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Il vomito su Camilleri

Andrea Camilleri durante la presentazione del suo ultimo libro di racconti "Esercizi di memoria" presso Palazzo Barberini, Roma, 18 ottobre 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Lo scrittore Andrea Camilleri sta male, è in rianimazione, con i suoi 93 anni sulle spalle e una vita in cui non si è risparmiato. In un Paese normale uno scrittore, soprattutto uno che ha dato molto anche alla crescita della cultura popolare grazie alla televisione, sarebbe seguito nel suo dramma con un po’ di riconoscenza o almeno un po’ di rispettoso silenzio.

E invece niente. No. Nell’imbruttimento generale di questo Paese, dove la politica è diventata vuota ma solidissima per essere usata come randello contro l’avversario di turno, anche un Camilleri diventa un ottimo bersaglio per vomitare bile e violenza verbale. Roba impensabile fino a qualche anno fa e diventata terribilmente normale in quest’epoca in cui il cattivismo è diventato il pane di tutti i giorni.

Per citare solo qualche esempio, sulla pagina Facebook de Il Giornale ecco il tenore di alcuni commenti:

“Hai parlato male di Salvini sei stato castigato!”

“Strilla troppo contro Salvini e alla fine paga! Devi stare più tranquillo”

“Alla Lega servono ulteriori consensi! Forza Camilleri! Non mollare!”

“Gli auguro 1.000 volte quello che ha augurato a Salvini. Camilleri, nulla di personale…”

“Chi semina odio ha quello che si merita. Il silenzio è oro e lui doveva stare zitto e non prendere le difese verso chi non ha il diritto di stare nel nostro Paese”

“Talmente tanto odio contro Salvini che gli è venuto un infarto. Questi sono quelli che cantano peace & love”

“Ma va a morir ammazzato stronzone malaugurate, il destino ha voluto, così chi disprezza gli altri, nulla avrà, hai visto cosa ti è capitato, la prossima volta, se ci sarà la prossima volta, state zitto così campi di più, Un consiglio da figlio.”

“Vomita oggi, vomita domani, ecco il risultato” e una faccina sorridente.

Ecco. Un Paese così.

Buon martedì.

 

Elezioni, a Cagliari il centrosinistra chiede il riconteggio

Numeri su numeri che ballano, anche se il problema politico rimane fermo e uguale a se stesso. Un vento di destra che soffia forte anche a Cagliari, che ha visto vincere (per ora) un candidato di Giorgia Meloni, sempre più agguerrita. Con dati che però vedono il Pd come il primo partito (al 16%) e una Lega che non sfonda. Al centro di Cagliari, in piazza Gramsci, alla conferenza stampa di Francesca Ghirra, la candidata a sindaco del centrosinistra, la delusione è grande. Dopo otto anni di Massimo Zedda (ex Sel), la città torna al centrodestra con Paolo Truzzu, 46enne, in quota Fratelli d’Italia. Il ballottaggio è sfumato per ottanta voti. Ed è lui il sindaco del capoluogo sardo. Salvo sorprese, viste le premesse. La Ghirra, ex assessora all’urbanistica della giunta Zedda, infatti non si arrende e indica alcune cifre: 33.933, i voti ottenuti dall’avversario, e i suoi 32.351, “Un divario di 1582 voti, ma appena 80 per il ballottaggio”, dichiara. Ma sulle votazioni di Truzzu e Ghirra ha pesato l’astensionismo fortissimo, solo il 50,71% si è presentato alle urne (nel 2016 il 60,2%). Così che l’aspirante prima sindaca di centrosinistra della città si ferma al 47,78 e annuncia un ricorso: “C’è uno scarto minimo, ma sono 1.297 le schede nulle e 22 contestate. Valutiamo con i nostri legali se ci sono gli estremi, per un’azione di verifica. Ci vuole prudenza. Aspettiamo alcuni giorni sia la commissione elettorale che una verifica in sede amministrativa”.

Lui, Truzzu è raggiante, dopo le polemiche di questi ultimi giorni che lo hanno visto al centro di una vivace controversia quando sui social sono rimbalzate le vecchie foto della partecipazione a una manifestazione delle “sentinelle in piedi” per la difesa della famiglia tradizionale. E per essere stato visto accompagnato spesso all’ex dirigente comunale, Gerolamo Solina, condannato per la gestione dei grandi eventi dell’Anfiteatro Romano. Non le uniche macchie, in questa campagna elettorale dichiara Francesca Ghirra: “Un grazie di cuore a tutti i cagliaritani, nonostante un clima non favorevole, non solo da un punto di vista politico. Ma inasprito da alcuni fatti e anomalie. Infatti la notte prima delle elezioni, oltre ad altri numerosi casi di cumuli di immondezza che si sono creati in luoghi dove il porta a porta stava funzionando perfettamente, si sono verificati contemporaneamente tre roghi. A Cagliari mai accaduto”.

Cagliari è andata al voto domenica insieme a 27 Comuni della Sardegna. A Illorai (Provincia di Sassari) è stato eletto il primo sindaco leghista dell’Isola: si tratta di Titino Cau, meccanico, con la lista “Fermiamo lo spopolamento”. Così nulla cambia nella storia autonomista di quest’Isola che ha visto ripetersi ancora una volta le tribolate vicissitudini di riposizionamento, per esempio, dei Sardisti oggi alleati della Lega con il Governatore Solinas. Sempre famosi per i frequenti mutamenti della linea politica. Alternando la partecipazione a coalizioni regionali democristiane, alla fine degli anni Novanta alle liste progressiste dell’Ulivo, passando per le elezioni sarde del 2009 siglando un’alleanza programmatica con il Pdl, Udc e Riformatori Sardi con i quali hanno governato la Sardegna fino al 2013.

 

La ciclosfida di Vittorio Barbanotti: il giro d’Italia in difesa dei diritti umani

«Ho sempre avuto in testa una idea: se lo sport è fatto con reale amore e passione diventa elemento straordinario di trasmissione delle problematiche sociali». Vittorio Barbanotti, 67 anni appena compiuti, ha fatto di questa consapevolezza una pratica di vita. Anni fa ha subito un serio intervento chirurgico al cuore di quelli che spaventano e di solito fermano le persone. Vittorio invece si è letteralmente rimesso in pista, anzi è più esatto dire su strada. La bicicletta è per lui una sorta di prolungamento del corpo con cui attraversare mondi e confini, uno strumento per incontrare.

Già lo scorso anno salì agli onori della cronaca per una pedalata longa in solitaria che da Milano lo portò fino alla sede del Parlamento europeo a Strasburgo. La ragione? Sensibilizzare le istituzioni locali, nazionali ed europee verso il rispetto della Convenzione per i diritti del fanciullo, ratificata dall’Onu e troppe volte, anche nei “civili” Paesi europei, dimenticata. Fu un viaggio epico, interrotto da una caduta che lo costrinse a fermarsi e poi a ripartire giorni dopo, raggiungendo alla fine l’obiettivo. Quest’anno si è ripetuto. Il 13 aprile ha rinforcato la bici scendendo verso sud. Oltre 20 tappe, disavventure di vario tipo, fra strade interrotte, pioggia, vento, cadute e incontri. Da Milano ha attraversato la Liguria, poi la costa tirrenica fermandosi nelle cittadine toscane, quindi nel Lazio fino a Roma e poi Napoli e la Calabria, per arrivare fino a Palermo, sotto l’albero di Falcone e Borsellino, passando prima per Cinisi, rendendo omaggio a Peppino e Felicia Impastato e alla Casa memoria a loro intitolata. In totale ha percorso in bici circa 1900 km, concedendosi ogni tanto una giornata o due di riposo.

L’obiettivo era arrivare, non davanti a qualcuno ma con tante e tanti. Lo abbiamo seguito giorno dopo giorno. L’impresa, condotta senza sponsor, grazie al contributo di volontari e alle risorse che lo stesso Vittorio ha messo di suo, è stata resa possibile grazie al fatto che, come la voce si spargeva, in molte località si sono aperte le porte delle case di persone che lo hanno ospitato, invitato a cena o a pranzo, organizzato con lui conferenze stampa e iniziative. Via whatsapp comunicava giorno dopo giorno quanto gli era accaduto. Portava con se una bandiera che ha fatto firmare ai tanti e alle tante che lo hanno aiutato nell’impresa e a cui ha spiegato le ragioni del viaggio. Chiede alle istituzioni, in particolare al ministero della Pubblica istruzione, di adoperarsi per insegnare i diritti umani, l’educazione civica, la lotta alle mafie, al bullismo, il contrasto alla violenza sulle donne.

«Non sono neanche dimagrito – racconta ridendo – perché ogni volta che “i compagni” mi ospitavano, mi riempivano di prelibatezze e non potevo rifiutare. Certo che la faticata è stata grande ma ne valeva la pena». Il suo volto e la sua storia sono finiti soprattutto nelle testate locali, quando si fermava in città e paesi che di solito vengono ignorati dal circuito mediatico. Lo hanno intervistato, raccontato, con sorpresa e, dai resoconti, lo hanno fatto anche con stima mista a meraviglia. A sentire coloro che lo hanno ospitato, che hanno condiviso con lui una serata con i muscoli stanchi e il freddo nelle ossa (la stagione non è stata certamente delle migliori) ti raccontano di aver incontrato una persona straordinaria, al di fuori dagli schemi, capace di far credere che non esista l’impossibile. E mentre il Giro d’Italia, uno degli avvenimenti sportivi più autenticamente popolari veniva violato nella sua ragion d’essere, evitando di scendere a sud, ignorando letteralmente Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna, e stabilendo di fatto anche una “autonomia regionale sportiva differenziata”, Vittorio da solo attraversava i paesini calabresi e siciliani.

Nella sua strada a sud ha incontrato l’ex eurodeputata Eleonora Forenza, durante la altrettanto faticosa campagna elettorale per le europee, e poi Mimmo Lucano, ancora esiliato dalla sua Riace, infine Barbara Evola, consigliera comunale a Palermo, in una delle poche città che insieme a Napoli evita di adeguarsi ai diktat salviniani. «Ma soprattutto ho incontrato persone vere». Ripete e utilizza il termine “compagni” non solo per rivendicare una propria appartenenza politica ma una pratica di vita e di condivisione che non si limita ad una tessera di partito. Uno strappo muscolare ha ritardato di un giorno il suo arrivo a Palermo e il suo giro si è concluso il 20 maggio. Poi è ripartito in nave alla volta di Genova.

Terminata la “pedalata longa” come ama chiamarla, ha ricevuto ufficialmente, il 28 maggio, il titolo di Ambasciatore dei Diritti umani da due associazioni impegnate su questi temi e collegate all’Onu. Poi si è dovuto sottoporre ad esami cardiaci, la valvola che gli hanno impiantato anni fa andava controllata. «Non è che ti è cresciuto un altro cuore?». Gli ha detto scherzando un amico che lo ha seguito giorno per giorno da casa. Ha finito qui le sue pedalate Vittorio? «Se il cuore non fa scherzi l’anno prossimo ne provo un’altra dice ridendo – da Milano al Campo di sterminio di Auschwitz. Voglio arrivare al memoriale perché lì c’è una parte del mio cuore». E poi, quasi prendendosi in giro aggiunge: «In fondo è una pedalata anche più breve. Solo 1.300 chilometri». Buon viaggio Vittorio.

Fiducia

Il Plenum straordinario del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) presso Palazzo dei Marescialli, Roma, 04 giugno 2019. ANSA/ANGELO CARCONI

Lo scandalo Csm – Lotti  (possiamo dirlo, che è poi lo scandalo di una certa magistratura) continua imperterrito a riempire i giornali, con stralci di conversazione che fanno accapponare la pelle e svelano un Paese in cui la commistione tra politica e magistratura è molto peggio di come si poteva pessimisticamente pensare. Però ci sono alcuni punti che vanno definiti, per cercare di capirsi, almeno per essere d’accordo su un quadro generale: al di là delle responsabilità che verranno eventualmente definite in fase giudiziaria c’è, di fondo, un’inopportunità da parte di tutti gli attori che può essere già discussa e giudicata.

Il fatto che Lotti si sia autosospeso (e, poteva, il segretario Zingaretti magari compiere un’azione piuttosto che rimanere nella sua solita linea di galleggiamento) non può mettere in ombra il comportamento dell’organo superiore della magistratura, quello che dovrebbe essere di garanzia per i cittadini, e non può nemmeno non farci riflettere sul fatto che evidentemente alcuni magistrati ritengono l’uso della giustizia una scimitarra da poter brandire contro questo o quello come se fosse un bene proprio.

Che la giustizia è uguale per tutti stona molto con lo stile stesso delle conversazioni, di persone che dovrebbero avere la misura e applicarla e invece sembrano una tavolata di amici intenta a brigare lo sgambetto a qualcuno. E l’argomento è terribilmente serio perché in un Paese che sta via via perdendo fiducia nella politica e che già da tempo (almeno in parte) ha messo in discussione la magistratura è ovvio che il cittadino semplice non trovi appigli a cui appoggiarsi. E il deterioramento democratico non è mai una buona notizia, di qualsiasi parte politica ognuno di noi sia.

Buon lunedì.

 

Tsipras alla ricerca degli elettori perduti

Pre-election rally speech of Prime Minister and President of Syriza Alexis Tsipras in front of the Greek parliament in Athens, Greece on May 24, 2019. Greeks will vote on Sunday May 26, for Regional Government, Municipality and EU elections. (Photo by Giorgos Georgiou/NurPhoto via Getty Images)

Non è solo la pesante sconfitta. È che nessuno se l’aspettava e, ancora più grave, nessuno ha ancora capito bene il perché. Il Comitato centrale e la segreteria di Syriza dibattono praticamente senza interruzione dal lunedì dopo le elezioni europee. Molte le interpretazioni. Per alcuni, molto schematicamente, la politica del governo è stata troppo poco “di sinistra” e ora, per recuperare gli elettori perduti, “deve dimostrare nei fatti la sua volontà di cambiamento”.
Eppure, questo è il governo che ha portato fuori il Paese dal micidiale controllo della Troika, che ha ottenuto per tre anni consecutivi uno sviluppo del 2 per cento, che ha ridotto di più di 10 punti la disoccupazione, che ha rimesso in piedi un sistema sanitario saccheggiato e distrutto, che ha garantito assistenza sanitaria per tutti, ripristinato i contratti collettivi di lavoro, riportato la tredicesima ai pensionati (dopo ben dodici tagli), contributi di solidarietà per i redditi più bassi.
«La gente sente che le cose dell’economia vanno bene ma non ne trova riscontro nella sua quotidianità, dove ancora sconta la catastrofe provocata della crisi» è l’opinione di Nikos Toskas, ex ministro dell’Ordine pubblico. Concorda il ministro delle Finanze Euclides Tsakalotos: il governo è riuscito a muoversi con accortezza tra le maglie della stretta disciplina imposta dall’Eurozona ma ha iniziato ad elaborare una sua propria strategia di sviluppo e di ricostruzione dello Stato sociale solo dopo l’agosto 2018. Troppo tardi e troppo poco perché sia percepito dai cittadini e renda in termini di voti.
Secondo altri analisti un ruolo importante nella sconfitta ha giocato l’accordo sulla denominazione della Repubblica ex jugoslava di Macedonia. Anche se il compromesso raggiunto seguiva in pieno le direttive concordate dai precedenti governi, il partito conservatore Nuova democrazia ha abbracciato l’estrema destra ultranazionalista pur di scatenare una campagna a colpi di grida al “tradimento” ed alla “svendita di valori nazionali”. I risultati elettorali però nella Macedonia greca non indicano un particolare spostamento a destra degli elettori.
La spiegazione più probabile viene fuori da chi conosce bene il sistema politico greco. Come il giornalista Stavros Lygeros che ha subito parlato di «voto negativo». In altre parole, gli elettori hanno votato contro Syriza non in favore di Nuova democrazia. Un comportamento che si è verificato spesso nel passato.
In effetti, Nuova democrazia difficilmente può sembrare un’opzione capace di suscitare grandi simpatie popolari. È un partito apertamente schierato in favore del Fmi: il suo programma parla esplicitamente di abolizione delle otto ore lavorative e del riposo settimanale, privatizzazione del sistema pensionistico, dell’istruzione universitaria e della sanità. Il suo leader, Kyriakos Mitsotakis è il rampollo di una chiacchieratissima dinastia politica: a metà degli anni Sessanta, suo padre, Konstantinos, si era guadagnato l’infamante epiteto di «apostata»: aveva congiurato con il re per rovesciare l’allora premier del suo stesso partito, aprendo così la strada al colpo di Stato dei colonnelli. Il figlio Kyriakos segue la sua strada, spostando Nuova democrazia verso posizioni di estrema destra e piazzandone ai vertici transfughi dei gruppuscoli neofascisti o filocolonnelliani. Negli ultimi tre anni sono tornate nel dibattito politico espressioni che non si sentivano dall’epoca della Guerra fredda: «Fascisti rossi», «banditi comunisti», «figli di Stalin» e altre raffinatezze del genere.
Questo spostamento a destra di Nuova democrazia, insieme con la quasi sicura quanto imminente condanna al lungo processo contro il gruppo dirigente, spiegano il forte ridimensionamento di Alba dorata. Per la prima volta il partito nazista ha subito una flessione, ottenendo il 4,8 per cento. Gli elettori di estrema destra che non hanno voluto tornare tra le braccia di Mitsotakis hanno optato per un televenditore stravagante di nome Kyriakos Velopoulos, che a sorpresa ha ottenuto il 4 per cento ed un seggio a Strasburgo. Tra una teoria complottista, un inno a Vladimir Putin e una scarica di insulti ai politici “ebrei” e “massoni”, Velopoulos diletta le serate televisive dei suoi elettori vendendo a prezzi ragionevoli le “lettere autografe di Gesù Cristo” e “pomate miracolose” contro ogni malanno prodotte a Monte Athos.
Il successo del televenditore è un argomento in favore di chi attribuisce l’esito delle urne alla feroce campagna antigovernativa che hanno scatenato le tv private, spesso a colpi di fake news. Da tempo i greci sono al primo posto in Europa nel consumo di televisione con 4 ore e mezza al giorno. Alcuni analisti hanno infatti sostenuto che il vero antagonista di Tsipras non era la destra ma il sistema informativo, totalmente controllato dagli oligarchi.
Per Tsipras recuperare quei 9,5 punti di vantaggio entro il 7 luglio appare impresa impossibile. Il leader di Syriza non è nuovo a queste sfide: basti pensare alla clamorosa vittoria alle elezioni del settembre 2015, due mesi dopo la firma del dolorosissimo terzo accordo di austerità con i creditori. Allora è stata una sua vittoria personale, ma anche adesso il suo carisma comunicativo ha permesso a Syriza di confermarsi come una forza politica nazionale. Nelle ultime due settimane prima delle urne, il primo ministro ha deciso di uscire dal Palazzo Maximou e partecipare attivamente alla campagna: la percentuale di Syriza è aumentata di circa 5 punti, arrivando al 23,7 per cento definitivo.
Se le elezioni si fossero svolte alla fine fisiologica della legislatura, a settembre, avrebbe avuto tutto il tempo per recuperare gli elettori perduti e dare un segno più incisivo dell’uscita dall’austerità. Ma Tsipras ha voluto dimostrare di non essere attaccato alla poltrona e ha preso atto del significato politico della sconfitta alle europee.
Questa centralità del leader non è ben vista dentro Syriza. C’è odore di “leaderismo”, peccato mortale per ogni formazione della sinistra. La triste verità però è che il partito non è mai riuscito ad adattarsi alla nuova situazione di governo. Continua ad avere 30 mila iscritti, come quando prendeva il 4 per cento e stentava ad entrare in Parlamento. Negli ultimi quattro anni le organizzazioni locali e di base di fatto hanno smesso di funzionare e l’organizzazione giovanile si è sciolta. Syriza continua ad essere pochissimo presente nelle autonomie locali, nel sindacato, nei movimenti di protesta e tra i giovani. Tutta l’attività politica è stata delegata al governo, al quale peraltro il partito non è stato capace di fornire né quadri preparati, né proposte, né idee, né programmi.
La dolorosa scissione dell’estate del 2015 sicuramente ha peggiorato le cose ma il problema è più profondo: c’è una parte consistente di Syriza che non ha mai visto di buon occhio l’espansione elettorale ed ha sbarrato le porte del partito ai nuovi membri, provenienti dal partito socialista Pasok. L’attuale segretario Panos Skourletis cerca di spingere nella direzione opposta ma con scarsi risultati.
Al contrario, Tsipras da tempo sta portando avanti un’operazione di aggancio con la sinistra socialista. Alla lista per le europee abbondavano i candidati ex Pasok, mentre da tempo Syriza, pur continuando ad essere membro della Sinistra europea, partecipa da osservatore alle riunioni del Partito socialista europeo. Nella scelta del nuovo presidente della Commissione, Tsipras si è apertamente schierato in favore del socialista olandese Frans Timmermans, spingendo nella direzione di una collaborazione tra il Pse, il gruppo della sinistra Gue/Ngl ed i Verdi.
Per il premier greco, la situazione in Europa sta rapidamente cambiando. Il suo progetto di creare un fronte dei Paesi dell’Europa meridionale si sta esaurendo. Né nel 2018 né quest’anno si è tenuto alcun vertice tra i sei Paesi coinvolti a causa dell’indisponibilità del governo di destra italiano. Per il governo greco il confronto si sposta così dai vertici intergovernativi al Parlamento europeo, dove si impone di fare fronte contro i populisti di estrema destra. Il terreno su cui bisogna impegnarsi rimane quello dei due argomenti scottanti per l’Europa: la politica economica e l’immigrazione.
Gli unici non disponibili sono i socialisti greci del Pasok. L’unica preoccupazione della leader del partito Fofi Gennimata è di ripristinare la collaborazione governativa con la destra, come durante il periodo 2012-2014. Magari con la Gennimata in qualche ministero. Per evitare di pagare i suoi debiti, il Pasok ha cambiato nome in Kin.Al. (Movimento per il cambiamento) ed alle europee ha segnato un modesto aumento, arrivando al 7,7 per cento.
La stessa dinamica di sopravvivenza ad ogni costo guida anche il Partito comunista Kke che ha ottenuto l’usuale 5,3 per cento e persiste nella sua politica di splendido isolamento. Le liste minori a sinistra di Syriza erano ben otto ma tutte insieme non sono arrivate all’1 per cento. Solo il partito europeo Diem25 di Yanis Varoufakis ha ottenuto un bel 3 per cento ed ha perso il seggio per appena 400 voti. È quindi probabile che al prossimo Parlamento greco ci sia di nuovo il famoso economista. In questo caso, forse, dovrebbe tenere un po’ a freno il suo famoso ego. Dopo la quasi entrata al Parlamento europeo, Varoufakis ha dichiarato che il suo quasi successo era l’“avvenimento storico” che aveva segnato le elezioni e che era disponile ad accogliere Syriza in Diem25.

L’articolo di Dimitri Deliolanes è stato pubblicato su Left del 14 giugno 2019


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Barcellona, Ada Colau di nuovo sindaca ma con i voti di Manuel Valls

Ada Colau è stata riconfermata questo pomeriggio sindaco di Barcellona grazie a un accordo con il Psc, il partito socialista della Catalogna, e tre voti di consiglieri di Manuel Valls (spagnolo, naturalizzato francese). Colau, attivista di estrema sinistra sostenuta da una lista civica, al voto del 26 maggio ottenne 10 consiglieri, lo stesso numero dei separatisti di Esquerra Republicana de Catalunya, che tuttavia avevano raccolto più voti. Per la prima volta, Barcellona avrà come sindaco un rappresentante di una lista che non è la più votata. Questo risultato è stato possibile con i voti di Barcelona en Comù, del Psoe ma anche di tre dei sei eletti di Ciudadanos, formazione centrista e liberista guidata dall’ex primo ministro francese Manuel Valls. A Madrid, invece, il voto di Ciudadanos è stato determinante per ridare al Pp, popolari di centrodestra, la poltrona di primo cittadino della capitale in un’alleanza con i rappresentanti eletti del partito anti-migranti e fascista Vox e i centristi, appunto, alcuni dei quali non hanno nascosto il disagio per l’alleanza con la formazione franchista. L’uscente, Manuela Carmena, aveva vinto le elezioni municipali il 26 maggio, ottenendo 19 dei 57 seggi di consiglio municipali, ma non abbastanza da garantire la maggioranza con il Psoe. Jose Luis Martinez-Almeida aveva ottenuto solo 15 seggi nel consiglio comunale ma in alleanza con Ciudadanos (11 eletti) e Vox (4), il candidato della destra spagnola è stato eletto sindaco. Questo voto chiude la parentesi di sinistra aperta nel 2015 dopo più di venti anni di destra a Madrid.

Tornando a Barcellona: il 26 maggio, Barcellona en Comu di Ada Colau e la Esquerra republicana della Catalogna (ERC) del separatista Ernest Maragall hanno entrambi ottenuto dieci consiglieri comunali eletti. Se nessun candidato avesse ottenuto i 21 voti necessari, il sindaco sarebbe stato Maragall perché la sua lista ha ottenuto 4.833 voti in più rispetto a Barcellona a Comu.

Colau assicura che l’appoggio di Ciudadanos non implica un’alleanza di governo ma bisogna ricordare che Valls è stato un ferocissimo ministro di polizia per conto di François Hollande nel 2012 e poi primo ministro nella terribile stagione della loi travail e dello stato d’eccezione, le leggi repressive ufficialmente contro il terrorismo ma in realtà pensate per punire il conflitto sociale. Se Ada Colau ha lavorato per rendere la politica più desiderabile,Manuel Valls – al contrario – è noto perché la riduce a un puro gioco di potere. «Se l’offerta di Manuel Valls venisse accettata, molti dei sostenitori di Ada Colau a Barcellona e in tutto il mondo (io sono uno di loro) sentiranno che la scelta del potere ha superato il desiderio che lei incarna», ha scritto sul sito francese Mediapart, Eric Fassin, sociologo all’Università Paris-8 (Vincennes – Saint-Denis). Non è sempre vero che un regalo non comporti un prezzo.

Un governo nemico dei lavoratori

epa06627291 View of the boat 'Aquarius', a joint operation ship of NGOs 'Doctors without Borders' and 'SOS Mediterranee', near the coast of Libya, 24 March 2018. Both NGOs conduct daily operations to rescue African migrants trying to reach European soil on small boats that often capsize. EPA/Javier Martin

«Padroni e governo: è allarme rosso» dice a Left Francesca Re David, segretaria generale Fiom che, proprio mentre starete leggendo questo numero del settimanale, sarà appena salita sul palco di Napoli, una delle tre piazze con Milano e Firenze dello sciopero generale di otto ore dei metalmeccanici del 14 giugno. Una mobilitazione che si tiene a ridosso della presentazione, a luglio, della piattaforma per il contratto nazionale che scadrà a dicembre. Preludio, forse, di uno sciopero generale in autunno dopo le prime avvisaglie delle manifestazioni di pensionati e dipendenti pubblici e i segnali di una manovra economica durissima. «Sicuramente le questioni strutturali che hanno portato al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro questo governo non le ha messe in discussione – continua Re David – non sono contraria a Quota 100 però non si può dire che questo cancelli la Fornero che continuerà a fare i suoi danni, sulla sanità continuano i tagli e l’ingiustizia fiscale continua a incidere, l’85% del gettito viene dal lavoro dipendente e dei pensionati. Credo che, alle soglie della finanziaria, il governo debba sapere che non basta una mossa di propaganda e tante altre che attaccano il lavoro. Se con la flat tax abbassi un po’ le tasse ma annulli le esenzioni e gli sgravi, i lavoratori se la pagano da soli quella riduzione. L’idea che la finanziaria la debbano pagare i lavoratori questo governo non l’ha intaccata».
Sono oltre 150 i tavoli di crisi aperti al Mise di Di Maio, ma altri possono aprirsi a breve e sono 300mila i dipendenti a rischio. Una situazione che…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 14 giugno 2019


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Il nuovo cinema di Pesaro compie i suoi primi 55 anni

Dal 15 al 22 giugno si svolge la 55a edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Il programma si annuncia ricco ( rassegne, concorso, ricognizioni della produzione audiovisiva italiana a bassissimo budget, extra-industriale ed extra-formato, magnifiche proiezioni in piazza) all’insegna della esplorazione del “Nuovo Cinema” in tutte le sue multiformi possibilità. L’apertura in Piazza del Popolo è affidata al cult Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid) , diretto da George Roy Hill,con Paul Newman e Robert Redford , a cinquant’anni dalla sua uscita. L’evento speciale è dedicato questo anno al cinema italiano: un approfondimento del cinema di genere nelle sue forme più eterogenee: dalla commedia, genere principe di tutto il nostro cinema, alle sperimentazioni più ardite.

Ad accompagnare la retrospettiva ci sarà un volume intitolato “Ieri, oggi e domani. Il cinema di genere in Italia”, a cura del direttore artistico della Mostra, Pedro Armocida, e Boris Sollazzo, pubblicato da Marsilio. Ne parliamo con loro….
Parlare di cinema di genere in Italia significa attivare una nozione estremamente ricca e complessa, voi stessi vi ponete la domanda se si tratti di un seme destinato a dare dei frutti o di una falsa pista, perché in fondo il cinema di genere in Italia c’è sempre stato…
Armocida: Non se abbiamo una risposta rispetto a questa domanda, però l’intenzione iniziale era quella di cercare di capire come il cinema italiano potesse crescere, cambiando il linguaggio cinematografico, rispetto ai generi classici, primo tra tutti il genere della commedia. Quindi l’idea era quella di intercettare un momento in cui il cinema italiano ci è sembrato fosse animato da una tendenza a sperimentare – ed è sempre una cosa pericolosa trattare questioni legate al periodo in cui si vive in un libro perché possono diventare subito vecchie –e la questione del genere noi l’abbiamo vissuta come possibilità di analizzare questa questione della sperimentazione, che ci sembra mancare nel resto della produzione cinematografica. Questi esperimenti – così li chiamerei – almeno in parte sono stati molto azzardati e vedremo se avranno dei frutti, però, ad esempio Il Primo Re, che noi vediamo azzardato, perché al botteghino ha fatto 2 milioni e ne è costati 8, sarebbe ascrivibile ai flop. Invece Matteo Rovere sta girando la serie, in tal senso è un seme su cui cresce qualcosa che fino a qualche anno fa non sarebbe stato immaginabile…
Quindi genere come laboratorio di forme, discorsi, racconti, deviazioni e sovrapposizioni. Come è nata l’idea?
Armocida:Quello che ho cercato di fare almeno in questi anni dentro la Mostra del Cinema di Pesaro – senza dare giudizi sul passato – è cercare di parlare di cinema italiano in maniera un po’ trasversale. L’abbiamo fatto l’anno scorso con lo “sguardo delle donne”; due anni fa “con gli attori”; tre anni fa “con i cambiamenti dello storytelling nei film italiani”. Ora la rassegna potrebbe apparire un po’ debole sulla carta, ti domandi perché questo titolo non quest’altro. E invece nella prospettiva Pesaro abbiamo puntato sul gioco della pellicola: film come quelli di Lucio Fulci piuttosto che Argento o Leone anziché i 10/15 titoli di film per eccellenza o abbiamo accompagnato i film ad occasioni di incontro, come nel caso de L’ultimo Capodanno di Marco Risi . C’era proprio una volontà di far parlare Marco su un film che ha cambiato il suo destino e che in qualche modo quello semina sul periodo successivo….
Messo a fuoco il discorso sui codici visivi, narrativi, i personaggi, le situazioni, le atmosfere del cinema di genere, aprite anche uno spazio di ricerca sulla critica cinematografica e il genere…
Sollazzo: Ci sono dei saggi che fanno male per le modalità con cui la critica affronta il genere. La crisi della critica rispetto a fenomeni come il cinema di genere, come quasi su tutto, se escludiamo la parentesi Truffaut Hitchcock, non è neanche una cosa che si limita solo all’ Italia. La storicizzazione dell’analisi e quello che abbiamo provato a fare su questo versante con i nostri colleghi è complicatissima. Possono far sorridere alcune recensioni che abbiamo visto, ma fanno capire come ci siano dei problemi insiti nella critica che impediscono una valutazione serena. Nel saggio Rivoluzione e repressione su cui ho lavorato, viene fuori come la critica abbia rincorso Western e Poliziottesco, etichettandoli uno a sinistra un genere e l’altro a destra, poi ad analizzarli scopriamo che il western ha fatto film tra i più rivoluzionari in assoluto e dall’altra parte il poliziottesco, che è sempre stato considerato un genere di destra, però racconta la storia di uomini soli al comando, che vanno costantemente contro lo stato, vanno costantemente contro i propri superiori, in lotta contro le istituzioni corrotte e quindi secondo me, secondo un’idea moderna di sinistra, potrebbe essere riconducibile alla sinistra ed è proprio questo il problema della critica ideologica, l’ideologia ha sempre accompagnato una parte della critica e il genere si pressa tantissimo ad essere fuorviato ideologicamente, perché c’è il tema della violenza, dell’action, che potrebbe portare appunto verso una critica più legata alla conservazione, e poi però c’è anche l’ambito della ribellione che invece può essere alla sinistra. Noi siamo partiti probabilmente con una serie di idee, che vengono anche un po’ denunciato dalle impostazioni del sommario, e abbiamo finito anche grazie agli studiosi, ai critici con cui abbiamo scritto, pensando altro o comunque facendo evolvere la nostra le nostre idee e credo che la critica abbia un compito di fronte a fenomeni come questo: deve pensare che il genere è sia testo, ma anche pretesto. Non c’è nessun cinema come quello italiano che abbia usato il genere per andare altrove; la commedia all’italiana è sempre stata un coacervo di generi, in questo senso disgregandola Tarantino L’ha dimostrato e quindi il genere è stato un elemento fondante e fondamentale del cinema d’autore italiano sempre non riconosciuto e non solo per quanto riguarda Sergio Leone che è diciamo l’alfiere più evidente vale anche pensando ad un uomo come Lizzani, che ha fatto solo film di genere….
Armocida: Noi ci siamo sorpresi di fronte alla critica contro Elio Petri , veramente dura, come se fosse il borghese che si mette a raccontare gli operai, un caso limite, proprio lui che era invece da quella parte lì e si sente il fuoco amico che cerca di distruggerlo…
Sollazzo: Forse la critica dovrebbe fare quello che Dino Risi consigliava a Moretti: bravo bravo però adesso spostati che voglio vedere il tuo film e il critico può essere bravo quanto vuo,i ma se non si sposta dal film rischia di non vederlo; deve essere forse più laico…. La cosa che forse c’è riuscita meglio nel libro è proprio aver avuto un atteggiamento molto laico nei confronti di quello che vedevamo e questo ci ha aiutato molto ad affidare a tante persone tante analisi diverse, perché questo ha impedito anche a noi di impostare una visione troppo nostra e invece serviva un’ analisi che fosse a più ampio raggio
E il pubblico, che amava quel cinema, era più avanti della critica, anche solo per una adesione empatica?
Sollazzo: Forse c’era un fatto di empatia, ma non di comprensione al livello in cui comprende la critica. Il pubblico ha meno filtri e se lo fa piacere e basta…. Certamente il discorso sul pubblico pone il problema che il cinema è industria dell’intrattenimento non è solo una forma d’arte, questo non significa che un successo di pubblico consegni il film alla storia del cinema. Tra l’altro siamo poco abituati a capire bene i dati…
Armocida: Nicolò Giuliano mi ha fatto sorridere, perché noi abbiamo fatto un libro che ha in copertina un teaser poster di Lo chiamavano Jeeg robot, un film che è comunemente accettato sia stato un successo; anche se lui dice che Il ragazzo invisibile, che ha ottenuto lo stesso incasso, è considerato da noi un flop… percezioni… immaginario…
E sulla dicotomia tra cinema di genere e cinema d’autore, già da alcuni critici , tra cui Veronica Pravadelli, ricondotto ad un modo di essere del “genere”?
Armocida: Ti rimando al saggio di Marco Giusti e alla prima vera operazione di sdoganamento del genere effettuato da lui al Festival di Venezia durante la direzione artistica di Marco Mueller…
Sollazzo: Marco Giusti ha fatto tantissimo e credo sia stato intelligentissimo da parte di Pedro dedicare l’ultima serata della Mostra di Pesaro a Stracult.
Una domanda provocatoria, potreste spiegare in poche parole perché una Mostra del cinema, un Festival sono utili? Visto che l’argomento dell’utilità viene usato per diminuire i budget ed eliminare manifestazioni preziose sul piano culturale …
Armocida: Un Festival di cinema è un’altra forma, una delle tante forme possibili, di fare critica. Serve a costruire percorsi, dare delle indicazioni, provocare delle scelte; tutto quello che attiene a un pensiero diciamo scientifico-culturale. Ė un percorso di critica, però noi chiamiamo Festival tutto …. Io bene o male faccio da tanti anni il Festival di Pesaro, che è molto identificabile, molto identitario su un certo tipo di proposta culturale, ma non posso dire la stessa cosa di altre manifestazioni, quindi non posso parlare che per me. Non tutti i festival sono tali, alcuni sono delle kermesse, ma non può essere un luogo dove vengono dati dei premi così a caso senza costruire nulla intorno a quello che si sta facendo. Certamente sono sempre meno coloro che possono agire così, perché la parte legata all’evento, al personaggio – senza sempre dare giudizi di valore – va benissimo, ma non è con la formula del tappeto rosso presente in tante manifestazioni che affronti un discorso culturale …. giusto che vengano delle persone conosciute a parlare, a Pesaro ad esempio avremo un incontro tra Banfi e Veltroni, ma non si tratta di cose buttate lì a caso. Io continuo a pensare, finché me lo faranno fare, che è fondamentale unire proposta culturale, esigenze popolari, cioè portare comunque al pubblico anche una persona che al di là del film, ma anche all’interno di un percorso, in cui io sto cercando di costruire una sorta di proposta critica, puoi aggiungere qualcosa al film, ma non sostituirlo. Noi dobbiamo sempre valutare a cosa servono i festival e penso che abbiamo sotto gli occhi che almeno quelli che riescono bene hanno una grande partecipazione di pubblico di pubblico…
Sollazzo: Un festival come la Mostra di Pesaro o altre iniziative di pari livello ci raccontano che le persone prendono e vanno spesso in sala. In luoghi di provincia, le persone abbandonano Netflix, abbandonano gli scarichi legali o illegali, abbandonano la facilità con cui possono accedere all’audiovisivo e decidono di andare in una sala, in una piazza, in un castello a vedere dei film che spesso non fanno notizia…. Il festival è un luogo per andare a vedere qualcosa che forse non vedranno più e non vedranno più in quel modo…. È una proposta culturale di un certo tipo, di qualità… Migliorano le città in cui si svolgono, le riqualificano a livello logistico, mobilitano energie e pensiero, coloro che pensano i Festival non servano sono quelli a cui la cultura dà fastidio, che hanno paura di città un po’ più vitali, che hanno paura delle persone che leggono, che guardano, che pensano. Quindi penso che siano veramente delle occasioni importanti, degli appuntamenti che è sempre più difficile praticare, perché antieconomici, complicatissimi…. Rispondiamo a questa domanda dicendo che i Festival servono! Eccome… Devono essere come Pesaro, è facile… la retrospettiva di genere, al di là di come l’abbiamo creata, parla al critico, al pubblico, alla collettività. In questo senso si può trovare un filo che unisca tutti insieme e dialoghi con tutti. Un festival come quello di Pesaro mi sembra sia la soluzione perfetta, perché rappresenta un modello moderno di Festival che dovremmo portare avanti…

Deportati in Libia, storia di un respingimento segreto

Libyan coast guardsmen stand on a boat during the rescue of 147 illegal immigrants attempting to reach Europe off the coastal town of Zawiyah, 45 kilometres west of the capital Tripoli, on June 27, 2017. More than 8,000 migrants have been rescued in waters off Libya during the past 48 hours in difficult weather conditions, Italy's coastguard said on June 27, 2017. / AFP PHOTO / Taha JAWASHI (Photo credit should read TAHA JAWASHI/AFP/Getty Images)

Partire dalla Libia. Salpare le onde su un gommone, con la speranza che una nuova vita stia per iniziare, al di là del Mediterraneo. Trovarsi in difficoltà, in mezzo al mare. Avere la fortuna di essere soccorsi e venire trasbordati su una nave mercantile italiana. Essere salvi, insomma. Essere già in Europa. Ma solo in teoria. «Adesso dormite – avrebbe detto loro l’equipaggio – domani vi sveglierete in Italia». Ma la mattina dopo, all’orizzonte, si intravede il porto di Tripoli. E per i naufraghi, sbarcati e presi in custodia dalla Guardia costiera libica, finisce un sogno e si aprono i battenti dei lager per migranti.

È questa la testimonianza di un ragazzino che si trova tutt’ora nel Paese nordafricano – di cui ometteremo la nazionalità e il vero nome, lo chiameremo Ato – che ci racconta di un’operazione di soccorso dal dubbio profilo giuridico condotta in gran segreto o per lo meno mai intercettata fino ad oggi dalla stampa.

Occorre a questo punto fare un passo indietro nel tempo. Perché la vicenda di Ato fa tornare alla mente quella dei 101 migranti della Asso 28, la nave commerciale di cui si occuparono le cronache il 30 luglio 2018 per aver riportato in Libia un gruppo di persone soccorse nel Mediterraneo in acque internazionali, su indicazione della marina di Tripoli. Il natante, che fa parte della flotta di Augusta offshore, una Spa con sede a Napoli, operava a supporto della piattaforma di estrazione Sabratah, gestita dalla Mellita oil & gas (una joint venture tra Eni e la National oil corporation libica). Il caso fece esplodere le polemiche tra chi affermava che si trattasse di una operazione legittima e chi invece sosteneva che fosse un grave abuso: il primo respingimento collettivo operato da una nave commerciale verso un porto non sicuro in violazione delle norme internazionali di soccorso marittimo e sul diritto d’asilo. Un’ipotesi considerata plausibile da numerosi giuristi, e anche dall’Unhcr, che in una nota del 31 luglio affermava: «La Libia non è un porto sicuro e questo atto potrebbe comportare una violazione del diritto internazionale». Nessuna autorità ha però mai fino a oggi messo sotto inchiesta la società proprietaria della Asso 28, né il capitano della imbarcazione.

Ma che fine hanno fatto i profughi riportati dal mercantile italiano in Libia? Sarita Fratini, scrittrice e blogger da tempo impegnata nel documentare ciò che accade ai migranti intrappolati nel Paese nordafricano, ha iniziato a condurre ricerche proprio a partire da questo interrogativo. «Volevo capire che ne era stato di loro e ho iniziato a studiare i rapporti di Oim e Unhcr, in cui si rendicontano le presenze nei lager libici», racconta a Left. «Da un mese all’altro, nel campo di Tariq al Matar, è risultato un aumento di donne incinte che corrispondeva al numero di quelle segnalate a bordo della Asso 28, ossia cinque. Così mi sono rivolta ad un contatto in Tunisia, Amil, un ragazzo eritreo transitato da quel campo che nel frattempo era stato sgomberato. Lui ricordava con precisione un gruppo di persone scese da una nave italiana, e mi ha indicato i due lager nei quali il gruppo era stato diviso dopo lo sgombero».

«Grazie a una rete di attivisti e a Giulia Tranchina, avvocatessa specializzata nella difesa dei diritti umani, sono quindi riuscita a mettermi in contatto con un ragazzino segregato in uno dei lager. È lui Ato». Sì, proprio colui dal quale inizia il nostro racconto. «Parla poco inglese, è molto chiuso. Così ho chiesto ad Amil di scrivergli. Ad Ato fa piacere parlare con qualcuno che è riuscito ad uscire dal sistema dei lager. Così, dopo un po’, è saltato fuori che lui stesso era stato deportato da una nave italiana di cui ricordava il nome, “Napoli Ssevantaoto”. Non era però successo il 30 luglio, bensì tra l’1 e il 2 luglio». 

Ato tutto questo lo spiega in un file audio, che un interprete ha tradotto, di cui siamo in possesso. Se tutto fosse confermato, il trasporto di profughi in Libia operato da una nave mercantile italiana a fine luglio 2018 non sarebbe stato un caso isolato. La domanda è: chi ha autorizzato questo modus operandi? Di sicuro c’è che le operazioni di salvataggio in quel tratto di mare sono state numerose. In una nota diffusa dalle agenzie di stampa la scorsa estate, la stessa Augusta offshore ha dichiarato che «dal 2012» le sue unità «sono state impegnate in 262 operazioni Sar» (search and rescue, ricerca e soccorso). E proseguono ancora oggi se pensiamo che la Asso 25, un’altra nave della stessa flotta, il 6 giugno scorso ha salvato portandoli a Pozzallo 62 migranti rimasti alla deriva su un gommone in acque Sar libiche. Ciò a dimostrazione del fatto che i casi in cui ad intervenire per soccorrere i migranti sono proprio le navi commerciali, in seguito alla diminuzione della presenza delle Ong, e al disimpegno militare italiano ed europeo nel Mediterraneo, sono numerosi.

«Dal racconto di Ato ho provato a ricostruire tutta la storia – spiega Sarita Fratini -. Gli ho chiesto i contatti di altri naufraghi. E ho scoperto così che le donne sarebbero state trasferite in un altro campo. E dai nomi delle compagne di viaggio che lui ed altri ragazzi mi hanno segnalato, abbiamo scovato i loro profili facebook che per molti di loro sono l’unico (segreto) contatto con il mondo esterno». Il racconto di Sarita prosegue: «Tra queste ragazze ce n’era una che stava per partorire, Dahia (anche qui, come nel resto del testo, useremo nomi di fantasia, ndr). Nel suo centro c’era un’epidemia di Tbc e nessuno si preoccupava di fornirle aiuto medico. Così ha partorito sul pavimento. Suo figlio, Loni, è riuscito comunque a sopravvivere».

Ma non è l’unica ragazza che si riesce a rintracciare. Tra loro c’è anche Eden. «È stata lei a ricordare che a bordo della nave in cui si trovava quella notte tra l’1 e il 2 luglio, un marinaio avrebbe detto ai naufraghi che era stata inoltrata una richiesta all’Italia, per capire se li voleva accogliere, ma dall’Italia sarebbe arrivata una risposta negativa». Eden lo ha sostenuto in uno scambio via social che abbiamo potuto visionare. Davvero ci fu un contatto tra autorità italiane e il capitano della nave quella sera?

Per fare luce sulla vicenda, è fondamentale innanzitutto accertare se davvero i migranti siano arrivati con una nave cargo, e capire di quale imbarcazione si stia parlando. Alcuni indizi aprirebbero all’ipotesi che sia stata proprio la Asso 28 a compiere trasbordo di cui parlano i migranti. Innanzitutto, il nome che ricorda Ato, «Napoli Ssevantaoto», è piuttosto simile a quello del mercantile italiano. Ma ci sono altri elementi che sosterrebbero questa eventualità. Secondo uno screenshot che immortala i registri marittimi di AirNav ShipTrax, il rimorchiatore in questione si sarebbe trovato il 2 luglio alle 7.30 Utc ormeggiato a Tripoli. Alcuni dei naufraghi, inoltre, sostengono di aver ricevuto a bordo della nave bottigliette di acqua minerale made in Malta. Era una delle poche cose che avevano con sé, per questo lo ricordano bene. E, sempre secondo lo screenshot in questione, il precedente scalo della Asso 28 sarebbe stato il 23 giugno 2018, a Marsaklokk, Malta.

Ci siamo dunque rivolti alla Augusta offshore, chiedendo di confermare o smentire questa ipotesi. Ma, al momento in cui andiamo in stampa, dall’armatore non è giunta alcuna risposta. Restiamo comunque in attesa di un eventuale chiarimento e, nel caso, saremo lieti di informare i nostri lettori.

Ma, in questa storia, c’è di più. «Nella lista di coloro che i migranti mi hanno indicato come compagni di viaggio del 2 luglio – riprende Sarita – c’è un altro nome che mi sta particolarmente a cuore. È quello di Josi, che conservo accanto ad una sua foto. Josi era un ragazzo, ed è morto di tubercolosi sul pavimento del lager dove era rinchiuso, lasciato agonizzare senza essere soccorso». Uno, purtroppo, dei tanti casi di morte per malattie facilmente curabili nei lager del Paese nordafricano, documentati ormai da sempre più inchieste giornalistiche. Lager, questi, in cui alcune Ong italiane hanno accettato di intervenire, per portare aiuti finanziati dall’Italia, di cui spesso – secondo quanto affermano i detenuti – si perdono le tracce, una volta consegnati alle guardie.

«Per ora ho trovato i nomi di buona parte dei migranti deportati il 2 luglio – spiega la blogger -. Sono di varia nazionalità, ci sono ragazzini minorenni, ragazzine sui vent’anni che sostengono di venire sistematicamente violentate. Ho comunicato le loro generalità a team legali europei che si occupano di immigrazione. Queste persone devono avere giustizia».

Per fare luce sulla vicenda, Sarita ha dato vita ad un collettivo. Si chiama Josi e Loni project. Sono i nomi del neonato venuto alla luce nel lager e del ragazzino che, in uno di questi luoghi disumani, ha perso la vita. Lo scopo del gruppo di attivisti è fermare le deportazioni verso la Libia, raccontandone gli effetti, ricercando i deportati dalle imbarcazioni europee, monitorando le navi cargo nel Mediterraneo.

Nel frattempo, dei deportati del 30 luglio, quelli finiti sulle prime pagine dei giornali, non si è più trovata traccia. Diversi avvocati d’Europa stanno cercando queste persone, senza successo. Per fare luce sulla vicenda, e chiedere l’intervento della magistratura, lo scorso agosto alcune personalità del mondo della cultura, di quello giuridico e della politica, hanno presentato un esposto. Tra le firme, Moni Ovadia, Luigi de Magistris, Luigi Ferrajoli, Domenico Gallo. Nel documento, si chiede alle autorità di accertare se la vicenda configuri «una forma di respingimento collettivo per di più da parte di privati», una pratica per cui l’Italia è già stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012 (con la cosiddetta sentenza Hirsi, ndr) per aver esposto profughi a trattamenti inumani e degradanti (art.3, Cedu) e per aver compiuto espulsioni collettive proibite (art.4 prot.4).

«L’esposto non risulta archiviato ma, nonostante diversi incontri avuti presso l’ufficio del sostituto procuratore Falcone, incaricato delle indagini, non abbiamo notizia di ulteriori sviluppi», commenta Danilo Risi, avvocato che ha depositato il testo alla magistratura. «È un po’ strano che su questa vicenda non si sia voluta fare chiarezza – prosegue -. Molto si è detto sui soccorsi operati dalle Ong, e dalle navi della marina militare, ma si tratta della punta dell’iceberg rispetto ai soccorsi operati dalle imbarcazioni commerciali». Le quali ora, dopo la lotta alle organizzazioni umanitarie del governo Gentiloni prima e Conte poi, e con la riduzione dell’impegno militare di Italia ed Unione europea nel Mediterraneo, rappresentano spesso le prime realtà che intervengono in soccorso ai migranti naufraghi. Molti armatori, per questo motivo, sono preoccupati. Per loro, le attività di salvataggio si traducono spesso in un calo della produttività, una spesa non sempre del tutto recuperabile tramite le assicurazioni.

«La nostra idea è che un abitante del mondo, quando sale su una nave italiana e dunque entra in Italia, ha diritto ad essere identificato e a presentare una domanda di asilo – afferma l’avvocato -. Certo, se poi a coordinare i soccorsi c’è la marina italiana, si pone un problema di responsabilità diretta, se invece è la marina libica la questione è di sovranità».

Ma il tema della sovranità non assolve certo l’Europa dalle sue responsabilità. Un altro esposto di 250 pagine che sarà depositato alla Corte penale internazionale dell’Aja punta il dito contro i politici europei responsabili di crimini contro l’umanità. «Esternalizzando le pratiche di respingimento dei migranti in fuga dalla Libia alla Guardia costiera libica – si legge nel documento -, pur conoscendo le conseguenze letali di queste deportazioni diffuse e sistematiche (40 mila respingimenti in 3 anni), gli agenti italiani e dell’Ue si sono resi complici degli atroci crimini commessi contro nei campi di detenzione in Libia». L’esposto è stato redatto da Omer Shatz, esperto di diritto internazionale dell’Istituto di studi politici di Parigi, e Juan Branco, giornalista franco-spagnolo, consigliere di WikiLeaks. Sotto accusa sono Renzi, Gentiloni, Minniti, ma anche Salvini, Macron e la Merkel.

«Attraverso un complesso mix di atti legislativi decisioni amministrative e formali accordi – si legge ancora nel testo – l’Ue e i suoi Stati membri hanno fornito alla Guardia costiera libica sostegno materiale e strategico, incluso ma non limitato a navi, addestramento e capacità di comando e controllo». È così che, secondo gli estensori dell’esposto, i Paesi Ue avrebbero aggirato il diritto marittimo e internazionale, con lo scopo di chiudere le frontiere.

Ma che il potere delle autorità di Tripoli nei confronti delle navi che prestano soccorso, in virtù della giurisdizione che esercitano nella loro zona Sar grazie all’accordo Italia-Libia del 2017, non sia sufficiente a considerare i porti del Paese nordafricano come “sicuri”, lo conferma una sentenza del Tribunale di Trapani. Nell’assolvere i due migranti soccorsi lo scorso luglio dall’equipaggio del rimorchiatore italiano Vos Thalassa, accusati di aver provocato disordini a bordo per evitare che fossero riportati in Libia, il giudice Piero Grillo spiega che: «Se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo». Per questo, la ribellione dei due migranti in opposizione alla volontà della Guardia costiera libica è stata considerata “legittima difesa”.

Anche per questo, è importante che sui casi di possibili respingimenti collettivi verso la Libia sia fatta luce. «Su un episodio come quello della Asso 28 – torna a dire l’avvocato Risi – c’era la possibilità di fare chiarezza, ma ancora la magistratura non si è mossa in questo senso». Noi ci auguriamo invece che si arrivi ad una svolta. Per la dignità del nostro Paese. Ma, prima ancora, per Loni e per Josi.

L’inchiesta di Leonardo Filippi è tratta da Left in edicola dal 14 giugno 2019


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Tra l’incudine giallonera e il martello dei Trattati

Un momento della manifestazione nazionale dei pensionati di Cgil, Cisl e Uil "Dateci retta" in piazza San Giovanni, Roma, 01 giugno 2019. ANSA/ANGELO CARCONI

Gli uni, (la Commissione Ue), hanno sostanzialmente vinto le elezioni europee. L’altro, Salvini, ha vinto quelle italiane. Ora il momento della resa dei conti sembra arrivare.
La Commissione sferra un doppio colpo con l’avvio delle pratiche per una procedura d’infrazione e con una raccomandazione che, nell’ambito delle competenze che la Commissione stessa ha verso tutti gli Stati membri in materia di bilanci, suona particolarmente dura verso l’Italia. Se si vuole usare in modo appropriato il detto popolare «stare tra l’incudine e il martello», questo è uno dei casi perfetti.
Se si pensa a ciò che è il governo giallonero, a quello che fa in materie sensibili come migranti e sicurezza e al fatto che sul debito vuole rilanciare con la Flat tax, cioè sforare per favorire i ricchi, contro la progressività costituzionale, non ci si può che augurare che questo governo scompaia. A leggere però le 15 pagine delle raccomandazioni vengono i brividi. Mi viene il dubbio che non si sia capito fino in fondo quale marchingegno sia stato messo in piedi nei modi, diciamo così, farraginosi con cui si è costruita la Ue. Sta di fatto che ormai dagli anni della crisi finanziaria la Commissione si è vista consegnare – con un pacchetto di norme approvate che vanno dal Six pack, al Two pack, al Fiscal compact – l’indirizzo e il controllo preventivo sui bilanci. Quando poi si arriva alle crisi estreme interviene la Troika. Ma stiamo alla “normalità”. E leggete quelle 15 pagine.
Non è che dicano “dovete stare nei parametri e non ci state”. No, intervengono su tutto. Dalle pensioni, al fisco, ai contratti. Materie che apparterrebbero ancora agli Stati. Ora, pur ritenendo che…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 14 giugno 2019


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