito. Molto più funzionale fare lavoro di lobby, attraverso candidature nelle liste o dare l’appoggio a chi, vicino o appartenente alla «comunità umana e politica», ha in tasca una tessera. Come Andrea Arbizzoni a Monza, iscritto a Fratelli d’Italia e assessore allo Sport, gran patrocinatore di eventi di Lealtà azione con lo stemma dell’amministrazione cittadina.

Oggi poi Lealtà azione può contare su una figura amica anche in Europa, Silvia Sardone, unica donna presente alla due giorni. Uscita da Forza Italia quasi subito dopo essere diventata consigliera regionale in Lombardia nel 2018 ed eletta come indipendente per la Lega lo scorso 26 maggio nella Circoscrizione Nord Ovest, Sardone, che i più conoscono per l’iper presenzialismo nelle trasmissioni delle tv locali e le decine di post contro i migranti pubblicati ogni giorno sui social, è solo l’ultima “protetta” del branco. La si è vista nei mesi scorsi accompagnata quasi a ogni passo dall’onnipresente e rampante Stefano Pavesi, oggi molto attivo sul fronte serbo, presente al Forum Internazionale di Mosca “in prima linea per risolvere la questione del Kosovo” che deve tornare a essere “una regione della Serbia e di religione cristiana”. Sardone, che si diletta a entrare con una parrucca nei centri sociali milanesi per mostrare quanto siano pericolosi quei luoghi (a tal punto che nessuno le ha mai detto alcuna cosa) nei mesi scorsi era scortata nel suo tour per il Nord Italia dai militanti di Lealtà azione tra i quali Giacomo Pedrazzoli che l’ha accompagnata durante un’iniziativa a Genova. Lo stesso Pedrazzoli pregiudicato per lesioni volontarie, accoltellamento, detenzione di armi da fuoco. Anche durante il comizio conclusivo di Salvini a Milano, il 18 maggio, l’eurodeputata Sardone era presente in piazza Duomo con un gruppetto di Hammer.

Altro big leghista in cartellone Angelo Ciocca, secondo tra gli eletti nella circoscrizione Nord Ovest (in ticket con Sardone che ha preso oltre 44 mila preferenze, arrivando terza) e soprannominato il «bulldog». È noto per aver calpestato nell’ottobre scorso il discorso del commissario europeo per gli Affari economici e monetari Juncker Pierre Moscovici che criticava la manovra economica del governo italiano. Nel suo curriculum, oltre a qualche immagine imbarazzante con un uomo della ‘ndrangheta – Pino Neri, membro della locale di Pavia, condannato in Cassazione a 18 anni di carcere -, senza che per questi contatti sia mai stato indagato, anche l’aver presentato il conto delle spese sanitarie a un ladro ferito durante un tentativo di rapina piombando nella sua camera d’ospedale in spregio a ogni regola e rispetto della dignità umana.

A chiudere la pattuglia lombarda è Danilo Oscar Lancini, ex sindaco di Adro (Brescia) con la fissa della propaganda tra studenti e studentesse: dopo aver marchiato il comune, tra cui una scuola, con decine di Soli delle Alpi, ha tenuto un vero e proprio comizio in un istituto superiore a Torino lo scorso febbraio, con tanto di distribuzione di una pubblicazione contro l’arrivo dei migranti in Italia.

Dalla Toscana arriva infine Jacopo Alberti, consigliere regionale leghista vicinissimo alla sezione fiorentina di Lealtà azione, un tempo Progetto Dinamo oggi Il Rifugio. La sua specializzazione? Permettere al gruppo di trovare spazi istituzionali come Palazzo Bastogi dove svolgere iniziative.

Sulla reunion milanese si è espressa anche l’Associazione nazionale partigiani d’Italia: «Si conferma, in Lombardia, il preoccupante progetto di stabilire tutte le interlocuzioni possibili di Lealtà azione con la Lega guidata da Salvini», scrive il presidente dell’Anpi milanese Roberto Cenati. «Ci appelliamo al sindaco di Milano – prosegue Cenati, quando ancora la location del raduno non era conosciuta – perché impedisca la concessione di spazi pubblici ad organizzazioni che non garantiscano il rispetto dei principi della Costituzione».

Poche sedi, presenza sul territorio e un nucleo di dirigenti giovani guidati da Stefano del Miglio (che il 7 agosto 2004 insieme ad altri naziskin fu coinvolto nell’aggressione con bastoni e coltelli ad alcuni ragazzi nelle vicinanze del centro sociale Conchetta, uscendone senza conseguenze giudiziarie particolarmente gravi) oggi Lealtà azione sta lavorando per consolidare la sua Federazione. Nulla di paragonabile a CasaPound anche se le modalità di insediamento sui territori sono le stesse (come ha documentato in un dossier anche il magazine dell’Anpi Patria indipendente): giornate nazionali per la raccolta di generi alimentari, cura dei campi cimiteriali dove sono sepolti i reduci della Repubblica Sociale attraverso l’associazione Memento, eventi come il torneo Un calcio alla pedofilia in collaborazione con la Onlus La Caramella buona, attività di volontariato per gli animali con I Lupi danno la zampa.

La festa del Sole dei prossimi giorni rinsalda i legami già forti della Lega, oggi partito di governo, con aree della destra estrema extraparlamentare. A unire questo mondo un linguaggio comune e le stesse parole d’ordine: sostituzione etnica, teoria gender, repressione e sicurezza. Non servono nuovi micropartiti, i neofascisti e i neonazisti hanno ormai trovato chi li rappresenta e lavora per loro nelle istituzioni. Da Milano a Bruxelles passando per Roma.

Carola Rackete e il senso della giustizia

epa07676748 A handout photo made available by Sea-Watch on 27 June 2019 shows Sea-Watch 3 captain Carola Rackete on board the vessel at sea in the Mediterranean, 25 June 2019. Migrant rescue ship Sea-Watch 3, despite the threat of a fine by the Italian government, decided on 26 June 2019 to enter Italian territorial waters near the island of Lampedusa with dozens of migrants on board waiting to disembark. EPA/TILL M. EGEN/SEA-WATCH HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Lampedusa e Sea-Watch 3: il governo italiano considera Carola Rackete una criminale e il suo arresto un atto di giustizia. Al di là del carattere grottesco della vicenda, sviscerato dai media, e della sua cinica strumentalizzazione politica, il problema che si pone per chi voglia comprendere un episodio che ancora una volta vede protagonisti i migranti, è mettere a fuoco uno scontro che traspare molto netto dagli eventi di queste ultime ore fra due diverse concezioni della legalità e della giustizia.

Da una parte un approccio formalistico alle questioni giuridiche dall’altra un approccio che presuppone che le leggi debbano regolamentare i rapporti sociali avendo come presupposto ineliminabile, come contenuto imprescindibile, il rispetto dei diritti umani fondamentali primo fra tutti quello della vita. Ora una certa parte delle istituzioni e del potere del nostro Paese ha fatto leva sulla sofferenza di esseri umani sottoposti ad una permanenza prolungata e forzata su di una imbarcazione in nome di una giustizia astratta: si proibisce lo sbarco esigendo il rispetto formale di norme create apposta per criminalizzare i migranti e le Ong che li aiutano.

Si tratta di un comportamento del tutto sovrapponibile, mutatis mutandis, a quello dei carcerieri libici nei…

L’articolo dello psichiatra e psicoterapeuta Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola dal 5 luglio 2019


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Forzare blocchi navali per salvare vite è legale: ecco i dettagli dell’ordinanza che scagiona Rackete

epa07692818 Supporters and activists hold signs reading 'Free Carola Rackete' during a demonstration against the criminalization of the migrants and people helping them, in support of German Captain Carola Rackete, in Paris, France, 03 July 2019. According to reports, German captain Carola Rackete, who was arrested on 29 June after violating orders from Italian authorities and entered the port of Lampedusa while allegedly ramming a patrol boat on migrant rescue ship Sea-Watch, was released from the arrest on 02 July. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

A dispetto delle speranze del ministro dell’Interno Salvini, la Gip di Agrigento, Alessandra Vella, non ha convalidato l’arresto della comandante della Sea Watch 3 Carola Rackete, non disponendo nei suoi confronti di alcuna misura cautelare. Vella, 43enne nativa di Agrigento, lavora al tribunale della sua città dal 2011. Prima era stata in servizio a Caltanissetta, nonché presidente della sezione agrigentina dell’Associazione nazionale magistrati. Da Gip si è occupata in questi anni dei casi più svariati: dalla tragica morte di una bambina di tre anni schiacciata da un televisore a Campobello di Licata a reati di droga o contro la pubblica amministrazione. Mai, però, era stata così al centro dei riflettori: per la sua decisione in merito alla Rackete è finita nel mirino del ministro dell’Interno Matteo Salvini che la accusa di aver emesso una sentenza politica. Il vice premier leghista le ha chiesto addirittura di togliersi la toga, mentre una valanga di utenti Facebook la ricoprono di insulti, tanto che Vella è stata costretta a cancellare il suo profilo sul social network.

Ma quali sono state le motivazioni della decisione della Gip? Sul portale online Diritto penale contemporaneo, Stefano Zirulia ha dato diffusione all’ordinanza emessa dalla Vella nella fase cautelare del procedimento penale nei confronti di Carola, indagata per i reati di resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 del codice navale) e resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 del codice penale), in relazione alle condotte tenute nella notte del 29 giugno durante l’ingresso nel porto di Lampedusa con a bordo i naufraghi tratti in salvo durante l’operazione di soccorso del 12 giugno al largo delle coste libiche.

Stefano Zirulia, docente di European criminal law e Diritto penale del lavoro all’Università di Milano, chiarisce che: «Il Gip ha escluso la rilevanza penale delle condotte dell’indagata ed ha pertanto rigettato sia la richiesta di convalida del provvedimento di arresto eseguito dalla Guardia di finanza di Lampedusa, sia la richiesta del Pubblico ministero di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora in provincia di Agrigento». Per quanto riguarda il reato di cui all’art. 1100 del codice navale, resistenza o violenza contro nave da guerra, l’ordinanza ha fatto propria l’opzione della Corte costituzionale (sentenza n. 35 del 2000), secondo cui le unità navali della Guardia di finanza sono considerate “navi da guerra” solamente «quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare», circostanze che non sussistono nel caso di Carola, dato che la nave delle fiamme gialle stava operando in acque territoriali. Quanto al reato di cui all’art. 337 del codice penale, resistenza a pubblico ufficiale, il Gip ha ritenuto che sussistesse la giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso di naufraghi (art. 51 c.p.), alla luce del quadro giuridico nazionale e internazionale, che regola sia la fase di soccorso dei naufraghi sia quella di conduzione verso un porto sicuro.

In base all’articolo 10 della Costituzione, infatti, l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, come ricorda il testo dell’ordinanza. Tra le norme, rientrano quelle poste dagli accordi internazionali che hanno carattere di sovra ordinazione rispetto alla disciplina interna secondo l’art. 117 della Costituzione. Le norme rispettate da Carola sono varie: in primo luogo, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (Unclos), il cui articolo 98 impone al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà qualora venga informato che tali persone abbiano bisogno di assistenza. Anche la Convenzione Solas firmata a Londra nel 1974, «impone al comandante di una nave di prestare assistenza alle persone che si trovino in pericolo». Si è considerata, infine, la Convenzione Sar (Search and Rescue), sulla ricerca e il soccorso in mare, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979. Si fonda sul principio della cooperazione internazionale e stabilisce che il riparto delle zone di ricerca e salvataggio avvenga d’intesa con gli altri Stati interessati. Le unità navali battenti bandiera diversa sono tenute a iniziare il soccorso nel caso dell’imminenza del pericolo per le vite umane. Anche all’art. 1158 del codice della navigazione si sanziona penalmente l’omissione, da parte del comandante della nave, di prestare assistenza tentando il salvataggio.

«Era un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto, non avevano esperienza nautica, né avevano un equipaggio», ha dichiarato il comandante Rackete riguardo il salvataggio del 12 giugno. È evidente come, in tale situazione, vi era l’obbligo per la capitana di intervenire per il salvataggio dei migranti. Da quel momento – si legge nella ricostruzione dei fatti della sentenza – Carola ha contattato i centri di coordinamento dei soccorsi in mare di «Libia, Olanda perché la nave batte bandiera olandese e Italia e Malta, perché erano le più vicine (…) – ha spiegato la capitana al magistrato -. Nel mio caso verso mezzanotte la Guardia costiera libica ci ha detto di indirizzarci verso Tripoli, (…) ma la Commissione europea ci dice che il porto di Tripoli non è sicuro».

Erano stati esclusi, poi, i porti di Malta, perché più distanti, e quelli tunisini, perché secondo la stessa valutazione della capitana, «in Tunisia non ci sono porti sicuri». È Rackete a spiegare ai giudici di Agrigento di conoscere bene la situazione tunisina circa il mancato rispetto dei diritti dei migranti, grazie a «informazioni di Amnesty International». La capitana sapeva anche di «un mercantile con a bordo rifugiati che stavano da 14 giorni davanti al Porto della Tunisia senza potere entrare».

Secondo la Convenzione di Amburgo del ’79 gli sbarchi devono avvenire nel “porto sicuro” più vicino al luogo del soccorso: dove la sicurezza della vita dei naufraghi non è in pericolo, le necessità primarie sono loro assicurate, può essere organizzato il loro trasferimento verso una destinazione finale. Ecco perché Rackete ha ritenuto che la Tunisia non corrispondesse alla definizione di “porto sicuro”: non forniva le garanzie fondamentali ai naufraghi e non prevede nemmeno una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo politico.

«La situazione psicologica stava peggiorando ogni giorno, molte persone soffrivano lo stress post traumatico, quindi quando abbiamo detto alle persone che l’esito (delle richieste di attracco) era negativo la pressione psicologica era diventata intensa perché non avevamo nessuna soluzione e le condizioni mediche peggioravano. Abbiamo deciso di dichiarare lo stato di necessità e di entrare nelle acque territoriali. Questo il 26 giugno, quindi noi abbiamo cercato per 14 giorni di non infrangere la legge», conclude Rackete nella deposizione rilasciata ai magistrati siciliani.

Zirulia sottolinea in particolare come l’ordinanza abbia precisato che gli obblighi del capitano non possano venire meno né per effetto delle direttive ministeriali in materia di “porti chiusi”, né in conseguenza del divieto di ingresso adottato il 15 giugno nei confronti della Sea Watch 3 in virtù del decreto sicurezza bis – atti che si trovano al di sotto delle fonti ordinarie e sovranazionali regolanti la materia.

La sentenza si aggiunge alle già numerose pronunce giurisdizionali e di soft low sulla “crisi migratoria”: recentemente il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa ha rilasciato delle raccomandazioni che ricostruiscono il quadro degli obblighi relativi al soccorso in mare ed alla successiva tutela delle persone tratte in salvo; il Tribunale di Trapani, nella sentenza Vos Thalassa del 23 maggio scorso, ha riconosciuto la legittima difesa in capo ai migranti che si erano ribellati a fronte del pericolo attuale di essere ricondotti in Libia.

 

La crociata della Lega contro i diritti civili e il Toscana pride

Pisa delle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Ovvero: a voler fare i leghisti duri e puri si rischia di somigliare sempre di più ai nostri piccoli primati. A Pisa, lo scontro tra maggioranza a guida Lega e le opposizioni (tra cui il governativo M5S), questa volta riguarda l’edizione 2019 del Toscana Pride, la grande manifestazione per la difesa dei diritti delle persone LGBTQIA+ che, sabato 6 luglio, tornerà nella città di Galileo dopo 40 anni da quella prima marcia del Movimento omosessuale italiano che, il 24 novembre 1979, scelse proprio Pisa per rivendicare pubblicamente il rispetto dei propri diritti costituzionali. Uno scontro anomalo e comunque impari dal momento che l’amministrazione comunale, prima, ha fatto orecchio da mercante sulla richiesta di patrocinio da parte degli organizzatori della manifestazione, poi si è rifiutata di discutere una mozione urgente sul Toscana Pride non riconoscendole l’urgenza ed infine, martedì scorso, in sede di Consiglio comunale, ha rigettato la richiesta di discutere l’argomento presentato in un O.d.g. dalle opposizioni (Diritti in Comune, Pd, M5S). “Tre settimane fa – racconta il capogruppo di Diritti in Comune, Francesco Auletta – abbiamo promosso una mozione sul Toscana Pride, dato che l’amministrazione non rispondeva sul patrocinio alla manifestazione. Così abbiamo spinto per inserire il tema in un ordine del giorno, perché ci sembra giusto discuterne e perché si tratta comunque di un riconoscimento verso migliaia di persone che vengono in città a manifestare. Il voto contrario alla discussione è l’ennesimo atto autoritario, che dimostra come l’amministrazione intenda sostenere solo le proprie cause, senza contare lo smantellamento delle politiche attive sui diritti”. Un silenzio assordante questo dell’attuale amministrazione pisana che agisce in modo autoreferenziale al di fuori di ogni confronto istituzionale come quando ha deciso di uscire dalla Rete RE.A.DY, la Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere che, in molte parti della Toscana e d’Italia, hanno già avviato politiche per favorire l’inclusione sociale di cittadine e cittadini LGBTQIA+. Una scelta gravissima dal momento che a Pisa stanno aumentando i casi di discriminazione sessuale nei confronti dei “non eterosessuali”. Quindi, ricapitolando. A Pisa, i diritti riconosciuti dall’attuale amministrazione comunale come degni di discussione istituzionale sono soltanto quelli dei pisani docg, ovviamente bianchi, ma soprattutto eterosessuali. Tutto il resto è noia…Ma non per chi ha aderito con consapevolezza alla manifestazione. Sono oltre 80 gli esercenti (negozi, alberghi e ristoranti di Pisa) che esporranno nelle loro vetrine le bandiere arcobaleno e sono già più di 60 gli Enti che hanno dato il proprio patrocinio alla manifestazione. Dalla Regione Toscana alle Province di Pisa, Livorno, Massa-Carrara, Pistoia e Grosseto, dai Comuni capoluogo come Firenze, Livorno e Carrara ai 19 Comuni della stessa provincia pisana (Bientina, Calci, Calcinaia, Capannoli, Casciana Terme Lari, Castelfranco di Sotto, Montecatini Val di Cecina, Montopoli in Val d’Arno, Palaia, Pontedera, Ponsacco, Santa Croce sull’Arno, San Giuliano Terme, San Miniato, Santa Luce, Terricciola, Vecchiano, Vicopisano e Volterra). Tra questi, i Comuni di Casciana Terme (Pisa) e Murlo (Siena) hanno anche deliberato l’adesione alla Rete RE.A.DY. Inoltre, in totale controtendenza all’oscurantismo censorio del Comune di Pisa, anche il mondo della Cultura si è pronunciato dando la propria adesione. Dalla Scuola Normale Superiore di Pisa ai Cug (Comitati unici di garanzia) dell’Università di Pisa, Firenze, dell’Università per Stranieri di Siena e della N.Y. English Academy. Ed ancora. Sono circa 180, ad oggi, le adesioni di associazioni culturali, studentesche ed educative, di partiti politici, di realtà no profit, non solo toscane ma da tutta Italia. Tra queste l’ANPI, Radicali Italiani, Amnesty International, Chiesa Pastafariana (ovvero “il culto religioso del Prodigioso Spaghetto Volante”) e Bit-bisessuali in Toscana oltre ai gruppi locali CNGEI, Greenpeace, associazioni di psicologia e psicoterapia fino ai consorzi ed associazioni di promozione turistica. L’unica nota stonata è stata quella della Confesercenti di Pisa che, in totale controtendenza con la propria tradizione storica e in singolare sintonia con il sindaco Conti, ha manifestato preoccupazione per la prevista affluenza di migliaia di manifestanti che…penalizzeranno il commercio. “Ma di solito, in un sabato pomeriggio di luglio a Pisa non si vede mai un’anima!” ha ironizzato il consigliere del M5S, Gabriele Amore. Il sindaco Conti. Tirato per la giacchetta, come si dice a Pisa, il sindaco Conti ha cercato di ridare al “suo” Comune una parvenza di apertura democratica intervenendo sulla stampa con queste parole: “Pisa è da sempre una città aperta e disponibile al confronto e i pisani sapranno dimostrarlo anche sabato prossimo, anche quanti sono su posizioni diametralmente opposte a quelle sostenute al Toscana Pride. Ritengo che le scelte personali e le preferenze sessuali dei cittadini debbano essere rispettate; gli orientamenti e le condotte sessuali sono un fatto privato frutto di una scelta consapevole e adulta. Ma siamo anche convinti delle nostre scelte, come quella presa in Giunta di uscire dalla Rete Ready, perché non condividiamo certe posizioni, che si rintracciano anche nel documento politico del Toscana Pride, in particolare sull’educazione dei minori. In una società complessa e plurale in cui grande attenzione viene giustamente dedicata alle libertà individuali, anche la libertà sessuale deve essere rispettata oltre ogni tentativo di discriminazione. Rispetto però, che non vuol dire adesione a quelle istanze. Mi auguro – ha concluso Conti – che chi sabato porterà nella nostra città bandiere arcobaleno manifesti in modo civile e ordinato. Pisa dallo scorso anno non è solo la città dei diritti ma anche dei doveri, che significa innanzitutto rispetto delle leggi, delle istituzioni e di tutti i cittadini, compreso chi la pensa in modo diverso”. Parole criticate duramente da Ciccio Auletta di Diritti in Comune che sul “rispetto delle leggi” invocato da Conti ribadisce che il primo a non rispettare le leggi è proprio l’attuale primo cittadino perché nella mozione “urgente” mai discussa in aula venivano citate proprio le leggi di riferimento che rafforzano le politiche di sensibilizzazione e promozione dei diritti delle persone LGBTIQA+. La Convenzione Europea per i diritti dell’uomo del 4 novembre 1950 (art. 14), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 26 settembre 2000 (art. 21, comma 1), la Costituzione Italiana (art. 3), lo Statuto della Regione Toscana che, all’art. 4, indica le finalità prioritarie tra cui, alla lettera s) “il rifiuto di ogni forma di xenofobia e di discriminazione legata all’etnia, all’orientamento sessuale e a ogni altro aspetto della condizione umana e sociale” e la prima Legge regionale in materia, la n. 63 del 15 novembre 2004, “Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. Ad Auletta ha fatto eco la consigliera del Pd, Olivia Picchi, che ha attaccato istituzionalmente il sindaco Conti. “Le parole del sindaco sono state un esercizio di equilibrismo: non discute in Consiglio Comunale, parla della legittimità dell’iniziativa, poi dà indicazioni su come manifestare. Io sono delegata nella Provincia di Pisa per la parità dei diritti e l’Ente ha aderito al Toscana Pride, ha dato il patrocinio e issato la bandiera rainbow sul proprio palazzo. Questa giunta comunale non rappresenta l’attualità reale, basta vedere come, ad esempio, ci siano oltre 80 esercenti che hanno deciso di appoggiare la manifestazione. L’invito che rivolgo a tutta la città è quello di partecipare in tanti”.
Toscana Pride: l’orgoglio arcobaleno sfila in centro. Il Toscana Pride 2019 porterà a Pisa due icone del movimento LGBTQIA+ che sono il simbolo dei Moti di Stonewall 1969 e della prima marcia del Movimento Omosessuale Italiano (l’attuale Pride) che si tenne proprio a Pisa nel 1979. Si tratta di Porpora Marcasciano, attivista transfemminista e presidente onoraria del MIT- Movimento Identità Trans, e Andrea Pini, attivista del Collettivo Orfeo che coordinò l’organizzazione del corteo del 24 novembre 1979 a Pisa. Con loro e con migliaia di altre persone la manifestazione dell’orgoglio e della visibilità LGBTQIA+ sfilerà per le strade della città della Torre per ribadire “la resistenza quotidiana all’omo/bi/lesbo-transfobia, al razzismo, al sessismo e all’abilismo e alla cultura dell’odio che chiude i porti e mette a rischio diritti faticosamente conquistati”. “In un momento storico in cui assistiamo a nuove ondate di violenza istituzionale, fatte di prove muscolari e discorsi d’odio contro chiunque sfida la ‘norma’, ripartiamo dalle nostre radici. Stonewall e la manifestazione di Pisa del 1979 ci ricordano che di fronte all’oppressione non c’è altra risposta se non la ribellione, una ribellione favolosa che si sottrae alla normalizzazione e che sovverte lo stigma – ha commentato Junio Aglioti Colombini, portavoce del Toscana Pride 2019 – . Sabato 6 luglio scenderemo nelle strade di Pisa per occupare uno spazio fisico e politico in cui ribadire che lì dove vengono negati diritti civili e sociali, dove si alzano muri e barriere per normare corpi e desideri ‘non conformi’, dove porti chiusi lasciano affondare i valori della solidarietà e dell’accoglienza, lì noi saremo come comunità che resiste e che lotta unita per essere libera”. Il percorso. Il ritrovo è alle ore 16 in via Benedetto Croce, la strada dei Licei, vicino alla stazione FS, dove partirà la parata delle ‘favolose ribelli’ che si snoderà per le strade del centro percorrendo piazza Toniolo, via Ceci, via Bovio, lungarno Galilei, Ponte di Mezzo, Lungarno Pacinotti per concludersi in Piazza Carrara. Quest’anno è previsto un lungo corteo animato da ben 11 carri delle associazioni LGBTQIA+: Ireos comunità queer autogestita, Azione Gay e Lesbica Firenze, Chimera Arcobaleno Arcigay Arezzo e l’immancabile trenino delle Famiglie Arcobaleno. Presenti anche altre realtà associative: gli studenti di Sinistra Per…, il circolo ARCI Rinascita, Cantiere Sanbernardo e, con una limousine, Vita da Coach di Marialuisa Fagiani. Sfileranno, inoltre, anche realtà commerciali quali The Sister Events, Mamamia e Gulp! Firenze insieme ad Enjoy Grosseto. La novità di quest’anno è la collaborazione con la onlus #VorreiPrendereilTreno che fornirà un gruppo di volontari ed eventuali accompagnatori disponibili a favorire l’accesso e la partecipazione alla parata a persone con abilità motorie ridotte o altre forme di disabilità. Tutto l’evento sarà accessibile anche ai non udenti grazie alle interpreti LIS Ilaria e Isabella che saranno presenti sul palco. La chiusura dell’evento sarà affidata alle parole delle madrine Porpora Marcasciano e Andrea Pini e del portavoce del Comitato Toscana Pride Junio Aglioti Colombini e ai rappresentanti di Arci, Cgil, Uisp a Anpas, sostenitori del progetto Toscana Pride. E’ prevista anche una incursione a sorpresa di Agedo, l’associazione dei genitori e amici degli omosessuali. Gran finale con l’esibizione di Choreos il Coro Lgbtq di Ireos Firenze. Dopo la parata, la festa continuerà dalle 23.00 in poi al Cinema Lumière (Vicolo del Tidi, 6) dove si terrà l’Official Pride Party, serata disco organizzata con la collaborazione di Out&Riot – Whynot¿ Arezzo – Cinema Lumière. Tutte le informazioni su www.toscanapride.eu.

Rubinetto Libia

epa07692748 Migrants check the rubble of a destroyed detention center in Tripoli's, Libya, 03 July 2019. according to media reports, At least 44 people killed and 130 were injured after strike hit the Tajoura detention center held at least 600 refugees were attempting to reach Europe from Libya. The parties disputed didn't claimed any responsibility for the attack. EPA/STR

Sorpresa! La Libia ricatta l’Europa sui migranti (ma va?). Il governo libico del premier Fayez al-Sarraj “dopo il massacro a Tajoura (53 morti, 140 feriti, a proposito del porto sicuro e del Paese sicuro) sta considerando il rilascio di tutti i migranti nei centri di detenzione, perché la loro sicurezza non può essere garantita”. Lo ha detto il ministro dell’interno libico che ovviamente accusa Haftar per il bombardamento del centro. Qualcuno invece dice che l’azione forse sia stata degli stessi gestori del centro. Alcuni testimoni avrebbero raccontato di avere visto i gestori del centro sparare contro gente che fuggiva dopo l’esplosione della prima bomba.

Signore e signori, ecco la Libia, quella che continuano a raccontare contro la propaganda, quella che per primo Minniti cercò di renderci potabile (e poi ovviamente il ministro dell’interno Salvini) quando invece continua ad essere una polveriera che sfugge a qualsiasi controllo internazionale.

Ma ecco anche il tesoro della Libia: non il petrolio ma uomini. Uomini che vengono usati come arma di ricatto internazionale, aprendo e chiudendo i rubinetti a proprio piacimento per tenere sotto scacco l’Europa. Uomini che vengono vessati, derubati, seviziati e poi lasciati alla deriva su qualche barchino. Tutto scientemente sotto gli occhi di uno Stato a cui regaliamo credibilità (e imbarcazioni) convincendoci che possa essere un alleato credibile nella gestione del fenomeno delle migrazioni.

Eccolo qui quel paradisiaco posto in cui qualcuno insiste nel volere rispedire indietro uomini, donne e bambini. Ma del resto, come recitava quel vecchio adagio, chi somiglia si piglia e ognuno si scegli gli alleati a sua misura.

La Storia li giudicherà.

Buon venerdì.

Gino Strada: «Il vento sta cambiando»

Foto di Claudio Testa per Emergency
Foto di Claudio Testa per Emergency

L’argomento del momento è la vicenda della Sea-Watch e la decisione presa della sua comandante…
Al di là dei dettagli tecnici mi pare che qui sia in gioco un principio: si tende a criminalizzare chi aiuta. Questa cosa è intollerabile, inaudita, perfino inaspettata nella sua rozzezza, nella sua stupidità. E questo purtroppo è un processo che va avanti da qualche anno, dal governo precedente: la guerra alle Organizzazioni non governative è iniziata con il governo a guida Pd e Minniti ministro dell’Interno.

Improvvisamente sembra che una parte degli italiani sia diventata legalitaria, tutti rispettosi delle leggi e tutti pronti a crocifiggere Carola Rackete, che ne pensi?
Vedo che siamo in un periodo in cui tutti urlano, tutti gridano, c’è gente che parla di cose che non conosce, sembra che l’incompetenza sia diventata la regola. Però io non ci credo che a questo schiamazzo di una politica ormai vergognosa corrisponda un vero sentire degli italiani. Credo che molta gente, probabilmente la maggioranza, stia mal sopportando questo clima. Per questo credo che la situazione sia ancora reversibile almeno nel nostro Paese. È vero che c’è una macchina propagandistica pazzesca e che c’è un’assenza delle più alte cariche dello Stato. Che non ci sia nessun commento sul fatto che ormai la politica si faccia con i tweet e il dibattito si faccia con gli insulti, se non con i pestaggi, è preoccupante. Un membro del Parlamento che si permette di dire «affondiamo la nave»… sono cose che erano impensabili alcuni anni fa. Però io non credo che tutto questo sia il sentire degli italiani.

Quindi sei ottimista?
Io vedo un Paese dove…

L’intervista di Giulio Cavalli a Gino Strada prosegue su Left in edicola dal 5 luglio 2019


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Perché Carola Rackete fa paura a Salvini

(FILE) Sea-Watch3 captain Carola Rackete, who is being held on charges of abetting immigration and ramming a police cutter, arrives in Porto Empedocle, 1 July 2019. ANSA/PASQUALE CLAUDIO MONTANA LAMPO

«Zingara. Venduta. Tossica! Le manette, le manette…». Quando è scesa dalla nave i parabolani gialloneri l’hanno accolta con insulti e minacce di stupro. Arrestata per aver portato in salvo vite umane, è stata investita da una sassaiola di parole violente. E poi quell’infame scatto rubato, quella foto segnaletica che in modo illegale è rimbalzata su siti e social con l’intento di mostrare Carola Rackete come una criminale, condannata prima di qualunque processo. (Con il gip di Agrigento che ha annullato l’arresto perché ha «agito per adempiere al dovere di portare in salvo i migranti»).

Se alla guida della Sea-Watch 3 ci fosse stato un uomo, lui avrebbe subito lo stesso linciaggio? No un capitano uomo non avrebbe avuto lo stesso inaccettabile trattamento.

È insopportabile per misogini e razzisti che una giovane donna, una brava e coraggiosa professionista, abbia osato fare quel che andava fatto in quelle circostanze: attraccare a Lampedusa per evitare che i 40 migranti a bordo (provati da torture e dalla estenuante attesa dopo continui rifiuti) facessero gesti estremi. Per il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, non c’era motivo di urgenza, non c’era uno stato di necessità perché, dice lui, a bordo stavano tutti fisicamente bene. Come se esistessero solo le malattie organiche, la fame e la sete. Come se non avessero avuto bisogno di cure mediche e psicologiche persone che – come la stessa capitana ha dichiarato – avevano cominciato a compiere gesti autolesionistici e avrebbero potuto tentare il suicidio.

È un’ideologia razzista, xenofoba, misogina, brutale e cieca quella che emerge dalle comunicazioni e dai provvedimenti di questo governo giallonero che, ancor più con il decreto bis, si accanisce contro Ong e migranti, additandoli come un pericolo, criminalizzando la solidarietà, negando i diritti umani. Con tutta evidenza, certi sovranisti non sopportano chi ha la pelle scura, chi appare differente per caratteri somatici, per cultura, per provenienza geografica. Non accettano il diverso da sé. Odiano i migranti. Odiano le donne.

Per questo Carola Rackete li manda fuori dai gangheri. Ai loro occhi è terribilmente pericolosa. Anche perché, con il suo semplice agire civile, si fa indirettamente interprete di una sfida culturale.

Con il loro quotidiano impegno umano e professionale in soccorso dei naufraghi, gli operatori delle Ong laiche fanno passare silenziosamente un messaggio: la verità umana non è il razzismo ma la solidarietà, non è la percezione delirante ma l’interesse verso l’altro, non è l’egoismo proprietario che fa alzare muri come quello che il leghista Massimiliano Fedriga vorrebbe costruire al confine con la Slovenia e come quello voluto da Trump al confine fra Usa e Messico, che è costato la vita a Oscar e alla piccola Valeria trovati senza vita, riversi sulla sponda del Rio Grande e a moltissimi altri migranti.

Come Mimmo Lucano (che a sua volta sta subendo un processo politico) Carola Rackete è una pericolosa sovversiva per coloro che vogliono farci credere che sia naturale una società capitalistica basata sull’esclusione, sul principio “vita mea mors tua”, sullo sfruttamento, sul profitto di pochi, sulla depredazione di intere regioni come quelle africane da cui sono costretti a scappare i migranti a cui Salvini e soci vorrebbero sbarrare la strada. Con particolare accanimento verso quelli salvati dalle Ong. La crociata leghista contro di loro – come è apparso in modo palese con il caso Sea-Watch 3 – è una questione del tutto ideologica. Infatti, mentre il ministro dell’Interno faceva il diavolo a quattro contro la capitana e il suo equipaggio, centinaia di migranti sono approdati sulle coste italiane a bordo di barchini, tratti in salvo dalla Guardia di finanzia e della Guardia costiera senza che il tuonante capo leghista si facesse vivo.

Nello sfoglio di questa lunga e articolata storia di copertina abbiamo portato alla luce tutte le incongruenze della sua politica, denunciando ad una ad una le fake news su cui ha basato la sua guerra alle Ong, ai migranti, ai diritti umani, quindi a tutti noi. Ma abbiamo anche portato in primo piano le crescenti e importanti voci di dissenso. Fra loro quella del medico di Lampedusa, l’europarlamentare Pd Pietro Bartolo che invita anche il suo partito a prendere posizione contro gli accordi sulla Libia e quella del fondatore di Emergency Gino Strada, che, intervistato da Left, avverte Salvini: «Il vento sta cambiando».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 5 luglio 2019


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In bilico l’ipotesi di un governo Sanchez con Podemos

Oltre due mesi dalle politiche spagnole e Pedro Sánchez, designato dal re, ha finalmente scelto la data per presentare al voto del nuovo Parlamento la sua candidatura a capo del governo: sarà il prossimo 23 luglio. Fissare una data per l’investitura è un passaggio decisivo: dovrebbe obbligare i partiti a prendere una posizione per sbloccare un Parlamento paralizzato che, ad oggi, non ha ancora definito le commissioni di lavoro. In questo contesto, sebbene ci siano state riunioni dei socialisti con tutte le parti, sono state le poche trattative tra Sánchez e Iglesias a definire l’investitura. Quindi si è trovato un accordo con Unidas podemos e non resta che la ratifica parlamentare per governare? No. Non è così, anzi non è scontato che l’operazione riesca. Si sapeva che non sarebbe bastato vincere con nettezza le elezioni, come i socialisti hanno fatto. Era necessario anche costruire una maggioranza, definire cioè una strategia efficace su come e con chi cercare di conquistare quei primi 176 voti sufficienti per ottenere la nomina a presidente del consiglio e varare il governo.

Di fatto i socialisti sono rimasti immobili, non ci sono stati né ulteriori incontri, né tavoli programmatici e da giorni nell’aria si manifesta l’ipotetica ripetizione delle elezioni. La legge elettorale spagnola non lascia infatti un tempo infinito al presidente incaricato. Dalla prima votazione restano a Sánchez due mesi per dare una maggioranza alla Spagna, scaduti i quali vengono convocate automaticamente nuove elezioni, che potrebbero tenersi già il prossimo 10 novembre. Fin dall’inizio i risultati elettorali suggerivano un accordo tra Sánchez ed Iglesias, partner designato dalle urne, con l’appoggio o l’astensione delle altre formazioni a facilitarne l’investitura.

Il problema è che una parte consistente del gruppo dirigente socialista non vuole né questa maggioranza, né la strada su cui vorrebbe portare la Spagna. Rifiuto totale dell’alleanza strategica con Unidas podemos e soprattutto dell’idea che essa abbia bisogno, per riuscire a governare, del sostegno dei nazionalisti baschi e quello di Erc, i repubblicani catalani, una forza dichiaratamente indipendentista. All’interesse generale del Paese per ora si è preferito privilegiare gli interessi del partito, la sua precaria unità interna, le sue vecchie baronie. Alle richieste di Unidas podemos di fare un accordo programmatico chiaro, da realizzare con un governo di coalizione, finora si è risposto smorzando i toni, con l’ipotesi di un governo di cooperazione, naturalmente senza nomine per Unidas podemos nel futuro consiglio dei ministri.

Pablo Iglesias, con una lettera aperta indirizzata a Sánchez, pubblicata sul giornale catalano La Vanguardia,
riconferma le priorità programmatiche su cui Unidas podemos vuole stringere un accordo di legislatura. «La Spagna ha bisogno di un governo che garantisca un impiego stabile con diritti, che limiti la precarietà e protegga la sufficienza e la rivalutazione delle pensioni. In secondo luogo, è necessario garantire la transizione energetica di fronte ai cambiamenti climatici e attuare una nuova politica industriale. In terzo luogo, sono necessari affitti accessibili, un reddito sufficiente per i cittadini in situazioni di rischio sociale e qualità dei servizi pubblici. In quarto luogo, è imprescindibile garantire l’economia dell’assistenza e dell’uguaglianza di genere, tutelare le famiglie e garantire una parità retributiva. E in quinto luogo, la Spagna ha bisogno di un governo che garantisca la giustizia fiscale essenziale affinché lo Stato abbia strumenti comparabili a quelli di altri partner dell’Unione, per soddisfare i diritti sociali sanciti dalla Costituzione».

Contemporaneamente Iglesias avanza la proposta di ritirare la richiesta di far parte del governo, se questo si dimostrasse un impedimento per ottenere i voti mancanti per eleggere Sánchez. Una proposta sensata che mette anche fine alla campagna scatenata dai media che ravvisa proprio nell’ansia di potere di Iglesias il blocco alla nascita del governo.

Il Psoe per ora rimane ancorato alla strategia intrapresa dopo il primo giro di consultazioni e, sebbene lo neghi in pubblico, si sente rafforzato dall’ultimo sondaggio pubblicato che dà ai socialisti quasi il 40% dei voti, qualora si dovessero ripetere le elezioni politiche. Sánchez ribadisce che Partito popolare e Ciudadanos «devono assumersi le proprie responsabilità con gli spagnoli e facilitare la stabilità» e ci tiene ad affermare che non è previsto alcun accordo con questi partiti, soluzione su cui tutti i poteri forti, spagnoli ed europei, continuano a lavorare per scongiurare l’unità fra le due sinistre. Certo le posizioni tra Sánchez e Iglesias sembrano ancora lontane, ma gli incontri delle prossime settimane potrebbero essere decisivi per la legislatura. A rischiare è soprattutto Sánchez che deve scrivere un nuovo capitolo del suo manuale di resistenza, per non vedere rimessa in discussione la sua leadership e il suo progetto di tenere il Psoe a sinistra.

L(’)a politica

C’è confusione, oltre che oltraggio alle istituzioni, di questi tempi. E succede l’inimmaginabile. C’è un ministro dell’interno che riesce addirittura a superare il suo vecchio maestro Berlusconi (perché è sempre quel il cordone ombelicale, ricordatelo sempre agli amici leghisti, con Berlusconi governano ovunque, ovunque). Le parole di Salvini sono un conato continuo, vomito sulla magistratura, sulle istituzioni, dappertutto. Ed è normale che l’Associazione Nazionale Magistrati se ne risenta. Ci mancherebbe. Del resto il ministro dell’inferno riuscirebbe a far perdere la pazienza anche a un santo, anche a un morto.

Poi c’è questa terribile intervista all’uomo della Guardia di Finanza (che dovrebbe essere un’istituzione, se non ricordo male) in cui rivendica il diritto di essere un’eroe e contesta la magistratura. Un uomo della Guardia di Finanza. Avete letto bene. Il nostro eroe ovviamente si fa intervistare dall’Adnkronos ma preferisce rimanere anonimo (ma va?) e ci informa che la Guardia di Finanza è da considerarsi nave da guerra in guerra (ah sì? siamo un guerra e non ce ne siamo accorti? Chi ci ha invaso? La Svizzera?) e poi pronuncia la parola magica: il popolo. Dice: cosa vuole il popolo? E mette i brividi pensare che un uomo in divisa ragioni così, dimenticando la funzione della politica che diventa apolitica. Che peccato.

Poi c’è Sassoli eletto presidente del Parlamento Europeo Non c’è che dire: Salvini ha proprio ribaltato l’Europa, eh. Chissà quanta bile. Però Sassoli ha detto una cosa fondamentale: bisogna rivedere il trattato di Dublino. Decidere di cambiare le regole europee. Quello stesso trattato che Salvini e compagnia hanno snobbato quando erano eurodeputati profumatamente pagati. È stato rivoluzionario Sassoli: ci ha ricordato che la politica si fa con la politica.

In tempi di nani ci vuole niente a sembrare giganti.

Buon giovedì.

Strage nel lager libico, raso al suolo il “porto sicuro” secondo Salvini

Libyan Red Crescent workers recover migrants bodies after an airstrike at a detention center in Tajoura, east of Tripoli Wednesday, July 3, 2019. An airstrike hit the detention center for migrants early Wednesday in the Libyan capital. (ANSA/AP Photo/Hazem Ahmed)

Ora il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Serraj «sta valutando la chiusura di tutti i centri di detenzione dei migranti e del rilascio di tutti i detenuti in Libia, con l’obiettivo di garantire la loro sicurezza». A scriverlo è The Lybia observer, riportando quanto dichiarato dal ministro dell’Interno, Fathi Bashagha. La presa di posizione arriva dopo che almeno 53 persone sono rimaste uccise e 130 ferite la notte del 2 luglio – secondo le cifre indicate dalle Nazioni unite – nel bombardamento aereo ad opera dell’aviazione del generale Khalifa Haftar del centro di detenzione per migranti di Tajoura, sobborgo di Tripoli. Il centro è adiacente alla base militare di Dhaman, uno dei depositi in cui le milizie di Misurata e quelle fedeli al presidente al-Serraj conservavano le riserve di munizioni e veicoli per la difesa di Tripoli, sotto attacco dal 4 aprile scorso.

«Il governo di accordo nazionale è obbligato a proteggere tutti i civili, ma gli attacchi verso i centri di detenzione dei migranti da parte dei caccia F16 è al di là della capacità governativa di proteggerli» avrebbe dichiarato ancora il ministro dell’Interno libico. Mentre l’Esercito nazionale libico – capeggiato dal maresciallo Khalifa Haftar – afferma sui social tramite il suo portavoce che è pronto a «sostenere l’azione del governo Serraj» per rilasciare i migranti rinchiusi nei centri di detenzione.

L’hangar della prigione colpito dalle bombe nella notte del 2 luglio conteneva circa 200 migranti provenienti da diversi Paesi dell’Africa. Durante la nottata le ambulanze hanno fatto la spola con gli ospedali per trasportare i feriti. Si tratta del bilancio più sanguinoso relativo a un attacco aereo o a un bombardamento di artiglieria dall’inizio dell’offensiva di Haftar per la conquista della capitale e del Paese. «Questo bombardamento contro i civili costituisce chiaramente un crimine di guerra», ha condannato il Rappresentante speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé. L’inviato delle Nazioni unite ha invitato la comunità internazionale a condannare questo crimine e ad imporre sanzioni a coloro che l’hanno ordinato ed eseguito. Secondo una ricostruzione delle Nazioni unite, in seguito al bombardamento, alcuni migranti avrebbero tentato la fuga, ma sarebbero stati colpiti dal fuoco aperto dalle guardie fedeli al governo di Tripoli. Anche per questo «il fatto che oltre 3mila profughi e migranti intercettati in mare siano stati riportati in Libia nel 2019 è profondamente preoccupante», ha aggiunto l’Onu in una nota.

Nel frattempo, nei centri per migranti in cui sono quotidiane le denunce di torture subite dai detenuti, ora la vita dei profughi è a rischio anche per l’intensificarsi della guerra civile. Anche se ciò non ha impedito al ministro dell’Interno Matteo Salvini di criticare nei giorni scorsi la scelta della Sea-Watch 3 di non riportare verso la Libia i 53 migranti soccorsi in mare.

«Questo non è un attacco accidentale, il generale Haftar e gli Emirati Arabi Uniti sapevano che il centro migranti era a fianco della base di Dhaman, l’avevano già bombardata un mese fa. Hanno accettato la possibilità di colpire il centro, sapendo che era pieno di civili», ha commentato Wolfram Lacher, analista tedesco che segue l’evolversi della crisi in Libia. L’attacco sarebbe, infatti, stato deciso da Haftar dopo aver perso il controllo della cittadina di Gharian la settimana scorsa, a favore delle milizie alleate al governo nazionale. Da due mesi era diventata base operativa strategica dei ribelli, in cui si conservavano anche le armi americane vendute agli Emirati e passate, poi, ad Haftar. Invero, entrambe le parti godono del sostegno militare di governi stranieri, Emirati Arabi Uniti ed Egitto accanto a Bengasi, Turchia e Qatar al governo nazionale. Sono state registrate addirittura reciproche forniture di armi, come il recente invio di mezzi da parte di Ankara a al-Sarraj.

Le drammatiche immagini dell’attacco hanno fatto il giro del mondo sui social network: mostrano i corpi senza vita dei migranti, quelli trasportati d’urgenza nei centri medici e sottoposti a interventi chirurgici, o ancora i feriti sui letti, gli arti bendati. La Libia continua ad essere il principale punto di partenza per i migranti dall’Africa diretti principalmente verso l’Italia attraverso il Mediterraneo. Secondo le ong che operano nel Paese nordafricano, sono circa 3.800 i migranti attualmente detenuti nei centri di detenzione libici considerati “a rischio” a causa dei combattimenti. I civili morti sotto i bombardamenti delle opposte fazioni sono almeno 800, per il momento.

«Apprendo, con sgomento, del bombardamento notturno a Tajoura, nei pressi di Tripoli, che ha colpito un centro per migranti, causando la morte di decine di persone, tra i quali donne e bambini. Un’ulteriore tragedia che mostra l’atroce impatto della guerra sulla popolazione civile», ha dichiarato il ministro degli Affari esteri Enzo Moavero in seguito alla strage. «Occorre garantire, immediatamente, misure di seria protezione per i civili e, in particolare, trasferire i migranti che si trovano nelle strutture di raccolta in luoghi al sicuro dai combattimenti e sotto la tutela delle Nazioni Unite».

La mattina del 3 luglio alla Camera i deputati si sono espressi sulla deliberazione del consiglio dei Ministri circa la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali nel 2019. In particolare, il voto sul rifinanziamento della missione in Libia e il sostegno alla Guardia costiera libica si è concluso con 387 sì, 16 no e 3 astensioni. Il Pd, a causa di divisioni interne tra chi continua ad appoggiare la “linea Minniti” e chi chiede di mettere fine agli accordi con la Libia firmati dall’ex ministro dell’Interno dem, ha deciso alla fine di non partecipare al voto.

***Articolo aggiornato il 4 luglio 2019, alle 19.20***