Home Blog Pagina 679

La morale è sempre doppia quando non c’è

Scusatemi se mi butto nel fango. La lotta tra le ghiande, ruzzolando in mezzo ai maiali, è antipatica e stomachevole però vi giuro che no, non riesco a starne fuori. Andiamo con ordine: nella notte tra il 18 e il 19 ottobre a Roma è stata ammazzata Desirée Mariottini, una ragazzina di sedici anni il cui cadavere è stato ritrovato in uno stabile abbandonato e occupato in via Lucani, quartiere San Lorenzo. Il caso vuole che i fermati come sospettati per l’omicidio siano stranieri. E negri. E ancora una volta apriti cielo. Ronde, ruspe, quel becero avvoltoio del ministro dell’inferno subito pronto a pisciare sul palazzo per marcare il territorio e già delle belle ronde da dare in pasto ai giornali.

Sia chiaro. Da queste parti, di chi scrive, una giovane donna uccisa, per di più dopo una probabile violenza, è un dolore schifoso e inaccettabile. È necrofilia anche lucrare sui morti, paragonarli, ma per sbugiardare i vermi bisogna entrare nel verminaio. Eccoci.

Tra la morte di Pamela (usata ovunque per spargere odio fecale) e la morte di Desirée sono passati dieci mesi. Dieci mesi. Solo nei primi sei mesi di quest’anno sono state uccise altre quarantaquattro donne. Quarantaquattro.  Nel 2017 sono state uccise 113 donne. Centotredici. Due di loro erano al quinto e al sesto mese di gravidanza. Ad uccidere sono stati, nella quasi totalità dei casi, mariti, compagni o ex, incapaci di accettare la fine della relazione o la volontà della partner di volersi ricostruire una vita al di fuori della coppia. Niente negri, niente drogati. Bianchissimi e merdosissimi mariti. Vi ricordate qualche nome delle altre donne oltre a Pamela e Desirée? Uno, anche solo uno. Niente, vero? Vi sembra normale? No, non è normale.

Poi: Desirée era stata denunciata per spaccio. Il padre la picchiava, dicono le sue amiche, ed è stato denunciato per stalking. Dopo la separazione dei genitori era stata affidata ai nonni. Bene, ora pensate a come è stato dipinto Stefano Cucchi e come tutt’oggi i suoi famigliari siano ricoperti di fango: perché Cucchi è un drogato rovinato dalla famiglia e invece Desirée è una povera stella massacrata dallo straniero?

La risposta è semplice: in modo orribile in questo Paese ci sono deplorevoli personaggi (capeggiati dal ministro dell’inferno) che grufolano nella spazzatura per trovare morti che tornino utili alle loro tesi. Un esercito di topi con sembianze umane che invocano la sedia elettrica per i negri e citano invece il raptus amoroso se sono bianchi e italiani. Ed è uno schifo indicibile. Una necrofilia cromatica di stercorari che cercano discariche per spargere odio razzista. Feccia. E sullo sfondo il dolore dei morti che vengono sventolati come souvenir.

Chi non ha una morale finge sempre di averla doppia. Ma è niente. Niente mischiato con niente. Niente al quadrato. Sempre zero.

Buon venerdì.

 

Bruxelles mette al bando le organizzazioni neofasciste. Forenza (Gue/Ngl): Una vittoria storica

Mettere al bando le organizzazioni neonaziste e neofasciste in Europa. Il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato una risoluzione comune dei principali gruppi politici (GUE, S&D, Verdi, ALDE e PPE). «La risoluzione – spiega l’eurodeputata Eleonora Forenza (GUE/NGL) – condanna tutti gli attacchi violenti dei gruppi neofascisti e neonazisti in Europa, non ultimo quello accaduto la notte dello scorso 21 settembre a me, al mio assistente Antonio Perillo e altri per mano di un gruppo di Casapound di Bari». Il testo chiede all’Ue e agli Stati membri di garantire che siano effettivamente bandite le organizzazioni neonaziste e neofasciste e qualsiasi tipo di fondazione e associazione che glorifichi il fascismo e il nazismo. «Era dal 1999 che una risoluzione del genere non veniva approvata ed è una posizione importante del Parlamento in vista delle prossime elezioni» prosegue Forenza. «È un risultato enorme, ottenuto anche con la collaborazione di altre due femministe come Ana Miranda (Verts/ALE) e Soraya Post (S&D), e le relatrici degli altri gruppi politici Cecilia Wikström (ALDE) e Róża Gräfin (PPE). Il femminismo si conferma essere il principale e più potente antidoto contro il fascismo, il razzismo e il patriarcato. Una vittoria storica, no pasaran».

 

La scuola regionalizzata inasprisce le disuguaglianze

Matteo Salvini e Luca Zaia (S) a Verona durante il comizio per la chiusura della campagna elettorale, Verona 29 maggio 2015. ANSA/VENEZIA

Piero Calamandrei così scriveva: «Facciamo l’ipotesi che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza… Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali». A giorni si aprirà una pessima pagina per la scuola pubblica italiana, per gli studenti e per gli insegnanti perché il Consiglio dei ministri approverà un disegno di legge che delegherà, su ventitré materie, la competenza alla Regione Veneto. La più importante delle quali è l’istruzione. Il ddl andrà in Parlamento per la conversione che avverrà a passo di corsa perché il Parlamento potrà solo approvare o bocciare. Considerato che il “contratto di governo” – con buona pace anche in questa materia dei grillini – al punto 20, assume la regionalizzazione come questione prioritaria così come la chiusura delle trattative aperte fra Stato e singole Regioni (Veneto, ndr), l’esito è scontato. Che cosa comporterà questa devoluzione? Sull’istruzione il Veneto riceverà competenze su programmi scolastici, organizzazione, assunzioni e trasferimenti che saranno solo locali. Pertanto, un aspirante insegnante potrà partecipare ad un concorso in Veneto ma dovrà sapere che potrà chiedere di trasferirsi solamente da Padova a Belluno, non potrà lasciare il Veneto se non licenziandosi. La scuola italiana da funzione statale diventerà una funzione regionale, al pari degli orari dei mercati rionali. Tutto questo per perseguire il principio «della valorizzazione del capitale umano in funzione della competitività del sistema economico e sociale veneto». Non giriamoci intorno: siamo di fronte ad un provvedimento eversivo e secessionista. Per tre ordini di ragioni. La prima è che aumenterà la diseguaglianza nel nostro Paese, a partire dal fatto che le competenze del Veneto sull’istruzione vengono affidate senza che lo Stato abbia «determinato i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». In assenza di un comune denominatore che garantisca la cittadinanza universale è evidente che si sgretola la Repubblica «una ed indivisibile». La seconda è che sarà il gettito fiscale, d’ora in poi, a determinare il livello dei diritti, non l’essere cittadino nel nostro Paese con buona pace del «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». La ripartizione delle risorse finanziarie avverrà non in base al numero di persone da istruire ma in base alla ricchezza dei territori. Quindi, una scuola di mille studenti a Padova riceverà fondi in base al Pil del Veneto ed una di mille studenti in Calabria in base al Pil della Calabria. Ovvero la metà. Senza alcuna tutela circa il livello essenziale di servizio da garantire ovunque sul territorio nazionale e colpendo con brutalità il principio secondo cui «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…». La terza è che libertà di insegnamento e programmi o sono nazionali o la piega inevitabile del localismo condizionerà l’una e gli altri. Non avverrà tutto in un momento, avverrà passo a passo ma la volontà di voler utilizzare il sapere e chi lo eroga per rinsaldare il sistema di valori di chi governa un territorio è chiarissima e, in questo nuovo quadro, inevitabile. Ma, davvero, si può pensare che l’aver messo la «libertà d’insegnamento» nella Costituzione non abbia rappresentato la giusta preoccupazione di proteggere questa libertà da chi esercita il potere che, tanto più è vicino territorialmente, tanto più è forte? Siamo di fronte ad un testo eversivo e secessionista che impone ad ognuno di noi di scendere in campo per difendere l’unità del Paese ed il progetto di vita dei nostri figli e nipoti.

*

Enrico Panini è assessore al Bilancio nella giunta di Luigi de Magistris ed è responsabile nazionale del movimento DemA (Democrazia e autonomia)

L’editoriale di Enrico Panini è tratto da Left in edicola dal 26 ottobre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Chi fa a pezzi la scuola

MATTEO SALVINI MINISTRO DELL'INTERNO LUCA ZAIA GOVERNATORE DEL VENETO

Lo scenario, in effetti, è suggestivo: la sala di uno dei più antichi palazzi di Venezia, tra le opere del Tintoretto, le luci soffuse e i fantasmi gloriosi della Serenissima. Qui, il 16 ottobre, viene firmato un protocollo tra il governatore del Veneto Luca Zaia e il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti. Il tema della “storica intesa” è «lo sviluppo delle competenze degli alunni in materia di storia e cultura del Veneto». In pratica, significa che nei programmi scolastici della regione a guida leghista verrà introdotta la nuova materia insegnata da docenti formati ad hoc. E infatti il Miur metterà a disposizione cinque insegnanti «che dovranno elaborare il piano di lavoro annuale di proposte formative, in ambito letterario e umanistico, da offrire alle scuole».

Questo atto istituzionale passato quasi sotto silenzio è denso di significati. Intanto, l’intesa con il Miur «verrà esportata in altre Regioni», ha assicurato solerte il ministro Bussetti perché poi, alla fine, «l’identità del luogo dove si vive è il fondamento della cittadinanza culturale». Ciò che colpisce, di questo protocollo, non è solo l’antistorica visione della realtà, per cui l’identità culturale dei cittadini dipenderebbe dal luogo dove vivono, sempre più stretto da confini, sempre più ridotto a soffocante microcosmo. È ben altro.

La firma del 16 ottobre potrebbe essere infatti l’anticamera della regionalizzazione dell’istruzione, diretta conseguenza dell’autonomia differenziata, l’obiettivo verso cui sta puntando la regione guidata da Zaia, a partire dal referendum del 22 ottobre 2017 fino alla bozza d’intesa presentata nel giugno scorso alla ministra per gli Affari regionali Erika Stefani, leghista pure lei. In quell’accordo il Veneto, sulla base dell’articolo 116 approvato nel 2001 nella riforma del Titolo V, può gestire direttamente 23 materie, tra cui, appunto, l’istruzione. Non solo. Il “Veneto first” è un apripista. Seguono a ruota la Lombardia (già consegnato il testo dell’intesa alla ministra Stefani) e l’Emilia Romagna. «Tutti tasselli di uno stesso progetto, pur tra le differenze», dice Carlo Salmaso, docente di Padova, del coordinamento della Lip scuola che da anni si sta battendo per una istruzione laica e democratica, uguale per tutti. L’Emilia Romagna, aggiunge Bruno Moretto, dell’associazione Scuola e Costituzione di Bologna, è più cauta del Veneto, pur avendo il Pd emiliano strizzato volentieri l’occhio agli “autonomisti” vicini: «Qui interessa soprattutto la formazione professionale e gli Its (Istituti tecnici superiori)».

Insomma, un’istruzione à la carte. È del 18 ottobre scorso…

L’inchiesta di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 26 ottobre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Legittima difesa: ma chi ruba più ora che hanno abolito la povertà?

Gioite! Il Senato ha compiuto il primo passo per una legge che cambierà la vita di una consistente parte di italiani! Finalmente! La legittima difesa partorita dalle viscere di Salvini, nel caso in cui diventerà legge, potrà finalmente migliorare la condizione dei tantissimi italiani che sono giustamente consapevoli delle spaventose dimensioni di un fenomeno che intacca le basi della nostra democrazia: gli omicidi a scopo di furto o di rapina (lo dicono i dati ufficiali, badate bene) sono addirittura 27 nel 2014, 35 nel 2015 e (udite udite e ditemi voi se non siamo di fronte a una vera e propria emergenza) ben 19 nel 2016. Chissà cosa si inventerà il governo, così attento alle stragi nascoste quando scoprirà che gli stessi morti sono provocati in Italia anche dai fulmini. Un decreto sicurezza urgente contro le intemperie inonderà sicuramente la propaganda, prossimamente.

C’è un dato interessante, però: visto il numero di furti e rapine in Italia (perché non sia mai che il problema venga affrontato alla radice, troppa fatica, troppa impegnativa complessità) dal prossimo anno potremmo tranquillamente avere un numero di vittime che si aggiri sui 7500-8000 morti senza che nessuna legge venga infranta. Che poi muoiano le vittime o i carnefici non sarà importante capirlo: il sangue pulisce molto di più di quello che si pensa.

Ci sono però delle pieghe interessanti nella psicologia di questa pessima legge: il ministro dell’inferno, colui che si propone come estremo difensore degli italiani scarica il barile travestendolo da soluzione. In futuro si potranno tagliare piselli per prevenire gli stupri, sarà legittimo bucare i palloni buttati nel nostro giardino da pericolosissimi bambini e tagliare mani o cavare occhi per essere risarciti. Sarà un mondo perfetto, a nessuno verrà negata nella vita una piccola occasione di vendetta personale legalizzata con plauso del governo e una nuova medaglia al regolamento di conti più esplosivo dell’anno.

Se invece vi stupite delle minime dimensioni del fenomeno discusso ieri in Senato nonostante le centinaia di trasmissioni televisive dedicate allora non sapete ancora cosa sia la politica percepita, questa moderna arte di inventare pericoli immaginari per poterci applicare immaginarie soluzioni (che in questo caso accontentano comunque lobby che invece sono concrete e realissime) potendo così lasciare perdere i problemi reali (lavoro, ad esempio, uno a caso) e facendo comunque la figura degli indaffarati.

A proposito di percezioni e narrazioni. Diciamocelo. Ma poi, in fondo, chi ruberà più ora che la povertà è stata abolita? Inutile anche parlarne, quindi.

Buon giovedì.

Processo Cucchi, si cerca la regia dei depistaggi. Indagato anche un colonnello

Ilaria Cucchi e sullo sfondo una foto del fratello Stefano, durante la registrazione della trasmissione televisiva 'Porta a Porta'' in onda su RAI Uno, Roma 11 ottobre 2018. ANSA/FABIO FRUSTACI

Caso Cucchi, udienze e audizioni procedono in parallelo dopo le ammissioni di Francesco Tedesco, uno dei tre imputati per l’omicidio preterintenzionale del geometra romano, arrestato il 16 ottobre 2009 e trovato morto, nel letto del reparto penitenziario del Pertini il 22, sei giorni dopo.

Ci sono almeno sei persone indagate nell’ambito del filone sui depistaggi seguiti al pestaggio subito da Stefano Cucchi. Si tratta di cinque carabinieri e un avvocato, parente di uno dei militari accusati di falso. È quanto emerge dalle carte depositate oggi dal pm Giovanni Musarò in un’udienza animata anche dalla visita del ministro della Giustizia Bonafede, ennesimo politico a cercare un selfie con Ilaria Cucchi.

Fra i nomi nuovi spunta quello del tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma. Sarebbe stato proprio Cavallo a suggerire al luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stazione Tor Sapienza, di modificare la nota di servizio sullo stato di salute di Cucchi, arrivato a Tor Sapienza dopo essere stato trasferito dalla caserma Casilina. Nell’elenco degli indagati figurano fra gli altri il maggiore Luciano Soligo, all’epoca dei fatti comandante della compagnia Talenti Montesacro e il luogotenente Massimiliano Colombo, già comandante della Stazione Tor Sapienza. Fra gli indagati anche l’avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano.

Una storia costellata di falsi
«Questa storia è costellata di falsi, subito dopo il pestaggio, ed è proseguita in maniera ossessiva subito dopo la morte di Cucchi, c’è stata una attività di inquinamento probatorio indirizzando in modo scientifico prove verso persone che non avevano alcuna responsabilità e che sono state sottoposte a giudizio fino in Cassazione e ora sono parte civile perché vittime di calunnie», ha detto Musarò annunciando il deposito di nuovi verbali integrativi di indagine nel procedimento per falso, in apertura della nuova udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. «Quello che ha detto il carabiniere Francesco Di Sano nell’udienza del 17 aprile è vero – ha spiegato il pm – la modifica della annotazione di servizio sullo stato di salute di Cucchi non fu frutto di una decisione estemporanea ed autonoma ma fu l’esecuzione di un ordine veicolata dal comando di stazione, a sua volta dal comandante di compagnia e a suo volta dal gruppo. Solo così si può capire il clima che si respirava in quei giorni e perché quella annotazione del 22 ottobre sia stata fatta sparire senza che nessuno ne parlasse per nove anni».

Colicchio: così mi costrinsero a firmare un rapporto falso
«Per quello che percepii io, il maggiore Luciano Soligo non si trovava in una situazione molto diversa dalla nostra, nel senso che anche lui stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia», ha dichiarato al pm Giovanni Musarò il carabiniere Gianluca Colicchio, nel corso dell’audizione in procura dove è stato sentito come persona informata sui fatti. Colicchio è il piantone che ebbe in custodia Cucchi per alcune ore nella stazione dei carabinieri di Tor Sapienza. Ossia dopo le fasi violentissime dell’interrogatorio e del fotosegnalamento. Si delinea una sorta di regia da parte del Gruppo Cc di Roma, circostanza confermata dal fatto che Soligo non cambiò i files delle due annotazioni sul posto (cioè presso il Comando di Tor Sapienza) «ma i files furono trasmessi al Gruppo e tornarono modificati dal Gruppo. Il maggiore Soligo mi chiamò il 27 ottobre – spiega al magistrato il carabiniere – mi mise davanti una copia dell’annotazione di servizio su Cucchi non firmata e mi disse di firmare. La firmai ma rileggendola mi resi conto che era stato cambiato un passaggio importante, per cui feci presente al maggiore che non era l’annotazione che avevo redatto il giorno prima, non era farina del mio sacco». Colicchio prosegue affermando di avere preso «in mano il foglio che avevo appena firmato e dissi che non volevo che l’annotazione modificata fosse trasmessa perché ne disconoscevo il contenuto. Soligo cercò di farmi calmare, ma io non volevo sentire ragioni. In quel momento il maggiore stava parlando al telefono con il tenente colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un pò agitato”. Parlai dunque con Cavallo, il quale mi chiese per quale ragione non volessi firmare l’annotazione e dissi a lui quello che avevo già detto a Soligo e cioè che non era “farina del mio sacco” e ne disconoscevo il contenuto. A questo punto Cavallo mi evidenziò che rispetto all’annotazione che avevo redatto la sera prima, era stato cambiato solo un passaggio, ma io non volevo sentire ragioni perchè mi ero reso conto che quella piccola modifica cambiava completamente il senso di quello che intendevo attestare. Per cui presi l’annotazione e la portai via».

L’indagine interna fu “come una seduta degli alcolisti anonimi”
Il 30 ottobre del 2009, otto giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, ci fu una riunione al comando provinciale dei Carabinieri a cui parteciparono i vertici di allora e tutti i militari che avevano avuto un ruolo nella vicenda. «Un incontro tipo quelli degli alcolisti anonimi», ha affermato al telefono il luogotenente Massimiliano Colombo, indagato nel nuovo filone sul falso, in una intercettazione del settembre scorso depositata oggi dal pm Giovanni Musarò nel processo a carico di cinque carabinieri. Parlando con il fratello al telefono, Colombo afferma: «Il 30 ottobre, la mattina ero di pattuglia con Colicchio. Soligo mi chiama, mi chiede “fammi subito un appunto perché poi dobbiamo andare al comando provinciale perchè siamo stati tutti convocati”, cioè tutti coloro dall’arresto di Cucchi a chi lo aveva tenuto in camera di sicurezza. Ci hanno convocato perché all’epoca il generale Tomasone, che era il comandante provinciale, voleva sentire tutti quanti. Abbiamo fatto tipo, hai visto “gli alcolisti anonimi” che si riuniscono intorno ad un tavolo e ognuno racconta la sua esperienza, così abbiamo fatto noi quel giorno dove però io non ho preso parola perché non avevo fatto nessun atto e non avevo fatto nulla». Tutto confermato nell’interrogatorio svolto la scorsa settimana davanti al pm Musarò: «Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all’arresto non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (anche lui imputato per falso) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché, se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato».

L’imputato che augurò la morte a Cucchi
«Magari morisse, li mortacci sua», si legge ancora negli atti depositati. A parlare Vincenzo Nicolardi (imputato per calunnia nel processo davanti alla prima corte d’Assise), parlando di Stefano Cucchi con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale in una delle intercettazioni avvenute tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre del 2009, ovvero il mattino dopo l’arresto. In particolare il militare fa riferimento alle condizioni di salute del geometra che era stato arrestato da alcune ore e si trovava in quel momento nella stazione di Tor Sapienza. «Mi ha chiamato Tor Sapienza – dice il capoturno della centrale operativa – lì c’è un detenuto dell’Appia, non so quando ce lo avete portato se stanotte o se ieri. È detenuto in cella e all’ospedale non può andare per fatti suoi». Nicolardi, quindi, risponde: «È da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua».

Le risate della moglie del carabiniere
Anche Colicchio è stato intercettato e si capisce che la morte di Cucchi aveva pochi misteri per lui. La moglie del carabiniere Gianluca Colicchio, Inez Dagostino, dopo aver visto il film Sulla mia pelle, insieme con una sua amica, Simona, telefona al marito per commentarlo. «Ho detto di guardarlo dopo mangiato perché altrimenti dopo non mangi più, perché ci sono scene molto forti, “fa scurari o cori”». La donna dice al marito che il film punta chiaramente sulle responsabilità dei carabinieri nella morte del geometra 31enne, e in particolare i militari della stazione Appia. Dalla telefonata fra i due coniugi si capisce che loro sanno cosa è successo e lo hanno anche detto alla loro amica Simona. «Quando lo arrestano gli occhi ce li ha normali e quando lo portano a Tor Sapienza è tutto viola. E poi il film finisce che la sorella, madre e il padre lo guardano morto sul lettino», racconta la donna. «E se ti guardi questo film c’è lui che è un poverino e i carabinieri che fanno schifo». «Sì, infatti sì» interviene Colicchio che ha da ridire sull’attore che interpreta il suo ruolo nel film, dice: «Oh, io sono più bello però». E la moglie: «Sì, ci sei tu che all’inizio parli in italiano e poi in napoletano. Con Simona ci siamo divertite, abbiamo bloccato il film e abbiamo fatto una foto, mamma quanto è brutto con quei capelli, quanto abbiamo riso…».

Al Fatebenefratelli videro subito i traumi che nessuno aveva voluto vedere
In aula, intanto, si sono susseguiti altri testimoni. Come i medici che lo visitarono dopo l’udienza di convalida e l’arrivo a Regina Coeli che evidenziarono immediatamente i traumi. Poche ore dopo il suo arresto per droga, infatti, Cucchi fu portato all’ospedale romano Fatebenefratelli perché lamentava dolori alla schiena, ma rifiutò il ricovero. A spedirlo in ospedale fu Rolando Degli Angioli: «Poco dopo le 16, visitai Stefano Cucchi all’ambulatorio di Regina Coeli. Vidi subito che stava male, tanto che dopo 15 minuti prescrissi per lui il ricovero immediato al Fatebenefratelli perchè fosse sottoposto ad alcuni esami. Cucchi aveva il volto tumefatto – ha detto la guardia medica del carcere – lamentava dolori nella regione sacrale, con difficoltà a sedersi perchè gli faceva male la schiena. Mi disse che si era fatto male cadendo dalle scale. Non poteva stare in istituto, doveva fare quegli esami. C’era qualcosa che non andava e la situazione stava evolvendo in senso negativo. Era un codice giallo in evoluzione. Rimasi allibito quando seppi che era tornato dal Fatebenefratelli con due vertebre rotte, senza che gli avessero fatto la Rx che avevo prescritto».

Cesare Calderini, il medico che prese in cura il giovane geometra romano: «Visitai Cucchi – ha detto il medico – Gli chiesi cos’era successo e mi rispose che era caduto dalle scale la sera prima. Era arrivato in reparto camminando normalmente; aveva intensi rossori sotto le palpebre, mi colpì molto lo stato di magrezza, da approfondire». Poi, l’occhio clinico fu indirizzato «sul forte dolore alla schiena che Cucchi lamentava. Disposi Rx, contattai il radiologo che vide due fratture, l’ortopedico e il neurologo. Era necessario tenere il paziente per fare ulteriori accertamenti, ma lui rifiutò il ricovero». Anche a Francesco Tibuzzi, medico dello stesso ospedale, Stefano Cucchi disse «che aveva avuto una caduta accidentale, mentre era in cella, senza specificare quando. Le sue condizioni generali erano discrete; l’aspetto non era dei migliori, era molto magro; sul volto aveva un edema, macchie rossastre. Gli chiesi se aveva battuto la testa, ma disse di no».

«Visitai Stefano Cucchi due volte; aveva una frattura vertebrale e gli proposi di rimanere ricoverato da noi. Lui rifiutò dicendo “Non voglio ricoverami, preferisco ritornare a Regina Coeli dove c’è il medico di cui mi fido che sicuramente mi dà più giorni”», ha detto Fabrizio Farina, medico del pronto soccorso del Fatebenefratelli. Fu lui a visitare il giovane due volte, il 16 ottobre 2009 e il giorno successivo. Il primo intervento si concluse con Cucchi che, dopo aver rifiutato il ricovero, «si alzò e venne verso di me a firmare il foglio di rifiuto ricovero». Cosa diversa il giorno successivo: «Non riusciva a muoversi». Circostanza, questa, confermata anche dal dottor Claudio Bastianelli, anch’egli del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che accolse Cucchi in occasione del secondo accesso in ospedale. «Arrivò e mi disse che voleva essere ricoverato; aveva cambiato idea perché aveva dolore in sede lombare. Gli chiesi com’era accaduto e mi rispose che era scivolato per una caduta accidentale. Ebbi io l’idea di trasferirlo all’ospedale Pertini perché da noi non c’era posto. Per questo attivai la procedura di ricerca del posto letto».

«Cucchi mi disse: tutta la notte ho preso botte per un pezzo di fumo». La lettera di Tarek
«Stefano era tutto nero, tumefatto, in faccia e sulla schiena, gli abbiamo dato una sigaretta. Aveva freddo gli abbiamo fatto una tazza di latte caldo», ha detto Pasquale Capponi, ex detenuto e vicino di cella di Stefano Cucchi a Regina Coeli, sentito come testimone. Fu materialmente colui che trascrisse la lettera per conto di Tarek, poi ricevuta dal senatore Idv Stefano Pedica e consegnata alla procura. «Io Cucchi non l’ho conosciuto – ha detto Capponi – fu Tarek a chiedermi di ricopiargli una lettera perché lui non sapeva scrivere bene in italiano. Io l’ho solo ricopiata, senza aggiungere nessuna parola». Tra le righe, Tarek scrive che durante un colloquio Cucchi gli disse «mi hanno ammazzato di botte i carabinieri, tutta la notte ho preso botte per un pezzo di fumo». «Tarek – ha aggiunto Capponi – scrisse che Cucchi gli aveva detto che era stato ridotto nello stato in cui si trovava dai carabinieri». Prima di lui è stato sentito in aula, davanti ai giudici della Corte d’assise, anche il dottore Apostolos Barbarosos, chirurgo del pronto soccorso dell’Ospedale Vannini di Roma. Il medico ha visto Cucchi circa venti giorni prima il suo arresto per droga; si presentò al pronto soccorso per un incidente stradale. «Si presentò dopo mezzanotte – ha detto Bararosos – con segni compatibili con un incidente stradale. Dalle radiografie non risultarono fratture, rimase tutta la notte perché aveva analisi alterate e andava rivisto».

Per approfondire, Left in edicola fino al 25 ottobre 2018 oppure acquista la versione digitale su www.left.it/sfogliatore


SOMMARIO ACQUISTA

La minaccia finanziaria e l’inganno neoliberista

Pubblichiamo un brano del libro di Pino Arlacchi I padroni della finanza mondiale che esce per Chiarelettere il 25 ottobre. Pino Arlacchi è un sociologo e politico, eurodeputato e parlamentare. Si è occupato di sicurezza, ha redatto il progetto esecutivo della Dia (Direzione investigativa antimafia) ed è stato direttore generale dell’ufficio Onu per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine.

*

A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, il capitalismo finanziario e l’ideologia liberista sua associata sono diventati i motori più potenti dell’insicurezza umana. Ciononostante, sono riusciti a farla franca. Il denaro accumulato in poche mani non viene ritenuto responsabile della sempre più intollerabile disuguaglianza sociale. Media e governi dei Paesi sviluppati attribuiscono ad altre cause l’aumento della disoccupazione e il degrado della qualità del lavoro dipendente, mentre molti illustri accademici negano che le crisi finanziarie più frequenti, la deindustrializzazione e la stagnazione delle economie occidentali siano da ricondurre al rinnovato predominio della rendita finanziaria sulle altre attività economiche.
Il pericolo costituito dalla finanza fuori controllo non suscita lo stesso allarme che viene sollevato dalla minaccia nucleare o da quella ambientale. La coscienza della sua pericolosità è bassa soprattutto perché viene offuscata dai dogmi neoliberisti divulgati in ogni ambiente dai suoi adepti.
Mentre i sentimenti contro la guerra nucleare si sono trasformati in un tabù, e quelli contro la guerra come istituzione umana ineluttabile prevalgono fino al punto che sono rimasti ormai ben pochi sostenitori della sua moralità ed efficacia, quando si tocca il tema della dannosità del capitalismo finanziario occorre avanzare molte spiegazioni.
La propaganda neoliberale degli ultimi decenni è riuscita a instaurare un pensiero unico, basato sulla consacrazione feticistica del mercato e del mercato finanziario come parte essenziale di esso. Questo modo di pensare è penetrato profondamente nella coscienza pubblica. A destra come a sinistra dell’arco politico.
L’idea che il capitalismo di mercato sia l’unica forma di economia possibile, e che esso – con il suo corredo di mercati finanziari autoregolati – sia una forza irresistibile, capace di prevalere anche negli ambienti più ostici, si è radicata perfino nella sinistra radicale anticapitalista.
Essa non vede all’orizzonte alcuna alternativa, e tende a svalutare ogni elemento di diversità. Che si tratti del modello di sviluppo scandinavo, dove i mercati sono stati «addomesticati» per servire lo Stato del benessere, o di quello cinese, basato su un’economia di mercato sottomessa e guidata da uno Stato di marca socialista, l’attuale minoritarismo anticapitalistico non riesce a individuare altro che un capitalismo sempre e comunque trionfante.
L’inganno della credenza neoliberale consiste nel nascondere la matrice dei problemi creati dalla iattura finanziaria, e nel far accettare l’idea che non c’è nulla da fare per risolverli se non attendere l’intervento dei mercati. Cioè delle stesse cause che li hanno generati.
La negazione delle magagne dei mercati è frutto di un processo quasi inconscio, di un riflesso condizionato. Poiché secondo gli adepti del culto neoliberista i mercati funzionano sempre perfettamente e la domanda deve equivalere all’offerta di manodopera, come per qualsiasi altra merce, la disoccupazione non può esistere. Se esiste, il problema non può essere attribuito ai mercati, deve per forza risiedere altrove. Nella prepotenza dei sindacati o nell’opportunismo dei politici che interferiscono con il naturale funzionamento dei mercati chiedendo e ottenendo salari troppo alti. Per fortuna che c’è il mercato che attraverso la pressione dei disoccupati riduce i salari e fa risalire l’occupazione!
(….) Il punto centrale che si evita di spiegare con parole chiare al largo pubblico è questo: la presa del potere da parte della finanza ha creato un sistema nel quale i guadagni dell’economia, i profitti delle imprese, i risparmi dei cittadini non finanziano più nuove idee e nuovi progetti di investimento che creano lavoro e fanno salire stipendi e salari. Il surplus economico resta all’interno del circuito finanziario e serve a sostenere la securitization, un bizzarro termine che indica la messa in sicurezza dei beni, ma che implica la mercificazione di tutto ciò che valga qualcosa. Azioni, obbligazioni, merci, materie prime, mutui, case, proprietà varie sono trasformati in prodotti commerciabili che vengono parcellizzati e giocati a dadi quante più volte possibile.
(…) La mentalità neoliberale è talmente radicata da spingere il discorso pubblico verso il rigetto delle critiche agli eccessi dei mercati finanziari. Eccessi di apertura e velocità spericolata che mettono a rischio costante la stabilità del sistema degli scambi. Secondo chi crede che sia possibile riformarli, i mercati finanziari dovrebbero diventare meno e non più efficienti.
Da deputato europeo ho dovuto più volte prendere atto di quanto fosse difficile convincere perfino i colleghi del gruppo socialista che era necessario tassare le transazioni finanziarie per ridurne il numero e i folli ritmi di circolazione. Ogni volta che ho osato citare la metafora di James Tobin sull’esigenza di gettare un po’ di sabbia nell’ingranaggio della speculazione finanziaria ho rischiato di essere preso per un sabotatore dell’economia europea anche da colleghi in buona fede, ma afflitti da una cronica ignoranza dei termini effettivi del problema.
L’argomento delle banche, della finanza, del debito degli Stati membri, del mercato dei capitali, delle agenzie di rating non è oggetto di alcun serio dibattito nel Parlamento di Strasburgo. Su questi temi è facile che, tramite i propri esperti, le due famiglie politiche principali del Parlamento, i conservatori e i socialisti, si consultino tra loro e con la Commissione europea tenendo all’oscuro i propri deputati dei punti controversi in gioco.
I negoziati di vertice hanno carattere riservato e finiscono col concludersi quasi sempre con un accordo sui temi di fondo. La successiva discussione, quella che si svolge nelle Commissioni e nell’Assemblea generale, ha il sapore di un pasto precotto. Ma per salvare le apparenze occorre comunque disporre di un’agenda dei lavori. La quale viene costruita in modo da riguardare parti così dettagliate dei provvedimenti – redatti tra l’altro in un gergo particolarmente ostico – da risultare impervia anche ai parlamentari in possesso di nozioni non banali di politica economica.
Sono rimasto molto frustrato da questo sfacciato esempio di deficit democratico, e ho protestato vivamente contro la truffa ideologica che viene perpetrata quando i temi della banca e della finanza vengono presentati agli elettori.
Esiste come una tacita intesa a non attuare alcuna azione che possa in qualche modo disturbare il «Bruxelles consensus», cioè il concerto sulle politiche economiche e finanziarie da adottare stabilito dalle alte sfere burocratico-finanziarie francotedesche, dalla Bce e dalla Commissione europea.
Il Bruxelles consensus viene formato da un ristretto numero di politici e di alti burocrati – poche decine di persone – che elaborano documenti di indirizzo vincolanti per gli Stati membri dell’Unione europea senza aver consultato seriamente nessun organo democratico della stessa. Questi atti vengono inviati al Parlamento europeo e ai parlamenti nazionali circondati dall’aureola dell’emergenza, e vengono perciò approvati quasi a scatola chiusa: «Lo chiede l’Europa» è la formula di rito usata per giustificare le corsie speciali entro cui corrono queste misure.
Celati dietro etichette apparentemente innocue come il famoso aut aut alla Grecia chiamato «memorandum», o dietro criptiche sigle burocratiche come «Europlus» (un pacchetto di misure mirato a smantellare pezzi di Stato sociale), questi provvedimenti sono in realtà delle «bufale» antisociali che esprimono un metodo di governo autoritario che fa a pugni con i diritti fondamentali garantiti dalle Costituzioni dei Paesi dell’Unione.
I media europei sono succubi dei poteri finanziari. Il parlamentare nazionale o europeo che osa esprimere dubbi o protesta contro l’oscurità delle procedure viene rapidamente etichettato come un nemico dell’euro, dei bilanci sani e dell’intera economia europea.
Solo la totale sottomissione dell’Unione al capitalismo finanziario poteva creare il clima di assoluto tabù che circonda qualunque discussione sull’euro. Questa stessa sottomissione ha posto in cima all’agenda europea il problema del debito di alcuni Stati membri e ha obbligato il Parlamento europeo ad accettare senza alcun serio dibattito i vari pacchetti di misure di austerità concepiti per affrontarlo. All’improvviso ci si è accorti che i Paesi inclusi nella garbata sigla Piigs – Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna – soffrivano di un debito pubblico eccessivo, che era imperativo iniziare a ripianarlo subito, senza riguardo all’andamento sfavorevole dell’economia e ai tempi lunghi necessari al suo ridimensionamento.
La verità è che banche d’affari e investitori istituzionali di ogni risma erano ansiosi di lucrare una seconda volta sulle sfortune degli indebitati. Dopo aver offerto loro negli anni precedenti ogni sorta di prestiti pur essendo consapevoli della loro difficoltà a sostenerne l’onere, una volta esplosa la crisi i padroni della finanza se ne sono avvantaggiati pilotando le misure di «risanamento» adottate dagli organi di governo dell’Unione e incassandone i benefici.

Una scarpa, un leghista e una ciabatta

L'europarlamentare della Lega, Angelo Ciocca (S), si avvicina al tavolo della conferenza degli oratori nella sala stampa del Parlamento europeo a Strasburgo, prende i fogli della relazione del commissario e vi poggia sopra una scarpa. Poi porge la sua mano al commissario europeo agli affari economici Pierre Moscovici, il quale non ricambia il gesto, lo guarda e se ne va. ANSA/UFFICIO STAMPA +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

C’era una volta il mito delle suole consumate, valeva per l’attività politica, per il giornalismo, per i venditori di mestiere e per i viaggiatori infaticabili lavoratori. La fatica veniva misurata dai metri percorsi, come una certificazione non detta della bontà del lavoro svolto, e nell’attività politica il comiziare di piazza in piazza era sinonimo di presenza sul territorio. Non so se sono vecchio io ma ricordo esattamente anche le lunghe assemblee in cui i circoli di centrosinistra si interrogavano sulla presenza dei leghisti in mezzo alla gente, con una punta di invidia.

Bene, sappiate (nel caso in cui ce ne fosse ancora bisogno) che ieri si è svolto invece l’ennesimo episodio da premio Oscar della nuova presenza utile per sfamare la propaganda: l’esibizione della sguaiatatezza, con sprezzo del senso del ridicolo e addirittura con la fierezza di chi ha compiuto un’idiozia. A esserne stato protagonista è stato un eurodeputato leghista piuttosto onomatopeico (Angelo Ciocca, che scriviamo per onore di cronaca ma a cui non daremo la soddisfazione di essere ripetuto nemmeno mezza volta da qui alla fine dell’articolo) che in risposta alla bocciatura dell’Europa nei confronti della manovra scritta dal governo italiano ha pensato bene di interrompere la conferenza stampa del commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, imbrattando i suoi appunti con una scarpa. Ha scritto lo scarparo leghista:

«A , HO CALPESTATO (con una suola Made in Italy!!!) la montagna di BUGIE che ha scritto CONTRO il !!! L’Italia merita RISPETTO e questi lo devono capire, non ABBASSIAMO PIÙ LA TESTA !!! Ho fatto bene ???»

Balzano all’occhio piccoli particolari, oltre all’idiozia del gesto: le maiuscole a casaccio per alzare la voce come quelli che non ascolta più nessuno per l’abitudine alle loro troppe cretinerie; i troppi punti esclamativi come prolungamento della propria mascolinità come se fossero un SUV ortografico; la confusione tra il non essere d’accordo il non avere rispetto come concetto evoluto che dovrebbe essere già dei bambini alla scuola elementare; la bambinesca domanda finale (“Ho fatto bene ???” con il solito errore di spazi) che è il manifesto dell’arretratezza politica e dell’inadeguatezza culturale di chi cerca soci nel clan per non sentirsi solo e quindi sentirsi più intelligente.

Caro leghista, hai fatto bene: stai in un partito (e in un momento storico) in cui un rutto attira più like di un ragionamento ben scritto. Vomitate ciabatte e le chiamate riforme. Continua così, alimenta pure lo stesso gorgo che vi trascinerà a fondo. Le macchiette, del resto, con il tempo diventano solo degli aloni di cui vi vergognerete in futuro. Noi, dalla nostra, cominciamo già a vergognarci per te.

Buon mercoledì.

La morte di Stefano Cucchi, una vergogna per la nostra democrazia

Il presidente prima corte d'assise del tribunale di Roma Vincenzo Capozza, mostra un'immagine di Stefano Cucchi durante il Processo Cucchi bis, all'interno dell'aula, Roma, 27 settembre 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Nove anni di omissioni, depistaggi, silenzi e menzogne, sul caso Stefano Cucchi non sono accettabili in uno Stato di diritto. Come può accadere un simile “obbrobrio” per un tempo così lungo senza che nessuno accertasse la verità? Come si possono coprire i colpevoli e nascondere la verità, in barba alle regole giuridiche e morali che dovrebbero presidiare una democrazia evoluta come la nostra? L’Arma dei carabinieri non è una loggia massonica, ma una forza di polizia a presidio della democrazia e a servizio della comunità. La morte di Cucchi fosse anche il peggior drogato di tutta Roma è e resta la morte di un essere umano e in quanto tale la sua vita è sacra. Per me che credo in una giustizia che non perda mai il valore della dignità dell’uomo, l’uso della violenza (fisica e psichica), soprattutto quando la adopera chi veste una divisa dello Stato è la negazione dello Stato di diritto. Qualsiasi delinquente resta sempre un essere umano che in quanto tale è da rispettare sempre e comunque. Il giovane Stefano Cucchi è morto in un modo agghiacciante e a me poco interessa se fosse già malato, affamato, abbandonato. Lo Stato in cui credo io quello fondato sulla Costituzione più bella del mondo doveva averne cura, come per tutti i deboli, nel corpo e nella psiche. Uno Stato democratico e con esso il suo sistema penale non può rinunciare a una funzione garantista sostanziale, cosa che attualmente può essere realizzata positivizzando nella legalità formale le istanze personalistiche e solidaristiche espresse dalla nostra Costituzione. Nella visione unitaria della nostra Carta, infatti, l’essere umano è inscindibilmente connesso alla concezione del diritto penale come strumento di difesa dei valori e di propulsione per la realizzazione delle finalità da essa espressi. In barba a tutto ciò Cucchi è stato picchiato selvaggiamente e l’evidenza è stata nascosta, coprendo i colpevoli. Se vogliamo ridare credibilità e salvare l’onore dell’Arma, i colpevoli dovranno pagare e dovrà pagare anche chi è stato zitto, o indifferente, poiché anche la complicità è una condotta altamente disonorevole. Quando il carabiniere Francesco Tedesco, uno dei tre imputati a processo per la morte di Cucchi, rompe l’omertà e dice, dopo nove anni, che sì, Stefano è stato gettato a terra e preso a calci in faccia e sul resto del corpo dagli altri due colleghi oltre a rendere giustizia a se stesso e al povero Stefano riabilita anche lo Stato che fino ad allora marciva nei silenzi colpevoli, nelle coperture inquietanti e nelle minacce di alcuni dei suoi rappresentanti.

*

Vincenzo Musacchio è un giurista e direttore scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise

Per approfondire, Left in edicola fino al 25 ottobre e online su www.left.it/sfogliatore


SOMMARIO ACQUISTA

United dolors of Benetton

Ora che è morto, dopo una lunga malattia, a 77 anni, sembra quasi sia lui la quarantaquattresima vittima del Ponte Morandi. Invece, Gilberto Benetton, il primo dei quattro fratelli di Treviso, era a capo, vicepresidente, di Edizione, la holding di famiglia, che controlla Atlantia, che controlla a sua volta Autostrade. Che doveva avere cura del ponte ma ha ridotto da 1,3 milioni a 23mila euro l’anno la spesa per la manutenzione di quel ponte, appeso a un filo d’acciaio e calcestruzzo sempre più logoro. Finché non è crollato, rivelando la materia di cui sono fatte le privatizzazioni. I dati ufficiali di Aspi-Atlantia li troviamo sul sito di Sbilanciamoci: «Per la manutenzione ordinaria del Ponte Polcevera sono stati spesi 24 milioni di euro dal 1982 ai nostri giorni; per la precisione 24.610.500. Il 98% della cifra è stato utilizzato prima del 1999 quando le autostrade erano pubbliche. Abbiamo a che fare con due periodi di durata simile, come dire due “metà tempi”. Nel primo tempo la spesa è del 98%, nel secondo tempo del 2%. Il secondo tempo è quello amministrato da Atlantia. Per dirla in altri termini: nel primo periodo la spesa di manutenzione è stata di 1,3 milioni di euro all’anno, in tutto 24 milioni circa. Negli anni seguenti la spesa è precipitata a 23 mila euro l’anno per un totale – nei 19 anni fra 1999 e 2018 – di 470 mila euro».

Si legge nei dispacci d’agenzia che era “uomo per sua natura cordiale e per carattere lontano dai giochi della politica”, oggi come ai tempi delle privatizzazioni che hanno visto i Benetton allargare il cappello sulle Autostrade così come sui ristori Autogrill (dove si lavora anche con contratti da 15 giorni), scendere in campo in uno dei passaggi della tormentata storia di Telecom al fianco di Marco Tronchetti Provera nel gruppo di tlc, entrare nel patto di Mediobanca, dove Edizione rimane azionista. Gilberto è quello, tra i quattro fratelli di Ponzano Veneto, ad aver sempre tirato le fila delle attività industriali e finanziarie, diverse da quello del marchio di abbigliamento, che anche oggi fa capo a Luciano. È stato fino a oggi presidente di Autogrill, un gruppo al quale ha dato l’impulso per crescere all’estero, soprattutto nella ristorazione aeroportuale. Ma soprattutto era vicepresidente di Edizione, dove ha avuto sempre un ruolo di dominus. Ha creato la holding 30 anni fa e con questa la famiglia controlla non solo la catena dei maglioncini e Autogrill, ma soprattutto Atlantia – come Autogrill quotata in Borsa – con la quale prima dell’estate l’imprenditore trevigiano è riuscito a concludere una delle operazioni di maggior successo: quella sulle autostrade spagnole di Abertis per la quale il closing è atteso a breve.

C’è stato un momento, all’inizio degli anni 60, che le magliette di Benetton erano gli unici capi firmati che potevano permettersi i giovani delle classi subalterne del trevigiano, un po’ l’evoluzione delle magliette a strisce che, poco prima, avevano turbato i sonni del governo Tambroni a Genova, Roma, Reggio Emilia. È in quell’epoca che la famiglia Benetton ama far risalire il proprio mito di imprenditori modello, self made men, nello spirito del Nord Est e dei distretti industriali, gente che s’è fatta da sé, che potevi incontrare in bicicletta mentre si recava in fabbrica al primo turno, tra i propri operai in bicicletta anche loro. Come dire “siamo tutti sulla stessa barca”, o bici che dir si voglia. Poi, Benetton prese a delocalizzare a Timisoara, in Ungheria, Spagna, Portogallo, Tunisia, Croazia, dopo avere imposto ai contoterzisti veneti l’acquisto di macchinari nuovi per presunte future produzioni di qualità, magari venduti dalla stessa casa madre e finanziati da una società di leasing del gruppo, dopo che erano spuntati più capannoni che campanili.

Andò in Argentina e si prese per due soldi le terre dei Mapuche, 900 mila ettari di terreno, 884 mila dei quali in Patagonia, che furono confinati in zone marginali e improduttive, o costretti alla migrazione nei centri urbani. Nel 2007 la comunità Santa Rosa Leleque decise di recuperare il suo territorio ancestrale, e per anni ha dovuto affrontare continui e violenti tentativi di sgombero. Nel 2014, finalmente, l’Istituto nazionale degli Affari indigeni riconobbe il diritto dei Mapuche sul territorio. E il 13 marzo del 2015 alcune famiglie iniziarono la “recuperación” di altri territori ancestrali sottratti loro da Benetton. Santiago Maldonado era un artigiano argentino impegnato nei diritti civili delle comunità indigene, di 28 anni. È sparito il primo agosto 2017 a El Bolsón, vicino a Bariloche, nella provincia di Rio Negro, mentre era con un gruppo di Mapuche ad animare un blocco stradale. Il suo cadavere sarà ritrovato quasi tre mesi dopo. Quando il Nobel per la Pace, Adolfo Perez Esquivel scrive alla proprietà: «Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione e di potere nei loro latifondi (…). Deve sapere che quando si toglie la terra ai nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all’oblio. Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come popolo», i Benetton risposero: «Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa. Innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro».

Così, mentre i suoi contoterzisti locali (in Veneto ma pure in Puglia, Basilicata, Abruzzo, Campania e Calabria), dopo la sbornia degli anni d’oro, scoprivano che su di loro gravava l’intero rischio d’impresa e l’incertezza del futuro, che altro non erano se non reparti dislocati sul territorio di una fabbrica virtuale, parcellizzata – insomma, che erano appesi ad un filo – lo stesso sperimentavano i Mapuche o, dall’altra parte del mondo, chi ha a che fare con Benetton nelle fabbriche asiatiche. Appesi a un filo. Il lato oscuro di Benetton si annida ovunque: nel 1994 a Troyes, capitale del tessile in Francia, fu scoperto un laboratorio clandestino che produceva indumenti per Benetton dove erano impiegati un centinaio di immigrati illegali vietnamiti. L’8 marzo ’97 muore, a Cavite nelle Filippine (città-fabbrica di cui scrive Naomi Klein in No Logo), Carmelita Alonzo, 35 anni e 5 figli. Era cucitrice presso la taiwanese VT Fashion, impresa che, fra le altre, produceva anche per Benetton. Ancora: nel 2014, il 24 aprile, crolla in Bangladesh il Rana Plaza uccidendo 1138 persone e ferendone oltre 2000. La maggior parte dei morti e dei feriti lavorava in una delle cinque fabbriche tessili presenti nello stabile. I lavoratori delle banche e dei negozi al piano terra si erano rifiutati di entrare nell’edificio insicuro. Fra le macerie, gli indumenti targati Benetton, che dopo un primo goffo tentativo di smentita, fu costretta ad ammettere il suo coinvolgimento con la New Wave Bottoms Ltd che produceva 30mila articoli commissionati proprio dall’azienda italiana nel settembre 2012. Benetton s’è impegnata a risarcire 970 dollari per ogni persona rimasta uccisa dal crollo. Una vera elemosina per un gruppo che nel 2013, anno della tragedia, aveva realizzato un utile di esercizio pari a 121 milioni di euro.

Ma intanto l’edificazione del mito, da trent’anni, è stata affidata a un noto fotografo che avrebbe fatto scomparire il prodotto (e quindi anche i lavoratori e i territori) dalla pubblicità del marchio sfruttando però, per costruire l’immagine di un “capitalismo dal volto umano”, immagini di nascita, sesso, dolore, morte, razzismo, pena di morte, antimilitarismo, pacifismo, il neonato attaccato al cordone ombelicale, i preservativi, le carrette del mare grondanti di clandestini, il delitto di mafia, i bambini lavoratori, il cimitero di guerra, la serie di sessi femminili e maschili, la divisa insanguinata, vera, di un soldato bosniaco morto in guerra, donata dal padre (1994); i ragazzini disabili di un istituto bavarese (1998 e nel 2000), le facce di di 28 condannati nel braccio della morte di un carcere americano fino ai bambini nudi del 2018.

«L’azienda che ha colorato il mondo non ha mai smesso di alimentare la sua immagine capital-progressista, esibendo il profilo migliore, quello delle fotografie degli incontri ufficiali, quello che si vende di più e più a lungo, quello che dura nel tempo e nelle coscienze, per proporre, rinnovato e aggiornato tecnologicamente, l’anticonformismo delle origini che tende la mano ad una certa sinistra ambientalista e umanitaria non solo italiana. Con un’attenta operazione di marketing e una innovativa strategia di comunicazione, Benetton non ha mai smesso di essere “uno di noi” ed è riuscito a cucirsi addosso l’immagine del capitalismo dal volto umano e diventare, negli anni, il simbolo della responsabilità sociale, il paladino del capitalismo sostenibile», scrive Nicola Atalmi, nell’introduzione a United Business of Benetton, sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia di Pericle Camuffo (Stampa alternativa, 2008).

Solo così il marchio di “straccetti colorati” (come lo definì una campagna della comunità lgbt quando mise in vetrina la foto di una malato di Hiv ormai in agonia) può far passare in secondo piano che i capi di abbigliamento sono confezionati da donne migranti schiavizzate nelle fabbriche tessili indiane che riforniscono i grandi marchi internazionali della moda come, oltre Benetton, C&A, Gap, H&M, Levi’s, M&S e Pvh. «A Bangalore, il più grande centro di produzione di abbigliamento in India, giovani donne, reclutate con false promesse di salari e benefici economici, lavorano sotto pressione per paghe da fame. Le loro condizioni di vita negli ostelli sono precarie e la loro libertà di movimento è severamente limitata. Nonostante si dichiarino almeno diciottenni, molte di loro sembrano molto più giovani», si legge nel report 2018 Lavoro senza Libertà, curato dall’organizzazione per i diritti umani India committee of the Netherlands, la Clean clothes campaign e il sindacato femminile di Bangalore Garment Labour union. La ricerca ha riscontrato che 5 degli 11 indicatori dell’Ilo (International labour organization, ndr) per identificare il lavoro forzato sono presenti nelle fabbriche di Bangalore: abuso di vulnerabilità, inganno con false promesse (ad esempio sui salari), limitazione dei movimenti nelle abitazioni, intimidazioni e minacce, condizioni di lavoro e di vita inumane.

La potenza del mito è proprio questo: riuscire a inventare e imporre una realtà virtuale, somigliante a quella vera ma capovolta. Come altro ha potuto il capitalismo sopravvivere alle sue crisi, alle sue guerre di sovrapproduzione, alla violenza dell’accumulazione? Pagando, s’intende, ma, soprattutto diventando un mito. Dell’impero Benetton, così, si potrà sempre dire tutto e il suo contrario. Perfino che sia una vittima di Ponte Morandi.