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“Caramella” per i Tre allegri ragazzi morti. Ed è subito rock

“Dolcetto o scherzetto?” è il quesito di rito nella notte dei mostri e delle streghe, quella di Halloween. Che sia una trovata americana o abbia origini nella tradizione popolare sicula poco importa, perché ormai è una data condivisa da tutti. Per i bambini è un’occasione per mascherarsi e andare in giro a formulare la fatidica domanda, che riempie loro tasche e sacchetti di caramelle; i più grandi non disdegnano di festeggiare forse una delle poche occasioni laiche del calendario. Svariati, quindi, gli appuntamenti di questo 31 ottobre, occasione di spettacoli teatrali e concerti. Chi meglio, quindi, dei Tre allegri ragazzi morti per onorare questa notte di paura? Il gruppo di Pordenone, in procinto di festeggiare i venticinque anni di carriera, presenterà proprio la notte delle streghe, pipistrelli, fantasmi e compagnia bella, il nuovo brano che anticipa l’album che vedrà però la luce nel 2019. Il pezzo si intitola “Caramella” ed è stato registrato all’Outside Inside Studio, nei boschi di Montello (TV), da Matt Bordin. Loro, maschera in volto come di consueto, nella regolare formazione: Davide Toffolo, Luca Masseroni ed Enrico Molteni, si esibiranno all’Auditorium Flog di Firenze proprio la notte di Halloween. Pilastri della scena punk italiana, nel 2000 hanno fondato “La Tempesta”, un’etichetta discografica indipendente che assomiglia molto a un collettivo di artisti. Celebri, quindi, fin dagli esordi per le loro performance mascherate e il loro rock live essenziale, i tre si sono fatti conoscere per le svariate pubblicazioni, tra i più apprezzabili proprio quel primo Mostri e normali, contenitore di pezzi godibilissimi come “Occhi bassi” e “Dipendo da te”, per continuare il successo con “La testa indipendente”, prodotto da Giorgio Canali, dove troviamo il brano più conosciuto della band friulana, “Ogni adolescenza”. Introspettivi, al contempo osservatori del mondo che ci circonda e desiderosi di parlare di sentimenti, come nel bellissimo inno de “La mia vita senza te”, brano tratto da Nel giardino dei fantasmi. Insomma il debutto nella sera di Halloween appare il più azzeccato, loro che indossano fin dall’inizio maschere ideate dallo stesso Toffolo, popolare disegnatore di fumetti, e che di mostri e fantasmi, sebbene in chiave metaforica. “Caramella”, presentato live la sera del concerto, è in radio dal 30 ottobre insieme al video che segue il testo in modo didascalico in un caleidoscopio di colori e disegni. Dopo una contaminazione più reggae, i tre tornano al rock puro con un testo essenziale, tipico del loro stile. Semplici e poetici, tanto che il loro slogan/ritornello è “Io sono te”, ispirato alle visioni del poeta livornese Giorgio Caproni. Un incipit sonoricamente psichedelico ed efficace per una presa di posizione poetica, che dal dibattito quotidiano ci spinge a una più alta riflessione sull’essere umano. La prima volta che li ho visti live erano agli esordi della loro carriera. Non mi impressionò la maschera sul viso, anche se il look, che gli calzava naturale, non passava inosservato, ma poi non ci si faceva più caso perché ad arrivare erano i testi espliciti delle loro canzoni e il modo diretto, mai interessato, di offrirle al pubblico. Pubblico che negli anni è cresciuto, si è appassionato alla band e gli è rimasta fedele, al di là delle apparenze.

Integrazione, cultura e ambiente. Così i piccoli comuni resistono allo spopolamento

Hanno in tasca la ricetta giusta per il riscatto. Sono un’avanguardia. Sono quel pezzo di Bel Paese che resiste, nonostante si trovi sperduto tra i monti e le colline, tra i borghi e i fiumi. Un quarto della popolazione e tre quinti del territorio. Sono 2 milioni di persone che vivono su 51mila chilometri quadrati, in Comuni interni, distanti, periferici, isolati, luoghi aspri, incontaminati. Comuni italiani, piccoli sì. Ma rivoluzionari. Dalla Val Bormida all’Alta Irpinia, dall’Alta Marmilla al Gran Paradis, dall’Oltrepo Pavese al Basso Sangro, dall’Alta Carnia alla Grecanica.

E mentre c’è chi divide et impera, questi frammenti sparpagliati d’Italia, da nord a sud, si uniscono per risolvere problemi: spopolamento, consumo distruttivo del suolo, indebolimento dei servizi per la salute, l’istruzione, la mobilità e la viabilità. Settantadue aree progetto, autorganizzate, una media di quindici comuni ad area, 30 mila abitanti ciascuna. Un metodo di fare politica, sul posto, per i territori. I funzionari pubblici hanno percorso in autobus e treno più di 60 mila chilometri di strade, stradine, ferrovie, fra le Alpi, negli Appennini, dentro le Isole, per confrontarsi con cittadini. Aree interne, a rischio desertificazione ma con grandi possibilità di crescita, spesso virtuose e legate a distretti importanti. Che hanno deciso di sperimentare soluzioni alternative con un metodo nuovo, partendo dal basso: ascoltando, collaborando, costruendo, condividendo. Una risposta all’antipolitica. Sostenuta dalla collettività e guidata dalle idee. Importante non solo per le risorse pubbliche che trasferirà, ma perché è capace di mettere al centro persone, bisogni e aspirazioni.

E questi sindaci, che fanno parte della Strategia delle Aree interne, ci hanno messo la faccia, con un unico pensiero fisso: le loro comunità, i loro compaesani. Per i loro concittadini sono solo Maria Antonietta, Enrico, Pasquale, Giuseppe. Per l’economista, ex ministro, Fabrizio Barca: «Sono primi cittadini che hanno sperimentato che non esistono eventi ingovernabili. I terremoti, lo spopolamento, l’allontanamento dei servizi, si governano eccome. Certo con dei processi, fissando degli obiettivi, usando un linguaggio accogliente e propositivo. Con al centro una grande idea, unica e ribelle: combattere uniti per restituire il domani ai nostri figli. Ed è davvero dirompente e sorprendente, per il nostro Paese, che 1.077 sindaci, abbiano scelto di venire rappresentati da settantadue. Senza che una legge li obbligasse a farlo». Senza sussidi compassionevoli, ma solo con progetti, per rigenerare cultura, per inventarsi un futuro. Settantadue sindaci che si sono presi in carico di “cambiare” il nostro Paese. Le loro storie sono un bene comune.

E vediamole queste storie. Che non raccontano solo la conservazione dell’esistente, ma la ricerca di risposte contemporanee. Trenta strategie giunte a termine, 530 milioni di euro chiusi. Dagli asili creativi al ripristino dei centri della salute. Dai servizi scolastici ai servizi informativi. Il tutto discusso e partecipato, come si farebbe al bar della piazza. «È una storia di comunità. È una storia nata grazie a una strategia di medio e lungo termine», racconta Maria Antonietta Di Gaspare, sindaco di Borbona (nel reatino, ndr). Una furia della natura, che nel 2016 dovette affrontare la dura stagione del terremoto. Nel suo paese il 50% degli edifici sono stati lesionati, nel centro storico il 90%. Ma lei non si è mai arresa e nel 2017 invitava i turisti con un’Ansa «a prendere il caffé a Borbona». «Dopo il sisma abbiamo ripensato a noi stessi. La prima risposta al terribile evento è stata: ricostruire la comunità. Ma quello che farà la differenza non sarà tanto la ricostruzione materiale, quanto il mantenimento di questo senso di appartenenza. Oggi abbiamo un foglio di carta bianca su cui scrivere la nostra storia. Se ne saremo capaci, scriveremo una grande storia. Non dobbiamo avere paura di fare scelte coraggiose. Così abbiamo deciso di ridisegnare il nostro paese. In parte è un tradimento, in parte gli regala un futuro». Così nella maggior parte dei casi sono stati proprio i cittadini a mettere la prima pietra. Perché l’unico strumento vero che ha in mano un sindaco è la comunità.

Poi c’è Mario Talarico sindaco di Carlopoli, 1.500 abitanti, capofila dell’area distribuita tra le province di Cosenza e Catanzaro, oltre 22mila abitanti. Qui c’è stato un calo demografico consistente. «Sono stato spinto dalla voglia di riscatto del territorio, ho 38 anni e non voglio che i miei coetanei emigrino. Allora abbiamo deciso di impegnarci per non far sparire questi paesi che hanno una storia, che hanno una qualità di vita eccellente: qui i bambini crescono meglio, i giovani sono più liberi, gli adulti hanno più incontri sociali. Con gli altri sindaci abbiamo avviato il discorso dell’accoglienza dei migranti. I nostri progetti si svolgono tutti nei centri urbani, dando la possibilità ai migranti di integrarsi nella nostra comunità. Così abbiamo dato ossigeno ai nostri paesi, sia a livello di “movimenti” che economico».

Poi c’è il territorio compreso in gran parte nel Parco nazionale del Gran Paradiso, Valle d’Aosta, che si sviluppa fra i 672 e i 3.442 metri di altitudine. Dal fondovalle della Dora Baltea sino al ghiacciaio dello Chateau-blanc. A capo Mauro Lucianaz, il sindaco di Arvier, che però non fa parte dei comuni selezionati. Lui lavora prevelentemente per gli altri. «In Strategia c’è la scuola – spiega -. Le nostre scuole sono bilingue (italiano e francese): vogliamo far sì che qui si insegni anche l’inglese, equiparandolo alle altre lingue. Per far questo ci vuole una grande formazione degli insegnati e in Strategia è prevista. Stiamo studiando, visto il luogo meraviglioso in cui viviamo, scuole innovative e all’avanguardia che possano attrarre anche nuove famiglie nel territorio. Magari stanche della grande città ma che qui trovano anche la possibilità di scuole d’eccellenza. Come la scuola all’aria aperta. Cioè per noi è importante il turismo, ma ancora di più gli abitanti del territorio».

Giuseppe Germani, sindaco di Orvieto, referente del sud-est Orvietano, racconta la sua sfida. «Questo territorio deve diventare un hub turistico. Ecco perché stiamo lavorando per mettere in rete tutte le aree archeologiche, le aree di interesse naturalistico, i beni e i servizi. Un altro obiettivo è la mobilità dolce, quella elettrica, con tre punti di ingresso ad Attigliano, Orvieto, Fabro. Il turista arriva, lascia, prende macchine e scooter elettrici, e da lì può vivere il territorio».

«Le aree interne devono tornare ad essere centro», lo spiega così Enrico Bini, sindaco instancabile di Castelnovo ne’ Monti, polo dell’area dell’Appennino reggiano. «Noi abbiamo un istituto scolastico con 1.200 ragazzi che arrivano anche dalle province appenniniche. Da noi esiste già un progetto in cui scuola e impresa attraggono nuova popolazione. Abbiamo istituito laboratori e corsi che avvicinano i ragazzi all’enograstronomia e alla meccatronica. Poi ci sono alcuni imprenditori che hanno sentito della Strategia e vorrebbero investire qui da noi. Stiamo investendo sui servizi alla comunità, l’ospedale è lontano ma abbiamo previsto l’infermiere di comunità che sia in rete con gli altri servizi, come assistenti sociali e ospedali. Ora la nostra battaglia è sul punto nascita chiuso l’anno scorso. Perché eravamo sotto i parametri dei 500 parti. Numeri su numeri. Abbiamo dichiarato guerra allo spopolamento, ma qui non nascono più bambini. Vorremmo uno stop a quel concetto in cui la valutazione del mantenimento di servizi e funzioni sui territori è fatto in base a parametri numerici di affluenza e utilizzo. Parametri che ovviamente in fase di calo della popolazione sono impossibili da sostenere. Sono anche queste politiche per la crescita».

Poi c’è il sindaco Giuseppe Purpora di Grammichele, siciliano, area Calatino. Quel sindaco che ha concesso cittadinanza onoraria ai bambini stranieri. A quei bambini e ragazzi, nati in Italia e residenti a Grammichele. Riconoscimento che ha valore solo simbolico, ma che tuttavia rappresenta una netta e coraggiosa presa di posizione. «Stiamo rafforzando il tessuto produttivo, con la specificità della ceramica di Caltagirone, su cui puntare con decisione come punto di forza dell’intero territorio, attraverso la copertura dell’intera filiera produttiva, tra cui imballaggio e logistica. Puntiamo inoltre sul rinnovamento dell’offerta sanitaria anche attraverso la deospedalizzazione».

E Flavia Loche, sindaca di Tonara nel nuorese. Paese di 2 mila abitanti, provvisto di teatro, cinema da prime visioni, servizi per le famiglie e anziani. «Noi puntiamo sulla risorsa bosco, che riguarda anche le energie rinnovabili. L’ambiente è il nostro punto di forza, anche sanitario. I nostri paesi sono stazioni climatiche molto ambite. I minatori della Sardegna, ma anche di tutta Italia, venivano qui almeno un mese a depurarsi. Con i soggiorni pagati dall’Inail».

Per approfondire, scarica Left del 12 ottobre 2018


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Le politiche di spesa in deficit non sono rivoluzionarie. Sono di destra

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, presiede un vertice economico a Palazzo Chigi dopo il rientro dall'India, Roma, 30 ottobre 2018. ANSA/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI/FILIPPO ATTILI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

C’è sconcerto a sinistra. Come possiamo criticare, sul piano della politica economica, questo governo che fa quanto da parte nostra si è sempre auspicato? Questo governo che si oppone all’odiosa politica dell’austerità dell’Unione Europea e sfida con coraggio le regole ottuse degli equilibri finanziari? Sarà pure – si dice – un governo di destra, a tinte fasciste e razziste, che se ne deve andare al più presto, ma non possiamo attaccarlo perché vuole mandare in soffitta il Fiscal compact, che è anche un nostro nemico. Su questo voglio essere molto chiaro. Non c’è nulla di sinistra e di rivoluzionario nel fare politiche di spesa in deficit: oggi, in Europa, la creazione di debito a livello nazionale è, per forza di cose, una politica sovranista, una politica antieuropea. E non c’è niente di sinistra nel volere sfasciare l’Unione europea per tornare a stati nazionali pienamente sovrani. Come dice bene Piero Bevilacqua su il manifesto (29 settembre) «lo spazio politico dell’Unione europea è lo spazio minimo in cui pensare un’azione politica in grado di una qualche efficacia». Va bene, si dirà, ma perché politiche di spesa finanziate ricorrendo al debito avrebbero necessariamente questo segno antieuropeo? La spiegazione è semplice. Creando in Europa una moneta unica, gestita a livello sovranazionale, ma lasciando al contempo agli Stati nazionali la politica fiscale, si è, di fatto, sottratta loro la possibilità di ricorrere al debito. In uno Stato nazionale pienamente sovrano il debito e la moneta sono un tutt’uno, e lo sapevano bene i governi dell’Italia democristiana che sapientemente usavano la moneta per rendere sostenibile il debito. Ora non si può più fare. È come se ogni Stato dell’Unione emettesse debito in una valuta straniera, perché si tratta di una valuta di cui non ha il controllo. L’unica via di uscita politicamente percorribile “da sinistra” è quella della creazione di un’unione fiscale europea con un proprio debito, al quale, allora sì, si potrebbe fare legittimamente ricorso, quando necessario. È una prospettiva che implicherebbe condivisione dei rischi, accettazione della redistribuzione di risorse tra gli Stati, solidarietà sovranazionale: tutto quanto, oggi, i trattati europei rigorosamente escludono. Vorrebbe, dire, di fatto, unione politica. Si dirà che tutto questo è ben di là da venire. D’accordo, ma non ci sono scorciatoie. Una strategia politica di sinistra, oggi, può solo avere una dimensione sovranazionale: europea e mondiale. Politiche di ricorso al debito sono obiettivamente politiche di rottura dell’Unione, ripiegamento verso lo Stato nazionale sovrano: il debito nazionale non può che riportare, prima o poi, alla moneta nazionale, cioè alla fine dell’euro e, di fatto, dell’Unione. Si deve dire che la posizione ufficiale del governo, come viene presentata dal ministro Tria, è che, nel loro programma, ci sarebbe sì un maggior deficit nel breve periodo (il famoso 2,4%), ma questo porterebbe a una riduzione del rapporto debito/Pil, non ad un aumento. Il miracolo è atteso dalla crescita, che sarebbe indotta dalla politica fiscale espansiva: il tasso di aumento del Pil, che al momento tende allo zero, compierebbe un balzo all’1,6% l’anno prossimo e all’1,7% l’anno successivo. La bacchetta magica sarebbero i maggiori investimenti sia pubblici sia privati. Ma, dal lato del pubblico, non si vede perché dovremmo imparare in pochi mesi quanto non abbiamo saputo fare per anni, cioè spendere in tempi ragionevoli i soldi destinati agli investimenti. Dal lato del settore privato, è molto dubbio che le imprese potranno aumentare significativamente gli investimenti in presenza degli aumenti del costo del denaro e della restrizione di credito che sono già ora in atto, come effetto annuncio delle politiche governative. Compagni, possiamo stare tranquilli, questo governo è tutto di destra, anche nella politica economica.

Ernesto Longobardi è ordinario di Scienza delle finanze nel Dipartimento di Economia e finanza dell’Università di Bari. È autore di numerosi lavori di finanza pubblica, in particolare su temi di economia tributaria e di relazioni finanziarie intergovernative.

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L’articolo di Ernesto Longobardi è tratto da Left del 5 ottobre 2018


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Il Pensiero Unico di cittadinanza

Verrebbe voglia di fondare il Partito per la Tutela Delle Differenze. Sembrava impossibile arrivare a questo punto, doverlo rimarcare, addirittura scriverne un articolo, eppure in questo tempo in cui il dibattito politico è diventato un mero scovare contraddizioni da tutte le parti (non che sia un male sottolinearle ma è davvero poca cosa se rimane l’unica azione di critica) conviene ripassare i principi fondamentali di una normale convivenza sociale, con tutte le differenze annesse.

Primo: se si critica il governo non si è “del Pd” e se si critica il Pd non si è “grillini”. Spiace per chi riesce a vivere con la leggerezza di un mondo che si possa facilmente dividere per due ma vi si può criticare entrambi (vi si deve criticare entrambi, per funzione del giornalismo) senza nessuna di quelle contraddizioni che voi vedete dappertutto. La vita (e la politica) non è un derby, non è un noi contro di voi e, vi svelo un segreto, i governi cambiano perché (per fortuna) i voti si spostano. Per dirla semplice semplice: c’è qualcuno che si è autoproclamato capitano di una squadra che non esiste. Una politica in cui qualcuno ha ragione e chi non è d’accordo è un nemico o un eversore c’è già stata: il fascismo.

Secondo: i parlamentari (per fortuna) non sono soldatini di stagno. Mangiano, bevono, dormono, ridono, camminano, hanno mani prensili e addirittura pensano: i padri costituenti hanno pensato al Parlamento proprio per questo, per rappresentare le diversità di giudizio, di sensibilità e di pensiero. Altrimenti avrebbero pensato a un’incoronazione, mica a una repubblica parlamentare. Che vi siano senatori del Movimento 5 Stelle che non hanno nessuna intenzione di votare il decreto sicurezza così come partorito dalla mente di Salvini è il naturale risultato di un partito che (piaccia o no) rappresenta sensibilità differenti. Governare un Paese significa governare la complessità. A partire da quelle del proprio partito. Vale anche per quelli che hanno perso, sia chiaro. Poi ognuno è libero di usare l’arma del voto di fiducia, esattamente come quelli che criticava. Ci hanno già provato a blindare il Parlamento ma non gli è andata bene: era fascismo.

Terzo: il dibattito politico (come tutti i dibattiti, partendo da quelli in famiglia durante la cena) è un dibattito quando è fatto di critica e autocritica, di spiegazioni e di ascolto. Altrimenti è zuffa, è un giochetto retorico in cerca di consenso. Provare a raccontare che il governo abbia sempre ragione e il suo contrario (che solo l’opposizione abbia sempre ragione) interessa ai tifosi, non ai cittadini. A meno che non si voglia istituire un Pensiero Unico Obbligatorio di Cittadinanza, come nel fascismo.

Per finire: il fascismo invece non è un’opinione. È un crimine. Avere una classe dirigente (vale per chi governa ma vale anche per chi vorrebbe governare al prossimo giro) in grado di muoversi nel terreno democratico è il prerequisito minimo richiesto. Ce la fate?

Buon mercoledì.

Daniela Currò: Vi racconto chi fu Elvira Notari, la prima donna cineasta italiana

Come accade ormai da tre anni nella capitale, la Festa del Cinema (chiusa il 28 ottobre) e la rassegna “Female Touch – Il tocco femminile nel cinema” (apre il primo novembre) si passano il testimone a distanza dando continuità all’offerta cinematografica di qualità. La Terza edizione della rassegna dedicata alle donne dell’industria creativa – 10 film e 10 incontri – si presenta tra l’altro quest’anno ancora più radicata su tutto il territorio, portando le proiezioni oltre che nella sala di Blue Desk (che ne è capofila e curatore) anche all’interno della sala della Cineteca, il Cinema Trevi di Vicolo del Puttarello, e nella casa accogliente del Macro Asilo di via Nizza. Ad ospitare l’apertura, il primo novembre alle 18, sarà proprio l’astronave (sala rossa) del Macro Asilo, facendo dialogare futuro e passato con la proiezione di un film muto recentemente restaurato dalla Cineteca. La pellicola, “E’ Piccirella”, della prima regista donna italiana, Elvira Notari, sarà accompagnata dalla conservatrice Daniela Currò, prima donna a ricoprire questo ruolo in Cineteca. Ed è proprio a lei che abbiamo chiesto qualche anticipazione in attesa dell’evento.

Per l’apertura di Female Touch ha scelto di proiettare il film restaurato di Elvira Notari, prima regista italiana, per molti sarà una bella scoperta?

Considerata a pieno titolo la prima donna cineasta italiana, Elvira Notari fu attrice, sceneggiatrice, regista, oltre che produttrice e distributrice, insomma una vera e propria imprenditrice. Attiva a Napoli tra gli anni Dieci e gli anni Trenta, donna forte e volitiva, riuscì anche ad esportare i propri film negli Stati Uniti per il pubblico degli emigranti italiani. I suoi film parlano di storie popolari e drammatiche, spesso collegate alle canzoni di maggior successo dell’epoca, le sceneggiate, racconti efficaci e quanto mai attuali anche quando pensiamo alla piaga del femminicidio, diffusa allora e purtroppo anche oggi. Elvira Notari è ancora un esempio per noi donne, e i pochi titoli della sua filmografia che sono sopravvissuti, tutti conservati e restaurati dalla Cineteca Nazionale, sono un piccolo tesoro che spero possa raggiungere un pubblico il più vasto possibile.

Il titolo “Conservatrice della Cineteca nazionale”, in un Paese di grande tradizione come il nostro, evoca subito l’immagine di una grossa responsabilità, cosa le piacerebbe realizzare nel suo mandato?

Come Conservatrice sono impegnata su molti fronti; alcuni hanno più visibilità di altri, come i restauri dei grandi classici del cinema italiano, tuttavia vi sono anche molte altre attività più nascoste, che fanno meno notizia, ma che sono di ampio respiro e necessitano di una programmazione a lungo termine. A queste attività, fondamentali per una cineteca, ma i cui frutti, almeno spero, si vedranno tra qualche anno, sto dedicando particolare attenzione. Tra di esse vi sono la corretta conservazione dei materiali originali – perché conservare deve venir prima che restaurare – l’archiviazione delle nuove produzioni digitali per garantire la loro sopravvivenza a medio e lungo termine, aspetto che ci pone di fronte a più di un rompicapo e poi, rimanendo nel campo del restauro, l’attenzione ai titoli minori che sono spesso trascurati e dimenticati: film muti, indipendenti, di sperimentazione e documentari.

Il film “La notte di San Lorenzo” dei Taviani ha vinto il Leone D’Oro a Venezia 2018 come miglior restauro. Cosa fa della Cineteca Nazionale una delle eccellenze in questo campo?

Per un buon restauro ci vuole tanta ricerca, impegno e lavoro di squadra, e quando queste componenti funzionano i risultati si vedono. Oltretutto, quando possibile ci avvaliamo della collaborazione degli autori stessi dei film che restauriamo, registi, direttori della fotografia, o persino dei tecnici di laboratorio che a questi film hanno lavorato tanti anni fa. Il loro apporto arricchisce ulteriormente il lavoro di restauro ed introduce una componente di memoria storica importantissima, tra l’altro i loro aneddoti sulle lavorazioni dei film sono impagabili.

E sperando che la dott.ssa Currò di questi aneddoti ce ne racconti qualcuno durante il suo incontro, diamo appuntamento giovedì 1 alle 18 al Macro, Museo d’arte contemporanea – diretto da Giorgio De Finis – che ospiterà poi anche la chiusura della rassegna con la regista Wilma Labate. Tra le altre serate spiccano il 17 novembre a Blue Desk l’incontro con la compositrice Nora Orlandi, che oltre ad essere stata corista per Ennio Morricone vanta anche l’inserimento di un suo brano nella colonna sonora di Kill Bill Volume 2, e poi, al Cinema Trevi (24 novembre), un focus dedicato alla costumista Lina Nerli Taviani con due film ispirati dalle opere di Luigi Pirandello, Kaos dei Fratelli Taviani ed Enrico IV di Marco Bellocchio. Per chi volesse saperne di più: www.bluedesk.it

La “manovra del popolo”? A pagare sarà sempre il popolo. Dei lavoratori

Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio con il presidente del consiglio Giuseppe Conte, il ministro dell'interno Matteo Salvini, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi. Roma, 15 ottobre 2018 ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Punto primo: chi ci guadagna?
In questa legge di bilancio non c’è nulla per i lavoratori dipendenti vecchi e nuovi. Gli sgravi fiscali premiano infatti esclusivamente il lavoro autonomo, estendendo il principio anticostituzionale per cui a parità di reddito c’è chi è tassato di più e chi di meno. Valeva già per chi viveva di rendite finanziarie o di affitti, ora entra prepotentemente anche nel mondo del lavoro. Il cosiddetto superamento della Fornero parrebbe accompagnato da forti penalizzazioni per chi dovesse scegliere l’uscita anticipata dal lavoro. Se così fosse, si confermerebbe che l’attenzione della Lega non sia mai stata per i lavoratori, ma sempre e solo per le imprese, desiderose di sbarazzarsi di dipendenti più costosi, con più diritti e meno produttivi. Il reddito di cittadinanza è palesemente sottofinanziato rispetto a quanto necessario per farne un vero diritto universale, e inciderà pertanto poco o nulla nella vita di famiglie dove ci sia anche solo uno stipendio. Rischia anzi di determinare una spinta al ribasso dei salari, se dovesse essere collegato all’obbligo, trascorsi 12 mesi, di accettare un qualunque lavoro in qualsiasi angolo di Italia, come da previsione originaria del M5s. Sono inoltre presenti tagli lineari per 5 miliardi a sanità e assistenza che significano l’ennesimo attacco ai servizi, che rappresentano parte significativa della qualità della vita dei lavoratori.
Punto secondo: chi paga?
La risposta più immediata è: nessuno direttamente, dato che le misure sono finanziate in deficit. Ma questo è solo un mascheramento. Se non ci sono fonti di entrate nuove, e se con la flat tax di categoria assistiamo persino a un taglio dell’imposizione su chi già concorreva in misura minima al bilancio nazionale, se ne deduce che a pagare oggi e domani saranno sempre i soliti. Parliamo ovviamente di lavoratori dipendenti in attività e a riposo, su cui grava il 95% dell’Irpef raccolta ogni anno in Italia, oltre che la maggior parte dell’Iva. Non pagano invece quelli che nella crisi si sono arricchiti, gli evasori fiscali di ieri e di oggi, premiati dall’ennesimo condono, chi vive di rendita grazie a patrimoni accumulati generazioni fa e liberi persino da una seria tassa di successione. Il grande trucco della “manovra del popolo” è proprio far intendere che finalmente in Italia si veda qualche briciola di giustizia sociale, quando siamo invece di fronte ad una partita di giro, in cui i lavoratori dipendenti pagano un sussidio a qualche disoccupato e persino sensibili sgravi fiscali alla minoranza più ricca dei lavoratori autonomi. Si deve inoltre sapere che alimentare la spesa a debito nei periodi di crescita è il modo migliore per garantire tagli pesanti a sanità, scuola e pensioni in quelli di crisi. Dopo Tremonti e la finanza creativa arrivano Monti e la scure sui diritti dei lavoratori, in assenza di una forte reazione popolare, che abbia la forza di imporre il prezzo al 5% più ricco della società.
Punto terzo: quale proposta avanzare?
La sinistra ha il dovere di schierarsi a favore di una riforma delle pensioni, che garantisca una vecchiaia dignitosa ad un’età accettabile ai giovani di ieri e di oggi. Allo stesso tempo non può che essere favorevole ad un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, ma partendo dal presupposto che oggi la priorità è il lavoro, a partire dal settore pubblico, sottodimensionato di oltre 2 milioni di unità, nei comparti scuola, sanità e assistenza.
Deve inoltre avanzare proposte per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e per il rilancio degli investimenti pubblici, vera emergenza di un Paese che cade letteralmente a pezzi. Tutto questo però deve poggiare su una rivoluzione fiscale che faccia proprio il motto berlingueriano: chi ha tanto paghi tanto, chi ha poco paghi poco, chi ha nulla non paghi nulla.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 5 ottobre 2018


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Se l’antifascismo a Ragusa diventa reato

Illustrazione di Guglielmo Manenti

«Zecche rosse tornate nelle fosse», questi i cori che hanno intonato alcuni militanti di Forza nuova durante una manifestazione organizzata lo scorso 7 gennaio a Ragusa, in  Piazza del Popolo. Gli attivisti di estrema destra si erano radunati per la commemorazione dei fatti di Acca Larentia. E gli insulti erano diretti contro attivisti locali, membri di associazioni antimafia, politici e esponenti dell’Anpi che, non appena saputo del raduno neofascista, hanno deciso di organizzare una contestazione, esprimendo pacificamente il loro dissenso.

Oggi, a dieci mesi di distanza, circa cinquanta tra coloro che protestarono contro quel corteo sono indagati dalla Digos per radunata sediziosa, vilipendio alla bandiera o altro emblema dello Stato e oltraggio a corpo politico, amministrativo e giudiziario. In attesa del responso del Gip, il Procuratore Capo D’Anna ha chiesto l’archiviazione.

Tra gli indagati, oltre a personaggi di spicco delle politica locale e del mondo della magistratura come l’ex Presidente del Tribunale di Ragusa Michele Duchi, ci sono anche giornalisti (iscritti all’albo e freelance) che stavano semplicemente documentando l’accaduto con video e foto. Simone Lo Presti, storico fondatore del magazine Generazione zero, era presente a quella manifestazione e pochi giorni fa ha ricevuto la lettera con i capi d’accusa sopra citati.

«Non è ammissibile – chiarisce Lo Presti – che le denunce colpiscano anche giornalisti locali, presenti sui luoghi per documentare i fatti. Sono convinto che si tratti di un semplice errore, che la polizia con questa azione giudiziaria non volesse intimidire né la stampa, né liberi cittadini che sostengono i principi antifascisti su cui si fonda il nostro Stato di diritto. Se, però, così non fosse, sarebbe un problema che le istituzioni dovrebbero affrontare».

Gianni Battaglia, Presidente Provinciale Anpi ed ex parlamentare, si dice sorpreso dell’azione intrapresa dalla Questura. In quanto rappresentante Anpi era sul posto perché preoccupato del fatto che nella sua città «si tenesse una manifestazione di un’organizzazione le cui simpatie per il disciolto partito fascista sono inequivocabili». In risposta ai capi d’accusa, l’ex parlamentare afferma: «Se l’obiettivo è quello di impedire che una contestazione di questo tipo accada di nuovo è un obiettivo fallito, perché è del tutto evidente che la natura democratica di questa città non si piegherà. Ragusa non facilmente tollererà in futuro che ci siano manifestazioni di chi inneggia al partito fascista». E si dice pronto, una volta conclusasi la faccenda giudiziaria, a chiedere se ci sono i margini per intraprendere un’interrogazione parlamentare e fare chiarezza sull’accaduto.

Nel registro degli indagati della Questura c’è anche Peppe Scifo, Segretario Generale Cgil Ragusa, il quale afferma: «Non comprendo questo risvolto giudiziario, perché è stato un raduno spontaneo e pacifico per protestare contro lo spazio concesso a queste forze politiche che di democratico non hanno niente. Oltre ad essere dichiaratamente fasciste, fomentano l’odio razziale e creano le condizioni per una situazione generale di insicurezza. Il problema – conclude Scifo – è la legittimazione che queste forze hanno all’interno del Paese ed è paradossale e preoccupante che chi protesta contro questa degenerazione si ritrovi denunciato».

In tutta questa vicenda, si fa notare il silenzio della giunta a cinque stelle dell’allora sindaco Piccitto, che ha preferito tacere piuttosto che condannare il corteo di neofascista. Perché la questione, ancor prima che giuridica, è politica. In un periodo di crisi come quello che stanno vivendo le nostre istituzioni democratiche, sarebbe opportuno impedire a forze che si ispirano ai valori del fascismo di seminare odio e intolleranza tra le strade delle nostre città. Invece, attraverso operazioni come questa,  si finisce con l’intimidire chi fa dell’antifascismo il suo valore portante.

Cosa rischiamo davvero con il global warming

A woman rushes to recieve relief at Guthail, Jamalpur, Bangladesh. Jamalpur is a northern district of Bangladesh surrounded by river Yamuna and Brahmaputra and very close to India's Assam border. Recent rising temperature melted the Meghalay and the Assam's water floats towards Bangladesh through Jamalpur. Yamuna's water level have crossed 118cm more than the danger line. At this moment, 400k people are displaced and floating in the water as there are no disaster refugee camp. Its hard to access, for what relief aren't available. If there is, there is a huge mismanagement from local government. Due to the scarcity of medical team, children's are facing water related disease. (Photo by Anik Rahman/NurPhoto via Getty Images)

A settembre 2018 l’anidride carbonica (CO2) ha raggiunto 406 parti per milione, il 45 per cento in più della concentrazione all’inizio della rivoluzione industriale, avviata – nella seconda metà dell’Ottocento – con l’invenzione della macchina a vapore. Da allora la combustione di carbone, petrolio e gas, insieme alla distruzione delle foreste, ha trasformato la fisica e la chimica dell’atmosfera, portando all’effetto serra, al riscaldamento globale e al caso climatico che abbiamo di fronte.
L’Accordo di Parigi, il trattato Onu sottoscritto da 197 Paesi (tra cui l’Italia), impegna i governi a mantenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 °C”.
L’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), la massima autorità scientifica mondiale sui cambiamenti climatici, ha presentato un rapporto speciale l’8 ottobre scorso in cui afferma che le attività umane hanno già riscaldato il pianeta di 1 °C, con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: ondate di calore, eventi meteo estremi sempre più frequenti e distruttivi, alluvioni, mareggiate, scioglimento dei ghiacciai polari e alpini, distruzione di habitat, riduzione delle produzioni agricole. Al ritmo attuale di accumulo di gas-serra in atmosfera, la Terra raggiungerebbe 1,5 °C di riscaldamento tra il 2030 e il 2052. Secondo l’Ipcc, un riscaldamento fino a 2 °C potrebbe causare esiti catastrofici: inondazioni record; ondate mortali di calore e siccità; dimezzamento delle produzioni di mais nelle aree tropicali; diffusione di malattie tropicali nelle regioni temperate; incendi boschivi sempre più numerosi e violenti, anche nelle zone boreali; temporali più intensi e catastrofici; scioglimento di ghiacciai alpini e calotte polari; innalzamento del livello del mare; sbiancamento dei coralli e acidificazione degli oceani; dimezzamento della pesca globale. Il numero di rifugiati climatici aumenterà a causa di queste alterazioni. Con aumenti ancora superiori, le conseguenze per il pianeta sarebbero “sconosciute”, con potenziali minacce all’esistenza stessa dell’umanità. Di fronte a questo scenario, gli scienziati dell’Ipcc ritengono che sia essenziale stare entro la soglia di 1,5 gradi centigradi di riscaldamento e che questo target sia ancora raggiungibile. A condizione che…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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Gli stupidi non dubitano mai della propria intelligenza

«È il mio ultimo mandato da cancelliera, lascio anche le presidenza del mio partito. Non voglio più incarichi politici».

E poi.

«I risultati nelle elezioni sono oltremodo amari e deludenti […] È deplorevole, perché il governo ha portato un bilancio convincente […] Ho la responsabilità di tutto, per quello che riesce e per quello che non riesce. E’ giunto il momento di aprire un nuovo capitolo: non mi ricandiderò come presidente della Cdu, questo quarto mandato è l’ultimo come cancelliera, non mi ricandiderò al Bundestag nel 2021 e non voglio altri incarichi politici».

E poi.

«È chiaro che così non si può andare avanti. L’immagine del governo è inaccettabile […] E questo ha ragioni più profonde che ragioni di comunicazione», ha affermato rimandando a un problema di «cultura del lavoro».

E poi.

«Voglio lasciare i miei incarichi con dignità, così come li ho svolti».

Sono le parole della cancelliera Merkel che annuncia il proprio ritiro dalla scena politica per quella che qui in Italia sarebbe discussa per mesi come “normale flessione”. Al di là delle azioni politiche della Merkel (su cui ognuno ha il proprio giudizio, il mio è molto poco buono) queste parole rappresentano perfettamente la differenza tra chi è capace di autocritica e chi no. Non serve nemmeno suggerire i paragoni recenti, ognuno può farseli da sé.

Mi viene in mente però una frase di Giovanni Soriano, dal suo libro Malomondo, che dice:

«A tutti può succedere di commettere degli errori, è naturale; ma mentre l’assennato se ne rammarica e tenta di porvi rimedio promettendo a sé stesso di non ricadervi in futuro, lo stupido neppure si avvede di commetterne. È per questo motivo che alle persone intelligenti capita spesso di sentirsi un po’ stupide e gli stupidi non dubitano mai della propria intelligenza».

Ecco tutto.

Buon martedì.

 

Stacey Abrams contro tutti va alla conquista della Georgia, lo Stato ultra conservatore

epa06914284 Stacey Abrams, Democratic nominee for governor of Georgia, speaks at a campaign event in Atlanta, Georgia, USA, 27 July 2018. Abrams faces Republican Brian Kemp in the November general election. EPA/ERIK S. LESSER

Lo scorso 22 ottobre, il New York Times ha scatenato quella che viene ormai definita una “bufera mediatica” nei confronti di Stacey Abrams, candidata per il Partito democratico alla carica di governatore della Georgia. L’accusa mossa nei suoi confronti sarebbe quella di aver bruciato nel 1992 una bandiera del suo Stato insieme a dei compagni di università. La rivelazione è stata pubblicata sulle pagine del NYT il giorno prima del dibattito televisivo tra Abrams e il suo avversario Brian Kemp, quando mancano ormai solo due settimane al voto e i sondaggi presentano un testa a testa tra i due candidati. Che il tempismo della notizia sia casuale risulta abbastanza difficile da credere, considerando che Kemp è in testa di un risicato 2% e che Stacey Abrams, se vincesse, sarebbe la prima donna afroamericana a guidare la Georgia e il primo governatore democratico dopo quindici anni. Bisogna considerare che la Georgia è uno dei sette Stati secessionisti che diedero il via alla creazione del Sud schiavista, gesto che sfociò nella guerra civile americana. Un attaccamento al passato rimasto ben vivo proprio nella bandiera nazionale, che fino al 2003 aveva al suo interno anche quella della Confederazione sudista. Il vessillo era stato modificato nel 1956 dal governo locale come segno di resistenza alle politiche di Washington sempre più anti-segregazioniste, di cui la sentenza Brown v. Board of Education è un esempio calzante. Il decreto del 1954 ha dichiarato incostituzionale la segregazione all’interno delle scuole pubbliche, le quali seguivano ancora il motto “separate, but equal”: un provvedimento che non era affatto condiviso dai potenti della Georgia. Le proteste contro una bandiera che veniva considerata un elemento divisivo tra gli abitanti dello Stato si sono ripetute negli anni, compreso nel 1992 quando Stacey Abrams partecipò alla manifestazione organizzata all’Atlanta University Center. Lasciando da parte il giudizio morale sull’atto in sé stesso, è necessario chiedersi perché ora e perché proprio lei. Non è la prima volta, infatti, che a breve distanza dal voto appare una notizia scandalosa come diversivo dell’ultimo minuto: è stato sia il caso di Donald Trump e dei suoi commenti volgari sulle donne in un fuori onda di Access Hollywood, sia quello di George W. Bush e il suo arresto per guida in stato di ebbrezza risalente a dieci anni prima. Entrambi, come fa notare il New Yorker, sono stati comunque eletti alla massima carica della nazione. Quando però ad essere accusata è una quarantaquattrenne afroamericana che tenta di cambiare la storia di uno Stato conservatore e in qualche caso razzista come la Georgia il successo non appare altrettanto scontato. Probabilmente, se Stacey Abrams fosse stata un uomo bianco di mezza età come il suo avversario la notizia sarebbe passata in sordina. In questo caso, invece, Abrams ha dovuto impiegare parte del dibattito televisivo con Kemp a spiegare che oltre vent’anni fa ha partecipato solamente a una manifestazione pacifica durante il suo secondo anno allo Spelman College, dove non era affatto previsto di bruciare una bandiera. Nella culla del conservatorismo trumpiano, una donna afroamericana che si batte per diritti più equi tra le minoranze e, tra le altre cose, per difendere il diritto all’aborto e al family planning, non deve aver entusiasmato quella frangia di ultra-conservatori fedeli a Kemp e alla destra più estrema del Partito repubblicano. Poco importa, per loro, se la bandiera militare della Confederazione è stata utilizzata anche dal Klu Klux Klan come suo vessillo.
La manovra contro Stacey Abrams, però, potrebbe non riuscire, considerando che la popolazione afroamericana della Georgia ammonta ormai a un terzo del totale, con una crescita di quasi un milione di abitanti a partire dal 2000. La campagna elettorale di Abrams ha fatto di questo dato uno dei punti saldi da cui partire, battendosi per la registrazione al voto (fondamentale per potersi presentare alle urne il giorno delle elezioni) di tutte le minoranze presenti sul territorio che spesso si astengono dall’esprimere la propria preferenza politica. C’è anche da considerare che gli abitanti più conservatori della Georgia, lo Stato in cui è ambientato Via col vento, hanno già iniziato a stringersi ancora più strettamente attorno a Brian Kemp, con il rischio di portare con loro anche un certo numero di elettori bianchi ancora indecisi. Il progressismo della Abrams, appoggiata nella sua candidatura da Barack Obama in persona, viene mal visto in un ambiente così oppositivo nei confronti delle minoranze. Le tendenze di voto la vedono in testa tra le donne e i laureati, oltre che tra gli afroamericani, mentre Kemp mantiene salda la sua presa su uomini e elettori con un grado di istruzione inferiore. Donald Trump ha già ribadito il suo endorsement a Kemp, twittando che se a vincere fosse Abrams ciò porterebbe alla distruzione della Georgia.
Lo staff di Brian Kemp non ha risposto alle richieste della Cnn di commentare la notizia a sorpresa sulla sua avversaria. L’unica risposta che conta, però, sarà quella che daranno gli elettori della Georgia quando andranno a votare il 6 novembre.