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Egidia Beretta Arrigoni: Cosa significa oggi “restare umani”

«Io e i miei compagni siamo coscienti degli enormi rischi a cui andiamo incontro, questa notte più delle altre; ma siamo certo più a nostro agio qui, nel centro dell’inferno di Gaza, di quanto lo saremmo mai stati nei paradisi metropolitani europei o americani, dove la gente festeggia il nuovo anno e non capisce quanto in realtà sia complice di tutte queste morti di civili innocenti. Restiamo umani».
Questo scriveva Vittorio Arrigoni sul suo taccuino direttamente da Gaza, dieci anni fa, durante l’operazione israeliana “Piombo fuso” a danno della popolazione araba. Le uniche testimonianze di quel conflitto atroce sono state quelle di Vittorio, che sulle ambulanze e negli ospedali ha visto l’orrore diquell’attacco sanguinario. Oggi, Vittorio non c’è più e il conflitto israelo-palestinese sembra essere più vivo che mai. Ne parliamo con Egidia Beretta, madre di Vik, per tenerne vivo il ricordo e per non scordarci, oggi, della Palestina.
È possibile che negli ultimi anni non si sia fatto un passo in avanti verso la risoluzione del conflitto?
La questione palestino-israeliana entra e esce dalle agende dei cosiddetti “grandi del mondo” da tanti anni, viene presa a cuore solo a seconda della convenienza del momento. Se durante “Piombo fuso” tutti tacquero, qualche voce autorevole si levò nell’estate del 2014 quando le forze militari israeliane colpirono ancora più duramente la Striscia di Gaza. Poi, il silenzio sino alla primavera scorsa: impossibile ignorare le immagini della Marcia del ritorno. Migliaia di palestinesi hanno rivendicato con orgoglio il diritto di esistere e di essere liberi. La sudditanza del mondo occidentale verso Israele è ben nota. Non aiutano verso il cammino della pace il radicalismo di Hamas, la tentennante leadership di Abu Mazen, i contrasti interni alle fazioni palestinesi. E ci si dimentica dello scarpone israeliano che tiene sigillate tutte le frontiere della Striscia, che continua ad occupare terre nella West Bank, dove costruisce sempre più colonie, sradica ulivi, abbatte scuole e abitazioni…
Qual è il suo ricordo più nitido di quella guerra?
Non chiamiamola guerra. A Gaza c’era…

L’intervista di Youssef Hassan Holgado alla madre di Vik prosegue su Left in edicola dal 28 dicembre 2018


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Carmen Yáñez: La dolce vendetta della poesia

«Racconto l’emigrazione, do voce al migrante, ma in questo mio libro di poesie, Migrazioni, do spazio anche alle cose quotidiane, in tono ironico, con passione, con tutta la passione che mi posso permettere, a modo mio». Carmen Yáñez ha attraversato e condiviso lo stesso destino, la stessa condizione allargata di esperienza e conoscenza di molti esuli del passato: per salvarsi dalla dittatura di Pinochet, nel 1981 ha dovuto lasciare la sua terra, i suoi affetti, la sua famiglia e cominciare il lungo viaggio dell’emigrato, vivere con coraggio le stesse sofferenze, convivere con le stesse speranze e delusioni. Come ci racconta in questa intervista riuscì a tornare in Cile dopo tantissimi anni ma solo per riabbracciare i suoi cari. Dal 1997 vive in Spagna con il suo compagno, lo scrittore Luis Sepúlveda, anche lui esiliato dalla repressione fascista responsabile del golpe contro Salvador Allende. L’abbiamo incontrata in occasione della presentazione di Migrazioni, uscito in Italia per Guanda, che si è è tenuta a Milano l’8 marzo nell’ambito della rassegna Tempo di libri.

I migranti di oggi fuggono dalla fame, dalla miseria, e come lei dalla guerra, dalle persecuzioni politiche, in cerca di un approdo definitivo. Cosa l’ha spinta a scrivere questo nuovo libro di poesie?

Sono stata sequestrata nel 1975 e portata a Villa Grimaldi, che non era un carcere ma un centro di detenzione clandestino per i militanti più attivi contro il regime di Pinochet. Per questo motivo da Villa Grimaldi sono sparite tante persone. In tutto il Cile vi erano circa 1.500 siti di questo tipo, vere e proprie “fabbriche” di desaparecidos. Dopo essere stata liberata, vissi in clandestinità nel sud del Cile. Ritornai a Santiago nel 1980, ma nel 1981 mi arrestarono nuovamente. Questa volta finii ai domiciliari ma per me fu davvero troppo. Decisi di lasciare il mio Paese. E vissi il dolore di cui parlo in Migrazioni. Un dolore reale, che esiste, quello che si prova separandosi dai propri genitori, dai fratelli, dagli amici, dagli affetti. È difficilissimo compiere questo passo, lasciarsi alle spalle la propria casa, la città e tutti i luoghi che ti sono sempre appartenuti, specie se per colpa di un’ingiustizia. Con l’aiuto dell’Onu arrivai in Argentina come rifugiata in transito e da lì partii per la Svezia che mi accolse come rifugiata definitiva. Nel mio nuovo libro tratto questa tematica personale, ma anche molto di più. Perché parlo delle emozioni, del senso di sradicamento che vive chi emigra, chi arriva in un nuovo posto, sotto un nuovo cielo, con la speranza di star meglio, di potersi finalmente realizzare. La mia poesia si nutre di tutto ciò. Incoraggiando a sognare di poter cambiare l’ordine delle cose.

Il suo viaggio nel pianeta della migrazione è poetico ma il suo racconto non è mai imparziale, disincantato.

Nel mondo accadono tanti disastri, di fronte alla violenza insensata, alle migrazioni forzate di milioni di persone, non posso rimanere indifferente, non posso non stare male e non ribellarmi, e lo faccio scrivendo. C’è chi preferisce isolarsi da questa realtà costruendo una bolla d’aria in cui rinchiudersi e vivere la propria vita, indifferente ai fatti che accadono nel mondo. Io non posso. Sono dell’idea, come mio marito Luis Sepúlveda, che prima siamo cittadini e dopo scrittori, e dobbiamo guardare il mondo che ci circonda. Siamo come uno specchio e dobbiamo riflettere la realtà. Con la mia poesia prendo una posizione, mi schiero, perché non voglio essere imparziale, voglio difendere ciò in cui credo e di cui sono convinta. È questo il motore che muove la mia creatività. Certo, ci sono momenti in cui certe notizie ti schiacciano e le ingiustizie diventano intollerabili, momenti in cui mi sono detta “ci hanno sconfitto” ma poi rifletto e mi dico che “no”, bisogna continuare a denunciare.

Dopo il sequestro e l’esilio, il suo viaggio da emigrante non si è mai concluso.

Il giorno che lasciai tra le lacrime i miei genitori, le persone più importanti della mia vita, dissi loro che sarei tornata entro un paio di anni. Ma sapevo che la dittatura sarebbe stata lunga, che non sarei potuta ritornare per molto tempo. E così andò. Fu un tempo molto lungo sia per me che per loro, erano già anziani. E accadde una cosa di cui non si tiene mai conto quando si parla di situazioni come queste. Non si considera mai il danno che consiste nell’impedire a una persona di vivere nel propio Paese. Non è un danno quantificabile ma è reale. Io non sono tornata mai più vivere in Cile. Il Paese che lasciai, che amavo, non esiste più, è totalmente cambiato. Quando rientrai la prima volta dopo anni mi sono sentita “truffata”. L’ho gridato in alcuni dei miei poemi. Mi sono sentita esclusa pur avendo fatto tante cose per il Cile negli anni dell’esilio, affinché fosse fatta giustizia per le vittime e i sopravvissuti della dittatura.

Che Paese trovò al suo ritorno?

Scoprii che avevano trasformato tutto, per imporre il neoliberalismo, il modello economico che tuttora oggi comanda “tutelato” dalla Costituzione che è ancora quella di Pinochet. La sanità, l’accesso a un alloggio degno, l’istruzione, tutto ciò che con Allende era pubblico, laico e di qualità per una migliore qualità di vita del proletariato, è stato ridotto in servizi pessimi per favorire le privatizzazioni. E non si parla più di proletariato. Non esistono più i lavoratori, gli operai, oggi in Cile e più in generale nel mondo, si parla di “classe media impoverita”. La parola “proletariato” è dimenticata.

Cosa la impressiona di più dei fenomeni migratori di oggi?

In queste mie poesie rifletto sui migranti che arrivano o tentano di arrivare in Europa. Gente che ha fame, sete, e che fugge dalla morte, dalla guerra, in definitiva dall’odio. Nel libro rifletto sulle diseguaglianze che costringono gli esseri umani a decidere di emigrare perché è l’unica possibilità di salvezza. E cosa incontrano? Odio, diffidenza, avversità di ogni tipo, vengono respinte da questa parte di mondo che pure sa benissimo cosa significhi emigrare per gli stessi motivi.

Uno degli argomenti più utilizzati per rifiutare l’accoglienza è che si tratti di emigrazioni di carattere economico. In realtà anche il rifugiato economico è un rifugiato politico per la mancanza di opportunità, per l’impossibilità di vivere dignitosamente nel proprio Paese. In questo momento storico, in Spagna, se ne sono andati all’estero tanti giovani, molto preparati, cercando le opportunità che qua non trovano più perché non c’è lavoro. Dove vivo io, nelle Asturie, la disoccupazione tra i giovani è al 50%. E chi resta finisce con l’essere ingannato dai discorsi xenofobi che indicano nell’immigrato la causa della disoccupazione. Purtroppo in Europa il razzismo è addirittura arrivato al governo in alcuni Paesi.

L’11 marzo Sebastián Piñera si insedierà alla presidenza della Repubblica, riportando per la seconda volta in pochi anni la destra alla Moneda. Cosa comporta questo per il suo Paese?

Ho cercato di capire quello che è successo. Piñera ha vinto al ballottaggio grazie ai tanti soldi spesi in campagna elettorale. Ma non solo. È stato capace di far leva sul fattore “paura”. Non è solo una prerogativa europea o spagnola. Accade anche in America Latina. Un esempio eclatante è l’Argentina di Macri in cui i mezzi di comunicazione giocano un ruolo fondamentale nella narrazione di una realtà che non esiste per alimentare nell’opinione pubblica insicurezza e incertezza. Chi non ha lavoro, chi ha scarsa istruzione è la prima vittima di questo clima, a partire dai giovani. In Cile c’è stata una forte astensione al voto, a causa di una legge del 2012, voluta da Piñera e varata dal suo governo, per cui il voto è diventato volontario, mentre prima era obbligatorio. Chi è andato a votare appartiene alle classi medio alte, cercando garanzia di continuità dei privilegi. E solo Piñera era in grado di offrire loro adeguata ricompensa. Le classi basse, la gente più vulnerabile, non sono andate a votare. In definitiva, sarà una catastrofe per il Paese. Il governo di destra potrà eliminare molti dei benefici ottenuti dalla classe lavoratrice. Anche perché la sinistra in generale sta perdendo la capacità di rispondere al suo elettorato tradizionale. Una autocritica è imprescindibile. Perché si corre il rischio di fare la fine dell’Argentina, dove Macri oltre ad aver affossato il Paese dal punto di vista economico, ha riportato indietro di anni la lancetta del rispetto dei diritti umani. Basti pensare alla repressione subita dal popolo Mapuche e ciò che è successo a Santiago Maldonado. Guardando al passato “comune” di Cile e Argentina, anche da noi si avvicinano tempi duri. Piñera sicuramente applicherà la repressione contro chi si opporrà alla società del consumismo fondata sul potere delle multinazionali.

Sembra una storia già vista.

Il sintomo più evidente e attuale attraverso cui si manifesta questo potere è rappresentato dal cambiamento climatico. Non è un problema solo latinoamericano ma di tutto il mondo. Le grandi industrie producono sempre di più senza che nessuno le fermi, devastando l’ambiente, alimentando l’emigrazione forzata da un continente all’altro. Il miraggio del denaro facile rischia di distruggere il mondo, senza che l’opinione pubblica si opponga. È come se fosse drogata, dal consumismo appunto, ma non solo. Il vuoto interiore e affettivo che si crea nelle società fondate sul neoliberismo e sul consumismo viene colmato anche con la droga vera. E poi c’è un’altra droga. Accade pure in Cile, dove c’è gente che cade nel tunnel delle religioni. Nel mio Paese insieme alla religione cattolica che ha avuto sempre un grande peso nella società, si sono sviluppate numerose sette. Sono tutti elementi nocivi che addormentano un popolo e lo portano alla morte.

Anche contro tutto questo, scrivo, mi espongo con le mie poesie. Io la chiamo la dolce vendetta, perché con questa dolcezza nessuno può confutare, è un modo di protestare e gridare contro le ingiustizie.

 

L’intervista di Gabriela Pereyra a Carmen Yáñez è stata pubblicata su Left del 2 marzo 2018


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Fabio Magnasciutti, l’artista dell’emozione

Il vignettista Fabio Magnasciutti al Festival della Politica - Mestre

Una bella donna dal vestito rosso, girasoli rivolti verso al sole, pesciolini rossi che si interrogano sulla vita fuori dall’acqua, supereroi inseriti nella vita quotidiana e tanti oggetti che da inanimati diventano animati, che raccontano qualcosa. Disegni realizzati con un tratto riconoscibile tra tanti e accompagnati da giochi di parole. Figure che fanno direttamente un’immagine nella mente di chi le guarda e che suscitano sempre qualcosa. Un sorriso, una riflessione, un’incazzatura, un dubbio. Questa è l’arte di Fabio Magnasciutti. Illustratore, vignettista e musicista. Ha pubblicato numerosi libri con la casa editrice Lapis ed altri editori. Dal 2005 tiene corsi all’Istituto europeo di design, è uno dei fondatori della scuola di Illustrazione OfficinaB5.

La passione per il disegno l’ha accompagnato da sempre. «Da che ricordo ho sempre disegnato. Nel tempo ho cercato di farlo sempre meglio, finché non è diventato un lavoro». Le sue vignette sono molto seguite sui social e non si fa fatica a capire che son fatte proprio da lui. «Nei miei lavori ho messo insieme l’esperienza dell’illustrazione con la passione per le parole, i giochi di parole o per i significati laterali o nascosti delle cose, avendo sempre come punto di riferimento Gianni Rodari. Il tutto mi viene abbastanza spontaneo e semplice» racconta Fabio Magnasciutti a Left.

«Non c’è molto pensiero dietro un’illustrazione. Mi viene in mente una battuta o un’immagine che mi colpisce particolarmente, non c’è una regola. A volte…

L’intervista di Amarilda Dhrami a Fabio Magnasciutti prosegue su Left in edicola dal 28 dicembre 2018


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Terremoto Catania, le immagini da Fleri e Poggiofelice

Nelle immagini di Sebastiano Gulisano, i danni in due frazioni di Zafferana Etnea (FLeri e Poggiofelice) provocati dal sisma di magnitudo 4.8 che durante la notte del 26 dicembre ha colpito il catanese.

«Poggiofelice risulta duramente colpita ma è rimasta lontana dai riflettori e, soprattutto, dagli interventi istituzionali» racconta il nostro collaboratore. «Fleri è tutta transennata e piena di volontari della protezione civile, pompieri, carabinieri, poliziotti, vigili urbani; a Poggiofelice non s’è visto nessuno ma i danni non sono minori».

Manuela D’Ávila: «Contrasteremo Bolsonaro su ogni terreno»

Manuela DAvila delivers a speech during the launching of her candidacy for the presidency of Brazil for October's national election during the national convention of Brazil's Communist Party (PCdoB), in Brasilia, Brazil, on August 1, 2018. - D'Avila -a journalist and former federal deputy for Rio Grande do Sul from 2007 to 2014- has been a state legislator for Rio Grande do Sul since 2015. (Photo by EVARISTO SA / AFP) (Photo credit should read EVARISTO SA/AFP/Getty Images)

Manuela D’Ávila, candidata alla vicepresidenza del Brasile alle elezioni di ottobre e dirigente del Partido comunista do Brasil (PCdoB) nonostante i 47 milioni di voti presi dalla coalizione con cui ha sfidato l’estrema destra di Bolsonaro, è oggi all’opposizione. Il presidente che si sta per insediare è un ex militare, espressione della destra più reazionaria e violenta, che durante la campagna elettorale ha promesso morte ai suoi oppositori. Lei, trentasette anni, aria indomita, un carisma costruito nella militanza e una simpatia contagiosa. A chi le chiede se ha paura risponde di non trovare il tempo per averne. E non si rassegna, ripetendo che: «Anche nel giorno più freddo, quando sembra che l’inverno non possa finire, è necessario ricordarsi che la primavera inevitabilmente arriverà».
Guardando gli Usa di Trump e l’Europa a partire dall’Italia, dove il ministro dell’Interno, fra i primi a congratularsi con Bolsonaro, parteciperà alla cerimonia per il suo insediamento, possiamo fare similitudini tra il nostro Paese e il Brasile?
Il punto di partenza è diverso. Gli effetti della crisi economica hanno prodotto da noi danni enormi non consentendoci, dal governo, di fornire risposte sufficienti. Il tutto in una situazione di fragilità istituzionale. La destra brasiliana si muove nello stesso solco di quella italiana. L’attacco più violento, in campagna elettorale, è stato condotto contro le donne. Si propongono leggi per impedire l’aborto anche in caso di stupro (ne avviene uno ogni 11 minuti), ma l’attacco è generalizzato. Le donne sono le prime a…

L’intervista di Stefano Galieni a Manuela D’Avila prosegue su Left in edicola dal 28 dicembre 2018


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Rossella Carnevali: «Contro il razzismo la sfida è culturale»

Un momento della manifestazione sull'approvazione della legge per la cittadinanza, 28 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Rossella Carnevali è una psichiatra e psicoterapeuta, che lavora presso un Centro di salute mentale della Asl Roma 4, e collabora con il centro SaMiFo (Salute migranti forzati) della Asl Roma 1. Poiché da anni si occupa di salute mentale di richiedenti protezione internazionale e rifugiati, le abbiamo rivolto alcune domande, per capire in che modo un Paese ospite dovrebbe porsi nei confronti degli immigrati per garantire loro il diritto all’accoglienza e l’integrazione nel tessuto sociale.

Qual è il disturbo riscontrato più di frequente in un migrante nel momento in cui riesce ad arrivare a destinazione?

Gli studi sui disturbi mentali dei migranti sono poco affidabili, poiché la definizione di “migranti”, essendo molto vasta, è difficilmente indagabile. Fanno parte di tale categoria tutti coloro che si spostano dal proprio Paese per andare a vivere in un altro luogo, per qualsiasi motivo, dagli italiani che vanno a Londra a coloro che giungono in Europa su imbarcazioni di fortuna. E ciò con le più svariate motivazioni migratorie: lavoro, studio, o guerre, persecuzioni, fame. Tra coloro che migrano in Italia, provenendo da luoghi con culture molto diverse dalla nostra, sono frequenti disturbi dell’adattamento. Ciò può essere legato all’impatto con la nostra società, con costumi, usanze, ma anche modi diversi di vivere le relazioni sociali e gli scambi con gli altri esseri umani. Nell’esperienza clinica con richiedenti e titolari di protezione internazionale, categoria invece più definita, la patologia più frequentemente riscontrabile è senza dubbio il disturbo da stress post-traumatico, che in letteratura ha una prevalenza venti volte superiore rispetto alla popolazione generale. In passato questa patologia era considerata la conseguenza diretta di eventi traumatici importanti (ad esempio violenze subite, rischio di morte propria o altrui), invece nell’ultimo decennio è stato osservato che può essere causata anche da piccoli stressors ripetuti nel tempo. Tutto questo ci fa riflettere sulla responsabilità del Paese di arrivo nel mantenere, o persino causare, i problemi di salute mentale degli immigrati, già messi alla prova dall’esperienza migratoria.

Da cosa non dovrebbe prescindere l’“accoglienza” per potersi definire tale? 

Queste persone arrivano da noi con aspettative più o meno realistiche: avere una vita migliore, un lavoro, un posto nella nostra società. Spesso queste aspettative vengono deluse. In Italia l’accoglienza è basata principalmente sui bisogni materiali (cibo, acqua, un tetto, vestiti) fondamentali da soddisfare, ma è molto carente per quanto riguarda la considerazione delle esigenze umane. Ognuno di noi si caratterizza per avere una tendenza naturale alla realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. Questo rapporto non è basato sull’utile, come le formiche che si organizzano per accumulare cibo per l’inverno, bensì sull’inutile, ad esempio ascoltare un concerto, dipingere un quadro, fare tardi con un amico che è triste, anche se il giorno dopo ci si deve svegliare presto. Questa tendenza alla realizzazione di se stessi nel rapporto con gli altri, è anche alla base delle scelte irrazionali di chi giunge da Paesi lontani. Già prima di partire alcuni sono consapevoli che durante il viaggio rischiano di subire violenze o morire, ma non gli interessa. Cercano qualcosa che non sanno spiegare, e la tendenza a seguire questa spinta interna è troppo forte: è un’esigenza. Arrivando da noi, salvo rare eccellenze nell’accoglienza, si trovano sbarrata la possibilità di seguire questa spinta. Pensando solo alla soddisfazione dei bisogni, si arriva addirittura a mettere in discussione l’esistenza stessa delle loro esigenze. Così, considerandoli alla stregua di animali, che appunto non hanno esigenze, vengono privati della loro umanità. Quindi possiamo pensare che un Paese che vuole accogliere, non può prescindere dal riconoscere un’identità umana ai migranti. Cosa niente affatto scontata negli ultimi tempi.

Il razzismo, l’odio e la negazione del ruolo sociale degli stranieri possono essere cause patogene e perché?

I richiedenti protezione internazionale sono persone che hanno subìto violenze. Una donna irachena ha perso il fratello per aver denunciato i membri di un gruppo terroristico. Un ragazzo bengalese è stato ridotto in fin di vita, perché si è ribellato a un matrimonio combinato. In Libia tutti subiscono arresti e violenze di ogni genere. Inoltre, fino al 2016, chi arrivava in Libia e si imbarcava per l’Europa, in caso di naufragio aveva buone possibilità di essere salvato dalle navi delle Ong e trasportato in un porto sicuro, nel rispetto delle leggi internazionali che regolano il diritto alla protezione.

Questo non accade più, per via del Codice di condotta imposto alle Ong da Minniti nel 2017 e, più di recente, per la chiusura dei porti decisa da Salvini e Toninelli.

Quando sentiamo che una nave italiana soccorre 108 migranti e li porta nel porto di Tripoli, rimaniamo attoniti. Queste persone, dopo aver subìto quello che abbiamo detto, stanno per arrivare su una terra che immaginano sicura e accogliente, ma vengono riportati, dagli stessi cittadini di quella terra, nelle mani dei carnefici! Un’azione del genere, mettendo intenzionalmente e consapevolmente a rischio la sopravvivenza delle persone, costituisce una chiara violazione del diritto alla protezione internazionale. Dopo quanto detto sulle aspettative deluse, si comprenderà come questa condotta sia estremamente distruttiva, anche dal punto di vista della salute mentale. Tale atto è una violazione dei diritti umani a 360 gradi, compreso il diritto alla salute, definito dall’Oms come «uno stato complessivo di benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattie o infermità». Le violenze, subite fin qui per mano di altri esseri umani, possono determinare nel migrante la perdita di quella fiducia che ognuno di noi ha naturalmente verso gli altri. Poi il confronto con episodi di violenza, psichica o fisica, di natura razzista, che accadono qui da noi, rende ancora più profondi la diffidenza e il distacco dagli altri, determinando un isolamento sempre maggiore e la sfiducia completa proprio verso quel Paese, il nostro, immaginato come salvifico. Per questo lo psichiatra che cura queste persone è messo alla prova nel dover dimostrare continuamente di meritare la loro fiducia.

In Italia vivono oltre 5 milioni di stranieri, tra questi ci sono anche circa 800mila “italiani senza cittadinanza”. Giovani figli di immigrati che qui sono cresciuti, hanno studiato, etc. Perché l’“altro”, in alcuni individui, provoca reazioni disumane?

Qui dobbiamo sottolineare che i media, così come i politici, che sarebbero tenuti a fare i dovuti distinguo, mescolano tutto, confondendo migranti, rifugiati, irregolari, braccianti, ex migranti che vivono qui da anni, persone nate qui da genitori stranieri, con o senza cittadinanza. Dando all’uno o all’altro, di volta in volta, l’appellativo più ad effetto sull’opinione pubblica. Questo calderone si basa su un’unica qualità in comune tra queste persone: l’essere stranieri. Questa parola può avere diversi significati. Ci sono persone che possono essere considerate straniere per lingua, cultura, usi e costumi. In questo senso, straniero può avere un valore positivo, portare elementi nuovi a una cultura come la nostra e contribuire a trasformarla, di solito in senso evolutivo. Ma questo non vale per gli “italiani senza cittadinanza”, che sono cresciuti nella nostra società, parlano la nostra lingua, hanno le nostre usanze. In questo caso la parola straniero non ha senso, allora viene usata con il significato, totalmente vuoto, di “colore della pelle diverso”. Gli episodi di razzismo a cui assistiamo ormai tutti i giorni da quando si è insediato questo governo (e da esso appoggiati, quando non causati in modo indiretto), sono basati proprio su questo livello di evidente stupidità. Quello che è successo a Daisy Osakue è l’emblema del contenitore vuoto su cui si fonda il razzismo. Cittadina italiana, atleta, quindi rappresentante dell’Italia nelle competizioni sportive, viene vista da tre “gusci vuoti” solo per il colore della sua pelle, e perciò aggredita.

Che tipo di “pensiero” c’è dietro queste dinamiche?

Qui servirebbe un discorso sulle origini storiche del razzismo, ma sarebbe troppo lungo (per approfondire vedi box a lato, ndr). Mi preme però dire che un pensiero che si basa sul colore degli occhi, dei capelli o della pelle è un discorso senza contenuto, che parla solo della realtà fisica, genetica dell’uomo. Questa è una realtà assodata, è così in ogni continente, abbiamo tutti 23 cromosomi, 2 braccia, 2 gambe e 20 dita (salvo malattie), ma non è la realtà materiale che fa l’identità umana. L’identità umana sta nella realtà non materiale che ci rende diversi dagli animali, che, come dicevo prima, non fanno cose inutili come suonare uno strumento, così come non si innamorano, ma hanno l’estro e si accoppiano al fine di riprodursi. Noi invece, indipendentemente dal colore della pelle, ci divertiamo, siamo tristi, ci arrabbiamo, amiamo e sogniamo. Questo perché abbiamo un’uguaglianza fondamentale nel pensiero non cosciente, irrazionale, diverso dal pensiero razionale che si muove solo per l’utile. Pensiero non cosciente che, come ha scoperto lo psichiatra Fagioli (vedi www.massimofagioli.com), si crea alla nascita con una dinamica specifica e uguale per tutti gli esseri umani, che porta il neonato ad avere la certezza che esistono altri esseri umani simili a lui con cui avere rapporto, la fiducia che ognuno di noi ha naturalmente verso gli altri, di cui dicevamo prima. Le manifestazioni di odio che vediamo ogni giorno, contrariamente a quanto sentiamo dire di solito, parlano della perdita totale di questa realtà irrazionale e del dominio esclusivo della ragione stupida, che vede solo la realtà fisica delle cose.

L’intervista di Federico Tulli a Rossella Carnevali è stata pubblicata su Left del 17 agosto 2018


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Pepe Mujica, il poeta della politica

epa06968225 Former Uruguayan President Jose Mujica addresses a press conference after holding a meeting with Spanish trade union CCOO's Secretary General, Unai Sordo (unseen), and Alejandro Ruiz Huerta (unseen), survivor of the far right attack against a lawyer firm in Madrid in 1977, in Madrid, Spain, 24 August 2018. Mujica is in Spain in his first international trip after he resigned as senator on last 14 August. EPA/Mariscal

Kintto Lucas è un analista politico, scrittore e giornalista uruguaiano/ecuadoriano. È stato ambasciatore dell’Uruguay e vice primo ministro dell’Ecuador. Ha scritto diversi libri d’inchiesta ma anche saggi politici e si è cimentato con la narrativa e la poesia. Negli anni Settanta a nove anni entrò nell’organizzazione guerrigliera Tupamaros di cui José Mujica era uno dei leader. Il lungo rapporto tra i due si è oggi materializzato nelle pagine di un libro da poco uscito in Italia per Castelvecchi: José “Pepe” Mujica: I labirinti della vita. Dialogo con Kintto Lucas. A lui abbiamo rivolto alcune domande.

Parlaci di Mujica, tu e “Pepe” vi conoscete da tanto tempo. In Europa lo considerano quasi alla stregua di un essere mitologico, cosa ne pensi?

Ci sono due punti di vista. Uno è quello latinoamericano e l’altro è quello europeo. In America latina è un punto di riferimento, ma non come in Europa. Io credo che l’attuale situazione europea, a sinistra, porti a cercare nuovi referenti politici. Mujica è diventato una figura con cui identificarsi perché parla di temi chiave anche per gli europei – come l’integrazione, l’ecologia, il neoliberismo – con una grande capacità di comunicazione che non ha nessun politico europeo ma nemmeno latinoamericano. In America latina non è però idealizzato o addirittura mitizzato come accade dall’altra parte dell’Atlantico. Lui è qui in carne e ossa, noi latinoamericani sappiamo chi è, conosciamo la sua storia politica, sappiamo come è stato il suo governo. Di recente in Spagna gli hanno consegnato un premio per la sua capacità di fare poesia facendo politica. In America latina una cosa del genere non può accadere ma lui resta comunque una grande figura di riferimento.

Tra i diversi temi di cui parlate nel libro c’è il processo di pace in Colombia in cui Mujica ha giocato un ruolo fondamentale.

Abbiamo toccato diverse questioni importanti che riguardano l’America latina, molte delle quali irrisolte da tempo. Una di queste è…

 

 

L’intervista di Gabriela Pereyra a Kintto Lucas prosegue su Left in edicola dal 28 dicembre 2018


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Dalla strage del ’99 nel Cpt di Trapani fino a oggi la storia dei disumani centri per migranti

Immigrati all'interno del Cpt di Lampedusa, 4 ottobre 2013. ANSA/MATTEO GUIDELLI

La notte fra il 28 e il 29 dicembre del 1999 si consumava nell’allora Centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta”, a Trapani (i Cpt sono all’origine dei Cie e oggi Cpr), la peggiore strage in un luogo di detenzione amministrativa per migranti. Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim, sei ragazzi tunisini, in quel centro erano stati rinchiusi e avevano provato a fuggire. Si erano calati con una corda fabbricata con le lenzuola, si era immediatamente scatenata la caccia all’uomo, li avevano ripresi e condotti in cella. Uno dei reclusi aveva dato fuoco ad un materasso scatenando l’incendio. Le chiavi non si trovavano, gli estintori erano rotti, nessuno volle prendersi la responsabilità di farli uscire. Ma uscirono, in 3 già morti e gli altri destinati alla stessa fine, dopo una tremenda agonia. Altri due ragazzi rinchiusi nella stanza si salvarono, ma portano i segni del rogo ancora addosso. Ci sono state condanne per quanto accaduto, ma non basta. Tanti e tante sono state le persone che in questi luoghi, veri bubboni della democrazia, hanno perso la vita. I morti sono la punta più tragica di un meccanismo infernale che ha visto distruggere la vita di uomini e donne, con rimpatri o con la condanna ad una “vita clandestina”, con sofferenze che minano l’essenza stessa di una persona, con atti di autolesionismo e tentativi di suicidio.

Uno strumento creato nel 1998 da un governo di centro sinistra perché “ce lo chiede l’Europa” e peggiorato negli anni come progetto che univa il profitto per gli enti gestori e la propaganda repressiva che portava già consenso. Le grandi battaglie di movimenti antirazzisti nei primi anni 2000 non hanno portato a risultati concreti. I centri aumentavano col consenso dei cittadini e una volontà politica condivisa. Ma poi ci si era cominciati a rendere conto di come tali strutture, oltre che essere disumane e causa di sofferenza, si rivelavano fallimentari nello scopo di espellere e garantire quella “sicurezza” per cui erano stati propagandati. Anche una parte della classe politica aveva cominciato a porsi domande rispetto al rapporto costi/benefici. Nel 2007 venne istituita una commissione di inchiesta presieduta da Staffan De Mistura, e si parlava del “superamento” dei centri.

L’arrivo del governo Berlusconi riportò indietro le lancette dell’orologio. Col “pacchetto sicurezza” del 2009 i centri vennero denominati “di identificazione ed espulsione”, superando la precedente ipocrita denominazione, e si portarono i tempi massimi di trattenimento a 18 mesi. Come per una pena derivante da un reato di media gravità ma comminata per il solo fatto di non aver ottemperato all’obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale. Ad affrontare la nuova fase repressiva ci furono meno persone e meno forze politiche. Il tema faceva arretrare anche tante coscienze limpide. Nel 2011, con l’arrivo dei tanti in fuga durante le Primavere arabe, l’attenzione si concentrò sui porti, sulle vie di fuga dall’Italia, su una nuova tipologia di persone da imbrigliare e controllare. Lampedusa divenne in quei mesi, un immenso Cie a cielo aperto, dove si operò per rimpatriare direttamente, soprattutto cittadini tunisini.

Molte persone venivano portate anche nei Cie “ordinari” e il ministro dell’Interno di allora, Roberto Maroni, con una circolare interna, impedì l’accesso ai centri ai giornalisti e agli esponenti di associazioni non registrate in un ristretto elenco. Nacque, a causa di questa circolare, una Campagna, costituita da attivisti dell’intero territorio nazionale, si chiamò e si chiama ancora LasciateCIEntrare. Si organizzarono ispezioni nei centri, con i pochi parlamentari disponibili, per far vedere quello che doveva restare ignoto, nel dicembre dello stesso anno la circolare venne sospesa ma entrare nei Cie restò a pura discrezione di Ministero e prefetture. Nel 2012 si riuscì a riportare i tempi di detenzione a 90 giorni. La Campagna, nata per voler conoscere, si diede come scopo quello di operare per la chiusura di queste irriformabili strutture. E molti Cie furono chiusi, anche a causa delle continue rivolte, o riconvertiti in centri di accoglienza.

Oggi sembra lontano il rapporto della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, resa pubblica nel febbraio 2016, in cui si dava un giudizio impietoso dei Cie. Per un certo periodo hanno “funzionato” in tutta Italia, 4 centri, a Torino, Roma (dove però dopo l’ennesima rivolta resta agibile solo la parte femminile), Bari e Caltanissetta. Poi la svolta. Prima il governo Renzi, col Migration Compact e poi quello Gentiloni, hanno rilanciato lo strumento dei centri di detenzione. Cambiano nome e diventano Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri) saranno “umani” secondo Minniti (allora agli Interni), non troppo affollati ma situati in ogni regione. Il programma di Minniti (anche per lui “ce lo chiede l’Europa”) sta per essere attuato dal governo gialloverde.

Hanno riaperto i battenti i Cpr di Palazzo S. Gervasio, (Pz) e Brindisi, fervono i lavori per quello di Milano (contro cui ci sono già state mobilitazioni) e per la “Guantanamo italiana” realizzata a Gradisca D’Isonzo, Gorizia. Situazione complessa a Modena dove dovrebbe sorgere un Cpr regionale ma la maggioranza pentastellata sembra contraria, mentre tutto sembra definito per la Sardegna dove sorgerà alla periferia di Macomer. Nel Veneto leghista e nella Liguria in mano alla destra, i sindaci sono d’accordo a patto che non sorga nel Comune che amministrano (viva la coerenza). Resta per ora libera la Toscana mentre potrebbe riaprire in Calabria il centro di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone.

E come in una nemesi da Trapani siamo partiti e lì si torna. Non al Vulpitta, un ex ospizio inadatto a celle e sbarre da cui è facile fuggire ma in quello progettato e costruito come “villaggio dell’accoglienza”, divenuto prima Cie, poi hotspot e che ora è tornato ad essere luogo di detenzione. A Palazzo S. Gervasio e a Bari si sono già registrate le prime rivolte dopo l’approvazione del dl Salvini e ci sono state le prime fughe, represse a bastonate ma qualcuno ce l’ha fatta. L’accesso è tornato ad essere difficile e sono pochi i parlamentari disponibili a favorire l’ingresso di attivisti e operatori dell’informazione. Ma come non definire grottesca e cialtrona la riproposizione di un sistema, quello dei centri che nel massimo fulgore riusciva a rimandare in patria meno del 50% dei detenuti (è ora di chiamarli così), che costa milioni di euro, garantisce grandi affari ai gestori, e non risolve il problema dei tanti e delle tante persone in condizioni di irregolarità forzata.

Se si permettesse a chi è presente senza documenti di avere una prospettiva, con una identità, un documento, il permesso anche temporaneo per cercarsi un lavoro in Italia o in Europa, cadrebbero le ragioni stesse del sistema repressivo e i Cpr o comunque li si voglia chiamare si mostrerebbero per quello che sono, strutture inutili e disumane. Ma ci vorrebbe quello che è mancato alla quasi totalità della classe politica italiana da 20 anni a questa parte. Una idea di futuro.

È sempre il solito razzismo, anche senza pallone

Inter Milan's Mauro Icardi (L) speaks with Napolis Kalidou Koulibaly during the Italian serie A soccer match between Fc Inter and Ssc Napoli at Giuseppe Meazza stadium in Milan, 26 December 2018. ANSA / MATTEO BAZZI

Kalidou Koulibaly è un difensore francese naturalizzato senegalese che gioca nel Napoli, in Serie A. Nell’ossessiva mercificazione della bontà rarefatta in salsa natalizia la Lega Calcio ha pensato di proporre anche da noi (in Inghilterra accade da anni) una giornata di campionato in versione natalizia per “portare le famiglie allo stadio” (hanno detto i responsabili della Figc). Non è andata benissimo, no.

Nella partita Inter-Napoli Koulibaly è stato tra i migliori in campo, come spesso succede. È stato anche bersagliato da buuu, ululati e versi scimmieschi che per tutta la partita l’hanno colpito in quanto nero. Anzi, negro, come si dice oggigiorno. Anche questo succede spesso: dai campi di Serie A fino a quelli di provincia il razzismo, insieme alla violenza, il colore della pelle diventa una caratteristica da insozzare con i più plateali insulti.

All’esterno dello stadio di San Siro si sono susseguiti violenti scontri tra tifosi. C’è anche un morto: Daniele Belardinelli, 35 anni, è stato investito da un’auto durante i tafferugli.

Come era prevedibile si sono alzati i peana di chi condanna le violenze e i cori razzisti come se lo stadio fosse un mondo a parte, come del resto torna utile e comodo credere e lasciar credere. C’è un altro particolare interessante: la vittima e i carnefici sono stati puniti allo stesso modo. Koulibaly si è preso due giornate di squalifica per l’espulsione guadagnata in campo (eh, sì, ha perso la pazienza, che vergogna, nevvero?) e due giornate di squalifica alla curva dell’Inter. La pilatesca giustizia sportiva ha trovato una comoda via d’uscita. Niente da dire invece su una gara che sarebbe stata da sospendere per inciviltà. Non sia mai che lo spettacolo si interrompa.

Poi ci sono due frasi, tutte e due da incorniciare. Una l’ha pronunciata la vedova dell’agente di Polizia che perse la vita proprio fuori da uno stadio, Marisa Raciti: «Bisogna investire di più nella cultura, nella scuola e nell’informazione. Tutto il sistema è carente da questo punto di vista e non mi stupisco se a 12 anni dalla morte di mio marito il linguaggio è sempre quello. Mio marito tornava a casa sempre ferito, fin quando non è più tornato». Poi c’è la dichiarazione di Koulibaly: «Mi dispiace la sconfitta e soprattutto avere lasciato i miei fratelli. Però sono orgoglioso della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano, uomo».

Eppure quella gente (quelli che vanno allo stadio a vomitare insulti a un nero perché nero) a fine partita si sparge per le strade, va a lavorare in ufficio, si ferma a chiacchierare nei bar: sono il Paese. Anzi, ad ascoltare la propaganda, verrebbe da dire che la maggioranza degli italiani la pensi esattamente come loro. Uno stadio che oggi più o meno è al 30%. Perché allora questo futile stupore? Abbiate il coraggio di esserne fieri. O no?

Buon venerdì.

Argentina, tutti i bluff del presidente Macri

Argentine President Mauricio Macri listens at left as President Donald Trump speaks during a luncheon in the Cabinet Room of the White House in Washington, Thursday, April 27, 2017. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

Subito dopo il meeting del G20 a Buenos Aires, il governo argentino – guidato da Mauricio Macri e dalla signora da lui indicata alla stampa come possibile vice presidente alle prossime elezioni, il ministro per la Sicurezza Patricia Bullrich – si è spostato completamente sulle posizioni dell’omologo brasiliano Bolsonaro. Una mossa azzardata, ma facile da capire. L’economia argentina sta lentamente strisciando, giorno per giorno, verso una inevitabile conclusione: un nuovo default. Non c’è più nulla da offrire che possa indurre gli elettori a rinnovare la loro fiducia a Macri nelle elezioni generali del 2019. (Durante il G20, un giornalista della Bbc ha osato chiedere alle nostre autorità il motivo per cui l’Argentina fa parte del gruppo di Paesi che formano il G20, visto che la nostra economia è chiaramente una delle più disastrose di tutto il mondo). È per questo che hanno cambiato registro e cominciato ad enfatizzare la crescente violenza sulle strade e l’insicurezza quali questioni principali che preoccupano gli argentini, sebbene il nostro Paese sia uno dei più sicuri dell’America Latina, secondo solo al Cile.

Lo scorso 3 dicembre, immediatamente dopo la partenza dei leader del G20, la Bullrich ha diramato una risoluzione che permette alle forze di sicurezza l’uso di proiettili di piombo quando ritengano di essere di fronte a un «pericolo imminente». Il documento stabilisce che gli ufficiali possono sparare persino se l’oppositore è disarmato; possono aprire il fuoco anche se ci sono minori o anziani nelle vicinanze; inoltre possono sparare al presunto aggressore alla schiena se colto in fuga dalla scena del crimine. Sebbene molte voci si siano levate per ricordare che il nostro codice penale ancora proibisce alla polizia di agire in quel modo, le forze di sicurezza si sono affrettate ad attuare la disposizione ministeriale. Il 7 dicembre, a Salta un poliziotto ha sparato alla pancia di una donna incinta con pallottole di vernice mandandola all’ospedale.

Enfatizzare il bisogno di maggior sicurezza non sembra la mossa migliore nella strategia elettorale. Macri non è fresco di nomina al timone dello Stato. Essendo in carica dal 2015, se ora la situazione è quella che lui descrive, il responsabile non è che lui stesso. Di qui il bluff. Macri vuole rimanere ben saldo al tavolo da poker al comando dell’Argentina ed ha carte molto deboli. Il potenziamento delle forze di polizia è un appello allo zoccolo duro del suo elettorato, costituito per lo più da anziani, conservatori, dall’alta borghesia e da parte della classe media, quella più privilegiata. La sua è comunque anche una mossa di geopolitica. Durante il G20, Macri ha fatto di tutto per entrare nelle grazie di Trump come il suo cagnolino prediletto, ma…

L’articolo di Marcelo Figueras prosegue su Left in edicola dal 28 dicembre 2018


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