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Censurata la nostra copertina antimafia

Il 21 giugno scorso siamo andati in edicola con una copertina illustrata da Fabio Magnasciutti dedicata a tutti coloro che non si vogliono abituare all’idea di dover convivere con le mafie.

Ricordate la frase che il ministro Lunardi pronunciò nel 2001? «Con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi di criminalità ognuno li risolva come vuole». Ebbene, noi riteniamo che questa mentalità sia purtroppo ancora radicata in una certa parte politica del nostro Paese e che oggi come allora sia condivisa anche all’interno del Palazzo. E che contribuisca a dar forza al potere mafioso.

Rispetto a otto anni fa l’identikit del mafioso e la mappa del potere mafioso sono cambiati ma le conseguenze sul tessuto sociale del nostro Paese non sono meno devastanti. Ma c’è chi resiste e si ribella a questa idea inaccettabile di ineluttabilità.

Scrive la nostra direttrice responsabile, Simona Maggiorelli, nel suo editoriale:

La mafia più diffusa oggi non mette bombe, ma strangola silenziosamente la vita civile del Paese. Camorra, mafia e ‘ndragheta, le cui cosche proliferano anche fuori dalla Calabria sul modello delle attività in franchising. Si innestano sulla corruzione locale, vanno a braccetto con la politica “del fare”. Lo vediamo anche in queste settimane punteggiate di inquietanti casi di cronaca come quello che ha coinvolto Paolo Arata, arrestato con l’accusa di intestazione fittizia, con l’aggravante di mafia, corruzione e autoriciclaggio.

La mafia è una formazione storica e come tale si può combattere. Il pericolo maggiore è tratteggiarla come potere invincibile e onnipotente, perché involontariamente si rischia di fare l’apologia del fenomeno che si vuole combattere. Anche sotto questo riguardo l’esempio di Peppino Impastato rimane un faro. «Con la sua Radio Aut agì un uso corrosivo della satira come critica del potere, come sarcasmo per desacralizzare l’autorità del capomafia, la percezione popolare della sua onnipotenza» scrive Giovanni Russo Spena. Anche per questo era una spina nel fianco per la mafia che lo uccise il 9 maggio del 1978. Oggi la sua lezione va rinnovata ad ogni livello. Nel segno della memoria di Impastato, di Pio La Torre e di tutti coloro che hanno coraggiosamente combattuto la mafia sono nate, sparse in tutta la penisola, esperienze importanti di opposizione e resistenza. A vari livelli. 

Perché la lotta alla mafia si fa nel sociale come racconta Sabrina Certomà che è andata nel rione Sanità per raccogliere la testimonianza attiva dei ragazzi che si sono ribellati alla camorra dando vita alla cooperativa La Paranza. E si combatte a livello culturale. Lo scrive Gaetano Savetteri, direttore della coraggiosa rassegna Trame sui libri contro la mafia che questo fine settimana torna in piazza a Lamezia Terme, come tenace espressione di una opposizione civile all’ndrangheta; parliamo di un festival che è riuscito a far rialzare la testa al Comune calabrese, tre volte sciolto per mafia, diventando fucina di resistenza e punto di riferimento per tanti giovani.

Ed ecco titolo e catenaccio in copertina

CON LE MAFIE NON SI CONVIVE

Storie di giovani e di associazioni, di magistrati e di semplici cittadini. Storie di quotidiana resistenza, non solo culturale, alla criminalità organizzata. Contro la quale il governo della “sicurezza” combatte solo a parole

Tutto questo, non si capisce bene per quale motivo è risultato indigesto a qualche algoritmo di Facebook che oggi, improvvisamente, dopo cinque giorni dalla pubblicazione, ha eliminato dallo shop della nostra pagina ufficiale la copertina con la piovra del nostro Magnasciutti e il link alla versione digitale. Abbiamo chiesto spiegazioni fino a ora senza successo. Non è la prima volta che ci fanno uno scherzo del genere. Staremo a vedere.

Abituarsi all’orrore

Che la Sea Watch galleggi con 40 disperati ormai è una notizia che si perde tra le piccole notizie di cronaca nelle colonne laterali lì dove ci stanno i gattini e le donne seminude. È una notizia che è scivolata tra le notizie poco importanti, quelle quasi inutili, che non hanno nulla da dire e che non hanno nessun effetto sulle persone ormai a abituate a qualche disperato preso come feticcio da sventolare per un pugno di voti.

Pensateci bene. Qualche mese fa ci sarebbe stata la rivoluzione per una nave lasciata in mezzo al mare, sul limite delle acque territoriali. Avremmo avuto gente in piazza, indignazione un po’ dappertutto, urla in ogni via, persone disperate, voci alzate con sdegno. E invece oggi niente. Niente.

Le persone per sopravvivere ai loro piccoli dolori cercano di abituarsi a tutto. La chiamano resilienza ma in fondo è un’abitudine che salva per non soffrire troppo. Ci siamo abituati a disperati spersi in mezzo al mare perché ne abbiamo visti decine e oggi ci sembra che sia tutto normale, tutto nelle cose che devono succedere, tutto nelle possibilità che avvengono.

Ci abituiamo alle peggio cose. Facciamo di tutto per fingere che vada tutto bene. Riusciamo a rendere normali le cose già mostruose. Ci indignavamo fino a qualche settimana fa per le stesse cose che oggi accadono quotidianamente.

Così una quarantina di persone galleggiano nel Mediterraneo e noi diamo per scontato che sia una cosa normale, come se la bestialità del ministro dell’inferno Salvini possa produrre veramente l’abitudine alla ferocia, alla disumanizzazione e alla guerra contro gli ultimi.

Ed è una cosa da mettersi le mani nei capelli.

Buon mercoledì.

L’ideologia dei neonazisti? La birra

Se pensate che i neonazisti (così come i fasci 2.0 nostrani) siano figli di qualsiasi ideologia o di qualche nozione di storia calmatevi pure: questi sono villani che sono finiti per caso nel branco e che si eccitano per qualche agitata di manganello o per il brivido di sputare su qualcuno degli ultimi.

L’ultimo esempio arriva dalla Germania, dove nel paese di Ostritz questi patetici figuri avevano organizzato un loro festival neonazi (dal titolo “Lo scudo e la spada”, tanto per sottolinearne la modernità di pensiero) che è praticamente saltato perché era finita la birra. Avete letto bene: la birra.

In sostanza una dozzina di abitanti, saputo del ritrovo di questi patetici figuri, hanno comprato nel piccolo supermercato cittadino tutte le birre che c’erano a disposizione. A questo aggiungete che la polizia ha vietato la vendita di alcolici e quindi gli organizzatori hanno dovuto gettare tutta la birra acquistata (confiscati più di quattromila litri di birra oltre che coltelli: del resto chi non va a una festa armato di un coltello oggigiorno?) e i partecipanti hanno abbandonato la festa che è finita con un bel buco nell’acqua.

I neonazisti di oggi sono persone sole che hanno bisogno di stare nel branco, riempirsi la pancia di birra e annusare la possibilità di esercitare violenza. Di politico non hanno nemmeno la suola delle scarpe. Sventolano vessilli come fossero feticci solo perché lo fa il loro vicino di branco e si appendono a storie del passato perché sono incapaci di affrontare la complessità del presente. Per loro la politica è una gita fuori porta con i loro amichetti del cuore, niente di più.

E mentre falliva il festival delle teste rasate a Ostritz, le persone normali invece hanno organizzato una partecipata contro manifestazione alla quale hanno partecipato anche il governatore della Sassonia Michael Kretschmer e l’ex giocatore della nazionale tedesca Claudemir Cacau. Hanno posato per terra 2262 paia di scarpe, uno per ogni morto nel Mediterraneo l’anno scorso. Senza bisogno di birra. Buon martedì.

Riace, ineleggibile il sindaco vicino alla Lega?

Il nuovo sindaco di Riace Luigi Trifoli (D) viene festeggiato dopo l'avvenuta elezione, 27 maggio 2019. ANSA/MARCO COSTANTINO

Antonio Trifoli, il neo sindaco leghista del comune di Riace, non poteva candidarsi e di conseguenza essere eletto. Questo, almeno stando a quel che c’è scritto nell’art. 60 della D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, Testo Unico degli Enti Locali, in cui si stabilisce che: “Non sono eleggibili a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale:

il Capo della polizia, i vice capi della polizia, gli ispettori generali di pubblica sicurezza che prestano servizio presso il Ministero dell’interno, i dipendenti civili dello Stato che svolgono le funzioni di direttore generale o equiparate o superiori; nel territorio, nel quale esercitano le loro funzioni, i Commissari di Governo, i prefetti della Repubblica, i vice prefetti ed i funzionari di pubblica sicurezza; [3) nel territorio, nel quale esercitano il comando, gli ufficiali generali, gli ammiragli e gli ufficiali superiori delle Forze armate dello Stato;] nel territorio, nel quale esercitano il loro ufficio, gli ecclesiastici ed i ministri di culto, che hanno giurisdizione e cura di anime e coloro che ne fanno ordinariamente le veci; i titolari di organi individuali ed i componenti di organi collegiali che esercitano poteri di controllo istituzionale sull’amministrazione del comune o della provincia nonché i dipendenti che dirigono o coordinano i rispettivi uffici; nel territorio, nel quale esercitano le loro funzioni, i magistrati addetti alle corti di appello, ai tribunali, ai tribunali amministrativi regionali, nonché i giudici di pace; i dipendenti del comune e della provincia per i rispettivi consigli; il direttore generale, il direttore amministrativo e il direttore sanitario delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere; i legali rappresentanti ed i dirigenti delle strutture convenzionate per i consigli del comune il cui territorio coincide con il territorio dell’azienda sanitaria locale o ospedaliera con cui sono convenzionati o lo ricomprende, ovvero dei comuni che concorrono a costituire l’azienda sanitaria locale o ospedaliera con cui sono convenzionate;
i legali rappresentanti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale superiore al 50 per cento rispettivamente del comune o della provincia; gli amministratori ed i dipendenti con funzioni di rappresentanza o con poteri di organizzazione o coordinamento del personale di istituto, consorzio o azienda dipendente rispettivamente dal comune o dalla provincia; i sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali, provinciali o circoscrizionali in carica, rispettivamente in altro comune, provincia o circoscrizione”.
Nel caso di Riace, risulterebbe, anche dagli organi di stampa che hanno seguito la campagna elettorale, che il sindaco successore a Mimmo Lucano alla guida del comune di Riace, Antonio Trifoli, è dipendente dell’amministrazione di Riace a tempo determinato, con la qualifica di istruttore di vigilanza (vigile urbano). Inoltre veniamo a sapere che la giunta comunale, con delibera n. 28 del 26 aprile 2019 ha concesso a Trifoli l’aspettativa, non retribuita, per il periodo 27 aprile – 31 maggio 2019, al fine di consentirgli la candidatura a Sindaco della città.

Info qui > https://bit.ly/2IGzc5C

Ma Trifoli poteva avere l’aspettativa? Pare di no.

L’Aran (Agenzia per la rappresentenza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) ha stabilito che: «L’ente può concedere ai lavoratori, che ne fanno richiesta, periodi di aspettativa per esigenze personali o di famiglia. Sulla base della precisa formulazione della clausola contrattuale possono avvalersi dell’istituto solo i lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente esclusione dei dipendenti in servizio ma assunti:
– con contratto di lavoro a tempo determinato
;
– eventualmente, con contratto di formazione e lavoro, stante la sostanziale assimilazione, sotto il profilo regolamentare, di tale tipologia contrattuale al contratto a tempo determinato.
Tale esclusione si giustifica con la sostanziale inconciliabilità delle caratteristiche dell’istituto con le suddette finalità ed esigenze di impiego flessibile del personale che, invece, contraddistinguono tali particolari tipologie contrattuali (la necessità di approvvigionarsi di personale per poter fare fronte a proprie esigenze organizzative ed operative di carattere straordinario e temporaneo). È appena il caso di evidenziare che neppure possono avvalersi dell’istituto quei soggetti che non siano legati all’ente da un rapporto di lavoro subordinato, come nel caso dei titolari di un rapporto di collaborazione coordinata e continuata o, comunque, di altro rapporto di lavoro autonomo».

Stando alle norme citate, il dipendente a tempo determinato del Comune di Riace, Antonio Trifoli è ineleggibile alla carica di sindaco.

Alle recenti comunali, Trifoli guidava la lista civica “Riace Rinasce” che ha preso il 41% dei voti e nella quale figurano diversi esponenti leghisti, incluso Claudio Falchi il segretario della locale sezione di “Noi con Salvini”.

Adolescenti, soldi facili e camorra. C’è chi dice no

Miryam Cuomo ha 25 anni, gli occhi azzurri e sinceri. I capelli biondi e mossi ricadono sulla maglietta bianca, il tesserino dice: “Miryam, guida”. «Siamo nelle catacombe di San Gennaro, sulla collina di Capodimonte, un banco tufaceo formatosi circa 15mila anni fa», comincia a spiegare di fronte a una ventina di accaldati turisti italiani. Lo sguardo si posa sulle pareti bianche e irregolari illuminate dalle calde luci soffuse che evidenziano le asperità del tufo tutt’intorno. Un’enorme grotta bianca, in cui le voci e i passi rimbombano. Sulle pareti laterali migliaia di interstizi scavati da mani sapienti. «La pietra è facile da lavorare. Grazie al tufo è stato possibile scavare tre diverse basiliche su due livelli». Si passa dal VI al II secolo a.C., un viaggio all’indietro nel tempo.

Miryam racconta aneddoti sulle tipologie di sepoltura presenti: forme terranee, loculi, cubicola ricoprono tutta la pavimentazione. «Si seguiva il nervo tufaceo per scavare». Così si apprende che il rione Sanità era l’ala extra moenia della città. La necropoli passa da pagana a cristiana dopo l’arrivo delle spoglie del primo patrono di Napoli, Sant’Agrippino. Anche i resti di San Gennaro, prima di essere ospitati dal Duomo, erano qui.

Il tour con Miryam prosegue incalzante. Tre gallerie compongono la parte più antica: riproducono la struttura del centro storico di Napoli, la città dei vivi si riflette in quella dei morti. La frescura fa rabbrividire, all’oscurità bisogna abituarsi. La navata centrale si estende per una cinquantina di metri, costellata da altre tombe che potevano ospitare migliaia di corpi. Alcuni affreschi sono ancora visibili, degli uccelli e una croce.

All’improvviso ci si ritrova all’esterno, in un ampio spazio: la basilica di San Gennaro del V secolo, chiusa per 41 anni, ha riaperto il quartiere alla città. Da qui si può scegliere: uscire da dove si è entrati, o direttamente nel centro del rione. «Raccontare ogni giorno la storia della mia città e delle nostre catacombe a persone che non rivedrò più e che ci salutano appagate significa molto per me», Miryam si emoziona parlando di sé: «Ho iniziato lasciando la scuola e ora parlo più lingue, mi sono innamorata delle catacombe, e soprattutto del progetto». È nata sotto al ponte della Sanità, «un ponte che non collega ma che allontana». Il sogno di diventare attrice l’avrebbe presto portata lontano. Scopre un laboratorio di teatro nel quartiere e accede alle catacombe con delle visite teatralizzate. Le viene chiesto di diventare guida. «Io volevo andarmene, e adesso…

Il reportage di Sabrina Certomà prosegue su Left in edicola fino al 27 giugno 2019


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Nascono uguali, ma uno dei due è maledetto fin da subito

They are born equal, but then the curse is set” è lo slogan scelto dal maggiore sindacato islandese per la sua campagna di sensibilizzazione contro la disparità salariale: nella foto sono ritratti due bambini, un maschio e una femmina.

In Islanda la disparità salariale, a differenza di noi, è un tema talmente serio da essere già entrato nell’agenda politica. Non è un caso che la nazione venga citata negli ultimi anni come la migliore al mondo dal World Economic Forum. E non è questione di sensibilità, di cultura e di singole iniziative lasciate al buon cuore di ciascuno: fin dal 2017 in Islanda c’è una legge che costringe le aziende con più di 25 dipendenti di ottenere una certificazione di parità salariale. Chi non ottempera a questo dovere subisce delle sanzioni economiche. Sì, avete letto bene: una multa.

Ed è stata una donna (Vigdis Finnbogadottìr, prima donna presidente della Repubblica e rieletta per quattro mandati consecutivi, dal 1980 al 1996) a portare in Islanda tutte le riforme dedicate alle donne: dall’asilo nido gratuito fino a alle quote di genere istituite nei consigli d’amministrazione di aziende e istituzioni pubbliche, passando per il congedo parentale che viene equamente distribuito al padre e alla madre.

Tra i dati che vale la pena citare c’è che in Islanda, quando diventò un problema nazionale, la disparità salariale si aggirava sul 5/8% mentre in Italia siamo almeno al 10% e nonostante questo, il tema sembra interessare a pochi, come se non fosse un tema che incide fondamentalmente sulla salubrità democratica di un Paese.

E mi sono detto: pensa se proprio in un momento in cui sembra sdoganato il fastidio verso la donna che decide di lavorare qualcuno riesce invece a rilanciare ancora più forte sulle disuguaglianze tra uomo e donna nel mondo del lavoro. Pensa a un’opposizione che s’oppone anche proponendo temi dimenticati dal governo oltre che ripeterci che quegli altri sono cattivi. Tu pensa.

Buon lunedì.

Nella casa dei libri di Saramago

LANZAROTE, SPAIN - SEPTEMBER 30. Portuguese writer Jose Saramago poses during a portrait session held on September 30, 2002 in Lanzarote, Spain. (Photo by Ulf Andersen/Getty Images)

Il Vangelo secondo Gesù Cristo, uscito nel 1997 e che gli valse il Nobel, gli attirò le critiche feroci della Chiesa in Portogallo. Polemiche che spinsero Josè Saramago a lasciare per protesta il Paese e trasferirsi a Lanzarote, isola delle Canarie, la più scura, a causa delle ceneri vulcaniche che coprono la superficie, nella cittadina di Tias. Per raggiungere questa piccola città di poco meno di 20mila persone basta salire su di un guagua bianco in partenza dalla stazione di Arrecife, città principale dell’isola.

È un lunedì già estivo. Le vie della città sono vuote. Il tempo, la gente, sono calmi, lenti. Ci si gode ogni secondo, sotto un sole cocente che arriva diretto, coi suoi raggi. Una calura che fa rintanare, in una siesta lunga dalle 12 alle 17 del pomeriggio, molti degli abitanti. Mentre il bar sulla strada che porta alla casa è pieno. Un pensionato italiano sconsiglia di visitare la casa del premio Nobel. «Non è nulla di che. Vedrete solo libri» sancisce, tenendo in mano un romanzo giallo dell’Einaudi, la casa editrice che smise di pubblicare i libri di questo autore che, in un volume, espresse critiche troppo antiberlusconiane. «Non tutti i mali vengon per nuocere» commentò laconico in una intervista poco dopo la censura che lo condusse nelle braccia della Feltrinelli.

E, in effetti, la scelta di approdare proprio su questa isola delle Canarie, fu…

Il reportage di Shady Hamadi prosegue su Left in edicola dal 2 giugno 2019


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Polvere di Tangentopoli, come cambia la corruzione

Cosa resta del fenomeno di Tangentopoli? Quella marea di inchieste precipitò d’improvviso sul nostro Paese, sembrava la purificazione di Sodoma e Gomorra. Eppure, non ha trasformato, nell’Italia dei trasformismi, uno degli aspetti costitutivi del sistema: la corruzione. Secondo Raffaele Cantone, autorevole presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), incontrato da Left alla presentazione della Relazione annuale sull’attività svolta, spiega che «la corruzione di Tangentopoli era una sorta di finanziamento illecito “aggiuntivo” che interessava tutti i partiti e regolava la vita politico-istituzionale, tanto che perfino le tangenti erano suddivise con metodi da manuale Cencelli». E oggi? «Oggi la corruzione è pulviscolare: è minore per importi delle dazioni e spesso attuata da cricche senza altro orizzonte che il saccheggio delle risorse pubbliche a fini privati».

In effetti, da allora, se molto è cambiato, tuttavia la corruzione resta quella stessa lesione drammatica che il tessuto istituzionale, politico e sociale si trascina da sempre. Tangentopoli – con…

L’articolo di Stefania Limiti prosegue su Left in edicola dal 21 giugno 2019


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Storie di ’ndrangheta tra la via Emilia e il Po

Reggio Emilia e Cutro. Da un lato la città dei fratelli Cervi e della buona scuola, simbolo indiscusso della Resistenza. Dall’altro un paese dell’entroterra calabrese di appena diecimila abitanti, nella provincia di Crotone. Il caso reggiano si inserisce nel sistema delle riflessioni e degli studi sul fenomeno mafioso sotto un profilo inedito. Investe una città che possiamo definire esemplare, se la si colloca all’interno della più ampia storia sociale, politica, economica e culturale del Paese. Civiltà per antonomasia dell’“anti-metropoli”, Reggio Emilia è per tutti la città delle biciclette e dell’integrazione ben governata: un capoluogo di 172mila abitanti, contro il milione e 350mila di Milano, i due milioni e 870mila di Roma, gli 886mila di Torino e i 983mila di Napoli. Ma di qualità simbolica elevatissima, un modello divenuto materia di studio per sociologi, storici e politologi.

All’indomani delle prime stragi, a partire dagli anni Ottanta, furono le sue scuole, incoraggiate e sostenute dalle istituzioni politiche locali, a mobilitarsi per far conoscere il fenomeno mafioso. E a distanza di un decennio furono invece le sue cooperative a promuovere i prodotti nati sui terreni confiscati alle organizzazioni mafiose. Ancora una volta Reggio stava dando prova della sua rodata solidarietà, dimostrando una straordinaria attenzione per i diritti e le libertà collettive. Sino a quando, nello sgomento generale, l’immagine di una Emilia sicura e incontaminata iniziò a sgretolarsi. La mafia era giunta anche a Reggio, partendo dalla Calabria silenziosamente vi aveva messo radici già dai primi anni Ottanta.

E al cospetto dei boss i suoi anticorpi erano…

L’articolo di Federica Cabras e Nando Dalla Chiesa prosegue su Left in edicola dal 21 giugno 2019


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Storia di Rachid Assarag, l’ex detenuto espulso dopo aver denunciato decine di poliziotti penitenziari

Perché è stato espulso Rachid Assarag? Ma soprattutto, perché non gli consentono di essere presente in tribunale dov’è parte lesa? Anzi, nei tribunali. Per essere esatti, in questa storia, si parlerà di quelli di Firenze, Prato e Piacenza dove alcuni video – in quest’ultimo caso, forniti dall’amministrazione penitenziaria – hanno impedito alla procura di archiviare le denunce di Assarag.

Perché quest’uomo, cittadino marocchino di 45 anni, ha fatto il giro d’Italia delle prigioni. E delle torture. Per esempio a Firenze, Sollicciano, dove nel 2014, è stato assolto per aver aggredito un agente e per danneggiamenti a un cancello elettronico ma alcuni mesi dopo lui stesso ha denunciato tre agenti di custodia che ora sono accusati di «misure di rigore non consentite dalla legge», uno degli eufemismi per indicare la tortura o comunque gli abusi e le violenze che vengono commessi nelle prigioni del Belpaese, anche grazie alla cronica difficoltà di perimetrare la tortura nei fatti giudiziari complicata dalla discutibile legge varata nel luglio 2017 dal centrosinistra.

Da accusato ad accusatore
I fatti di Sollicciano: Assarag voleva uscire dalla sezione per depositare alla direzione una denuncia per fatti collegati al suicidio di un’altra persona detenuta (dal 2000, 1073 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, un terzo delle morti in carcere) ma l’agente di servizio lo bloccò. Lo stesso poliziotto, si legge negli atti, «ha descritto una condotta dell’imputato molto blanda e ha escluso che si sia verificata una colluttazione». Era il 29 agosto del 2014. Al processo, nel marzo di due anni dopo, il testimone, lo stesso agente “aggredito”, avrebbe ammesso di non aver avuto difficoltà a controllare Assarag, escludendo, «di fatto» una «qualche sorta di violenza». Tuttavia, due suoi colleghi, dalla sala dei monitor collegati alle telecamere, dissero di aver visto un film diverso in cui la situazione stava degenerando poiché «l’imputato stava esercitando forza» al punto da danneggiare la porta automatica. Per il giudice uno di quei testi «non è stato molto chiaro» al punto da impedire che emergesse la responsabilità penale dell’imputato. Il danneggiamento non c’è stato oppure, secondo la sentenza, c’è stato ma allora sarebbe solo doloso visto che Rachid stava facendo di tutto per formalizzare una denuncia.

Anche sulla resistenza, i pubblici ufficiali furono non omogenei nel testimoniare i fatti e il giudice fiorentino, «ai fini della valutazione dell’attendibilità intrinseca delle deposizioni dei testi» ricorda come Assarag sia gravato da numerose denunce per fatti analoghi e, a sua volta, abbia presentato numerose contro-denunce. Gli stessi agenti protagonisti di questo processo furono indicati da lui come responsabili di aggressioni nei suoi confronti. L’attendibilità dei secondini-testimoni fu minata dal fatto che non furono acquisite le immagini della videosorveglianza e le loro versioni non solo non erano sovrapponibili ma nemmeno compatibili.

Per questo il 4 marzo del 2016 Assarag fu assolto e pochi giorni fa, il 12 giugno, tre di quelle guardie carcerarie sono state raggiunte da un decreto di citazione diretta in giudizio per una serie di episodi di violenze e abusi commessi contro Rachid, il 29 dicembre 2014, in diversi luoghi del carcere, pianerottoli, infermeria, nella cella 5 della sezione Transito 1, «in concorso tra loro, e con altro agente allo Stato, non identificato, e dunque in più persone riunite, con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti al servizio». Pugni-calci-schiaffi «misure di rigore non consentite dalla legge», appunto.

Espulsione senza motivazione
Rachid Assarag dovrebbe testimoniare al processo, prossima udienza il 17 ottobre, come richiesto dalla stessa procura, ma finora non è potuto tornare in Italia. E nessuna risposta ufficiale è arrivata a fronte delle richieste dei suoi legali, Fabio Anselmo e Bernardo Gentile, del foro di Ferrara.

L’ultimo carcere in cui è transitato Assarag è quello di Sassari, carcere duro, al terzo posto per presenze di detenuti in regime di 41bis. Qui, l’uomo scontò la pena integralmente, senza alcun beneficio e, una volta liberato, fu immediatamente caricato su una volante ed espulso sotto gli occhi della moglie disperata. Era il 5 settembre 2017. Spiegano a Left i suoi avvocati che si trattò di una misura della Prefettura per «motivi imperativi di pubblica sicurezza», il più discrezionale tra i provvedimenti.

Perdipiù, secondo il Tribunale di Cagliari che l’ha annullata lo scorso 19 ottobre, quella mossa era totalmente infondata. Rachid ha una moglie italiana, si sarebbe potuto mantenere lavorando nella falegnameria di cui la donna è titolare e il documento di allontanamento era «privo di una effettiva motivazione in ordine all’attualità del requisito della “pericolosità sociale”» di Assarag, secondo i giudici cagliaritani della Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini nella Ue. Tutto ciò senza tenere conto «della sua situazione familiare ed economica», «compromettendo il suo diritto di difesa nei procedimenti penali in corso a suo carico» e nonostante le questure di Prato e Piacenza lo avessero autorizzato a rientrare temporaneamente in Italia per presentarsi in tribunale. Tuttavia l’Avvocatura di stato ha presentato appello contro l’annullamento e proprio il 21 giugno si terrà un’ulteriore udienza a Cagliari.

Stesso copione a Prato e Piacenza
Intanto anche a Prato, Rachid è stato prima assolto – e la sentenza è passata in giudicato – dalle accuse della polizia penitenziaria (la versione dell’agente che avrebbe subito la resistenza di Assarag «si palesa essere assai incerta», ha scritto il giudice in sentenza a febbraio del 2018, viceversa sarebbe stato proprio lui, secondo l’accusa, a schiaffeggiare il detenuto) mentre a gennaio 2020, inizierà un processo contro quattro agenti di polizia penitenziaria che lo hanno spintonato e poi pestato «in concorso tra loro e con altri quattro colleghi rimasti ignoti» – lo spirito di corpo sembra essere più importante della Costituzione in certi ambienti – perché avevano scoperto che il detenuto aveva un piccolo registratore appeso al collo. Altre botte anche mentre lo portavano in infermeria, così imparava a ribellarsi «al nostro ordinamento». E dopo le botte un po’ di bugie per montare contro Assarag un’ennesima denuncia per il possesso inesistente di un paio di forbici a punta «inducendo in errore i commissari che, sulla base di tale falsa rappresentazione dei fatti» lo denunciavano per resistenza a pubblico ufficiale.

La tiritera è sempre lo stessa: una serie di denunce da cui scaturiscono quattro-cinque-sei processi per sfiancare il detenuto ribelle, una sorta di mobbing giudiziario che ha visto repliche fedeli anche a Milano, Genova, Imperia. Ovunque le procure, anziché unirle, trattano quelle denunce “a puntate” ma intanto iniziano a procedere sulla base delle denunce di Assarag.

A Piacenza si attende fissazione udienza. In questo caso, sul banco degli imputati per lesioni aggravate ci sono tre agenti della polizia penitenziaria. L’accusa dell’uomo è di essere stato trascinato per i capelli fuori da una cella e di avere subito violenze ed essere stato anche picchiato. Gli agenti sostengono di essere intervenuti perché l’uomo si era barricato. Il pm, al termine delle indagini, chiese l’archiviazione del fascicolo, ma l’opposizione dei difensori, che hanno presentato un video di quei fatti, riportò la vicenda davanti al giudice. «Si tratta di denunce che disegnano un quadro terribile. Per questo è importante fare presto una inchiesta amministrativa e giudiziaria sulle denunce fatte e comunque proteggere l’incolumità di Rachid Assarag», disse all’epoca Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Le difese dei tre indagati invece affermano che non ci siano le prove, e che Rachid Assarag, che stava scontando una condanna di oltre 9 anni, era un detenuto molto problematico con almeno 13 trasferimenti da un carcere all’altro.

La pedagogia della violenza carceraria

Fin dal 2009 è stato trasferito in diversi istituti di pena, tra cui Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella, Piacenza, Bollate. Nel 2014 l’uomo denunciò di essere stato picchiato e minacciato in carcere dagli agenti di polizia penitenziaria quando era detenuto a Parma. La procura decise l’archiviazione nel 2016. «Non so se il sostituto procuratore lo ha fatto per ingenuità o irresponsabilità, ma parlare di lezioni di vita carceraria davanti a quelle registrazioni è peggio che confermare gli abusi – disse Luigi Manconi, a quel tempo, presidente della Commissione diritti umani del Senato – è la legittimazione ideologica e morale della violenza in carcere. Come se li avesse giustificati, legittimati e infine depenalizzati. Parlare di lezioni di vita carceraria è come dire che esiste una pedagogia della violenza. E questo già rende illegale e anticostituzionale quell’istituto».

Nel dicembre 2015 anche l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, avviò un’ispezione. Durante la detenzione a Parma Rachid Assarag registrò frasi e conversazioni degli agenti attraverso un registratore che gli procurò la moglie. Assarag è stato arrestato a giugno 2018 dopo un inseguimento con la polizia nel Comasco. Era tenuto sotto controllo dalla Digos dopo che non si era presentato a Piacenza all’udienza. Quando ha visto gli agenti vicino alla casa di sua moglie moglie, l’uomo è salito su una Opel Corsa ed è scappato a tutta velocità sulla statale Como-Lecco: all’altezza di Albavilla la sua auto si è scontrata con una vettura di passaggio e s’è ribaltata. Subito il rimpatrio in aereo da Venezia. Fabio Anselmo, legale in questa e altre vicende di malapolizia (Cucchi, Aldrovandi, Budroni, Magherini, ecc…) sostiene da allora che l’espulsione di Assarag, dipinto anche come estremista islamico, è legata alle sue denunce di violenze da parte di agenti di Polizia penitenziaria.