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Salvano le banche, abbandonano le persone

Uno sportello della banca Etruria a Pontedera (Pisa), 19 dicembre 2015. ANSA/FRANCO SILVI

Un Paese che salva le banche ma non le persone: la bagarre intorno alla vicenda della Sea-Watch 3 sta sollevando un acceso dibattito che non poteva non coinvolgere i movimenti che si occupano anche di economia, finanza e debito. E Left non si tira indietro, sia con i puntuali interventi sulla battaglia per aprire i porti, sia con lo sfoglio dedicato in questo numero alla trappola del debito, sia con la pubblicazione integrale di una ricerca che avevamo anticipato sul numero 24: Salvataggi bancari e debito pubblico italiano.

Si tratta di un lavoro pionieristico curato da Chiara Filoni e Giulia Heredia di Cadtm, il comitato per l’annullamento del debito illegittimo, che hanno incrociato dati di Bankitalia, dei decreti che si sono succeduti e dei bilanci dei singoli istituti per rintracciare i vari salvataggi bancari. Ne esce fuori una situazione a dir poco preoccupante in cui la maggior parte degli istituti di credito del Bel Paese – beneficiari o meno dell’aiuto pubblico – non hanno cambiato sostanzialmente di rotta. Sullo fondo la problematica ancora attualissima dei crediti deteriorati, dei comportamenti truffaldini delle banche e le ripercussioni di questi comportamenti sull’economia e la vita delle persone.

Intanto, Cadtm Italia denuncia la «rappresentazione di una propaganda drammatica, tragica e aberrante che usa la storia di persone in difficoltà e in pericolo di vita per sviare dai veri problemi. Quali sono gli effetti reali dei flussi migratori sull’economia nazionale? Davvero la nostra economia andrebbe meglio se fosse libera del “fardello” degli immigrati? Davvero per gli italiani sarebbe più facile trovare lavoro o guadagnare di più? Il governo dovrebbe rispondere a queste domande cruciali per capire il fenomeno migratorio e liberarci dai falsi miti che distorcono il dibattito politico. Questi gli interessi, secondo il Def (Documento di Economia e Finanza) del governo gialloverde, che pagheremo nei prossimi 4 anni:

• 2019: 63.984 milioni di euro (3,6% del Pil)

• 2020: 65.983 milioni di euro (3,6% del Pil)

• 2021: 68.659 milioni di euro (3,7% del Pil)

• 2022: 73.739 milioni di euro (3,9% del Pil)

La trappola del debito – conclude – si mangerà quindi 273 miliardi di interessi su un debito che, proprio per questo, continuerà a salire e farà aumentare gli interessi futuri, che faranno salire il debito, che aumenterà gli interessi futuri. Ah già! Il vero problema è schierare i militari per difendere il sacro suolo patrio dall’arrivo di 42 persone sfinite. Questa è la potenza della propaganda. Fumo per coprire la sostanza che si è ben delineata nella descrizione dei veri interessi degli italiani. Tra quelli che si trincerano dietro leggi ingiuste e quelli che rischiano la libertà ed anche la vita per la difesa dei diritti umani, noi stiamo dalla parte di questi ultimi».

Proprio come noi di Left. Buona lettura

 

Salvataggi bancari e debito pubblico italiano - Cadtm

 

Donne vittime di violenza domestica, la Sardegna vara il reddito di libertà per renderle indipendenti

20050605 - CRO - ROMA - VIOLENZA SESSUALE: STUPRO A MILANO, FERMATI DUE MINORENNI - Un' immagine rappresentativa della violenza sulle donne, mostra una ragazza con in atteggiamento di terrore e solitudine. La notte scorsa a Milano una coppietta è stata vittima dell'aggressione da parte di un " branco " formato da cinque ragazzi. La ragazza e il suo amico erano fermi in strada, in via Ripamonti, a chiacchierare quando sono stati avvicinati da cinque giovani a bordo di un'utilitaria. Il quintetto e' sceso e, minacciandola con coltelli, ha costretto la coppia a recarsi in una zona disabitata, dove in quattro hanno consumato lo stupro nei confronti della ragazza e malmenato il ragazzo. La notte scorsa la squadra mobile di Milano ha fermato due minorenni con l'accusa di far parte della banda. FRANCO SILVI ANSA/ KLD

Si chiama Reddito di libertà, la misura che la Regione Sardegna ha istituito per sostenere le donne vittime di violenza domestica. Istituita per la prima volta in Italia con la legge numero 33 del 2 agosto 2018, la misura è un concreto strumento per favorire l’affrancamento totale dalla violenza attraverso «l’indipendenza economica, l’autonomia e l’emancipazione (e affinché la donna) sia posta in condizioni di accedere ai beni essenziali e di partecipare alla vita sociale». A patto che la beneficiaria si impegni a seguire un progetto personalizzato, finalizzato all’acquisizione della propria indipendenza, attraverso un piano di interventi mirati.

Per esempio, potendo usufruire di un sussidio economico, anche per favorire la mobilità geografica talvolta necessaria a far fronte al pericolo di violenza, prendendo parte a politiche attive del lavoro che prevedono, tra le altre cose, incentivi per le imprese che assumono donne scampate alla violenza, e consentendo loro di garantire la continuità scolastica di figli minori. Inoltre, la legge favorisce l’affido famigliare per le giovanissime vittime di violenza da parte del padre, riconoscendo ai nuclei affidatari un contributo economico da destinare all’ospitalità, alla cura e al mantenimento degli eventuali figli a suo carico.

«È una legge innovativa perché è uno strumento concreto che prende in considerazione la violenza economica: l’assenza di risorse materiali costringe la donna a una condizione di sudditanza cosicché l’affrancamento dai contesti violenti non può essere totale», dice a Left, la presidente del centro antiviolenza e casa rifugio Prospettiva Donna di Olbia, Patrizia Desole. Che aggiunge: «La nostra Regione ha avuto una sensibilità spiccata, precoce e lungimirante sul tema se si considera che, già nel 2007, con la legge numero 8, aveva istituito i centri antiviolenza e le case di accoglienza per le donne vittime di violenza di genere, e, ancor prima della Convenzione di Instanbul ha riconosciuto che questo tipo di violenza è un attacco all’inviolabilità della persona e alla sua libertà, appunto».

Anche se, sostiene Desole, «l’origine della violenza, fenomeno strutturale e culturale, non è un fatto privato ma sociale». Ed è per questo che la Sardegna, riconoscendone la portata collettiva, ai sensi della legge numero 33 del 2018, prevede progetti di educazione all’affettività e alla parità di genere da realizzarsi nelle scuole, servendosi della collaborazione delle associazioni del terzo settore e le case rifugio che, nell’isola, sono ubicati in cinque comuni – Cagliari, Sassari, Oristano, Nuoro e Olbia – a ciascuno dei quali la legge regionale ha erogato sessantamila euro da destinare alle sopravvissute alla violenza maschilista, previa apposita graduatoria che tiene conto di specifici requisiti. Olbia, insieme a Nuoro, è fra le istituzioni più virtuose, avendo recepito, pochi giorni fa, la legge, approvato il RdL, che verrà corrisposto per un periodo che va dai dodici ai trentasei mesi, ed essendosi già attivata per attuare pienamente la misura.

Buongiorno, coniglio fascista

Ieri ho aperto la posta e ho trovato una mail. Ve la incollo così com’è:

«caro giulio cavalli che scrivi su left  ,unico giornale di
sinistra…e meno male aggiungo io..ahahahahah..insieme a quel
coglione di vauro..ti spiego cosa pensa la stragrande
maggioranza degli italiani
i migranti vanno gasati,le navi vanno affondate,i rom fucilati,
e va e reintrodotta la pena di morte
purtroppo dobbiamo gasare anche i compagni come te, vauro,gad,
Roberto, michele ..insomma tutti i patetici si sinistra
…sarà dura ma ce ne faremo un ragione
e in quanto alla capitana di sto cazzo, direi che prima dobbiamo
ingropparcela e con lei tutte le troie come lei..e poi rispedirla
in africa a prendere altri cazzi di colore
hai capito coglione?»

A parte il solito gusto della scrittura e delle regole grammaticali (deve esserci una scuola particolare per i fascisti, per disimparare l’italiano) il messaggio è perfetto per fotografare alcuni punti di questo momento storico.

La vigliaccheria, innanzitutto. Il furbone non si firma e usa un servizio di mail anonime. Peccato che quello stesso servizio tenga registrati gli indirizzi ip (codici univoci che identificano gli utenti online, ndr) e sia molto disponibile con le forze dell’ordine. Quindi il piccolo pavido avrà presto un nome e un cognome, oltre alla denuncia che si ritrova sulle spalle. E poi ci dirà che aveva bevuto, che non voleva e frignerà come un pulcino bagnato. Fanno sempre così.

Poi c’è la stragrande maggioranza degli italiani che nella testa del nostro vile anonimo condivide le idee di Salvini, ovviamente. Perché in fondo è lui ad avere sdoganato questi. E chissà che ne dicono i suoi alleati di governo.

E infine c’è il solito complesso sessuale per cui gli uomini vanno gasati e invece la capitana stuprata. Perché non riescono a liberarsi dal complesso del loro pene, ovviamente.

Che pena.

Buon mercoledì.

Tutte le magagne dei nuovi gruppi al Parlamento europeo tra postfascisti e sovranisti

Brexit party members (R, top) turn their backs on the musicians during the European Anthem at the first session of the new Parliament at the European Parliament, in Strasbourg, France, 02 July 2019. ANSA/PATRICK SEEGER

Fascisti e postfascisti in almeno tre gruppi, il connubio tra franchisti spagnoli e indipendentisti fiamminghi, il “nuovo che avanza” alleato con la partitocrazia tradizionale, sono solo alcune delle magagne dei nuovi gruppi al Parlamento europeo che proprio oggi, 2 luglio, ha ospitato la sua sessione inaugurale. E oggi la popolare tedesca Ursula Von der Leyen è stata eletta alla Commissione Ue, il belga liberale Charles Michel alla presidenza del Consiglio europeo, la francese Christine Lagarde alla Bce e il socialista spagnolo Josep Borrell come Alto rappresentante. L’ultimo nodo è quello relativo al presidente del Parlamento europeo. All’ordine del giorno la nomina del successore di Antonio Tajani e dei suoi vice, insediamento di un emiciclo dove i sovranisti sono cresciuti ma sono ancora lontani dal poter condizionare i lavori parlamentari, debutto delle new entry, da una vecchia conoscenza come Silvio Berlusconi a diversi giovani classe ’93. Un Europarlamento deciso a tirare dritto sulle nomine. Il voto è in agenda per il 3 luglio, il giorno seguente l’avvio ufficiale della nona legislatura, e potrebbe costringere il Consiglio a giocare di rimessa dopo che il Parlamento Ue avrà detto la sua parola per primo. Una coalizione dei quattro principali gruppi dell’Eurocamera – Ppe, S&D, ex liberali di Renew Europe e Verdi – è con grande probabilità quella che potrebbe vedere la luce nell’emiciclo, ma non è da escludersi il formarsi di maggioranze variabili sui singoli temi, visto che in via teorica avrebbe i numeri anche un’alleanza progressista che spazi da Renew Europe fino alla sinistra Gue, passando per i socialisti S&D e i Verdi. I sovranisti di Identità e democrazia (Id), di cui fanno parte la Lega e il Rassemblement national di Marine Le Pen, siederanno invece all’opposizione e rischiano di restare tagliati fuori dalle presidenze e dalle vicepresidenze delle commissioni parlamentari, dopo che le forze pro-Ue hanno stretto un accordo per creare un cordone sanitario anti-populista. Ma gli alleati dentro Id puntano comunque a conquistare le presidenze delle commissioni Agricoltura e Giustizia. Sarà molto difficile ottenere le due cariche, anche se indiscrezioni dell’ultima ora danno in crescita le loro chance.
Ciascuna delle famiglie politiche europee, però, è alle prese con problemi interni e compagnie imbarazzanti.
Intanto il Fidesz di Viktor Orbán è ancora nelle file del Ppe, una decisione che risale a due mesi prima delle elezioni: il Partito popolare europeo ha deciso, quasi all’unanimità, di sospendere il partito del controverso primo ministro ungherese ma la decisione non valeva come esclusione, così l’unica conseguenza concreta in questa fase è che Fidesz resta nel più cospicuo gruppo di Bruxelles ma non senza rivendicare alcuna posizione di rappresentanza.
Fidesz ha ottenuto il miglior punteggio del continente, con oltre il 52% dei voti nel suo Paese. Con i suoi tredici seggi, è emerso come un partner sempre utile per un Ppe in declino: tra il crollo dei Républicains in Francia e il continuo declino della Cdu / Csu in Germania, il campo conservatore preferisce tenersi l’impresentabile ungherese che sta distruggento lo stato di diritto piuttosto che regalarlo all’estrema destra.
Il secondo partito europeo è quello socialista (154 eletti) dominato dalla delegazione del Psoe spagnolo, guidato dal dinamico Pedro Sánchez a Madrid che, però, condivide la panchina con le delegazioni di gran lunga meno presentabili, a partire dalle otto postazioni degli eletti del Psd, il Partito socialdemocratico romeno di Liviu Dragnea, al potere a Bucarest. Così compromettente che il Partito socialista europeo ha deciso all’inizio di quest’anno di congelare le relazioni con lui.
L’anno scorso, Dragnea è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere con l’accusa di abuso d’ufficio. È anche accusato nel caso “Tel Drum” per la partecipazione a un “gruppo criminale organizzato” e appropriazione indebita di fondi nazionali ed europei per danni pari a diversi milioni di euro. Poi ci sono i tre eletti slovacchi di Smer-SD, la formazione dell’ex premier Robert Fico noto per la sua deriva anti-migranti simile a quella dei leader ultraconservatori ungheresi e polacchi. Fico è stato costretto a dimettersi dopo l’omicidio di un giornalista investigativo, Ján Kuciak (e della sua compagna) che ha suscitato un’ondata di indignazione nel Paese, ma il suo partito continua a governare, in combinazione con lo Sns, un partito di estrema destra. Kuciak indagava su casi di corruzione e truffe intorno ai fondi strutturali dell’Ue, per il sito di notizie slovacco Aktuality e aveva rivelato l’esistenza di rapporti tra la ‘Ndrangheta calabrese e alcuni membri del governo Fico.
C’è un intruso ceco anche tra gli alleati di Emmanuel Macron, all’interno del gruppo Renew Europe (108 eletti), il campo liberale, che comprende La République en marche. Si tratta di Ano 2011 (sei seggi), il partito del primo ministro ceco Andrej Babiš, l’uomo più ricco del Paese finito nel mirino di una procedura dell’Olaf (Ufficio europeo per la lotta antifrode) per abuso di sovvenzioni comunitarie. Le carte indicano che Babiš è al centro di un conflitto di interessi che potrebbe portare la Repubblica Ceca a dover rimborsare i fondi europei. La sua società agroalimentare, Agrofert, ha ricevuto 17,6 milioni di euro di sussidi. Praga è teatro di un’ondata senza precedenti di proteste, da più di due mesi. I dimostranti chiedono le dimissioni del governo e la fine di questo sistema corrotto. Macron non ha la minima intenzione di prendersi la briga di deviare questo alleato ingombrante. Anche in questo caso, le “piccole pietre” sono preziose.
Ecr, il gruppo conservatore e riformista è nato nel 2009 dopo la decisione dei Tories guidati da David Cameron di lasciare il Ppe da destra. I tories e i politici polacchi del PiS sono i pilastri di questo gruppo, che ora è solo il sesto dell’emiciclo, all’inizio del mandato. Tra le fila dell’Ecr, tre deputati dell’N-VA, partito indipendentista che domina la politica fiamminga, dovranno coesistere con tre eletti di Vox, i neofranchisti nemici giurati dell’indipendenza catalana, basca e galiziana.
Questo riavvicinamento sembra ancora più esotico dato che l’N-VA è un rumoroso alleato dell’indipendenza catalana e reclama regolarmente il rilascio dei “prigionieri politici” della Catalogna. Gli eletti dell’N-VA hanno indossato dei nastri gialli sul bavero della giacca a sostegno dei separatisti incarcerati. L’eurodeputato belga Geert Bourgeois ha preso parte a una manifestazione elettorale a fianco di Carles Puigdemont, ex presidente della Catalogna, che è stato in esilio in Belgio dall’ottobre 2017 e che è uno delle “bestie nere” di Vox. Se a qualcuno tornasse l’idea di rifarlo, i fascisti di Vox si sono detti pronti a esibire l’icona del Duca d’Alba, il generale che amministrava, per conto di Carlo V, i Paesi Bassi spagnoli.
Da parte sua Puigdemont sta complicando la vita al gruppo dei Verdi (75 eletti) che ancora non ha deciso se ammettere quattro separatisti catalani due di Erc, incluso il loro presidente in prigione, Oriol Junqueras, e due di destra della piattaforma di Puigdemont. I verdi europei sembrano riluttanti ad integrare i deputati che si trovano chiaramente a destra sulle questioni economiche e sociali. È probabile che il gruppo trascini ancora la sua decisione. Né Puigdemont, né il suo collega Toni Comín, entrambi in esilio a Bruxelles dal 2017 per sfuggire alla giustizia spagnola, hanno accesso agli edifici del Parlamento perché non sono andati a Madrid per giurare sulla Costituzione spagnola, un passo necessario per convalidare la loro elezione. È probabile che i loro scranni possano rimanere vuoti per lunghi mesi. Junqueras, in carcere, ha chiesto di giurare sulla Costituzione, ma il giudice glielo ha rifiutato, perché così avrebbe potuto ottenere una forma di immunità parlamentare che complicherebbe il processo ai separatisti catalani in corso a Madrid. Tre dei quattro indipendentisti eletti saranno quindi assenti dall’emiciclo.
I pentastellati sono ormai un pezzo del folklore politico del parlamento europeo: dopo i giri di valzer con Farage nella scorsa legislatura, non sono riusciti ancora a trovare casa. Hanno bussato alle porte del Gue e dei verdi ma mostrarsi in pubblico con Salvini non fa bene alla reputazione del partito proprietario della Casaleggio associati. «Non hanno nemmeno avuto il buon gusto di presentare tale richiesta insieme a una volontà politica della delegazione a Bruxelles di rottura col governo Salvini – hanno spiegato a Left, Maurizio Acerbo del Prc e l’ex europarlamentare Eleonora Forenza – l’appartenenza al Gue/Ngl è con ogni evidenza incompatibile con l’alleanza con la Lega e comporta la sottoscrizione dei principi fondamentali del gruppo. Il M5s non riuscendo a formare il gruppo, sta bussando a tutte le porte. Né di destra, né di sinistra significa anche questo: con i conservatori o con la sinistra, pur di non perdere posti, funzionari e fondi». Alla fine della fiera saranno fianco a fianco nel gruppo dei non iscritti con i nazisti greci di Alba Dorata, ancora con Farage versione Brexit Party, i nazi ungheresi di Jobbik, e tutti quanti dovrebbero ricordargli parecchio la convivenza con Salvini.
Senza appartenere a un gruppo parlamentare, i quattordici eurodeputati a cinque stelle avranno poca influenza a Strasburgo. Non possono presiedere commissioni, non possono introdurre emendamenti, non parteciperanno ai dialoghi a tre e avranno meno risorse finanziarie e umane per il loro lavoro in Parlamento.
L’estrema destra e altre formazioni post-fasciste sono divise in tre gruppi (se mettiamo da parte l’ala dura del Ppe, il gruppo maggioritario). Questo dovrebbe ridurre la loro influenza nell’emiciclo. Di Ecr non abbiamo ancora detto che comprende anche i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e gli olandesi euroscettici di Thierry Baudet. La Lega di Salvini sta nel gruppo Identità e Democrazia (73 eletti) con altri pesi massimi come l’RN di Marine Le Pen o l’FPÖ austriaco e i tedeschi di AfD, un partito anti-euro che è diventato un partito antimigranti.
41 eletti e quattro sottogruppi, il settimo ed ultimo gruppo del Parlamento, la Sinistra unitaria europea (Gue), è l’unico che non è riuscito a trovare un accordo sul presidente. Per ora c’è una leadership collegiale provvisoria con quattro rappresentanti: uno per i comunisti, uno per la sinistra verde nordica, uno per il cosiddetto Manifesto di Lisbona (Bloco portoghese, La France Insoumise e Podemos), e uno per la tendenza più europeista (Die Linke e Syriza) : la situazione è sintomatica di una sinistra incapace di accettare di chiarire una linea sul suo ruolo di opposizione futura.
Nella nuova Assemblea non mancheranno le personalità mediatiche, con l’attesissimo ritorno a Strasburgo di Silvio Berlusconi, né i volti noti dell’emiciclo, come l’ex premier belga Guy Verhofstadt o il famigerato Nigel Farage, il controverso leader del Brexit Party. Oltre a essere quella che metterà fine al duopolio popolari-socialisti, la legislatura che si apre sarà anche caratterizzata da un’ondata di gioventù. Saranno diversi i parlamentari under 30, anche se l’eletta più giovane, la ventunenne socialista Kira Marie Peter-Hansen, rinuncerà a Strasburgo per un seggio al Parlamento danese. Tra i giovanissimi anche l’attivista Markéta Gregorová, del Partito Pirata della Repubblica Ceca, e il capolista di Rassemblement national Jordan Bardella, entrambi classe ’93. Tutti convocati a Strasburgo per cominciare quella che probabilmente sarà la legislatura meno prevedibile della storia europea.

Sotto il rumore, i tagli

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (C) con il ministro del Lavoro dello Sviluppo economico e vicepremier Luigi Di Maio (S) ed il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini (D) durante la conferenza stampa al termine del Cdm a palazzo Chigi, Roma, 20 ottobre 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Sotto il caos e la polvere della vicenda Sea Watch, del muro di Fedriga e di Di Maio che propone di essere più a destra di Salvini sulla confisca delle navi delle Ong (perché chi non è “né di destra né di sinistra è quasi sempre di destra”) intanto il governo sta preparando la prossima manovra economica. E cosa c’è di meglio di tanta confusione per tagliare un po’ qua e un po’ là, proprio dove avevano sempre promesso che non avrebbero tagliato? Eccoci qua.

4 miliardi di euro tagliati alla scuola, come riporta Linkiesta. Sì, alla scuola. In tre anni. Si tratta di circa il 10%, tanto per dare un’idea. Da 48,3 a 44,4 miliardi nel giro di tre anni, con una riduzione delle risorse sia per l’istruzione primaria (da 29,4 a 27,1 miliardi di euro) che per quella secondaria (da 15,3 a 14,1 miliardi). 1 miliardo e 300 milioni di euro tagliati agli insegnanti di sostegno. Perché è ovvio: chi continua a fare politica contro i deboli alla fine arriva anche ai deboli di casa nostra, c’era da aspettarselo. Stupisce che qualcuno si stupisca. Evidentemente servono persone con la cultura giusta per augurare stupri da un molo. Se è vero che il mondo può essere salvato solo dal soffio della scuola allora c’è da preoccuparsi, sul serio.

Ma non è mica tutto, no. Scendono ad esempio la spesa  per il soccorso civile, che passa da 7,6 a 4,3 miliardi. Il «sostegno alla ricostruzione» crolla tra il ’19 e il ’20 da 3,2 miliardi a 700 milioni, poi 380. Ma scendono anche le risorse per la protezione civile di primo intervento, da 744 a 391 milioni di euro.

Capite di cosa stiamo parlando? Usare un’arma di distrazione di massa per riempire le agende dei giornali di scontri sulla pelle degli ultimi (stranieri) permette di agire sugli ultimi (nostrani) indisturbati. E la distruzione della cultura continua a prosperare, insieme a quella dell’istruzione, perché avere un popolo meno istruito significa avere un popolo più facile da governare.

Contenti voi.

Buon martedì.

 

 

Armando Gnisci, il nuovo pensiero meticcio e la poetica della decolonizzazione

Uomo di straordinaria umanità, critico letterario, fondatore della cattedra di Letterature Comparate all’università Sapienza di Roma nonché emerito intellettuale di fama mondiale, Armando Gnisci, scomparso il 17 giugno scorso, ci lascia in eredità un patrimonio culturale e letterario dal valore umano inestimabile. Con oltre 50 testi tradotti in più di 12 lingue, i suoi studi e la sua ricerca hanno avuto il merito di aver spalancato i confini ad una nuova prospettiva letteraria transculturale capace di esser riuscita a varcare gli angusti limiti di realtà nazionali.
Oggi più che mai, in una Europa e in un mondo che sembrano aver smarrito la strada maestra della convivenza umana e civile dei popoli, il suo pensiero si fa attualissimo.
Già dai primi anni Novanta sceglierà di intraprendere la sua ricerca verso un nuovo pensiero meticcio che, di lì a poco, si configurerà quale punto di svolta personale per l’avvio di inedite interpretazioni che faranno, della letteratura italiana, una scienza umana sempre più creola ed anticolonialista. Una scienza che, avviata inevitabilmente verso un processo interletterario, si profilerà in un significato ampio e plurale di letteratura mondiale in cui, anche le letterature considerate da sempre “più piccole” o “marginali” ne diventeranno protagoniste principali.
Sarà grazie agli scritti di Éduard Glissant, suo più potente maestro – come lui stesso definirà in una intervista rilasciata nel febbraio del 2015 per comune-info.net – insieme ad Aimé Césaire e Frantz Fanon tutti e tre “meticci discendenti dalla tratta degli schiavi africani”, che Gnisci opererà una svolta epistemologica sulla «via della poetica della decolonizzazione degli europei e dell’anticolonialismo militante». L’avvio verso una «creolizzazione mondiale»; «una direzione cioè verso la quale sta marciando tutto il mondo attraverso la mobilità delle migrazioni e degli incroci: il meticciato come imprevedibilità». Un percorso culturale vitale che interesserà, oltreché tutta la sua vita, il mondo accademico e grazie al quale generazioni di appassionati studiosi e studenti si formeranno.
Di Poetica del diverso del martinicano Éduard Glissant, intellettuale caraibico a lui coevo, egli ne farà i suoi nuovi occhi, un faro costante che lo porterà più volte ad illuminare la ricerca verso quello che lui stesso amava definire un processo di creolizzazione tra le diverse culture e quanto, questo processo, rappresenti una sfida di enorme portata che chiama anche noi ad una prova della nostra responsabilità culturale.
Accettando di sfidare fino in fondo l’antica immagine di un Mar Mediterraneo quale «nostro mare chiuso tra le terre (…) fissato alla sua illusione trimillenaria dell’unicità centrale, prodotta dal suo pensiero unico dell’essere (…)», che ha imposto la propria identità a tutto il mondo attraverso le sue tre religioni monoteiste, Gnisci vi oppone con forza una nuova immagine modificandone la percezione.
Un Mediterraneo quale Nuovo Mare in mezzo al Mondo. Un mare che «stretto in mezzo alle terre che avvicina tre continenti possa diventare oggi uno dei centri del mondo dove si possa sperimentare una rieducazione del te sulla via, soprattutto per noi europei, di una nuova creolizzazione e di una giusta coevoluzione». L’auspicio di una nuova umanità che potrà nascere dall’incontro di diverse culture, dall’ascolto reciproco, nella tensione di un dialogo continuo reso possibile anche attraverso la letteratura e la musica.
Creolizziamoci le nostre menti, esortava Gnisci. Come? «Facendoci amici dei migranti, visto che sono arrivati a vivere con noi, ascoltando le cose che loro dicono e che sono diverse dalle cose che diciamo noi. Molto diverse».
Ci mancherà Armando. Ci mancherà il suo sguardo aperto sul mondo, l’apertura al dialogo e all’incontro … la sua continua ricerca, regalata con profonda onestà intellettuale, a generazioni di studenti che lo hanno saputo ascoltare.

 

La merda nel ventilatore

A Bibbiano la Procura di Reggio Emilia ha scoperto una storia che mette i brividi e riguarda bambini scippati alle loro famiglie e dati in affidamento per business. Una storia dolorosa, macabra, addirittura orribile nelle sevizie psicologiche che i minori si ritrovavano a sopportare e con protagonisti quelli che dovrebbero invece essere i garanti dei minori.

Sarà per la mia adozione ma quando leggo storie così mi viene da pensare alle parole che non esistono nemmeno sul vocabolario e che invece servirebbero per riuscire a descrivere lo squarcio dentro al cuore dei piccoli e dei loro genitori, incastrati in un meccanismo che soffoca gli affetti e li disgrega facendone pezzetti sparsi in giro.

Un’analista che ha il coraggio di dire “facciamo il funerale al tuo papà” a un bambino per convincerlo a dimenticarlo è un orco che segna un buco nero e che merita tutto il sprezzo che siamo capaci di spremere.

La vicenda di Bibbiano però è diventata anche l’occasione per la disputa politica di quelli che vorrebbero cambiare discorso dalla vicenda di Sea Watch e dall’orribile atteggiamento del ministro dell’interno. Come al solito, incapaci di rispondere sul merito delle questioni, i partiti al governo non aspettano altro che qualche segnale da qualsiasi procura in giro per l’Italia per dimostrare che anche gli altri sono sporchi e cattivi e così, più del dolore umano dei bambini, è stata tutta una rincorsa ad accusare il Pd e il suo sindaco. È un’abitudine tutta italiana quella di starnazzare a caso, del resto, che funziona sia a destra che a sinistra.

Luigi Di Maio, ad esempio, alle 12.55 del 27 giugno ha pubblicato un lungo post su Facebook in cui attaccava il sindaco Andrea Carletti ritenendolo responsabile di tutta la vicenda e parlando di “politici che coprivano” il vergognoso giro di affari. Così in questi giorni se vi capita di scrivere di Sea Watch vi ritrovate sempre qualche pappagallo pronto a dire “e allora il Pd a Bibbiano?”.

Chi segue il buongiorno sa che da queste parti non siamo mai stati teneri con i democratici ma c’è un piccolo dettaglio che andrebbe riportato: sono le parole del procuratore Mescolini che si occupa dell’inchiesta e dice che il sindaco, appunto, “risponde solo di abuso d’ufficio e falso. Gli viene contestato di aver violato le norme sull’affidamento dei locali dove si svolgevano le sedute terapeutiche, ma non è coinvolto nei crimini contro i minori”. Chissà se qualcuno se ne accorgerà. Chissà se qualcuno chiederà scusa.

Ma ciò che conta in fondo è solo aggiungere merda al ventilatore.

Buon lunedì.

Al-Harthi sfida l’Oman più arcaico

HAY-ON-WYE, WALES - MAY 25: Jokha al-Harthi, novelist and winner of the 2019 Man Booker International Prize, during the 2019 Hay Festival on May 25, 2019 in Hay-on-Wye, Wales. (Photo by David Levenson/Getty Images)

Il suo rientro in patria lo scorso 26 maggio non è stato di quelli normali. Appena scesa dall’aereo del volo Londra-Mascate, una folla di giornalisti e persone comuni l’ha accolta come si fa solitamente con gli sportivi di ritorno da una vittoria in una competizione internazionale. La scrittrice omanita Jokha al-Harthi sembrava quasi imbarazzata da tutto quel clamore. In fondo, avrà pensato, si tratta solo di un premio letterario vinto. Un successo personale, niente di più. Ma non è stato così: non capita in effetti tutti i giorni che il Sultanato dell’Oman, spesso ai margini della narrazione mediatica sia in campo politico che culturale, si trovi per qualche giorno al centro dell’attenzione pubblica occidentale grazie alla vittoria del prestigioso Man Booker International Prize da parte di una sua cittadina. A maggior ragione quando, nei 15 anni dall’istituzione di questo premio che omaggia la letteratura internazionale tradotta in lingua inglese, nessun romanzo arabo era ancora riuscito a conquistarlo.
Sorprendendo forse molti, al-Harthi ce l’ha fatta invece quando il suo Sayyadat al-Qamar (Celestial bodies in inglese) ha sconfitto la concorrenza dell’autrice polacca Olga Tokarczuk (vincitrice già l’anno scorso del premio con il suo Flights) e dell’autrice francese Annie Ernaux. Alla cerimonia di premiazione a Londra, la 41enne scrittrice e docente omanita, non ha nascosto la sua gioia: «Sono emozionata che una finestra si sia aperta per la ricca cultura araba. L’Oman mi ha ispirato, ma ritengo che i lettori internazionali possano far riferimento ai valori umani presenti nel testo, quali la libertà e l’amore».
«Il suo è un testo che parla a tutti – ha poi motivato Bettany Hughes, alla testa del comitato dei 5 giudici che le ha assegnato il premio – perché convince testa e cuore in egual misura e perché evoca le forze che ci limitano e quelle che ci rendono libere».
Il romanzo di al-Harthi, pubblicato in arabo nel 2010 e tradotto in inglese nel 2018, è…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue Left in edicola dal 28 giugno 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Se dalla scuola sparisce la storia

Una classe impegnata nella prima prova dell'esame di maturità all'esterno del liceo Classico Visconti di Roma, 19 giugno 2019. ANSA/CLAUDIO PERI

La crisi della storia sembra essere sotto gli occhi di tutti. In Italia, in particolare, la questione sembra aver assunto connotati decisamente inquietanti.
Basti richiamare le parole del recente appello accorato di Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri (“La storia è un bene comune”), cui si sono unite le firme di migliaia di cittadini e di cittadine, preoccupati per la sorte delle discipline storiche.
Il quadro è in effetti abbastanza chiaro: si sta contraendo, nelle scuole, lo spazio e il peso della materia “storia” (o si pretende magari di associarla in modo un po’ raffazzonato alla geografia, altra grande vittima dei tempi recenti, per inventare un ibrido mal definito cui si è pensato di dar il nome di geo-storia). Gli insegnanti di storia nei licei e nelle superiori (laureati per lo più in lettere o in filosofia) hanno in molti casi seguito percorsi di formazione universitaria in cui allo studio della storia è stato non di rado riservato un peso marginale; e spesso, se non sono particolarmente consapevoli o motivati, tendono di conseguenza, a loro volta, a considerare la materia in modo del tutto ancillare. La frase «oggi in classe facciamo filosofia, per quanto riguarda storia studiate a casa il manuale da pag. X a pag. Y» ricorre frequentemente come una sorta di triste mantra nelle aule di molti licei (un po’ meglio sembrano andare le cose negli istituti professionali). La prova di storia alla maturità (peraltro già da tempo ampiamente disertata dai più, anche per via dell’eccessiva astrusità di molte delle tracce proposte nel corso degli anni) è stata di recente soppressa. E se è parsa assolutamente lodevole la proposta di reintrodurre nelle scuole l’insegnamento dell’educazione civica, può risultare in vero più discutibile il fatto che sarà poi proprio la storia (già in sofferenza) a dover fare le spese delle ore di didattica in più da destinare ad infondere nei giovani la cultura della cittadinanza.
Non meno inquietante è del resto…

Francesco Somaini, storico, docente all’Università del Salento, è anche presidente del circolo Rosselli di Milano. La sua riflessione sulla storia è a margine di una giornata di studi leccese.

L’articolo di Francesco Somaini prosegue su Left in edicola dal 28 giugno 2019


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Dittatura del debito e governo incapace

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Da duecento anni il debito è utilizzato come un’arma di dominazione, da quando il ricorso all’indebitamento estero e l’adozione del libero commercio hanno costituito la leva per l’assoggettamento agli interessi di Gran Bretagna e Francia dei Paesi latino-americani che s’erano liberati dal giogo spagnolo e portoghese. Sarebbe poi successo a Cina, Grecia, Tunisia, Messico, Egitto ecc.
Simon Bolivar, tutt’altro che illiberale, si era reso conto della trappola: «Che si denuncino, dico io, nella Gazzetta del governo i nostri abusi; e che si presentino delle spiegazioni che feriscano l’immaginazione dei cittadini». Era il 1825.
A “ferire l’immaginazione dei cittadini”, qui da noi sono stati 922 articoli dei tre giornali più diffusi che, tra il 2011 e il 2013 (si veda Zamperini e Menegatto, Economic Crisis and Austerity. The Economy of Civic Discharge), hanno costruito lo storytelling del debito come colpa, patologia, catastrofe naturale. Tutto ciò per deresponsabilizzare le élites dalle conseguenze di un debito che continua a crescere da quando, senza passare per il Parlamento, Bankitalia e il Tesoro hanno divorziato consegnando il debito italiano agli appetiti dei mercati finanziari. Da allora siamo in avanzo primario, lo Stato incassa più di quello che spende ma dal 1990 paghiamo in media 70 miliardi l’anno di interessi. «Pensa che si sta litigando con Bruxelles per 6 piuttosto che su 5 miliardi» spiega a Left Marco Bersani, fondatore di Attac Italia e di Cadtm Italia, una delle ramificazioni del Comitato per l’annullamento del debito illegittimo fondato da Eric Toussaint in Belgio. «Per il meccanismo perverso degli interessi – continua Bersani – ci indebitiamo ogni anno per pagarli. Per essere meno indebitato l’anno prossimo dovresti…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 28 giugno 2019


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