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Cosa si fa in Europa contro la povertà minorile

La povertà – in particolare quella minorile – presenta aspetti che coinvolgono svariate dimensioni della persona, non solo il reddito, ricorda la Banca mondiale nel rapporto Poverty and shared prosperity 2018. Raffaella Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the children conferma l’assunto: «La povertà è “multidimensionale”, riguarda anche la salute, la crescita… quindi vivere in povertà durante l’infanzia significa che spesso questa condizione non può essere superata in nessun modo». L’efficacia delle misure di contrasto alla povertà, dunque, non va considerata solo in termini monetari ma anche in termini di realizzazione dell’identità di una persona nella misura in cui viene messa nelle condizioni di soddisfare bisogni ed esigenze.
Una discriminante fondamentale è l’accesso ai servizi pubblici essenziali per la persona e la loro qualità e distribuzione sul territorio. L’obiettivo dovrebbe essere quello di offrire a bambini e adolescenti uguali opportunità formative, a prescindere dalla fascia di reddito delle famiglie di appartenenza. «È prioritario garantire a tutti un’educazione di qualità, dall’asilo fino ai gradi più alti di istruzione», si legge nell’ultimo report di Openpolis sulla povertà minorile in Italia, che evidenzia l’impossibilità di contrastare il fenomeno senza un forte investimento nei servizi rivolti ai minori e all’infanzia. Solo così si può sbloccare l’ascensore sociale che nel nostro Paese è ormai troppo difettoso: secondo una stima dell’Ocse, ci vogliono circa cinque generazioni perché in Italia un bambino che nasce in una famiglia a basso reddito possa raggiungere un reddito medio.
Purtroppo, ciò che emerge dai dati di Openpolis non è confortante: in Italia si tende a spendere troppo poco in istruzione – il 3,9% del Pil -, contro una media europea del 4,7%. Una percentuale inferiore anche rispetto agli altri principali Stati Ue, come la Francia (5,4%), il Regno Unito (4,7%) la Germania (4,2%). Per non parlare della…

L’inchiesta di Sabrina Certomà prosegue su Left in edicola dal 28 giugno 2019


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Più soldi di tutti alla scuola di tutti, quella pubblica

mother walking little daughter to daycare, education concept

La presentazione del secondo rapporto nazionale sulla povertà educativa minorile in Italia, a cura di Openpolis e Con i bambini, sottolinea la necessità di maggiori investimenti negli asili nido (fascia di età 0-3 anni) e nelle scuole dell’infanzia (fascia d’età 3-5 anni). Nonostante il nostro Paese risulti sotto la media Ocse in termini di percentuale del Pil speso per l’istruzione della prima infanzia, la politica insiste su ragioni di risparmio e sulla conseguente e presunta necessità di destinare soldi pubblici alle scuole private paritarie, in larga parte di orientamento religioso.
Costituzione alla mano, vi è una differenza fondamentale tra l’asilo nido e la scuola dell’infanzia. Il primo è un servizio, sicuramente importante, mentre la seconda è scuola. E come tale è un dovere costituzionale che lo Stato la garantisca. Lo dice l’art. 33 della Costituzione: «La Repubblica … istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Non c’entra nulla che non sia scuola dell’obbligo. È un dovere della Repubblica istituirla ove vi sia richiesta, gratuita e statale. È facoltativo per le famiglie chiedere che i figli la frequentino. Si pensi alla quarta e alla quinta superiore: non è scuola dell’obbligo, ma non s’è mai visto un liceo statale che si ferma alla terza superiore.
Eppure da quando la legge clericale 62/2000 ha reso possibile il finanziamento pubblico alle scuole private – legge voluta dal secondo governo D’Alema, ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer -, destra e sinistra hanno fatto in modo che l’istituzione di scuole statali dell’infanzia statali venisse frenata, e che soldi pubblici venissero dirottati su scuole paritarie che in larga misure sono scuole-parrocchia. Fu esplicito nel 2014 Luca Zaia, governatore del Veneto: «Il governo ci vorrebbe più impegnati nella costruzione di asili pubblici. Noi diciamo che questa è la nostra storia e che non ci sono alternative alla operosità sociale delle Comunità cristiane, parrocchiali e congregazionali». Fu altrettanto esplicita la rossa Bologna, che pur sconfitta nel referendum comunale del 2013 da un 60% di cittadini che chiedevano di destinare i fondi comunali alle scuole pubbliche fino all’esaurimento delle liste d’attesa, confermò invece il finanziamento di un milione di euro alle scuole paritarie, quasi tutte cattoliche. E non è da meno l’attuale esecutivo: quello che si definiva “del cambiamento”, ma che continua come i governi precedenti a stanziare mezzo miliardo l’anno per le scuole private paritarie. Ancora maggiore è il contributo totale che le amministrazioni locali devolvono alle scuole paritarie: l’inchiesta dell’Uaar icostidellachiesa.it quantifica che solo quelli per scuole cattoliche o che si ispirano alla morale cattolica ammontino a 500 milioni l’anno.
Le scuole private sopravvivevano anche prima di iniziare a ricevere contributi pubblici, grazie alle rette e a sponsor privati, e avevano sostanzialmente lo stesso numero di studenti che hanno adesso. La ricetta per contrastare la povertà educativa minorile in Italia? Recuperare questi fondi, aggiungerne altri e destinarli esclusivamente alla scuola di tutti, a una scuola laica, pubblica e all’avanguardia. Iniziando dalle scuole dell’infanzia statali ovunque vi sia richiesta. Come Costituzione comanda, come comandano ragione e laicità.

Roberto Grendene è segretario nazionale Uaar-Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. In precedenza ha ricoperto l’incarico di responsabile nazionale campagne Uaar

L’articolo di Roberto Grendene è stato pubblicato su Left del 28 giugno 2019


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Le donne e il futuro della sinistra

Il 2 luglio prossimo a Bruxelles, durante la prima sessione plenaria, 293 donne siederanno nei banchi del Parlamento (il 39%). Le donne elette in Italia sono state in tutto 31, pari al 41% e in linea con i numeri del nuovo Europarlamento. Queste cifre, Secondo l’opinione della professoressa Chiara Saraceno, sociologa della famiglia presso l’Università di Torino, sono il riflesso dell’ultima campagna elettorale europea, dove non sono emersi i temi specificamente rilevanti per le donne. Inserire le candidate come capilista è stato solamente un palliativo, se poi i vertici maschili dei partiti pianificano le loro carriere a tavolino, lasciando poco spazio alle donne. Francesca Puglisi (Pd), su La Stampa ha di recente affermato che le donne in politica non vengono valorizzate, ma sono confinate a temi come la scuola o la questione di genere, considerati da un pensiero dominante come le attività più adatte per loro. In questo modo la strada per l’effettiva eguaglianza di diritti e rappresentanza risulta ancora lunga e ricca di ostacoli.

Alle elezioni europee di fine maggio, oltre la chiara vittoria di Matteo Salvini, è emerso che le donne non si sentono partecipi della vita politica. Solo il 50% delle italiane (13,1 milioni) si è recato alle urne, di cui quasi 5 milioni (il 37%) hanno votato per il Carroccio. Secondo l’opinione della professoressa Saraceno, queste donne «hanno votato Lega perché si sono ritrovate nel discorso securitario di Salvini, nella sua immagine di uomo insieme forte e concreto».
Fa riflettere un così ampio consenso per un partito che sposa il pensiero dei rappresentanti del Congresso della famiglia e che vorrebbe far approvare una legge, il discusso ddl Pillon, che si basa sulla teoria della Sindrome da alienazione parentale di Richard Gardner nonostante non sia riconosciuta a livello internazionale e soprattutto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In merito, la dottoressa Barbara Pelletti, psichiatra e presidente dell’associazione Cassandra D, fornisce un’interessante interpretazione: «Le donne sono profondamente deluse dalla politica, ormai troppo lontana dalla vita reale delle persone, dai pensieri e dagli affetti di noi tutti», spiega Pelletti. «Non possiamo dimenticare che negli anni ’70 del secolo scorso perfino le donne cattoliche andarono in massa a votare per il divorzio e per l’aborto: erano anni in cui le battaglie politiche ancora riflettevano un’esigenza di liberazione umana che non è stata poi sviluppata nel senso della ricerca sull’identità umana, presupposto necessario per la libertà, e nemmeno sui rapporti umani profondi, in particolare il rapporto uomo-donna».

Rimando sull’esempio delle europee, i media che ruolo hanno giocato in questa partita? In televisione, se possibile, la rappresentanza femminile trova ancora meno spazio. Secondo gli ultimi dati AgCom, su elaborazione di Geca Italia, nel periodo della campagna elettorale che va dal 25 marzo al 19 maggio il tempo di parola delle donne nei talk show è pari al 22,5% del totale. Non è una novità, secondo la sociologa Chiara Saraceno, ma anzi è un fatto regolarmente denunciato senza che siano mai stati presi provvedimenti. Una strana coincidenza che tra i membri dell’Autority della comunicazione, i cui rappresentati vengono scelti da Camera e Senato, non sia presente neanche un commissario donna. Il sistema mediatico, quindi, si adegua a ciò che gli viene imposto dalle segreterie di partito e così a farcela risultano solo le donne nelle grazie del leader (padrone) di turno. E «le stesse, poche, donne che conducono i talk show» prosegue la professoressa Saraceno, «per lo più si adeguano, per legittimarsi e perché la competizione sembra solo su quante volte si ospita Salvini o Di Maio, o il collega prestigioso, l’intellettuale noto. Il risultato è che sono sempre le stesse persone che circolano da un talk all’altro parlando delle stesse cose».

Alla luce di questa realtà, è indubbio che la negazione dell’identità femminile tipico di una certa cultura è il motivo per cui le donne faticano ad emergere nella società. Ma le donne hanno deciso di ribellarsi con nuovo vigore, non accettando più questa condizione: «Si percepisce il risveglio della ricerca di qualcosa di più profondo, di una vita diversa, di un pensiero nuovo sui rapporti umani», afferma Barbara Pelletti. Come fa notare la presidente di Cassandra D, molti movimenti femminili, dalla Spagna al Cile, passando perfino per la Svizzera, si stanno proponendo come alternativa reale alla crisi della sinistra. Alla base, un ideale di uguaglianza che include anche le istanze dei migranti, ma «soprattutto rilancia un dibattito e una dialettica su grandi nodi culturali mai affrontati dalla sinistra».
Una vera sinistra non può e non deve rimanere inerte di fronte a tutto questo, ha l’obbligo di battersi affinché la parità non sia solo un obiettivo ma una realtà.

220mila euro per Sea Watch

Protesters gather during a demonstration in support of German humanitarian group Sea Watch in Naples, Italy, 27 June 2019.ANSA/CESARE ABBATE/

Può impegnarsi quanto vuole il ministro dell’Interno a rivendersi come padre di tutti gli italiani. Sea Watch e la capitana Carola hanno raccolto 220 mila euro in 24 ore. Duecentoventimila euro, non so se ne avete idea, sono un cifra astronomica per chi crede che gli italiani sono stufi o altre cazzate del genere che ci vengono propinate tutti i giorni.

Si tratta di tredici mila donatori per una media di 17 euro. Un movimento popolare che ha creato un’onda opposta e contraria a quella del cattivismo nostrano. Di solito i piccoli sovranisti nostrani rispondono con un pagate voi e gli altri hanno pagato. Zitti tutti.

Ora la giustizia farà il suo corso e finalmente si avrà l’occasione di chiarire una volta per tutte le leggi (e la Costituzione) in un’aula di tribunale. Ci sarà da divertirsi. Visto, tra l’altro, che il vigliacco Salvini invece si è sottratto dal processo come uno sbruffoncello qualsiasi.

A proposito di sbruffoncelli. Il pm di Napoli Catello Maresca nella sua requisitoria contro Casapound, nel processo in corso a Napoli contro 34 attivisti ha usato parole che andrebbero scolpite: «Ci siamo trovati di fronte a un gruppo criminale che in un determinato momento storico del nostro Paese ha fatto della “caccia al compagno” l’espressione della sua ideologia, concretizzatasi tra il 2010 e il 2011 in varie azioni violente».

E poi: «L’inserimento in ambienti istituzionali di suoi componenti aveva l’intento di creare un complesso affaristico di cooperative finanziarie del comitato politico-eversivo occulto». Un’intercettazione racconta bene la vigliaccheria di cui stiamo parlando, si parla di una ragazza ebrea: «Ma se tu vedi passa e la salutano tutti, gli arabi che la salutano con rispetto. Mi sta facendo stizzire troppo… Io a questa qua la devo vattere (picchiare, ndr) o la picchio o la stupro e le faccio uscire il sangue dal culo».

Avanti così. Buon venerdì.

L’ex Ilva e la revoca dell’immunità penale: continua il balletto del M5s sulla pelle dei tarantini

Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, in un punto stampa all'esterno del MISE al termine della ratifica dell'accordo sull'Ilva. Roma, 6 settembre 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

La data è il 6 settembre. ArcelorMittal annuncia di essere pronta ad uscire dall’Ilva se il governo non cancellerà il decreto crescita annunciato da Di Maio a Taranto il 25 giugno scorso, che revocherebbe l’immunità penale – salvacondotto che ha già fermato le inchieste della Procura -, prevista per l’azienda indiano-lussemburghese dal cosiddetto decreto Ilva del 2015. Sul tema si dovrà esprimere ad ottobre anche la Corte costituzionale, chiamata a verificare la costituzionalità della norma su istanza del gip di Taranto, Benedetto Roberto.

Nel frattempo, senza una soluzione al problema della protezione legale, l’ex stabilimento pugliese potrebbe chiudere il 6 settembre, quando entrerà in vigore la legge che ha abolito l’immunità: così ha minacciato l’amministratore delegato di ArcelorMittal Europa, Geert Van Poelvoorde, dopo una conferenza di Eurofer. «Il governo – ha dichiarato ancora Van Poelvoorde – continua a dire di non preoccuparci, che troverà una soluzione, ma finora non c’è stato niente di risolutivo. Quindi il 6 settembre l’impianto chiuderà. Abbiamo ancora due mesi, spero che l’esecutivo trovi una soluzione, siamo aperti a discutere».

Continuano dunque i voltafaccia del M5s. Dopo essersi presentati alle scorse elezioni manifestando la volontà di chiudere l’Ilva e bonificare la zona industriale, e poi aver firmato invece il 6 settembre 2018 un accordo con la nuova proprietà dell’acciaieria per mantenere 10.700 posti di lavoro (non molto diverso da quello precedente, siglato dall’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda il 10 maggio del 2018, ma bocciato dai sindacati), adesso il movimento fa un passo indietro, nel maldestro tentativo di recuperare consensi tra i cittadini tarantini delusi dall’accordo, e paventa l’ipotesi di eliminare una delle condizioni che ArcelorMittal considera indispensabili per mantenere attivo il polo siderurgico.

Secondo l’azienda indiano-lussemburghese, la norma metterebbe a rischio la gestione dell’acciaieria perché farebbe saltare le garanzie legali necessarie per l’attuazione del risanamento ambientale: «Noi non siamo in conflitto con il governo, non sappiamo perché faccia quello che fa, avrà le sue ragioni – ha spiegato Van Poelvoorde – ma diciamo che in queste condizioni non si può andare avanti». Il dirigente sottolinea: «Non posso mandare i miei manager lì ad essere responsabili penalmente», in una situazione già fuori norma perché l’impianto è sotto sequestro. «Allo stesso tempo il governo ci dice che non vuole che ce ne andiamo, ma vuole che restiamo, e ci dicono che risolvono il problema. Noi abbiamo scritto un articolo molto chiaro per dire che il 6 settembre, quando entra in vigore questa legge, l’impianto si fermerà se nulla sarà successo».

«Io ho proposto ad Arcelor Mittal, e continuerò a proporlo nei prossimi giorni, una serie di tutele alternative che consentiranno loro di andare avanti con lo stabilimento – è stata la replica del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio -. Loro lo stabilimento lo stanno mettendo a norma e questo dimostra tutta la loro buona fede. Sono d’accordo che Arcelor Mittal non può pagare per gli errori del passato ma nessuno potrà mai dire allo Stato che chiude se il Parlamento non gli fa una legge». Per confrontarsi con ArcelorMittal sul tema, inoltre, Di Maio ha convocato un tavolo tecnico al Mise per il 9 luglio.

L’annuncio dell’Ad Van Poelvoorde è arrivato in contemporanea ad un comunicato stampa dei sindacati, che chiedono ad Arcelor di bloccare le procedure per l’avvio della cassa integrazione nell’ex manifattura Ilva (prevista da luglio per 1.400 operai). L’intenzione di procedere con la misura è stata comunicata dall’azienda lo scorso 5 giugno, con la precisazione che il provvedimento sarebbe solo temporaneo, per fare fronte alle difficili condizioni in cui versa il mercato dell’acciaio – a maggio si era decisa la riduzione della produzione primaria in Europa, quella di Taranto, nello specifico, è stata rallentata da 6 a 5 milioni di tonnellate.

Nel frattempo, con una manifestazione per le vie del capoluogo, il 24 giugno numerosi tarantini hanno manifestato la loro delusione per le promesse disattese dell’esecutivo giallonero. «Vigliacchi! I bambini di Taranto vogliono vivere», si leggeva in uno dei numerosi striscioni. «Sul contratto di governo c’è scritto: chiusura progressiva delle fonti inquinanti – ha dichiarato Luca Contrario del comitato “Giustizia per Taranto” all’agenzia Dire -. Noi, a oggi, non abbiamo capito qual è questa chiusura delle fonti inquinanti, qual è il cronoprogramma, quali sono le fasi e quali le responsabilità. A dimostrazione che questo governo non è credibile, parla per slogan e noi siamo stanchi».

Ilva, le tappe della crisi
Ma facciamo un passo indietro. L’Ilva è, storicamente, la maggiore impresa siderurgica italiana ed europea. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’attuazione del piano Marshall, in un progetto di riduzione dei costi di produzione dell’acciaio e di modernizzazione degli impianti, fu costruito il centro siderurgico di Taranto. L’Ilva, nel 1995, fa acquistata interamente dal Gruppo Riva – primo gruppo italiano nel settore -, ed è nei primi anni 2000 che ci si accorge dei danni provocati dai suoi stabilimenti. La diffusione dell’ideale comunitario di “sviluppo sostenibile” e la crescente sensibilità dell’opinione pubblica riguardo l’ambiente, portarono l’attenzione sulla nocività delle emissioni di diossina e benzo(a)pirene – una delle prime sostanze di cui si è accertata la cancerogenicità –  nell’atmosfera da parte delle manifatture di Genova e Taranto, responsabili di inquinamento e del forte sviluppo di patologie tumorali e neurologiche.

Per arginare il problema, fu chiuso lo stabilimento di Genova nel 2005 e sequestrato quello di Taranto nel 2012, con sulle spalle 11.550 morti in 7 anni per cause respiratorie e cardiovascolari. Fu la Corte europea (di Lussemburgo) a condannare l’Italia nel 2011, per infrazione della legge comunitaria. L’Italia si sarebbe resa inadempiente alla Direttiva Ippc sulla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, che prescrive l’obbligo di dotarsi di Autorizzazione integrata ambientale (Aia) da parte delle attività industriali ad alto potenziale inquinante, nonché alle Direttive sulla sicurezza e salute sul luogo di lavoro e sulla responsabilità ambientale. Mancava, inoltre, un censimento aggiornato di tutti gli impianti a rischio. Vennero arrestati, in questa occasione, i vertici dell’Ilva e della manifattura di Taranto: Emilio Riva, Nicola Riva, Luigi Capogrosso, Ivan Di Maggio e Angelo Cavallo, con l’accusa di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.

Nel 2013, tuttavia, il Governo Letta concesse la ripresa delle attività dell’azienda disponendone il commissariamento straordinario, poiché la chiusura dello stabilimento avrebbe avuto un impatto economico negativo di circa 8 miliardi per anno. Dopo la riapertura, comunque, continuarono le denunce di cittadini e ong contro le esalazioni inquinanti provenienti dall’acciaieria. La Commissione Ue invitò, allora, l’Italia ad adeguarsi alla nuova Direttiva Ied sulle emissioni industriali e i grandi impianti di combustioni, sostitutiva della Ippc, dopo che gli esami evidenziarono ancora un forte inquinamento dell’aria, delle acque e del terreno, sia nell’area industriale dell’Ilva, sia nelle zone abitative adiacenti alla città di Taranto. Condizioni mai migliorate.

L’azienda, già in dissesto, fu posta in Amministrazione straordinaria dal gennaio 2015 secondo la legge Marzano – contenente misure per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza -; i commissari straordinari si sarebbero occupati di risanare l’Ilva, sia a livello ambientale che economico, per poi rivenderla. Nel 2017, ArcelorMittal ha vinto la gara pubblica per assumere il controllo parziale dell’acciaieria, con un decreto siglato all’epoca con l’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Così l’azienda indiana-lussemburghese ha affittato l’impianto per poi acquisirlo, e ha avviato una fase negoziale con i commissari straordinari.

Lo scorso settembre – in seguito ad un secondo accordo con il successore di Calenda, Luigi di Maio – il gruppo indiano aveva presentato un piano industriale con investimenti da 4,2 miliardi di euro, secondo cui si sarebbe impegnata ad assumere ben 10.700 lavoratori, oltreché ad avviare entro il 2020 dei lavori per la copertura dei parchi minerari, responsabili della diffusione delle polveri. Accordo che rischia di essere ora messo in crisi.

I danni all’ambiente causati negli anni di operatività dell’impianto sono comprovati, la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo il 24 gennaio si è espressa di nuovo favorevolmente nei confronti di un ricorso di circa 180 tarantini accogliendo la richiesta e condannando l’Italia per non avere adeguatamente garantito la protezione ambientale e della salute, dunque l’immunità penale resta conditio sine qua non per l’acquisizione dell’acciaieria da parte di ArcelorMittal.

Pedofilia, quanto vale per la Chiesa la vita di uno scout violentato da un prete?

Confuso tra i fedeli sotto la pioggia e riparati dagli ombrelli, con in capo un berretto a quadri sopra lo zucchetto rosso da cardinale, c’era anche il cardinale Barbarin, poche settimane fa, all’udienza generale in piazza S.Pietro. Philippe Barbarin s’è autosospeso da arcivescovo di Lione nel marzo scorso in seguito alla condanna, in primo grado, da parte della giustizia francese (proprio mentre a Roma si teneva il summit vaticano contro la pedofilia) a sei mesi di reclusione con la condizionale per l’omessa denuncia degli abusi sessuali su minori perpetrati negli anni ’70 e ’80 durante i campi scout dal cappellano Bernard Preynat. Una decisione presa dopo che il papa, in un colloquio in Vaticano il 18 marzo, non ha accettato le sue dimissioni, per la relativa “presunzione di innocenza” in attesa dei successivi gradi di giudizio.

Il tribunale di Lione ha giudicato Barbarin «colpevole di non aver denunciato i maltrattamenti» a danno di un minorenne, ovvero di aver ostacolato le indagini, tra il 2014 e il 2015. Il porporato, il “Primate dei Galli”, tra le personalità più note e influenti della Chiesa d’Oltralpe, non era presente al momento del verdetto, ma i suoi legali hanno subito annunciato ricorso in appello lamentando una presunta pressione mediatica nei confronti dell’arcivescovo di Lione «con documentari e un film», invocando il «rispetto della giustizia». La portata dello scandalo ha profondamente scosso la diocesi di Lione e la Chiesa in Francia. Non senza ambiguità. Pierre Vignon, un sacerdote che aveva invitato Barbarin a dimettersi, «prendendo atto dei suoi errori», è stato sanzionato dalla gerarchia che lo ha rimosso con una decisione dei 12 vescovi della regione, ma lo scorso novembre una petizione che ne chiede la riabilitazione è stata firmata da oltre 100mila persone sulla scia di un appello lanciato da La Parole liberée, principale associazione di vittime di preti pedofili, diretta da Francois Devaux. Da parte sua Barbarin sostiene di non aver «mai cercato» di nascondersi «e tanto meno di coprire questi fatti orribili». Il 31 agosto 2015 aveva rimosso Preynat dalle funzioni, in accordo con la Santa Sede. «Ho fatto esattamente quello che Roma mi ha chiesto di fare», ha affermato, ma ha dovuto ammettere di essere stato “imprudente” quando nel 2011 nominò Preynat responsabile di una prefettura vicino Roanne: «Avrei dovuto dirgli di rimanere nell’ombra».

A Lione, intanto, il processo canonico di padre Bernard Preynat, accusato di violenza sessuale su dozzine di vittime minori, quarant’anni dopo è ancora in sospeso. Per questo la Chiesa tenta una procedura interna straordinaria che apre la strada a risarcimenti finanziari. La Curia vuole anche istituire presto una scala di compensazione in cambio, però, di sentenze pronunciate a porte chiuse.

Abusato da un prete, Stéphane Girard ha parlato per la prima volta pubblicamente dall’inizio della vicenda Preynat alla fine del 2015. Ora ha 49 anni e vive nel paradosso che la Chiesa è oggi la sua ultima speranza di risarcimento. Di fronte alla giustizia degli uomini, infatti, il suo caso è prescritto ma il diritto canonico consente di processare le violenze da parte di sacerdoti che rientrano nella categoria più ampia di reati contro il sesto comandamento: «Non commettere atti impuri», ovvero «Non commettere adulterio»…

«Il minimo adesso è che Bernard Preynat sia escluso. Per le riparazioni, spero che andrà oltre l’euro simbolico», ha detto la vittima al sito francese Mediapart. Girard è uno dei 70 bambini identificati dall’associazione La Parole Libérée, tra le prede sessuali di “Padre Bernard”, scout responsabile di Sainte-Foy-lès-Lyon dal 1972 al 1991. Il tempo ha anche giocato contro le vittime. Solo sette di loro erano in grado di diventare parti civili, i fatti venivano prescritti in modo criminale per gli altri. Parallelamente al processo, più di venti vittime hanno fatto ricorso per ottenere un secondo processo davanti al tribunale interno della diocesi.

Dopo oltre tre anni di colpi di scena, il processo canonico è ripreso a settembre e l’inchiesta canonica è stata completata alla fine di aprile. I denuncianti sono stati riconosciuti come “terzi”, vale a dire l’equivalente delle parti civili nella giustizia secolare, che apre la strada alla compensazione finanziaria. «Da allora, è il “silenzio radio”», dice Olivier Debize, una delle vittime.

Dietro le quinte, alcune vittime sono state informate sul calendario approssimativo, non dal tribunale ecclesiastico, ma direttamente dal padre Yves Baumgarten, responsabile della diocesi di Lione dal ritiro del cardinale Barbarin. Salvo contrattempi, la sentenza di Padre Preynat sarà consegnata entro due mesi, in piena estate. Quindi, il tribunale ecclesiastico deciderà l’importo del risarcimento assegnato a ciascuna vittima nei mesi successivi.

Perché è una delle maggiori sfide di questa giustizia parallela: quantificare il danno di anni di sofferenza per l’ex-Scout lionese. Alcune vittime hanno inviato le loro richieste al tribunale ecclesiastico. Senza una scala o una griglia, il calcolo è fatto nel modo migliore possibile per stimare i danni morali per loro e i loro parenti, il danno fisico in base alla durata degli abusi o alla cura terapeutica dopo anni di traumatismo.

Secondo varie testimonianze raccolte da We Report, collettivo di giornalisti indipendenti autori di una lunga inchiesta Église, la mécanique du silence (JC Lattès, 2017), chiederanno un minimo di 10mila euro a persona alla diocesi di Lione, per la sua responsabilità nella copertura degli atti di padre Preynat. Ma gli importi variano considerevolmente da un denunciante all’altro. Alcuni non hanno ancora quantificato mentre altre vittime ancora si rifiutano di farlo in linea di principio.

Pierre-Emmanuel Germain-Thill chiederà tra 50mila e 100mila euro. «Certo, è molto difficile da stimare. Ho aggiunto l’infortunio fisico e morale per oltre 30 anni. Ho usato droghe a causa del trauma, ho avuto delle spese mediche. Ho anche considerato i miei fallimenti scolastici, come il mio grado sei, l’anno dell’aggressione – spiega – è tutta una vita sprecata, codarda, fatture psicologiche o attestazioni di sua madre a sostegno. Non compra, ma la compensazione può aiutare a ricostruire». Un altro denunciante – che preferisce rimanere anonimo – vuole 100mila euro: «10mila dalla diocesi per non aver fatto ciò che è necessario per fermare il massacro di bambini innocenti, 90mila da padre Bernard, 50mila euro per il danno subito per diversi anni e 40mila euro per mancato guadagno nella mia vita professionale a causa di conseguenze psicologiche». Da parte sua, Bertrand Virieux, co-fondatore di La Parole Libérée, chiede 30mila euro. «10mila euro all’anno di esposizione a padre Preynat e 10mila per la responsabilità della diocesi», riassume. Violentato tra il 1978 e il 1981, questo cardiologo di Lione non poteva essere una parte civile nella procedura “laica” e ora si affida al processo canonico per girare pagina. Didier Bardiau non chiederà nulla per sé. «Mi è stato chiesto di dare un prezzo alla mia vita. Non possiamo crittografarlo». Quindi ha alzato il livello, senza voler rendere pubblica la cifra esatta per ora. Nel suo dossier inviato al tribunale canonico, chiede che il suo potenziale compenso sia pagato a beneficio delle associazioni: La Parole Libérée, naturalmente, ma anche Enfance et partage, Les Restos du cœur ed Emmaüs.

Una procedura che lascia dubbioso Laurent Duverger, ennesima vittima. «Potrei facilmente stimare i miei costi psicologici di follow-up. Ma un divorzio, una famiglia nell’aria, tre anni e mezzo di violenza sessuale, quanto valgono? Quanto valgono? Potrebbero valere molto, ma quella che sarebbe una grande vittoria è che Preynat perda già il suo status di sacerdozio».

Dalla fine dell’indagine, tutte queste vittime sono impazienti con la mancanza di informazioni. Le parti devono ora esaminare il caso, e poi sarà il turno dei giudici. Va detto che questo processo è fuori dall’ordinario. «È probabilmente il caso con la maggior parte di terzi da quando abbiamo restaurato l’Officialité, il tribunale ecclesiastico in Francia nel XIX secolo», spiega padre Bruno Gonçalves, presidente del tribunale e uno dei tre giudici che pronuncerà il giudizio a porte chiuse per padre Preynat. «Non ho mai visto così tanto della mia vita come avvocato. È un processo pioneristico».

Questa novità può in parte spiegare i sobbalzi, gli esperimenti, la lentezza di cui si lamentano le vittime, che hanno l’impressione di avanzare ciecamente. «Il diritto canonico ha i suoi limiti. È opaco, sembra che nessuno sia in grado di gestire questo tipo di procedura», dice Pierre-Emmanuel Germain-Thill con amarezza. Da parte sua, l’Officialité nega qualsiasi opacità o lentezza, ma riconosce la mancanza di formazione degli avvocati della chiesa e dei volontari accreditati dalle diocesi. Non si tratterebbe della routine consolidata degli accertamenti di nullità del matrimonio, come fanno in generale ma di fronte a questi limiti, François Devaux, co-fondatore di La Parole Libérée, teme che questo processo sia una «parodia della giustizia».

Una volta emesso il verdetto, inizierà una seconda fase del processo: la valutazione del danno. «La valutazione del danno prende in considerazione il pretium doloris [il prezzo del dolore], il dolore che la persona ha conosciuto e tutto ciò che c’è in termini di perdita di guadagno, come un incapacità di concentrarsi nel suo lavoro, un licenziamento, l’incapacità di costruire una relazione emotiva equilibrata, dettaglia il giudice. Siamo ben consapevoli che questo risarcimento sarà sempre inferiore alla sofferenza che le persone hanno conosciuto», giura Gonçalves. Esiste il precedente degli Stati Uniti, dove circa quindici diocesi dovevano andare in “bancarotta” per pagare il risarcimento delle vittime della pedofilia, raggiungendo talvolta importi da capogiro (quasi 3 miliardi di dollari in totale, secondo una stima del 2015).

Mentre il sistema giudiziario francese mette meno enfasi sulla compensazione finanziaria, i tribunali canonici potrebbero diventare un’area di rivendicazione per le vittime, con importi talvolta più alti di quelli ottenuti nei tribunali “laici”. In un caso precedente un sacerdote era stato condannato dalla Chiesa a pagare 80mila euro di danni a una vittima e 15 mila euro alla sua congregazione.

Al di là dei processi canonici, la Chiesa lavora sulla creazione di scale di compensazione per tenere conto anche delle vittime di fatti prescritti che non possono avviare alcuna procedura. Dallo scorso novembre è stata istituita una commissione di “compensazione” presieduta dal vescovo Delannoy, vescovo di Saint-Denis e vicepresidente della Conferenza episcopale francese per creare un protocollo di compensazione (tipo di fatti in questione, prove da presentare) sui modelli in auge in Germania o in Belgio dove, rispettivamente sono previsti 5mila o 20mila euro. Tanto vale una vita lacerata da un predatore sessuale con la tonaca. «Anche a Lione, dove padre Preynat deve essere giudicato, la gamma è compresa tra 10mila e 20mila euro», afferma padre Gonçalves. La Chiesa vuole accelerare il ritmo: «La commissione formulerà proposte che verranno registrate a Lourdes a novembre», assicura a WeReport il vescovo di Puy-en-Velay. Nel frattempo, verrà creato un fondo di compensazione comune alla Conferenza dei Vescovi di Francia (Cef, per i sacerdoti) e alla Conferenza dei religiosi e delle religiose in Francia (Corref, per le congregazioni).

Una questione rimane irrisolta a Lione: cosa fare se padre Preynat non potrà pagare questi benefici alla fine del processo? La giustizia canonica non ha mezzi di coercizione per far rispettare la sentenza. La diocesi di Lione prenderà in carico queste riparazioni?

 

 

Infanzia senza nido

Two little painters, preschool girls drawing funny picture at the wall, isolated on white

Sorvegliati in ogni aula, con telecamere finanziate dal decreto Sblocca cantieri, che da poco è diventato legge. I bambini e le bambine che frequentano gli asili nido italiani saranno costantemente filmati, per prevenire ogni abuso nei loro confronti. È quanto stabilito da un emendamento bipartisan che però non fa riferimento alcuno alle modalità d’utilizzo di questi dispositivi e soprattutto alla prevenzione dei soprusi attraverso la formazione continua del personale, temi delegati ad una legge in discussione al Senato. Il vicepremier Salvini ad ogni modo esulta: «Altra promessa mantenuta». Ma è sufficiente gettare lo sguardo oltre la propaganda per avere un quadro più amaramente veritiero riguardo il benessere psicofisico e la qualità della vita dei bambini che avrebbero diritto a frequentare l’asilo nido.

Il punto di partenza della nostra inchiesta è un dato del recente Rapporto Istat sulla povertà. La condizione di povertà assoluta che colpisce i bambini da zero a tre anni e la scarsità di asili pubblici dovrebbe impensierire il governo al pari della sicurezza tra le mura dei nidi. Nelle prossime pagine…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 28 giugno 2019


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Il governo “dimentica” un milione di bambini in povertà assoluta

Quasi un milione e trecentomila minori in Italia sono in una condizione di povertà assoluta. Questo dato giganteggia ai nostri occhi in queste settimane in cui si discute di procedura di infrazione, di debito e di illusori escamotage per rimettere in sesto i conti con strumenti di “finanza creativa” come i mini bot.

Così mentre Salvini spranga i porti e invita gli italiani a giocare al monopoli, lanciando l’ipotesi di una moneta parallela che potrebbe preparare la strada a una pericolosa Italexit, in un ampio dossier Left si interroga sul ricatto del debito pubblico, avanzando una proposta di europeizzazione del debito e di “recupero crediti” a cominciare dall’evasione, dall’elusione e dall’Ici non pagata dalla Chiesa fino al 2011. Questo articolato lavoro è il cuore del nuovo numero, ma per la copertina, come accennavo, abbiamo scelto un tema che a noi appare collegato e, se possibile, ancor più urgente. Left accende i riflettori su una realtà importantissima quanto trascurata: la condizione dei minori in Italia. Un quadro più che preoccupante emerge da uno studio di Openpolis che non si ferma a generiche percentuali ma le esamina Comune per Comune mostrando, dati analitici alla mano, l’aumento delle disuguaglianze. Due aspetti inquietanti balzano agli occhi: il primo è che l’ingiustizia sociale e la povertà colpiscono in maniera massiccia i più piccoli, specie al Sud, nelle aree più arretrate del Paese e fra i migranti. Il secondo è che questa condizione economica di indigenza si accompagna a una grave carenza di opportunità formative e di studio.

I bisogni e le esigenze di tantissimi bambini sono del tutto negati nell’Italia del 2019. La povertà è tutt’altro che abolita checché ne dica la propaganda giallonera. Ma anche il Reddito di inclusione concepito dal precedente governo di centrosinistra non è stato nemmeno una misura di tamponamento come appare del tutto evidente dai dati Istat che riguardano il 2018. E nessuno osserva la realtà dalla parte dei più giovani. I governi continuano a non preoccuparsi del loro futuro. Non c’è la volontà politica di investire nella scuola, nella ricerca, nell’università. Non se ne preoccupa il governo che propone la flat tax (“dimenticando” che la proporzionalità nella tassazione è un principio costituzionale), che demagogicamente propone condoni, che promette un reddito di cittadinanza offrendo di fatto solo un’elemosina vincolata all’accettazione di lavoretti che non permettono alcuno sviluppo di un proprio percorso, mentre il salario minimo di cui tanto i grillini parlano resta solo un miraggio e in ogni caso privo di un allargamento delle tutele.

«Compassionate conservatism», lo chiamava George W. Bush, che teorizzava l’elemosina contro ogni forma di welfare. Meno tasse, più mercato, più famiglia, da Bush al sovranista Trump la ricetta è sempre la stessa. E Salvini, che se ne frega dell’Europa («vedremo chi ha la testa più dura», dice), si genuflette agli Usa e alla Russia. Mentendo anche sul suo fatidico «Prima gli italiani», dacché se ne infischia bellamente della scuola. In Italia «il diritto ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare le proprie aspirazioni e talenti è privato o compromesso», denuncia Openpolis. E «i dati mostrano come povertà economica e povertà educativa si alimentino a vicenda». Il secondo comma dell’art. 3 che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana è disatteso. Ma anche l’ascensore sociale non funziona più. Serve una nuova politica di sinistra perché la scuola torni ad esserlo.

La scuola pubblica è “organo costituzionale” «ed è stata per decenni indirizzata a svolgere tale funzione: diversità come opportunità di crescita per tutti e tutte, confronto e “mescolanza” di provenienze sociali, culturali, geografiche, occasione di arricchimento reciproco, antidoto alla cristallizzazione delle disuguaglianze e delle marginalità, strumento di emancipazione individuale e di solidarietà sociale», ha scritto la docente Marina Boscaino, fra i promotori dell’assemblea nazionale del 7 luglio contro l’autonomia differenziata che sarebbe davvero il de profundis per la scuola pubblica.

Ps, dati alla mano: il bilancio pubblico dell’istruzione scolastica si riduce, a legislazione vigente, di 4 miliardi nel triennio, cioè di circa il 10%. Si passa da 48,3 a 44,4 miliardi nel giro di tre anni, con una riduzione delle risorse sia per l’istruzione primaria (da 29,4 a 27,1 miliardi di euro) che per quella secondaria (da 15,3 a 14,1 miliardi). A determinare la flessione contribuisce in modo decisivo la riduzione dei fondi per gli insegnanti di sostegno, un miliardo nel ciclo primario, 300 milioni in quello secondario

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 28 giugno 2019


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Farsa di Stato

"Aggiornamento dalla nave: la Guardia di Finanza è ancora a bordo e si attendono istruzioni. #SeaWacht3". Così un tweet pubblicato da Sea-Watch Italy, 26 giugno 2019. TWITTER SEA-WATCH ITALY +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Innanzitutto un chiarimento, necessario, ai troppi che si improvvisano esperti di diritto del mare. La capitana della Sea Watch ha deciso di entrare nelle acque territoriali italiane, dopo 13 giorni passati a bollire nel brodo di un’Europa addormentata e di un Salvini che abbaia, perché la legge dice così. Lo dice il diritto del mare e le leggi internazionali che la obbligano a puntare sul porto sicuro più vicino. Non è sicura la Libia e non è sicura la Tunisia (e chi non è d’accordo se ne faccia una ragione) e il porto più vicino non è quello che appare guardando le mappe senza conoscenza di ortodromia o di correnti o di venti. Non funziona così, no.

Se Sea Watch avesse puntato su un altro porto e nel viaggio fosse successo qualcosa, un malore mortale a qualcuno dei migranti, la capitana Carola Rackete avrebbe rischiato un’incriminazione per omicidio colposo. La capitana (e chiunque mastichi di leggi e di politica) sa anche che il decreto di Salvini vale per quello che è: un decreto del potere esecutivo emesso con criterio di urgenza. I decreti possono essere impugnati. Ben venga il processo se servirà a chiarire tutto questo.

Un’altra cosa: l’opposizione in Italia l’ha fatta di più la Rackete con il suo gesto che tutta l’opposizione (che infatti ora non fa altro che rimanere in scia). Il governo intanto impazzisce. Salvini frigge. Di Maio prova a giocare di sponda come un DC 2.0 continuando a farsi fagocitare e Conte non conta più di un’ombra su un vetro. C’è anche la Meloni, che in occasioni come queste riesce a dare il peggio di se stessa dicendo senza nemmeno il coraggio di dire.

Siamo noi gli scheletri. Mica quelli che arrivano. Siamo noi, che siamo già annegati da un pezzo.

Buon giovedì.

La Sea Watch forza il blocco navale e dà una lezione di umanità ai sovranisti #IoStoConCarola

«Basta, entriamo. Non per provocazione, per necessità, per responsabilità». Così, dal profilo Twitter della ong Sea Watch, Carola Rackete, capitana della la nave con a bordo 42 migranti, bloccata ormai da 14 giorni a 16 miglia da Lampedusa, ha annunciato che sarebbe entrata nelle acque territoriali italiane. «Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa. So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo», continua la capitana nel post. Poi il blocco è stato forzato e la nave si è avvicinata a Lampedusa.

La notizia è stata diffusa poco dopo le 14 dalla stessa Ong tedesca. «La situazione a bordo era disperata, siamo in stato di necessità, sappiamo cosa rischiamo». Ora, infatti, l’organizzazione rischia il sequestro della nave e una forte multa (fino a 50mila euro) in base al decreto sicurezza bis, entrato in vigore solo lo scorso 15 giugno e voluto fortemente dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. «Nessuna istituzione europea – ha aggiunto Johannes Bayer, presidente di Sea Watch – vuole prendersi la responsabilità e sostenere la dignità al confine dell’Europa nel Mediterraneo. Questo è il motivo per il quale ci siamo assunti la responsabilità per conto nostro. Entriamo nelle acque italiane dato che non è rimasta più nessuna altra opzione per assicurare la sicurezza dei nostri ospiti, i cui diritti fondamentali sono stati violati per un tempo sufficientemente lungo. Le garanzie dei diritti umani non devono essere condizionate ad un passaporto o ad alcuna negoziazione Ue: devono essere indivisibili».

Il 24 giugno, la Sea Watch aveva presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), dopo 12 giorni di blocco navale: i passeggeri e l’equipaggio richiedevano “misure provvisorie” per consentire lo sbarco dei migranti in Italia, con un provvedimento d’urgenza che permettesse di superare momentaneamente il decreto bis, al fine di poter presentare una richiesta di protezione internazionale. La Commissione europea era intervenuta chiedendo agli Stati di “trovare una soluzione”, ma Salvini aveva negato lo sbarco, intimando a Germania e Olanda di prendersi a carico i profughi. Per il ricorso, l’ong si era appellata agli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti umani: il diritto alla vita e il divieto a essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani e degradanti. Ma, il giorno successivo la Cedu lo ha respinto, indicando, comunque, «al governo italiano che conta sulle autorità del Paese affinché continuino a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità a causa dell’età o dello stato di salute che si trovano a bordo della nave».

Mentre Salvini esultava, gongolando del “sostegno” europeo, i 42 migranti a bordo della nave vivevano ore di profonda disperazione. Perfino i legali della ong tedesca, nella serata di ieri, hanno espresso «profondo sconcerto» per un verdetto «contraddittorio e problematico dal punto di vista dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali e della dignità dell’uomo». Trovano, difatti, illogico che la Corte abbia sollecitato l’Italia a fornire assistenza e cure mediche alle persone a bordo, dopo aver deciso di non concedere loro uno sbarco sicuro.

Intanto, in diretta Facebook subito dopo l’annuncio della rottura del blocco, Salvini ha dichiarato: «Useremo ogni mezzo lecito per fermare una nave fuorilegge, che mette a rischio decine di immigrati per uno schifoso giochino politico. Non darò l’autorizzazione allo sbarco a nessuno. Il comandante è avvisato: useremo ogni mezzo democraticamente concesso per bloccare questo scempio del diritto», rincarando poi la dose: «Mi sono rotto le palle di vedere l’Italia trattata come un Paese di serie B. Chi sbaglia paga. La nostra pazienza è finita. L’Olanda ne risponderà», dando alla capitana Rackete della «sbruffoncella che fa politica sulla pelle degli immigrati pagata non si sa da chi». Invero, anche ieri sera non aveva mancato di ribadire seccamente: «Per me la Sea Watch 3 può rimanere in mare fino a Natale o Capodanno, ma in Italia non arriva» e che, se la nave avesse deciso di violare il divieto di ingresso ed entrare in porto, sarebbe stata multata per 50mila euro e confiscata, nonché comandante ed equipaggio denunciati.

La Sea Watch ha lanciato una raccolta fondi rinforzata dall’hashtag #IoStoConCarola, per assicurare che la capitana abbia la tutela legale necessaria una volta fatta attraccare la nave a Lampedusa: «Se il nostro capitano Carola porta i migranti salvati dalla Sea Watch 3 in un porto sicuro, come previsto dalla legge del mare, affronta pene severe in Italia». Si è così subito messa in moto una gara di solidarietà nel Paese, per permettere alla ong di continuare ad operare e salvare vite umane. Intanto, nel corso di questi lunghissimi 14 giorni, in diverse città italiane, da nord a sud, numerosi sono stati i presidi di cittadini e attivisti per esprimere vicinanza alle 42 persone intrappolate sulla nave.