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Ora di religione, anche i sindacati confederali in ginocchio dai vescovi

Sedici anni fa la laicità della scuola pubblica segnò un deciso passo indietro. Con la legge 186/2003 il secondo governo Berlusconi regalò il posto fisso agli insegnanti di religione cattolica, che fino a quel momento, essendo la loro una materia opzionale, avevano al massimo contratti annuali. L’anno successivo ne furono assunti in ruolo circa 14mila, con quello che si può definire il più grande concorso per raccomandati mai visto in Italia. Per partecipare, infatti, occorreva avere il benestare del vescovo. È una delle clausole capestro del Concordato: chi è privo del nulla osta vescovile non può insegnare religione cattolica nella scuola pubblica.

A distanza di quindici anni c’è chi si sta battendo per un nuovo concorso per assumere a tempo indeterminato altri 5mila insegnanti di religione cattolica. Sono i sindacati confederati della scuola, Flc-Cgil, Cisl-scuola e Uil Scuola Rua, che unitariamente hanno deciso di ricorrere anch’essi alle raccomandazioni: hanno infatti chiesto il sostegno della Conferenza episcopale italiana, che li ha ricevuti il 4 giugno scorso organizzando per loro un incontro con il responsabile del Servizio Nazionale per l’Irc don Daniele Saottini. Dalle organizzazioni sindacali ci si aspetterebbe una dura battaglia contro le discriminazioni nei processi di selezione per le assunzioni nella Pubblica amministrazione. I sindacati confederali cercano invece nella Cei un alleato, sorvolando sul fatto che saranno i vescovi a selezionare i candidati al concorso. La conseguenza più evidente è un clientelismo che si innesta nella scuola pubblica, con l’immissione di docenti aderenti alla dottrina cattolica che saranno riconoscenti alla Chiesa che gli ha permesso di ricevere uno stipendio fisso, garantito e pagato dallo Stato fino alla pensione. Altra conseguenza, non meno grave, è legata ai criteri con cui i vescovi concedono il nulla osta necessario per partecipare al concorso. Si tratta di un vero e proprio controllo di moralità religiosa, con intromissioni nella vita privata dei cittadini volte a escludere candidati non graditi alle gerarchie ecclesiastiche.

Il posto pubblico viene così negato a chi non è battezzato, a chi non è credente, alle ragazze madri, a chi si è sposato in comune, a chi è unito civilmente o ha partner dello stesso sesso, a chi sostiene l’importanza diritti civili quali l’aborto, il divorzio, l’accesso ai contraccettivi e alla contraccezione d’emergenza. In altre parole, a chi ha condotte morali pubbliche in contrasto con gli insegnamenti della Chiesa. Non sono regole codificate in circolari del ministero dell’istruzione: sono criteri che si rintracciano nei documenti diocesani che trattano dell’ottenimento e del mantenimento dell’idoneità all’Insegnamento della religione cattolica (Irc). Il ministero si limita a recepire il verdetto dell’autorità ecclesiastica. Una situazione surreale, che ricorda regimi che impongono l’osservanza dei precetti della religione dominante. E che vede tutti gli attori della scuola voltarsi dall’altra parte: ministro, dirigenti scolastici, docenti e gli stessi sindacati preposti alla difesa dei diritti dei lavoratori. Non si è voltata da un’altra parte l’Uaar, che quando ne ha avuto la possibilità ha presentato ricorso contro bandi di concorso ad hoc per soli insegnanti di religione: il caso risale al 2017, quando la Giunta Raggi riservò 50 posti nelle scuole dell’infanzia di Roma a docenti preventivamente scelti dal vescovo. Il ricorso è ancora pendente, ed è volto a tutelare i diritti degli insegnanti generici per questi alunni dai 3 ai 5 anni di età. Insegnanti entro i quali il Vicariato avrebbe comunque potuto individuare, in un secondo tempo e secondo le norme vigenti, quelli disponibili a insegnare anche la religione cattolica.

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Roberto Grendene è il segretario nazionale Uaar-Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti

L’infinito mondo di Margherita Hack

20091008 - ROMA - CRO : SPAZIO: 'MAGNIFICHE SETTE' DELLE STELLE, DONNE PUNTATE IN ALTO. L'astrofisica Margherita Hack durante il convegno " Women and Space " , organizzato dall'universita' di Roma Tor Vergata all'Accademia dei Lincei oggi 8 ottobre 2009. Non cedere alla paura, seguire con passione le proprie aspirazioni e puntare sempre in alto: e' il messaggio che oggi da Roma lanciano alle donne le ''magnifiche sette delle stelle'', astrofisiche, astronaute ed esperte di meccanica celeste di fama internazionale. ANSA / ALESSANDRO DI MEO / PAL

Non osiamo pensare cosa sarebbe potuto succedere a Margherita Hack se fosse nata ai tempi della sua collega scienziata Ipazia di Alessandria. Come è noto, Ipazia nel 415 morì dopo esser stata rapita, seviziata, lapidata e smembrata in una chiesa dai parabolani, una sorta di guardia scelta del vescovo cattolico Cirillo (al quale il concilio di Costantinopoli del 553 riconobbe la santità per aver «predicato la retta fede dei cristiani»). Astrofisica, libera pensatrice e atea la nostra Margherita, astronoma, filosofa e pagana la sfortunata ricercatrice alessandrina. Ambedue donne, scienziate e non cristiane. Quindi streghe. Identità inaccettabili per una fede religiosa che, in quanto tale, si fonda sulla “impossibilità” della conoscenza (perché la risposta a qualsiasi domanda è sempre dio) e sulla negazione della realtà umana in generale, e più in particolare dell’identità di donna. Va detto che oggi, soprattutto in Italia, il pensiero dei gerarchi vaticani e dei loro sodali seduti in Parlamento non si discosta poi molto da quello fondamentalista che nel V secolo armò la mano degli assassini di Ipazia. Si pensi a uno qualsiasi tra gli ultimi papi o ai partecipanti al recente congresso di Verona sulla famiglia, i quali, convinti come sono che la vita umana inizi con la fecondazione e che l’embrione sia persona, non si peritano di definire assassini quei medici che permettono a una donna di abortire e costei la mandante del presunto omicidio di un’entità biologica. La Hack era ben consapevole dei “rischi” che correva esponendo senza riverenze il suo pensiero e come era nella sua indole ci scherzava su. «Il bosone di Higgs? Io lo chiamo addirittura dio» ci disse, ridendo, nel commentare la grande scoperta avvenuta al Cern di Ginevra nel 2012.

Mentre, più seriamente, sul testamento biologico bloccato in Senato nel 2011 da chi dette dell’assassino a Beppino Englaro per la sua battaglia affinché fosse riconosciuto a sua figlia Eluana il diritto di non essere sottoposta ad accanimento terapeutico e lasciata andare: «È una barbarie – ci disse la Hack – che lo Stato imponga a una persona di restare in stato vegetativo e di essere “alimentata” forzatamente. Si deve essere liberi di scegliere se rifiutare una vita che non è più umanamente tale. La libertà dell’individuo va rispettata». E a chi come noi, le chiedeva se non avesse timore di affermare pubblicamente certe cose, rispondeva: «Io sono atea, non penso ci voglia un gran coraggio…ai tempi di Galileo forse ci voleva il coraggio… oggi nessuno mi manderà al rogo». Questa era Margherita Hack quando non si trovava a rimirar le stelle dal “suo” Osservatorio di Trieste (che ha diretto per 23 anni fino al 1987) o ad insegnare astronomia a dei fortunatissimi studenti universitari. Ma ovviamente non solo questa era la splendida scienziata nata a Firenze il 12 giugno 1922 e morta a Trieste il 29 giugno di sei anni fa a 91 anni, che in queste pagine vogliamo ricordare con Carlo Flamigni, Piergiorgio Odifreddi e Carla Corsetti. Perché Margherita era anche fieramente antifascista dopo esser stata balilla come tanti suoi coetanei: «Si era tutti nazionalisti, si andava alle adunate, si faceva sport, ci si divertiva un mondo. Sono stata fascista fino al ’38, fino al giorno in cui entrarono in vigore le leggi razziali «raccontò nel 2006 a Laura Terenzi che la intervistava per Repubblica. «Avevo una professoressa di scienze bravissima, si chiamava Enrica Calabresi, con un centinaio di pubblicazioni al suo attivo, che era ebrea e da un giorno all’altro non venne più a scuola. Cercammo di informarci, di sapere che cosa le era capitato e solo dopo la guerra venimmo a sapere che era stata rinchiusa a Santa Verdiana, il carcere femminile di Firenze, e venti giorni dopo morì suicida: si avvelenò».

Chissà cosa direbbe oggi Margherita Hack della guerra dichiarata dagli ultimi due governi alle Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo e dei decreti sicurezza voluti da Salvini… «Margherita fu balilla come me, in un certo senso abbiamo avuto tante cose in comune e fatto una vita in parallelo ad iniziare dai successi nello sport al liceo. Lei fu addirittura una campionessa di salto in lungo e salto in alto, lo sapete no?» racconta il ginecologo e “padre” scientifico della fecondazione assistita, Carlo Flamigni. A quei tempi per i bambini non c’era scelta ma già in età adolescenziale entrambi seppero con chiarezza da che parte stare: antifascisti e atei (nonché in epoca più recente entrambi presidenti onorari della Uaar-Unione degli atei e agnostici razionalisti, insieme a Piergiorgio Odifreddi che sentiremo più avanti). «È sempre stata una donna abituata ad essere molto indipendente, sin da ragazza – prosegue Flamigni che in questi giorni ha pubblicato un nuovo libro, un romanzo storico per Ponte vecchio dal titolo Orgoglio e povertà. Ovvero: la politica sognata dai poveri -. «Sono donne come Margherita Hack che hanno messo in moto il meccanismo che oggi ha reso un gran numero di donne indipendenti, piene di dignità, consapevoli del loro ruolo». E lo ha fatto da atea. «Lei era una che rispettava la religione altrui, ma esigeva di poter essere atea senza che nessuno la guardasse come se fosse un mostro e cercasse di convertirla. Fare proseliti è una mancanza di rispetto per le persone che non ha eguali. Anche questa certezza ci rendeva simili. Ma non siamo soli. Guardando all’Italia di oggi, io dico che possono fare tutti i tentativi che vogliono con i Fertility day o i congressi di Verona, tuttavia è innegabile che un gran numero di ragazze vuol essere prima una donna e poi, semmai, una madre». Il congresso veronese del marzo scorso di cui tanto abbiamo parlato su Left – frequentato da diversi ministri, sottosegretari e parlamentari e cassa di risonanza di un’idea di società e soprattutto di donna sovrapponibile a quella propagata durante il Ventennio – riconduce immediatamente il discorso e la memoria all’impegno politico dell’astronoma toscana. «Negli ultimi decenni – racconta Flamigni – avevamo in comune l’insoddisfazione profonda per la s…

L’articolo di Federico Tulli prosegue su Left in edicola dal 21 giugno 2019


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25.000 euro di scuse, direttore Feltri

Vittorio Feltri alla presentazione del libro di Gennaro Sangiuliano "Putin. Vita di uno Zar", Milano, 21 dicembre 2015. ANSA/MOURAD BALTI

Notizia che non leggerete mai sui giornali oggi e nemmeno nei giorni a venire. Vittorio Feltri (sì, proprio lui), è stato condannato a pagare 25.000 euro di risarcimento nonché la deincizzazione dell’articolo diffamatorio (cioè, farlo sparire dal web) per avere ingiustamente offeso la cooperativa Intrecci che si occupa, guarda caso, di accoglienza.

La sentenza è del 13 giugno. Il testo, che faceva riferimento in modo particolare all’accoglienza di persone richiedenti asilo, era corredato da una tabella in cui si citava esplicitamente, tra le altre, proprio la cooperativa della Caritas che ha sede a Rho (Milano). Ebbene, rende noto la Caritas ambrosiana in una nota, il giudice, nel dispositivo della sentenza, ha riconosciuto che il titolo del quotidiano Libero, di cui è direttore editoriale Vittorio Feltri, ha volontariamente ricercato l’offesa gratuita nei confronti di chi “lecitamente percepisce contributi per lo svolgimento di essenziali attività d’assistenza”.

Libero è stato condannato, nella figura del suo direttore, in riferimento “alla derisione ed insinuazione del carattere para-delittuoso del ricevimento di fondi per lo svolgimento delle attività” della cooperativa che invece ha sempre svolto il proprio lavoro nei termini di legge.

Ma la notizia della condanna, credetemi, non la leggerà e non la scriverà nessuno. Rimarrà sepolta tra le notizie non date, e fingeranno di non saperlo, di non accorgersene.

E invece mi sembra un’ottima notizia che una bugia venga ripagata. No?

Buon venerdì.

Usa-Israele, a che punto è l’Accordo del secolo per la colonizzazione della Palestina

L’amministrazione Usa finge che ci sia ancora confusione e poca chiarezza attorno al progetto di pace tra Israele e Palestina elaborato dal presidente Donald Trump, noto come “L’accordo del secolo”.

Questa strategia rientra nella cosiddetta divisione di ruoli e compiti tra Washington e Israele. In questo senso, gli sforzi del governo israeliano si concentrerebbero soprattutto sul come colonizzare ed espandere la propria influenza sui territori della Cisgiordania occupata, portando avanti il progetto della ‘Grande Israele’. Questo prevede la piena sovranità israeliana su tutti i territori palestinesi dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, con l’eccezione della Striscia di Gaza. Questo è confermato dai media israeliani: i blocchi di insediamenti come sono oggi rimarranno nelle mani di Israele e ad essi andranno ad aggiungersene gli altri. Le aree dei blocchi cresceranno in base all’area coperta dai singoli insediamenti, ai quali sarà aggiunta la gran parte dell’area C, che corrisponde al 67% della Cisgiordania.

Gerusalemme è stata riconosciuta come territorio sovrano israeliano dagli Stati Uniti che successivamente, come elemento rafforzativo, vi hanno trasferito la propria ambasciata fino ad allora sita a Tel Aviv. Gli israeliani saranno responsabili sul piano amministrativo delle aree di Gerusalemme: ciò significa che i palestinesi pagheranno al comune di Gerusalemme qualunque tipo di tassa (acqua, elettricità e sicurezza….).

L’attenzione dell’amministrazione Usa si focalizzerebbe da un lato, nel far accettare ai Paesi arabi l’annessione della Cisgiordania ad Israele, convincendoli ad abbandonare definitivamente il principio della ‘Terra per la pace’, ovvero la soluzione dei due Stati basati sui confini del 4 giugno 1967, con Gerusalemme Est capitale dello stato palestinese; dall’altro, nel convincere Israele a riconoscere una relativa autonomia agli abitanti palestinesi di alcune zone nella Cisgiordania, i quali rimarrebbero comunque soggetti senza sovranità all’interno dello stato israeliano.

In realtà, gli Usa stanno procedendo con il loro progetto a 360 gradi infatti, dal punto di vista politico con la conferenza di Varsavia e, dal punto di vista economico, con l’imminente conferenza di Manama, cercano di normalizzare l’annessione della Cisgiordania a Israele e l’esistenza stessa dello Stato Ebraico.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, l’amministrazione Usa ha tagliato gli aiuti all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, riconoscendo l’annessione del Golan come territorio sovrano israeliano e, in ultimo, gli Stati Uniti sono disponibili a fornire le condizioni economiche (attraverso donazioni economiche sia da parte dei Paesi arabi, che dal mondo occidentale) ai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza per persuaderli ad abbandonare il loro progetto di costituzione di uno stato indipendente.

Questo progetto è stato descritto da alcuni funzionari della squadra di Jared Kouchner (genero di Trump, suo consigliere politico e responsabile dell’operazione) come “un piano equo, realistico e attuabile, che consentirà alle persone palestinesi di migliorare la propria condizione economica”. Le nazioni che supporteranno finanziariamente l’implementazione di questo accordo sono USA, Unione Europea e gli stati del Golfo produttori di petrolio.

Queste nazioni forniranno 25 miliardi di dollari nel corso di cinque anni per la realizzazione del progetto.

Stati Uniti ed Israele hanno capito che per realizzare questo progetto dovranno adottare “un approccio non convenzionale, basato sul non nascondere le carte in tavola, ma ricorrendo invece all’apertura”. Inoltre, hanno intenzione di intensificare la loro coordinazione a livello politico, per creare ed imporre le condizioni che spingano all’accettazione del progetto di Trump, contrastando eventuali reazioni che ostacolerebbero l’imposizione del piano secondo la visione degli Stati Uniti.

Così, per smorzare qualsiasi reazione palestinese e araba o internazionale che possa impedire l’attuazione del progetto, saranno attuati sia con le minacce e le sanzioni: gli USA cancelleranno tutti i finanziamenti a loro favore e faranno in modo che nessun’altra nazione nel mondo trasferisca denaro ai Palestinesi. Inoltre, i loro leader saranno ritenuti responsabili di violenza con possibili ritorsioni da parte di Israele con il sostegno degli Stati Uniti. Sono già stati attuate sanzioni nei confronti dell’Iran e di Hezbollah e la minaccia continua non solo nei confronti di questi ultimi ma anche contro numerosi altri Paesi, perfino la Russia e la Cina.

Una delle più importanti misure nordamericano-israeliane è quella concordata nell’incontro annuale del gruppo antiterrorismo USA-Israele, che ha iniziato il suo lavoro il 16 aprile 2019. L’incontro è stato descritto come il più lungo dialogo tra i due stati al fine di combattere il terrorismo e affrontare le minacce comuni, come Iran ed Hezbollah, sviluppando strategie che rafforzino la cooperazione in questi ambiti critici.

L’ambasciatore Nathan Sills, coordinatore antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano che ha guidato la delegazione Usa in questo dialogo strategico con Israele, ha definito tale missione parte di “misure preventive per contrastare le prospettive di un rifiuto da parte palestinese della proposta Usa”.

L’ambasciatore ha riconosciuto che gli Stati Uniti si stanno preparando per la possibilità di una effettiva resistenza al piano; in questo senso, non è sorprendente la visita di Sills presso la barriera tra Israele e la striscia di Gaza, in cui sono stati ascoltati i pareri e le aspettative degli ufficiali dell’esercito israeliano sulla situazione lungo il confine con la striscia di Gaza.

È possibile lanciare un’aggressione contro la Striscia di Gaza all’interno di quelle misure preventive americano-israeliane? Di sicuro, Stati Uniti e Israele si impegneranno nel rovesciamento dell’Autorità Palestinese, bloccandole finanziamenti e qualsiasi tipo di sostegno nel mentre cercano un’alternativa politica locale.

Riuscirà l’amministrazione Trump a imporre l’accordo ai Paesi arabi e ai palestinesi, tenendo in considerazione gli aspetti politici ed economici (ma sapendo anche che tutti i palestinesi rifiutano completamente e sono contro questo progetto)? Riuscirà a far accettare ai Paesi arabi la soluzione dello stato ebraico su tutta la Palestina?

Il progetto nordamericano prevede un sostegno finanziario per placare le rivendicazioni dei palestinesi: questa strategia è finalizzata da un lato, a forzare i palestinesi ad accettare lo status quo, sia che si trovino nella Cisgiordania, o nella striscia di Gaza; dall’altro, a proseguire il lavoro di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e i Paesi arabi, allo scopo di creare un’alleanza congiunta contro l’Iran, con lo slogan della guerra al terrorismo.

Questa soluzione, derivante dall’attuazione del contenuto della legge nazionale ebraica emanata dalla Knesset nel luglio 2018, mette i palestinesi della Cisgiordania di fronte ad una delle due opzioni: o accettare di abbandonare il sogno dell’identità, della terra e della sovranità e vivere all’interno dello stato di Israele sotto sovranità Israeliana, con al massimo una autonomia nelle aree sparse; o fuggire all’estero, e dimenticare tutte le rivendicazioni arabe e palestinesi di uno stato autonomo formato dai territori occupati il 5 giugno 1967, con Gerusalemme est capitale.

Netanyahu, anche se non è riuscito a formare il nuovo governo israeliano, ha sciolto la Knesset (il parlamento israeliano) e così Israele andrà a nuova elezione il prossimo 17 settembre.

Netanyahu sarà probabilmente confermato alla guida del Paese. A dirlo è la maggioranza degli israeliani che si è espressa alle elezioni del 9 aprile scorso. Inoltre, è ben noto il sentimento antipalestinese e razzista che determina un’opinione comune favorevole all’annessione della Cisgiordania allo Stato ebraico. Tutto lascia pensare che, come sempre Israele, sarà governato da forze di estrema destra, nazionaliste e apertamente razziste.

D’altronde, è plausibile che Netanyahu farà di tutto per lasciarsi alle spalle le proprie vicende giudiziarie, ricevendo il sostegno degli Stati Uniti che hanno nell’attuale premier il loro migliore alleato. Il primo ministro israeliano è ora ansioso di accelerare l’espansione e l’annessione dei territori situati nell’area C della Cisgiordania. Le reali decisioni americane del progetto e i suoi obiettivi sono stati tralasciati e non è stato rivelato il progetto nel vero senso della parola: la questione dei profughi, quella di Gerusalemme, degli insediamenti, temi che sono stati tralasciati delle alture del Golan. Due mesi fa , nel forum della rivista Time, Jared Kouchner, ha annunciato che avrebbe svelato il suo piano per “la pace in Medio Oriente” all’inizio di giugno, cioè alla fine del mese del Ramadan, dopo la formazione del nuovo governo.

Quando è stato domandato a Kouchner se il progetto del secolo si basa sul principio “soluzione a due Stati”, ha insistito dicendo che il progetto si concentra sulla situazione economica dei palestinesi e sulla questione della sicurezza di Israele.
Ciò significa che Kouchner e ciò che rappresenta hanno trascurato l’equazione “terra per la pace” in favore del “miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi in cambio della resa”.

Friedman, continua a dire anche in questi giorni, che Israele deve annettersi la Cisgiordania perché ne ha il diritto. Kushner continua a lavorare per la conferenza economica nel Bahrain dicendo: “I leader arabi finanzieranno l’accordo del secolo e lavoreranno per eliminare i diritti e le aspirazioni dei palestinesi, i profughi palestinesi sono reinsediati nel luoghi attuali”. Ma per evitare che si diffonda frustrazione e disperazione, questo “accordo”, nonostante le sue grandi sfide e i rischi reali che esso pone, viene presentato come uno dei tanti tentativi americani di riappacificare la situazione. In realtà, si tratta dell’ ennesimo tentativo di imporre la resa del popolo palestinese, che ha come obiettivo ultimo le realizzazione della “Grande Israele Ebraica”. La violenza, la forza e il razzismo predominano sulla storia. Questo concetto è basato sul fatto che “l’arabo è sottomesso alla forza” e “ciò che non è ottenuto con la forza viene raggiunto con maggiore forza “, ma quale sarà il risultato? Secondo la storia reale del conflitto in un secolo o più, il popolo palestinese ha resistito e combattuto e non si è mai arreso: è emerso dalle macerie della catastrofe del 1948 e la sconfitta del 67, e ha ripreso la marcia e rivoluzioni; passando numerose fasi dalla battaglia di “Al-Karama “, a eroici atti interni e esterni alla Palestina, alla mitica fermezza di Beirut, alla rivolta popolare del 1987 e all’Intifada del 2000; alla sconfitta delle guerre di genocidio e distruzione nella Striscia di Gaza e le continua lotta e resistenza che negli ultimi anni ha confermato la persistenza di questo popolo, i diritti nazionali e storici, di non arrendersi nonostante lo squilibrio del bilancio delle forze.

Pertanto, come possono Kouchner, Greenblatt, Bens, Pompio, Bolton e Friedman prevedere che questo popolo, che ha un’identità nazionale profondamente radicata, nonostante la sua dispersione forzata, in ricordo di una società disobbediente, unita da obiettivi liberali che hanno modellato e continuano a governare la sua lunga lotta nazionale e il suo motore, possa arrendersi?

L’insistenza Usa oggi sullo smantellamento della struttura dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è solo un’illusione: come può avvenire ciò adesso che ci sono più di 5 milioni di persone quando ciò non avvenne, dopo l’aggressione del 1967, che erano poco più della metà? Rimanevano in piedi quando contavano 150.000 abitanti dopo il 1948, e ora 1,7 milioni? Ancora allo stesso modo, è possibile che circa 6 milioni di rifugiati abbandonino il loro diritto al ritorno con il loro sangue e il loro sacrificio, nonostante i 70 anni di amara vita di diaspora e asilo?

Di conseguenza, un secolo di conflitto non ha prodotto una equazione o formula (pienamente vittoriosa o completamente sconfitta), quindi come può il team di Trump aspettarsi la resa dell’intero popolo palestinese, ora 13 milioni che ha tutta la volontà di resistere? Questo non significa che i 25 anni di negoziati di Madrid e di Oslo non hanno permesso di raggiungere ai successivi governi di Israele quello che cercavano sotto gli auspici degli Stati Uniti, senza negare il risultato di questo sterile percorso negoziale di confusione, rovina e divisioni distruttive.

Il filo comune di tutti i colonialismi che adottano la stessa equazione è la forza, la repressione e l’oppressione nei confronti di popoli costretti ad arrendersi: mentre i popoli liberi, in primo luogo quello palestinese, considerano i loro sacrifici nient’altro che una tassa per la libertà e l’indipendenza. Allo stesso modo l’esperienza di tutti i popoli che sono stati colonizzati e che hanno combattuto e vinto, in quanto il colonialismo non è altro che un progetto basato sul profitto e quindi conserva in sé stesso, dalla nascita, la sconfitta. E l’occupazione «israeliana» qui non fa eccezione.

Non accettiamo di convivere con la mafia

La tv ci ha abituato a pensare la mafia secondo un modello La piovra. Sceneggiati e film hanno alimentato per anni un immaginario di scoppole, lupare, attentati e stragi. La mafia certamente è criminalità, violenza, ricatto, logica identitaria del sangue, manifestazione di arcaicità, legata alla famiglia, ad un’idea patriarcale di onore, alla religione. Ma da tempo ormai le organizzazioni mafiose lucrano ed esercitano un potere criminale in modo multiforme, mimetico, più difficile da individuare a prima vista. Insinuandosi ai più alti livelli della finanza, nei cicli produttivi, nel governo del territorio, in modo diffuso, capillare, “normale”.

Trovando un terreno di coltura non solo nelle aree geografiche più arretrate e depresse del sud, ma anche a Roma (basta pensare a Mafia capitale) e nel ricco nord dove è egemone l’ideologia neoliberista del profitto ad ogni costo, della speculazione, della deregulation, dove più estesa è la finanziarizzazione dell’economia.

Perfino in una Regione una volta rossa come l’Emilia Romagna e in una città come Reggio Emilia è arrivata la lunga mano della malavita organizzata, come raccontano in questo sfoglio Nando Dalla Chiesa e Federica Cabras, autori di Rosso mafia (Bompiani).

La mafia modello siciliano, quella della trattativa con agganci ai piani alti dello Stato non rappresenta l’intero, lo spiega bene Giuseppe Pignatone con Michele Prestipino in Modelli criminali, mafie di ieri e di oggi, da poco uscito per Laterza, e su questo numero Francesco Forgione, che è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia dal 2006 al 2008.

La mafia più diffusa oggi non mette bombe, ma strangola silenziosamente la vita civile del Paese. Camorra, mafia e ‘ndragheta, le cui cosche proliferano anche fuori dalla Calabria sul modello delle attività in franchising. Si innestano sulla corruzione locale, vanno a braccetto con la politica “del fare”. Lo vediamo anche in queste settimane punteggiate di inquietanti casi di cronaca come quello che ha coinvolto Paolo Arata, arrestato con l’accusa di intestazione fittizia, con l’aggravante di mafia, corruzione e autoriciclaggio. (Parliamo di un politico che ha contribuito alla scrittura del contratto di governo!). La mappa dei casi analoghi è ampia e drammatica, la tratteggia qui Giulio Cavalli spigolando nelle vicende della Lega, sulla quale ancora grava la scandalosa vicenda dei 49 milioni spariti.

Ricordiamo che il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il 25 aprile ha disertato la festa nazionale della liberazione del nazifascismo per andare a Corleone, ipse dixit, a combattere la mafia. Ma il ministro che si è fatto fotografare in una piscina sequestrata a dei mafiosi, poi con il decreto sicurezza e immigrazione ha fatto sì che i beni sottratti alla criminalità organizzata possano andare all’asta ed essere acquistati dal miglior offerente. L’uso pubblico delle ricchezze accumulate dalle mafie non è una priorità per questo governo che, anzi, preferisce svenderli offrendoli così su un piatto d’argento ai malavitosi che, attraverso prestanome, possono agilmente tornarne in possesso. Lo avevamo denunciato fin da quando circolavano le prime bozze del provvedimento poi diventato legge. Torniamo ora ad approfondirne le gravissime conseguenze.

Il 18 giugno sono stati arrestati i responsabili di un’impresa impegnata nei lavori di demolizione del ponte Morandi. Ci sarebbero le mani della camorra. Certo non aiuterà la lotta alla criminalità organizzata l’aver sospeso per due anni il Codice degli appalti, come il governo giallonero ha fatto varando lo Sblocca cantieri. Su questo il presidente dell’Anac Raffaele Cantone è intervenuto subito con parole chiare e qui, intervistato da Stefania Limiti, dichiara: «La corruzione è pulviscolare e spesso attuata da cricche senza altro orizzonte che il saccheggio delle risorse pubbliche a fini privati». La lotta per contrastarla dunque è una battaglia quotidiana, della magistratura, ma anche di tutti noi cittadini. L’antimafia sociale è lo strumento.

La mafia è una formazione storica e come tale si può combattere. Il pericolo maggiore è tratteggiarla come potere invincibile e onnipotente, perché involontariamente si rischia di fare l’apologia del fenomeno che si vuole combattere. Anche sotto questo riguardo l’esempio di Peppino Impastato rimane un faro. «Con la sua Radio Aut agì un uso corrosivo della satira come critica del potere, come sarcasmo per desacralizzare l’autorità del capomafia, la percezione popolare della sua onnipotenza» scrive Giovanni Russo Spena. Anche per questo era una spina nel fianco per la mafia che lo uccise il 9 maggio del 1978. Oggi la sua lezione va rinnovata ad ogni livello. Nel segno della memoria di Impastato, di Pio La Torre e di tutti coloro che hanno coraggiosamente combattuto la mafia sono nate, sparse in tutta la penisola, esperienze importanti di opposizione e resistenza. A vari livelli.

Perché la lotta alla mafia si fa nel sociale come racconta Sabrina Certomà che è andata nel rione Sanità per raccogliere la testimonianza attiva dei ragazzi che si sono ribellati alla camorra dando vita alla cooperativa La Paranza. E si combatte a livello culturale. Lo scrive Gaetano Savetteri, direttore della coraggiosa rassegna Trame sui libri contro la mafia che questo fine settimana torna in piazza a Lamezia Terme, come tenace espressione di una opposizione civile all’ndrangheta; parliamo di un festival che è riuscito a far rialzare la testa al Comune calabrese, tre volte sciolto per mafia, diventando fucina di resistenza e punto di riferimento per tanti giovani.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 21 giugno 2019


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L’odio della Lega verso le donne

"Auguriamo buon lavoro al nuovo Sindaco (leghista!) di Udine, che ha vinto ieri dopo anni di governo di sinistra, e grazie ai cittadini per la fiducia". Lo scrive su Twitter il leader della Lega Matteo Salvini postando una foto che lo ritrae insieme al neosindaco Pietro Fontanini e a Massimiliano Fedriga, diventato governatore del Friuli, 14 maggio 2018. PROFILO TWITTER DI MATTEO SALVINI +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Se per caso aveste bisogno di un’ulteriore prova (ce ne sono a decine, eh) dell’odio per la Lega verso le donne (che devono essere madri e lì stare, senza pretendere nulla di più) allora vale la pena fare un salto a Udine dove il sindaco Pietro Fontanini, leghista doc, volendo allargare la sua giunta comunale da 10 a 11 assessori (sempre a proposito di quella tiritera del taglio dei costi, sì, ciao) si è accorto che le quote di genere lo costringono a nominare una donna.

Non sia mai. E così in Consiglio regionale spunta un emendamento alla legge regionale 22/2010 che gli permetterebbe di aggirare l’ostacolo. Siccome siamo un Paese strano, in cui non ci si nasconde e non ci si vergogna nemmeno, dicono che tra i consiglieri regionali la proposta sia amichevolmente chiamata proprio emendamento Fontanini in onore del suo beneficiario.

Recita l’emendamento: «L’assessore nominato ai sensi del comma 39 bis non è incluso nel computo della rappresentanza di genere prevista dalla normativa vigente. È consentito inoltre derogare alle quote di rappresentanza di genere nella giunta comunale in assenza di analoga adeguata rappresentanza nel consiglio comunale e qualora lo statuto non preveda la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del consiglio comunale».

Peccato che la normativa sulla rappresentanza di genere sia nazionale e non certo regionale. Ma anche su questo gli amici di Fontanini hanno pronta la contromossa: lo statuto speciale del Friuli Venezia-Giulia.

Insomma, se ci pensate fanno di tutto, brigano, disfano, si arrabattano, inventano, osano, rischiano. L’importante è non dovere nominare una donna. Tutto qui. Del resto per loro, si sa, la donna è buona solo da madre. Mica da assessora.

Buon giovedì.

La Lega è cosa loro

MATTEO SALVINI

Si sciacqui la bocca chi accosta la Lega alla mafia» dice Matteo Salvini in quasi tutte le conferenze stampa degli ultimi giorni. E una schiera di cronisti proni pronta a ritrasmettere a tutto volume queste parole del ministro dell’Interno, come se bastasse la sua autoassoluzione per nascondere il marcio che continua ad uscire da un partito che è riuscito nella miracolosa impresa di rivendersi nuovo nonostante decenni di berlusconismo e un presente che fa accapponare la pelle.

L’arresto di Paolo Arata, ad esempio, ha che fare con la mafia fin dall’accusa. Si rimane garantisti, certo, e l’arresto non equivale a una condanna ma l’accusa di intestazione fittizia, con l’aggravante di mafia, corruzione e autoriciclaggio è bell’e scritta, e il fatto che secondo i magistrati lo stesso Arata sia socio occulto del re dell’eolico Vito Nicastri fa pensare inevitabilmente alla criminalità organizzata.

Sono anni che Vito Nicastri viene considerato la testa di legno del boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro e sono anni che i giudici di Palermo lo ritengono uno dei finanziatori della sua latitanza oltre che essere il suo prestanome. Non so come il ministro Salvini chiamerebbe un’indagine del genere m…

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola dal 21 giugno 2019


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#WithRefugees, l’allarme Unhcr: aumentano i rifugiati nel mondo, ora sono quasi 71 milioni

epa07500084 A handout photo made available by World Press Photo (WPP) organization shows a picture by John Moore that wins the 'Picture of the Year 2019' award in the World Press Photo 2019 Contest as it was announced by World Press Photo on 11 April 2019. The picture shows a two-year-old Honduran asylum seeker crying as her mother is searched and detained near the US-Mexico border in McAllen, Texas, USA, 12 June 2018. They had rafted across the Rio Grande from Mexico and were detained by U.S. Border Patrol agents before being sent to a processing center. The following week the Trump administration, under pressure from the public and lawmakers, ended its contraversial policy of separating immigrant children from their parents at the U.S.-Mexico border. Although the child and her mother remained together, they were sent to a series of detention facilities before being released weeks later, pending a future asylum hearing. EPA/JOHN MOORE / GETTY IMAGES / HANDOUT NO CROPPING / NO MANIPULATING / USE ONLY FOR SINGLE PUBLICATION IN CONNECTION WITH THE WORLD PRESS PHOTO AND ITS ACTIVITIES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Almeno 70,8 milioni sono state le persone costrette ad abbandonare il proprio Paese in seguito a guerre, violenze, persecuzioni, fame, malattie e povertà nel 2018. È l’ultima stima dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) che emerge dal Global Trends, l’annuale report dell’Organizzazione sui rifugiati; un record assoluto reso noto alla vigilia della Giornata Mondiale del Rifugiato che si celebra il 20 giugno. Il fenomeno ha riguardato, secondo Unhcr, 2,3 milioni di persone in più rispetto all’anno precedente con una media di 37mila nuove fughe ogni giorno. Sul totale dei rifugiati, solo il 16% è ospitato da Paesi sviluppati: gli Usa hanno ricevuto il maggior numero di richieste di asilo, seguiti da Perù, Germania, Francia e Turchia. Più dei due terzi del totale dei migranti provengono da soli cinque Stati, nell’ordine: Siria, Afghanistan, Sudan del Sud, Myanmar e Somalia. Mentre sono 138.600 i minori non accompagnati.

«Ciò che vediamo in queste cifre è un’ulteriore conferma della crescita del numero di persone che hanno bisogno di protezione da guerre, conflitti e persecuzioni», osserva Filippo Grandi, alto commissario per i rifugiati all’Onu. La crisi si è difatti acuita tra il 2012 e il 2015, in concomitanza con l’inasprirsi del conflitto siriano, ma le aree critiche purtroppo sono molte: in Medio Oriente (Iraq e Yemen), in Africa Subsahariana (Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan) e nel sud est asiatico con l’esodo di Rohingya dal Myanmar in Bangladesh alla fine del 2017. E poi c’è il Venezuela, dove circa 3 milioni di abitanti – circa 5mila al giorno – hanno lasciato le loro case nel 2018 per spostarsi in altri Paesi dell’America Latina, rappresentando la più grande migrazione nella storia recente in Cono Sur. Ovunque le ragioni della migrazione forzata sono le stesse: violenze, insicurezza, paura di essere arrestati per le proprie opinioni politiche, penuria di cibo e medicinali, impossibilità di accesso ai servizi essenziali e povertà. «Non ci sentivamo più sicuri. Avevamo paura anche in casa nostra, e non potevamo lasciare i bambini soli. Hanno minacciato di minacciare mio fratello» racconta Angelica, richiedente asilo venezuelana a Panama. Ha lasciato il suo Paese quando dei gruppi armati hanno cercato di reclutare suo figlio di 12 anni (Unhcr). «Quando mia figlia di 12 anni è morta per mancanza di medicinali, dottori o cure, ho deciso di portare la mia famiglia fuori dal Venezuela prima che un altro dei miei bambini morisse. Le malattie stavano diventando più forti di noi. Mi sono detto o ce ne andiamo o moriamo», racconta a sua volta Eulirio Baes, di 33 anni, fuggito in Brasile. Questa situazione riguarda direttamente anche l’Europa, poiché sono raddoppiati i venezuelani che hanno già chiesto asilo in Spagna e Italia.

 

 

Nel nostro Paese, la soluzione fino ad ora adottata per rispondere alla crisi dei rifugiati è riassumibile nelle parole “chiusura” e “rifiuto”. Tutto ruota intorno alla Legge 132/18 (il decreto sicurezza di Salvini) che ha determinato tagli profondi al sistema di accoglienza e lo smantellamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Misure che potrebbero essere ulteriormente inasprite con la conversione in legge del decreto sicurezza bis, approvato il 15 giugno dal consiglio dei ministri. I primi cinque articoli su “disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica” prevedono, infatti, nuove norme contro il soccorso in mare. Nell’articolo 1 si stabilisce che il ministro dell’interno “può limitare o vietare l’ingresso il transito o la sosta di navi nel mare territoriale” per ragioni di ordine e sicurezza, ossia quando si presuppone che sia stato violato il testo unico sull’immigrazione e in particolare si sia compiuto il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Questa competenza fino ad ora era in mano al ministro dei trasporti e delle infrastrutture. Con multe salatissime – fino a 50mila euro – si blindano così le coste italiane, e in più si stanziano dei fondi per contrastare proprio il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Ma a che punto sono gli altri Paesi europei? Tra settembre 2015 e aprile 2018 in Italia sono sbarcate quasi 350mila persone. I piani di ricollocamento d’emergenza avviati dall’Ue prevedevano che circa 35mila di questi richiedenti asilo fossero inviati ad altri Paesi – dunque solo il 10% totale degli arrivi secondo l’Ispi. In più, gli Stati membri hanno accettato meno di 13mila richiedenti asilo, più di 9 migranti su 10 sarebbero allora rimasti in Italia. I singoli Paesi hanno, infatti, continuato a mantenere la sovranità sulla gestione delle richieste, una volta che queste vengono presentate. Perciò, si creano importanti differenze tra uno Stato e l’altro nella gestione delle politiche di accoglienza, in particolare nei tassi di accettazione delle richieste, nella protezione internazionale da concedere e nella velocità di esame delle domande. Ed ecco come nascono ovvie disparità di trattamento della persona, nonché difficoltà nel coordinamento europeo delle soluzioni alla crisi.

 

 

Tornando alla Giornata mondiale del rifugiato, a partire dal 20 giugno sono in programma una serie di mobilitazioni “istituzionali” organizzate dall’Unhcr con il sostegno dell’hashtag #WithRefugees. Eventi che proseguiranno per 3 mesi con l’obiettivo di dare visibilità alle esperienze di solidarietà e accoglienza nei confronti dei rifugiati. «In un momento in cui prevale una narrazione negativa sui rifugiati e richiedenti asilo – dice in conclusione Carlotta Sami, Portavoce Unhcr per il Sud Europa – ribadiamo con forza la necessità di vederli innanzitutto come persone, con il loro bagaglio di coraggio e speranze che aspettano solo una giusta accoglienza per potersi realizzare».

L’intelligenza artificiale si mette al servizio dell’archeologia

L’archeologia in questi ultimi anni ha attinto ampliamente dalle recenti scoperte in campo tecnologico e informatico, facendo di quest’ultime un valido strumento di conoscenza e di analisi.
Un momento fondamentale della ricerca archeologica è proprio quello che segue lo scavo, certo meno capace di catturare l’immaginario popolare, ma di fondamentale importanza per cercare di svelare le misteriose e nascoste trame del passato. Come degli investigatori della storia, immagine questa cara all’archeologo Andrea Carandini, ci troviamo su una scena del delitto e il nostro compito è quello di decifrare più indizi possibili per cercare di restituire un’immagine definita a quello che ai nostri occhi appare all’inizio come un puzzle smontato e scomposto in migliaia di pezzi.
Il lavoro sul campo e la ricerca hanno sempre prodotto un’enorme quantità di dati sia qualitativi sia quantitativi. Senza alcuni strumenti fatti per comprimere la loro mole, i dati derivati dalla ricerca archeologica non potrebbero mai essere interpretati o pubblicati. Gli archeologi sono ormai da decenni in grado di utilizzare metodi statistici e matematici per facilitare la lettura e l’interpretazione dei dati e di realizzare istogrammi e grafici, ma la ricerca si è spinta oltre i metodi classici di analisi matematica fino ad utilizzare un approccio basato sui modelli.
La creazione di modelli è sempre stata parte integrante dell’evoluzione dell’archeologia, almeno negli ultimi quarant’anni. Nel senso più ampio, l’archeologia è lo studio delle attività umane appartenenti al passato e un modello è una rappresentazione semplificata del sistema-realtà che ne riassume le caratteristiche eliminando gli elementi superflui.
Le società umane nel loro contesto naturale possono essere considerate come sistemi complessi. Tali sistemi sono costituiti da molte parti che interagiscono tra di loro e che si trovano in ogni gerarchia dell’universo, dal livello molecolare come la struttura a doppia elica del Dna fino ai sistemi planetari e ai modelli che spiegano addirittura l’universo. In ogni progetto, i ricercatori hanno bisogno di farsi un’idea del problema in esame, indagando, esaminando i dati e osservando come sono distribuiti.
Il dato archeologico non è però solamente un semplice “record” che può essere codificato, comparato e collezionato e dal quale si possono estrarre informazioni; il “record” è parte integrante di un processo d’informazioni nel quale l’oggetto è solo un tramite e non un fine del flusso informativo. Il dato archeologico è condizionato da una serie di fattori nel quale il contesto è determinato dalle dinamiche di un sistema cognitivo che si auto-organizza in maniera spesso difficile da decodificare con “semplici” sistemi probabilistici e statistici, che invece veicolano un’interpretazione che somiglia più ad una foto istantanea che a un racconto che si svolge nelle trame del tempo. Compito dell’archeologo è quello di restituire la parola al reperto, codificare la sua lingua le cui regole spesso si sono perse nella notte dei tempi, renderlo testimone parlante di fatti accaduti migliaia di anni fa e di trovare il modello che rappresenti in maniera più esaustiva possibile la sua storia.
Particolarmente significative sono stati in questi ultimi anni per esempio, le analisi dei campi figurativi nei vasi dipinti della cultura greca e per quanto riguarda la disciplina di cui mi occupo, Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente Antico, le indagini di archeologia territoriale, quelle sulla scrittura cuneiforme delle prime tavolette e sulle iconografie dei sigilli cilindrici. L’ultima frontiera in questo tipo di ricerca in campo archeologico che si fissa come obiettivo quello di comprendere ed interpretarne gli schemi figurativi e il nesso che li lega alle iscrizioni, propone l’utilizzo delle Reti Neurali Artificiali come strumento d’analisi delle relazioni complesse che connettono testi e figure, iconografie e ideogrammi, segni e parole.
Per definizione, una rete neurale è un sistema di hardware o software, modellato sul funzionamento dei neuroni del cervello umano, in questo senso aiuta i computer a pensare ed imparare come gli esseri umani.
Se da bambini tocchiamo una tazza di latte bollente e ci bruciamo, la volta successiva sicuramente saremmo molto più prudenti nel toccarla. Abbiamo appreso dalla nostra esperienza che una tazza di latte può essere calda.
Questo adeguamento della nostra conoscenza e comprensione del mondo che ci circonda, si basa sul riconoscimento di modelli. Come noi, anche i computer imparano attraverso lo stesso tipo di riconoscimento di schemi. Questo apprendimento costituisce l’intera base del funzionamento delle reti neurali.
Una tazza, il colore bianco, il latte, la sensazione di bruciore di toccare una tazza calda: tutto questo è una possibile connessione neuronale. Il nostro cervello ha raccolto dati per tutto questo tempo. Questi dati rendono determinante la probabilità che la tazza che stiamo per toccare sia o meno calda. Le reti neurali apprendono nello stesso modo.
Una rete neurale artificiale può fare praticamente tutto purché sia possibile ottenere dati sufficienti e una macchina efficiente per ottenere i parametri corretti.
Le reti neurali costituiscono la spina dorsale di quasi ogni grande tecnologia o invenzione odierna. A seconda del modo in cui si “nutre” una rete e del tipo di apprendimento che si utilizza, è possibile ottenere molto da una rete neurale rispetto a un sistema informatico tradizionale, soprattutto nel caso in cui ci occorrano risposte sfumate, che non prevedano solo un sì o un no e soprattutto quando si desideri una risposta di tipo predittivo.
La ricerca archeologica può trarre un enorme beneficio da questo tipo di approccio, abbiamo una grande quantità di informazioni, ma spesso sono incomplete e la possibilità di poterle esaminare non solo in simultanea, ma addirittura di ottenere una classificazione che prescinda dalle nostre teorie iniziali ci apre scenari infiniti.
In particolare, lo studio dei sigilli cilindrici, una delle testimonianze più affascinanti e ricche di informazioni che la cultura del Vicino Oriente antico ci abbia lasciato.
I sigilli sono oggetti capaci di portare con loro, nonostante le piccole dimensioni tutto un universo di sapere e conoscenze.
Sono contemporaneamente piccoli oggetti d’arte, alcuni dei quali di mirabile fattura, gemme preziose che vennero utilizzate come ornamenti, amuleti apotropaici indossati per allontanare le forze del male, ma soprattutto assolvono per noi all’importantissimo ruolo di segni posti all’apice di particolari e diversificate procedure burocratiche e amministrative.
In questo senso specifico, possono essere considerati documenti in bilico tra una dimensione simbolica legata al loro aspetto più propriamente visivo e connesso al mondo delle immagini ed una per così dire più concreta, esplicitata dalle iconologie e dalle epigrafi, ovvero spesso e nel corso dei millenni anche più volte, dall’azione umana esercitata su di loro, per riusarli e tradurli in altro sistema.
Uno studio dei sigilli alla luce degli orientamenti moderni della ricerca archeologica computazionale e cognitiva non può più prescindere dal considerarli nella loro interezza e nell’analizzarli come portatori di messaggi a diversi livelli e di una comunicazione non verbale, ma di tipo figurativo e ideografico che va svelata ed interpretata.
La rete neurale in questo caso ha il compito di trasformare il campo figurativo in una serie di variabili: presenza di uno o più personaggi, come sono abbigliati, presenza o assenza di simboli astrali, presenza o assenza di un’iscrizione ecc… Tutti questi input, trasformati in linguaggio binario (1 presenza, 0 assenza), vengono dati in pasto alla rete neurale che li elabora e li trasforma in speciali raggruppamenti detti “clusters”.
Lo studio di questo gruppo di variabili spesso ci svela accostamenti del tutto sorprendenti che ci aiutano a considerare questo insieme di oggetti sotto una nuova luce e a stimolarne la ricerca e l’approfondimento.
Uno degli ultimi sviluppi delle reti neurali artificiali è il Deep Learning, che ha notevolmente potenziato le possibilità delle reti neurali artificiali. In una disciplina come l’archeologia e soprattutto nello studio dei sigilli, dove spesso il reperto viene ritrovato in condizioni di riuso o con impronte parziali tali da rendere complicata loro identificazione, il Deep Learning diventa uno strumento formidabile. La rete viene addestrata a riconoscere il frammento e a catalogarlo, comparandolo con migliaia di immagini selezionate dalla rete in fase di addestramento e a ricostruirne l’aspetto anche in presenza di oggetti profondamente danneggiati dal tempo, oppure ad integrare parti mancanti di un testo, la stessa tecnologia utilizzata da Facebook che è in grado di riconoscere le persone all’interno di una fotografia caricata sul social e di “taggarle” anche quando la persona non è in primo piano e in condizione di luce non favorevole.
Ecco quindi che una disciplina così strettamente legata al passato sta sempre più velocemente proiettandosi verso il futuro offrendoci la possibilità non solo di disvelare oggetti che ci raccontino una storia, ma di entrare quasi nel cervello di uomini che abitavano la terra migliaia di anni fa e cercare di ricreare il loro pensiero che per noi ormai uomini moderni ci sembra alieno e indecifrabile, connessioni che a noi sembrano impensabili, diventano lo stimolo della nostra ricerca, i condizionamenti mentali e culturali costruiti da centinaia di anni di dominio del Logos occidentale vengono di colpo eliminati, come una nebbia che si dirada e permettere di vedere più chiaro, e si apre davanti a noi un punto di vista diverso, nuovo, anche se non bisogna mai cadere nella trappola di considerare i risultati come verità assolute, ma solo come finestre aperte come i nostri occhi su un mondo nuovo e antico contemporaneamente.

La disillusione in coda

I candidati per il maxi-concorso per diventare navigator o 'tutor' del reddito di cittadinanza arrivamo alla fiera di Roma 18 giugno 2019. Il concorso per diventare navigator che inizierà domani alla Fiera di Roma e durerà fino a giovedì 20 giugno. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Volete un sintomo per toccare con mano il mondo del lavoro giovanile in Italia? Vi bastava mettere la testa fuori e osservare la coda alla Fiera di Roma, dove 54.000 persone (cinquantaquattromila persone, uno stadio di calcio) sono state per ore in coda per il concorso per diventare navigator, la figura pubblica individuata dal ministro del Lavoro Luigi di Maio per seguire far trovare lavoro a chi incassa il reddito di cittadinanza. Cinquantaquattromila persone che formavano un serpentone lunghissimo sotto il sole cocente che è il sentiero (senza sbocco) di un’Italia in cui anche un contratto di due anni (questo è il tempo in cui i prescelti lavoreranno in Anpal Servizi, la società in house al ministero del Lavoro che si occupa del reddito di cittadinanza) è una speranza che vale la pena inseguire.

54.000 persone per 2.980 posti. E siccome sono tutti laureati e sanno bene far di conto sanno bene che le speranze sono ridotte al lumicino, tutti pronti a mettere 100 crocette in 100 minuti su cui si giocano almeno un biennio di respiro, di reddito e di normalità che dovrebbe essere sancita dall’articolo 1 della Costituzione.

E badate bene: questi 54.000 sono quelli che hanno superato la preselezione. Sì, erano molti di più, 79.000, per la precisione. Questi sono quelli che hanno ottenuto il diritto di provarci. E sono arrivati da tutta Italia con la loro valigia, come fecero i loro genitori, ma con molte speranze in meno. L’età media è di 30 anni e per molti di loro un contratto biennale è una chimera che solitamente non si possono nemmeno permettere di sognare, sempre precari appesi al filo di una vita che si vive un mese alla volta senza sapere come sarà il prossimo, con l’impossibilità di costruirsi un futuro e di poter programmare la propria vita, le proprie speranze e, perché no, perfino una famiglia a forma di famiglia.

E forse sarebbe valsa la pena provare a scendere lì con loro a toccarla, la disillusione che si portano addosso. Convinti che non ci sia alternativa, che ormai sia così, e che non esista il diritto di aspettarsi di meglio.

Come scrisse il filosofo scozzese Thomas Carlyle: «Un uomo che vuol lavorare e non trova lavoro è forse lo spettacolo più triste che l’ineguaglianza della fortuna possa offrire sulla Terra».

Buon mercoledì.