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Auschwitzland: eccoli i neri clandestini

Lei si chiama Selene Ticchi, ha 48 anni, ed è stata anche candidata sindaca a Budrio per Aurora Italiana, con in tasca la tessera del Movimento Nazionale per la Sovranità di Francesco Storace e Gianni Alemanno che corse fino a lì per sostenerla. Risultato elettorale: 116 voti su 8750 votanti. L’1,37%. Fin troppo, per una fascista.

Selene Ticchi era insieme a quei vermi che provano a uscire dalle fogne incontrandosi tutti gli anni a Predappio, sulla tomba di Mussolini: indossava una maglietta nera con scritto “Auschwitzland”, paragonando il campo di concentramento al parco di divertimenti della Disney. Al giornalista che le ha chiesto spiegazioni ha risposto che era humour nero. Che ridere.

La scena è stata quella che si ripete tutti gli anni: saluti romani, “Camerata Mussolini, presente!”, “Duce duce”, “Boia chi molla”, canti contro i partigiani.

C’è una novità però quest’anno: molti di loro dicono di sentirsi “finalmente rappresentati” da Salvini. Chiedono che tenga duro nella sua “lotta contro i migranti”. Irridono la legge (che vieterebbe giornate come queste) con uno striscione che dice “arrestateci tutti”.

Salvini, sì sempre lui, dovrebbe essere quello che vigila su tutto questo e colui che si occupa dello scioglimento di gruppi vietati dalla Costituzione.

Questo è il nostro tempo: un Paese in cui si applaude l’arresto di Mimmo Lucano invocando il rispetto delle regole mentre gente come Selene Ticchi pascolano indisturbate. Poi magari fra qualche giorno la intervisteranno in lacrime, ci dirà di essersi pentita, che era solo una leggerezza e ci spiegherà che ha anche amici di sinistra.

I fascisti sono clandestini. Ma sul serio. Senza bisogno nemmeno di controllargli i documenti. Che vi piaccia o no. Se avete bisogno di un nero di cui avere paura eccoli qui. Solo che per loro è cominciata la pacchia.

Buon lunedì.

Perché il Brasile va a destra con Bolsonaro presidente

In Brasile la campagna elettorale ha avuto un grande protagonista: la pallottola. Se le vittorie di Lula e di Dilma Rousseff trovavano nell’inclusione volta alla crescita solidale le loro parole chiave (bolsa familía, fome zero, etc.), lo staff di Jair Bolsonaro, ex militare e candidato della destra, ha sparigliato il gioco, rilanciando il più crudo e, nel contempo, elementare dei concetti: repressione armata come soluzione dei problemi sociali. I simboli traino delle elezioni brasiliane, insomma, sono il fucile, la mitragliatrice, il revolver. Uno dei candidati alla presidenza sconfitti al primo turno, Geraldo Alckmin – conservatore, ma dell’ala liberale – aveva provato a opporre uno slogan alternativo: “Non è con la pallottola che si risolvono i problemi”. E ha miseramente perso. Opposto è, invece, il discorso che le forze reazionarie in Brasile stanno veicolando con crescente successo: è con la pallottola che si risolvono criminalità e corruzione.

Eppure, all’inizio del nuovo millennio il progetto culturale e politico articolato da Lula e dal governo del Partito dei lavoratori (PT) aveva portato ossigeno a una società brasiliana sfiancata dall’iperinflazione: il motto era democratico, redistribuire la ricchezza e diffondere in maniera il più possibile equa il benessere, ripartendo dall’inclusione sociale e dai suoi benefici in senso progressista. I risultati non si sono fatti attendere. Gli equilibri di potere su cui per secoli la società brasiliana si fondava sono stati messi in discussione. E per quasi un decennio tale concezione politica e ideologica ha avuto il vento in poppa. Poi i costanti boicottaggi di gruppi sociali spiazzati e penalizzati dal cambiamento, la crisi, nonché alcuni marchiani errori del PT e della sinistra brasiliana, hanno fatto deragliare tutto.

Il contropiede è stato spietato e su un Lula “padre” degli oppressi (immagine certamente populista, in senso anche deleterio), il quale parlava al cuore degli esclusi, ha preso il sopravvento un piano politico di estrema destra, che ha mirato dritto alla pancia delle classi popolari e della classe media. E in molti, tra i quali anche elettori che in passato avevano votato PT, si sono lasciati sedurre dai richiami di una pericolosa sirena sempre in agguato nella storia latinoamericana, la violenza, che ha una tradizione forte in Brasile, alimentata da tassi di miseria ancora clamorosi. Violenta è stata la repressione degli indios, che ha aperto le porte delle Americhe a un potere coloniale durato oltre tre secoli e perpetratosi nell’autoritarismo oligarchico e nella dittatura militare. Tale primitiva e brutale pulsione la letteratura brasiliana l’ha espressa con straordinaria forza.

Per capire il Brasile profondo – molte delle cui pulsioni negli anni della “ridemocratizzazione” post-dittatura hanno fluito come un fiume carsico, il fiume dell’odio di classe, lo scorrere tetro della rabbia dei dominanti sui dominati – leggere O triste fim de Policarpo Quaresma di Lima Barreto (1911) può, infatti, essere utilissimo. Nella terza parte del romanzo il protagonista Policarpo partecipa alla revolta da Armada di fine ottocento. In quegli anni, scrive Lima Barreto, “le pallottole diventarono di moda. Vi erano spille da cravatta, ninnoli d’orologio, portamatite, che venivano fatti con piccole pallottole di fucile: si realizzavano anche collezioni con pallottole di medio calibro, i cui astucci metallici erano stati sabbiati, lucidati, lisciati per ornare i mobili […]; le munizioni grandi, i “meloni” e le “zucche”, come erano chiamate, guarnivano i giardini, come vasi di porcellana o statue”.

Era di moda già nel tardo ottocento, la pallottola. Con la crisi dell’era PT – il cui piano era di disarmare i brasiliani (fu realizzato anche un referendum in questo senso), collocando invece l’accento sulla necessità di porre cibo sulla tavola dei cittadini in miseria –, la pallottola torna – dopo un’improvvisa svolta radicalmente reazionaria – a simboleggiare, nell’immaginario di una parte crescente di popolazione, un Paese che a una lotta per il progresso e per la democrazia sembra preferire la retroguardia paranoica.

 

 

Yu Hua: Anche i preti si vogliono iscrivere al partito comunista

Autore da un milione di libri venduti Yu Hua è una delle voci più schiette e originali della Cina di oggi. Da sempre impegnato sul fronte della denuncia sociale è autore di romanzi come Vivere! da cui è tratto l’omonimo film di Zhang Yimou e come lo spiazzante Il settimo giorno in cui il protagonista riceve una telefonata dall’obitorio che lo redarguisce perché in ritardo all’appuntamento per la sua cremazione. Un romanzo surreale dal quale emerge un crudo ritratto della Cina di oggi dove le disuguaglianze sociali e il denaro fanno la differenza anche da morti. Vincitore del Premio Bottari Lattes Grinzane 2018 con il nuovo libro Mao Zedong è arrabbiato, verità e menzogne dal pianeta Cina (Feltrinelli) Yu Hua è in questi giorni in Italia per un lungo tour nelle università. Grazie alla traduzione di Silvia Pozzi durante la serata di premiazione a Monforte d’Alba abbiamo avuto la possibilità di rivolgergli qualche domanda. A cominciare da un passaggio fulminante del suo nuovo libro in cui Yu Hua sintetizza in poche battute più di cinquant’anni di storia cinese.

Quando c’era Mao, lei racconta, i giovani parlavano di lotta e rivoluzione, durante gli anni Ottanta le parole d’ordine erano amore e carriera. Oggi, donne e denaro. Mao si rivolta nella tomba?

Durante la rivoluzione culturale Mao avrebbe dato un buffetto e un abbraccio ai bambini che gli dicevano le parole giuste, lotta e rivoluzione. Se fosse vivo, cosa direbbe a chi inneggia a belle donne e denaro? Li metterebbe in galera.

In Cina oggi esistono le classi ma c’è lotta di classe?

Quando io ero piccolo non si parlava né di classi né di lotta. Oggi le classi ci sono, eccome, e sono anche parecchio frastagliate, con grandi differenze l’una dall’altra. C’è sempre più distanza fra ricchi e poveri, lo si vede in maniera sempre più netta. La realtà della Cina è sempre più simile a quella dell’Occidente. Adesso c’è lotta sociale.

In Occidente si discute molto di diritti umani in Cina, c’è anche un problema di diritti sociali?

Tutti i problemi cinesi sono eminentemente sociali. Non molto tempo fa in rete un degente che era stato in ospedale scrisse un post stigmatizzando i costi esosi dei pasti alla mensa ospedaliera. Denunciava il fatto che fosse ingiusto che in ospedale si pagasse così tanto per mangiare. Morale della favola, la polizia dopo aver intercettato questo post, l’ha preso, l’ha arrestato e lo ha tenuto in galera per 15 giorni. Va detto però che non si tratta di un’azione del governo cinese. Questo episodio nasce dalla collusione fra i vertici della dirigenza dell’ospedale e la polizia locale, nasce dai loro rapporti personali. Ribadisco, questo tipo di corruzione che ha portato all’imprigionamento di quest’uomo non dipende dal governo nazionale. Questo esempio molto concreto è per spiegare che spesso i malanni della società cinese, le cose terribili che succedono, non sono frutto del governo ma di scelte dei governi locali che determinano problemi sociali. I piccoli potenti locali si sentono in diritto di intervenire anche infrangendo la legge.

Un’ampia parte di questo suo nuovo libro, frutto di articoli pubblicati sul Time e sul New York Times, è dedicato alla libertà di espressione. Lei ricorda quando, da bimbo, per la prima volta lesse un libro proibito, Le 25 storie illustrate. Oggi la censura ha molte facce, lei scrive. Qual è l’aspetto più irritante, più preoccupante, con cui ci si scontra più spesso?

Personalmente non mi causa nessun tipo di problema. La censura in Cina a volte è una cosa complicata a volte è semplicissima. Se parli della rivoluzione culturale puoi scrivere quello che ti pare in un libro, ma film non ne puoi fare su questo argomento. Sai che ci sono temi che non puoi toccare come il massacro in piazza Tienanmen. Ecco perché il mio libro La Cina in dieci parole non è stato pubblicato in Cina e l’ho dovuto pubblicare a Taiwan. Lì io parlavo di piazza Tienanmen, per questo non è potuto uscire. Questo mio nuovo libro è una raccolta di articoli che ho scritto specificamente per i lettori stranieri. Insomma so cosa possa fare e cosa no, così faccio quello che voglio. Quando scrivo qualcosa che non può essere pubblicato nel mio Paese, detto fatto, lo pubblico a Taiwan. Oppure lo pubblico in Italia come Mao Zedong è arrabbiato.

Qualcosa sta cambiando anche a Hong Kong, per la prima volta un giornalista straniero è stato espulso.

Sì c’è un cambiamento in questo senso. Più andiamo avanti più Hong Kong assomiglia alla Cina continentale. Oramai quasi tutte le testate hongkonghesi sono di proprietà del partito comunista cinese. Oggi se vai ad Hong Kong e compri un giornale oppure se lo compri in Cina, qualsiasi testata tu scelga, non trovi nessuna differenza di sapore o di orientamento. E mi sa tanto che fra 50 anni anche i giornali italiani saranno di proprietà del partito comunista cinese…

Un aspetto interessante della Cina è l’ateismo: quella cinese è una cultura millenaria libera da ogni fondamento metafisico. Appare come una grande libertà di pensiero. Sta cambiando qualcosa, visti gli accordi con il Vaticano?

A quanto pare i rapporti fra Cina e Vaticano stanno diventando un po’ più sciolti. In tutto il mondo preti, prelati, membri della gerarchia religiosa sono scelti dal Vaticano. In Cina a decidere chi fa cosa e chi occupa posti di potere per quanto riguarda la Chiesa cattolica non è il Vaticano, ma il partito comunista cinese.

Nonostante certi nodi si stiano sciogliendo questo rimane un punto fondamentale. Un punto su cui la tensione è alta perché nessuna delle due autorità vuole recedere e concedere potere all’altro. Quindi (accenna ridendo, ndr) il fatto che recentemente i rapporti si siano distesi non sarà perché i prelati del Vaticano si stanno iscrivendo al partito comunista?

Parlando ancora di questioni internazionali in Africa vediamo in azione il soft power cinese che porta nuove infrastrutture e sviluppo o si tratta piuttosto di nuova forma di colonialismo?

Credo che sostanzialmente l’obiettivo sia la ricchezza del sottosuolo, le mire della Cina riguardano la grande potenzialità e ricchezza del continente africano. Secondo me non ci sono in ballo la politica o altre questioni, la cosa fondamentale è l’economia.

A sei anni da La Cina in dieci parole qual è la parola chiave per capire la Cina di oggi?

L’ho scritto in quel libro (pubblicato nel 2012 da Feltrinelli, ndr) e lo ripeto oggi, la parola per fotografare la Cina è cambiamento, vale ancora in questo momento. La parola è cambiamento

L’intervista di Simona Maggiorelli a Yu Hua prosegue su Left in edicola dal 26 ottobre 2018


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In cerca di un mondo migliore

ADEN, YEMEN - SEPTEMBER 23: Internally displaced people (IDPs) play a game of tug-of-war at Meshqafah Camp on September 23, 2018 in Aden, Yemen. The majority of the camp is made up of families who fled fighting along Yemen's west coast. A coalition military campaign has moved west along Yemen's coast toward Hodeidah, where increasingly bloody battles have killed hundreds since June, putting the country's fragile food supply at risk. (Photo by Andrew Renneisen/Getty Images)

Il nome trae in inganno. Perché “I giardini”, induce a facili promesse di bellezza e benessere quando, a Basatheen, la cosa più simile all’Eden è l’unico melograno rachitico piantato all’interno del cortile della scuola del quartiere. Il resto – in questo slum periferico della città di Aden, la perla dello stretto di mare di Baab al Mandab, e oggi capitale della Repubblica dello Yemen devastata dalla guerra, in un Paese sfilacciato e ridotto a brandelli dalle centinaia di milizie che lo controllano palmo a palmo – è fogne a cielo aperto che si confondono con l’acqua piovana in una melma di difficile definizione, discariche di rifiuti ad ogni angolo di strada, costruzioni sbilenche e mai portate a termine se di muratura, baracche di lamiera, tende. La guerra ha dato il colpo di grazia al quartiere, occupato nel 2015 dalle milizie del Nord, gli Houthi, che lo hanno usato per tre mesi come avamposto per le loro incursioni violente in città.

In questo collage della povertà vivono – non registrate definitivamente – circa 7mila persone, la maggior parte delle quali rifugiati somali in Yemen, arrivati qui anche più di vent’anni fa a causa della guerra civile somala, una percentuale minore di migranti di etnia oromo dall’Etiopia, rifugiati da Gibuti e alcune famiglie beduine yemenite, che non si integrano né con i vicini né con gli yemeniti che vivono nella città, quella degli shop e delle auto nuove di zecca, fuori da questo Eden mancato.

Odei al-Qadhi, medico yemenita trentenne che qui a Basatheen è project manager Dafi (Albert Einstein german academic refugee initiative) per la Ong Intersos e individua giovani della comunità somala meritevoli di borse di studio, cerca di andare ancora…

Il reportage di Laura Silvia Battaglia da Aden prosegue su Left in edicola dal 26 ottobre 2018


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Il falso mito di Asperger, l’autismo e l’eugenetica nazista

Il famoso medico austriaco Hans Asperger per primo ritenne di aver individuato un gruppo di bambini con caratteristiche psicologiche particolari: nel 1938 a Vienna egli usò il termine “psicopatici autistici” prima del famoso lavoro di Leo Kanner del 1943, a Baltimora, sull’autismo. Su quest’ultimo tema nel 1944 il pediatra viennese pubblicò un saggio che ebbe un riconoscimento internazionale a partire dal 1980 grazie alla psichiatra inglese Lorna Wing. Da allora l’eponimo “Sindrome di Asperger” è stato sempre più utilizzato nell’ambito della medicina, dei media e dell’opinione pubblica. Asperger passò anni cruciali della sua carriera nella Vienna nazista dopo l’Anschluss, l’annessione della Austria al Reich nel 1938: quale fu il suo rapporto con il nazional socialismo e le politiche di igiene della razza?

Dopo la seconda guerra mondiale è invalsa una narrativa di Asperger come un oppositore del nazifascismo e coraggioso difensore dei suoi pazienti contro il famigerato programma di “eutanasia” e di sterilizzazione forzata. Uno storico viennese della medicina Herwig Czech ha pubblicato ad aprile del 2018 un saggio Hans Asperger National Socialism and “race hygiene” in Nazi-era Vienna, in cui, grazie all’accesso a scritture personali, a documenti inediti di archivio riguardanti le cartelle cliniche e perizie effettuate dal pediatra, si producono le prove che quest’ultimo colluse col nazismo e appoggiò l’“eutanasia” pur senza aderire formalmente al partito.

Una storica dell’università di California Edith Scheffer ha pubblicato a maggio 2018 un libro (tradotto in italiano da Marsilio) I bambini di Asperger: la scoperta dell’autismo nella Vienna nazista. In esso si sostiene che la definizione di “psicopatia autistica”, che si riferiva a problemi di affettività e di socializzazione, sarebbe stata…

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L’articolo dello psichiatra e psicoterapeuta Domenico Fargnoli prosegue su Left in edicola


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Donald Sassoon: Gli anticorpi contro il nazionalismo

Una massa oceanica di persone ha invaso Londra per dire no alla Brexit la settimana scorsa. Fra i manifestanti c’era anche lo storico Donald Sassoon. «È stata una manifestazione molto importante», sottolinea. «Ma temo che non basti perché ci sia un nuovo referendum». Il 28 ottobre a Londra, al Festival di letteratura italiana, il docente emerito di Storia europea comparata al Queen Mary College, University of London, è invitato a parlare dei risorgenti nazionalismi. Ne abbiamo approfittato per chiedergli come vede il futuro dell’Europa minacciata dall’internazionale nera. Siamo davanti ad un paradosso, ci aveva avvertito lo studioso già l’anno scorso in occasione di una sua lectio in Italia. «Ci potremmo aspettare che gli europei delusi dalla politica nazionale guardassero all’Unione europea invece succede che la collera contro la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno alle destre nazionalista».

Professor Sassoon perché questo rigurgito nazionalista oggi, è un effetto collaterale delle politiche neoliberiste e blairiane del centrosinistra?
Il nazionalismo inglese è antico (come del resto lo sono i nazionalismi in Europa). Ha preso piede nell’Ottocento. Quello britannico è anche più vecchio di quello italiano e tedesco ed è stato rafforzato dalla storia degli ultimi 150 anni, contrassegnati da due guerre mondiali e dal colonialismo. All’epoca il nazionalismo si esprimeva con un senso di superiorità, gli inglesi pretendevano di aver insegnato la civiltà al mondo. In pratica Tony Blair ha rafforzato ciò che c’era già.

Stando all’ultimo sondaggio di Eurobarometro gli inglesi sono meno euroscettici di quanto non lo siano oggi gli italiani, cosa ne pensa?

Al di là dei sondaggi (non sappiamo quanto attendibili) dobbiamo ricordare che il referendum è stato vinto dagli euroscettici in Gran Bretagna con il 52 per cento contro il 48. In Italia se si sommano i leghisti più altri euroscettici si arriva all’incirca alle stesse cifre. Ed è proprio questo il dato sorprendente. Più di vent’anni fa la stragrande maggioranza degli italiani era del tutto a favore dell’Europa. In Inghilterra, nel 1975, si tenne il referendum sull’Europa voluto da Wilson; vinse il Remain con oltre il 60 per cento. Ma successivamente in tutta Europa c’è stato un aumento dell’euroscetticismo. Sono ben pochi i Paesi dove una visione positiva è aumentata negli ultimi vent’anni.

La sinistra cosa può fare oggi per riformare questa Europa che è nata solo come unione mercantile?

L’Europa è stata fondata da conservatori: Schuman, De Gasperi e da Adenauer volevano un’Europa conservatrice cristiana. Tutto questo è cambiato molto lentamente. La sinistra che all’origine era contro l’Europa, negli anni, è diventata a favore. Questo è un punto cruciale. Ora cosa potrebbe fare la sinistra per riformare l’Europa? Quella inglese, purtroppo, non può fare assolutamente nulla. A meno che non succedano miracoli, purtroppo, saremo fuori dall’Europa fra sei mesi, forse con un periodo di transizione un po’ più lungo. Al momento quello che la sinistra può tentare, con Corbyn, è cercare di uscire dall’Europa con il minor danno possibile, con una soluzione tipo norvegese restando nell’unione doganale, forse anche nel mercato unico. Nonostante la straordinaria manifestazione che c’è stata temo che sia difficile un secondo referendum, sono piuttosto pessimista a questo riguardo. La sinistra inglese non è solo fuori dal governo ma è anche divisa: Jeremy Corbyn è sotto il continuo attacco dell’ala destra del suo partito, il Labour party. Ancora più diviso, comunque, è il governo conservatore, che versa in una situazione disastrosa.

La sinistra italiana (purtroppo disgregata) guarda con interesse a Corbyn e all’ala Momentum. Come è riuscito a coinvolgere le nuove generazioni?

Questa è stata una delle maggiori sorprese degli ultimi due anni. Quando nel 2015 il leader del Labour party Ed Milliband dette le dimissioni e si aprì la battaglia per la successione, nessuno pensava che Corbyn potesse avere una speranza, lui stesso non credeva seriamente di potercela fare. Ma c’è stata una svolta con un enorme aumento degli iscritti. Oggi come oggi il Labour è il più grande partito di sinistra in Europa, nonostante sia stata fatta una serrata campagna contro il suo segretario, Jeremy Corbyn con assurde accuse di antisemitismo. Gli opinionisti del Guardian dicevano che lui era ineleggibile. Invece lo spostamento di voti a suo favore è stato il più grosso dal 1951, un’onda molto più grande di quella che sostenne Blair. Jeremy Corbyn è stato duramente attaccato ma non c’è stato un dibattito sulle politiche che ha portato avanti, per il disarmo nucleare e per il superamento di Trident, per la nazionalizzazione delle ferrovie che versano in uno stato disastroso e su cui sta raccogliendo molto consenso.

Proprio queste battaglie ne hanno fatto un leader anche oltre i confini nazionali.

La popolarità di Corbyn andrebbe considerata in un contesto europeo, là dove c’è una spinta a cambiare le cose. Purtroppo al momento la voglia di cambiamento viene intercettata e cavalcata dalle destre. Assistiamo alla crescita di partiti di destra e all’affermazione di altri che si dicono né di destra né di sinistra come i Cinque stelle. In Francia la destra guidata da Marine Le Pen è ormai al 30 per cento, mentre il vecchio partito socialista è ridotto al 6. In Germania, con le ultime elezioni, Merkel si è attestata sulle percentuali più basse della storia della democrazia cristiana tedesca. Potremmo fare tanti altri esempi. Sembra che lo Zeitgeist stia andando verso questo tipo di politica che ha gestito l’Occidente dal 1945 in poi. Riguarda anche gli Stati Uniti: Trump non è un presidente “normale”, non è neanche un classico repubblicano. È uno che non era mai stato eletto. Non era mai accaduto in precedenza. Reagan, dopo tutto, era stato prima eletto governatore della California. Ancora non riusciamo a capire dove, di questo passo, andremo a finire. Su questo ho scritto un libretto che uscirà in Italia a febbraio: riprende una frase famosa di Antonio Gramsci sui fenomeni morbosi che emergono nei periodi di crisi quando il vecchio mondo sta sparendo e il nuovo non è ancora arrivato. “Sintomi morbosi” è un’espressione che , a mio avviso, descrive bene il momento che stiamo vivendo. È molto difficile fare delle previsioni. Da storico non mi azzardo, già è abbastanza complicato capire quel che è successo nel passato.

Leghisti e grillini usano la parola popolo come se indicasse l’intero della popolazione italiana. In nome del popolo prendono provvedimenti xenofobi, come il decreto sicurezza e immigrazione, che contiene misure di repressione della protesta sociale, minacciano la stampa. Lei ha scritto un libro su Mussolini, Salvini cita spesso il duce. Come vede questa deriva?

Non c’è il minimo dubbio che sia molto pericolosa. È inquietante che si riprendano slogan del passato. Anche in Inghilterra i conservatori parlano di decisione del popolo inglese “dimenticandosi” che si tratta della decisione del 52 per cento, non del popolo britannico. Anche avere una visione se non positiva, ma non del tutto negativa di un passato che era considerato negativo per molti anni è un bruttissimo segnale. Basti dire che in Svezia, storicamente il paradiso della democrazia, il 17 per cento ha votato per un partito che ha origini di estrema destra. In Germania, che ha vissuto il nazifascismo e che lo considerava un tabù, un partito di estrema destra ha fatto passi giganteschi. Tutto questo indica, appunto, che siamo in mezzo a una situazione allarmante.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Donald Sassoon prosegue su Left in edicola dal 26 ottobre 2018


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Atac, quella privatizzazione non s’ha da fare

DEPOSITO ATAC DI GROTTAROSSA, I NUOVI AUTOBUS

Mentre a Genova le conseguenze delle privatizzazioni hanno la forma dei monconi del Ponte Morandi, a Roma si discute di privatizzare Atac, la più grande azienda di trasporto pubblico locale d’Europa. Si voterà l’11 novembre. «Dietro la sfida dei radicali – avverte Paolo Berdini, urbanista e presidente di Abc, Atac bene comune – c’è il tentativo di trasformare in merce un servizio e scaricarne i costi su lavoratori e utenti». Abc, insieme a “Calma” (Coordinamento associazioni locali mobilità alternativa), avverte che «con il referendum si vuole concludere la privatizzazione, già in atto. Ne seguiranno il taglio di ulteriori linee, l’aumento delle tariffe, licenziamenti, la svendita degli immobili Atac».

Promossa da Radicali italiani, la consultazione è legata strumentalmente al giudizio popolare su bus e metro (tempi d’attesa record, flotta vetusta, tagli alla manutenzione, mancati introiti per l’elevata evasione, il 63% dei viaggiatori di superficie che sono insoddisfatti, aggressioni al personale ecc…) e, in generale, al futuro di un’azienda che è stata alla mercé per vent’anni di spezzatini e fusioni, di guerre fra Regione e Comune per il conferimento dei fondi, di affidamenti ai privati di funzioni prioritarie, esternalizzazione e licenziamento di 140 addetti alla manutenzione, di appalti al massimo ribasso e incastri con il sistema di Mafia Capitale. Inoltre, dentro una tradizione di clientelismo «strutturale e strutturato» (parole di un dipendente che vuole rimanere anonimo), anche di una Parentopoli Nera, l’assunzione in massa di amici degli amici di Alemanno, 854 (su 11mila dipendenti di cui solo 6mila autisti) tra impiegati e dirigenti pescati anche fra reduci dei Nar e spesso con curriculum artefatti.

Anche la gestione a Cinque stelle, con l’avvicendamento di almeno tre assessori alle partecipate, e la nomina di un supermanager, Paolo Simioni, con tre cappelli (è controllato e controllore, presidente, Ad e commissario straordinario) è…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 26 ottobre 2018


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Il governo attacca la storia, materia invisa al potere

ROME, ITALY - OCTOBER 12: Students demonstrate against the education politics and for the right to study on October 12, 2018 in Rome, Italy. Thousands of students took to the streets to demand more resources for the right to study , quality of education and to protest against the financial maneuver announced by the Government. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Getty Images)

È dall’inizio dell’anno scolastico che docenti e alunni attendevano ragguagli sul futuro esame di Stato e la notizia è arrivata poche settimane fa proclamando alcuni cambiamenti che rientrano a pieno titolo nel clima politico del nuovo governo gialloverde. La cosa che balza agli occhi e che ha subito destato le critiche del mondo degli storici – autori di un appello contro le nuove disposizioni del Miur – e dei docenti è l’eliminazione della traccia storica dalle possibili scelte nel tema di italiano.

Una cancellazione che va a sommarsi a una politica di svilimento della disciplina che, ormai da dieci anni nel nostro Paese, i vari ministri della scuola stanno portando avanti. Mariastella Gelmini nel 2010 tolse dai licei scientifici e linguistici un’ora di insegnamento dalle tre totali e quest’anno agli istituti professionali invece di due ore di storia alla settimana ce ne sarà una soltanto.

Il risultato è quello di attaccare la memoria e quindi l’identità dei futuri cittadini che non devono ricordare, non devono conoscere il proprio passato.

La storia è lo strumento principale per interpretare il presente, per formare la coscienza critica di coloro che si recheranno alle urne, l’antidoto fondamentale contro i virus dell’intolleranza e degli integralismi. Gli effetti di questa incuria si sentono già tra le aule e i corridoi della scuola secondaria superiore e insegnare la storia ai ragazzi del triennio è diventato difficile. Innanzitutto i giovani di oggi hanno pochissima dimestichezza con le coordinate spazio-temporali: il ‘900 è un blocco unico, il fascismo non si sa se viene prima o dopo la prima o la seconda Guerra mondiale, il prima e il dopo Cristo sono come simboli di una punteggiatura che viene utilizzata un po’ a caso… Geograficamente il mondo appare una carta misteriosa e assolutamente muta. Il docente deve non dare niente per scontato, ricordarsi di scandire bene le date spartiacque, definire a più riprese il significato di concetti quali “reazione” e “rivoluzione”.

La storia insegna inoltre a fare i conti con le fonti, con l’attendibilità dei testi, con l’uso sapiente delle citazioni e della paternità delle notizie, tutti esercizi lontani dalla pratica quotidiana dei nostri politici e giornalisti, figuriamoci dei ragazzi! È vero che i giovani di oggi scelgono rarissimamente la traccia di storia nel tema di italiano e che la storia appare loro spesso come una valanga di date e di battaglie da ricordare, ma eliminarla dalle possibilità di scelta di un candidato che voglia conseguire un diploma e immettersi poi nel mondo dell’università, del lavoro o semplicemente della vita pubblica e politica del proprio Paese, significa precludergli quella via che lo introduce alla conoscenza profonda e consequenziale della catena di eventi che hanno determinato la formazione dell’identità di se stesso e dei suoi simili. La strada dei revisionismi storici è così spalancata per l’uso propagandistico dei politici di turno.

Ogni giornalista di oggi sa che il vero modo per influire sull’opinione pubblica consiste nello scegliere e nel disporre in un certo i modi i fatti. I fatti non parlano mai da soli, vanno interpretati e questo è il lavoro degli storici. Lo storico sceglie e si schiera. Eliminare la storia significa togliere a tutti noi le domande sui perché le cose sono andate e vanno in un certo modo per comprendere il nostro passato e il nostro presente. Ciascun individuo non è isolato e a sé stante ma in continua relazione con l’ambiente e chi lo circonda. L’uomo senza la storia diventa muto e stupido, sarà questo il motivo per cui tutti i regimi totalitari hanno per prima cosa messo mano ai testi di storia nelle scuole?

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Elisabetta Amalfitano è docente di scuola superiore e autrice di saggi fra i quali “Le gambe della sinistra”

L’editoriale di Elisabetta Amalfitano è tratto da Left in edicola dal 26 ottobre 2018


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Bocciamo il ministro dell’insicurezza

The protest of the Italian students for the right to study in Rome, Italy, 12 October 2018. The students protest because '' the financial maneuver announced by the Government ignores the problems of the students, does not provide more resources for the right to study or for the quality of training or research '', they say. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

La prima sonora bocciatura del governo giallonero, espressa a gran voce in oltre 50 città italiane, è arrivata dagli studenti il 12 ottobre. “Razzismo, zero investimenti, repressione. Quale cambiamento?”, recitava uno striscione del corteo romano. “Il 71% delle scuole non è a norma. Quale sicurezza?”, si leggeva in un cartello issato da un giovane. Così, con poche e semplici parole d’ordine, i ragazzi e le ragazze scesi in piazza – lo faranno di nuovo di nuovo nella due giorni di mobilitazione il 16 e 17 novembre – hanno demolito la vacua retorica dell’esecutivo sull’istruzione. Che balbetta di finanziamenti che «ci saranno» (cit. Bussetti alla Fiera Didacta a Firenze) mentre nasconde provvedimenti securitari e misure che impoveriscono la formazione. Dall’idea di tagliare 100 milioni circa alla scuola nella legge di bilancio, tra cui 50 dedicati all’alternanza scuola-lavoro (come si evince dalle linee guida presentate nel Def), alle “Scuole sicure” di Salvini: due milioni e mezzo di euro destinati a quindici comuni italiani contro la diffusione della droga negli istituti, per installare videocamere, assumere i vigili, aumentare i controlli, e – in minima parte – per campagne di sensibilizzazione. Senza considerare l’introduzione del Daspo urbano per chi viene colto a spacciare.

«Il 51% delle scuole non è fornito di certificato di idoneità statica. Dunque c’è bisogno di un investimento sulla sicurezza, senza dubbio, ma non certo per acquistare telecamere di controllo», racconta a Left Giulia Biazzo, coordinatrice nazionale dell’Unione degli studenti. Secondo il rapporto di Legambiente Ecosistema scuola 2018, divulgato proprio nei giorni scorsi, lo stato di degrado dell’edilizia scolastica non accenna a migliorare. Anzi. Solo il 42,2% degli edifici scolastici è dotato di certificato di prevenzione incendi, il 60,4% di agibilità, il 54,2% di scale di sicurezza, l’83,3% di impianti elettrici a norma.

Mentre Salvini vuole trasformare le scuole in carceri monitorate h24, dunque, gli edifici in cui le nuove generazioni trascorrono le loro giornate rischiano di cadere a pezzi. Ed è bastato che un corpo sociale credibile sollevasse questa evidente contraddizione, per…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 26 ottobre 2018


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Prove tecniche di regime in Brasile: la polizia rimuove gli striscioni antifascisti dalle Università

Dozzine di irruzioni simultanee della Polizia federal brasiliana nei campus universitari in tutto il paese. È il segnale, estremamente grave. È arrivato ieri in Brasile con la scusa di combattere la presunta propaganda elettorale irregolare. A essere prese di mira rassegne cinematografiche, corsi di storia e documenti a sostegno della democrazia.
Un’azione coordinata che ha preso di mira decine di università e tra quelle che finora la hanno denunciata ci sono Ufgd (Dourados), Uepa (Iguarapé-Açu), Ufcg (Campina Grande), Uff (Niterói), Uepb, Ufmg, Unilab (Palmares), Sepe-Rj, Unilab-Fortaleza, Uneb (Serrinha), Ufu, Ufg, Ufrj, Ifb, Unila, UniRio, Unifap, Uemg (Ituiutaba), Ufal, Ifc, Ufpb.

A Rio de Janeiro il giudice elettorale Maria Aparecida da Costa Barros ha anche imposto di togliere il manifesto, affisso all’ingresso della facoltà di diritto dell’Università Federale Fluminense, a Niterói, che recitava “Right Uff antifascista” (La facoltà è antifascista), minacciando in caso contrario l’arresto del direttore del college, Wilson Madeira Filho. Studenti e insegnanti si sono ribellati sostenendo che il messaggio non nomina alcun candidato ed è una protesta contro il fascismo.
Ieri gli studenti dell’Uff avevano appesi striscioni contro il fascismo in altri tre edifici dell’Università, a Storia, Geografia ed Economia. E in alcune facoltà, come biomedicina, hanno realizzato banner virtuali.
Dopo il caso Uff, anche gli studenti dell’Università Statale di Rio de Janeiro (Uerj) hanno issato una bandiera antifascista.
Il presidente dell’Ordine degli Avvocati del Brasile, di Rio de Janeiro, Ronaldo Cramer, in una nota ha manifestato il disgusto su queste azioni che definisce «una censura alla libertà di espressione di studenti e professori delle facoltà di diritto».
«Tutti i cittadini hanno il diritto costituzionale di esprimersi politicamente, la manifestazione libera, non allineata con candidati e partiti, non può essere confusa con la propaganda elettorale» ha spiegato.