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Dopo 19 anni, la svolta nel caso del parà Scieri che morì nella caserma della Folgore. Si è rotta la catena dei depistaggi?

Un arresto e due indagati per l’omicidio volontario di Emanuele Scieri, una storia di diciannove anni fa. Quel tipo di violenza in divisa più conosciuta come nonnismo. Aveva il 26enne parà di leva trovato morto il 16 agosto 1999 nella caserma Gamerra a Pisa. Forse è finito il depistaggio messo in atto da allora dalla catena di comando della Folgore, famigerato corpo speciale dell’esercito italiano. Dal comandante al cappellano si sbracciarono tutti a giurare che la caserma era un’«isola felice». Solo gli amici di Scieri, i suoi familiari, e i pochissimi militari ed ex militari legati alla stagione delle lotte per la democratizzazione per le forze armate avrebbero provato a cercare verità e giustizia. Gli amici si sono costituiti prima in comitato permanente, hanno scritto al prefetto di Siracusa, all’arcivescovo, al procuratore della Repubblica. Sono arrivati fino a Pisa, entrati nella Gamerra ed hanno portato la loro voglia di giustizia fino davanti dal comandante della caserma. Oggi, il comitato permanete è diventato l’associazione “Giustizia per Lele”.

Gli arresti domiciliari per Alessandro Panella, che possiede anche il passaporto americano, sono scattati in quanto gli inquirenti temevano il pericolo di fuga visto che aveva già programmato il rientro negli Stati Uniti. Panella aveva già prenotato per domani un volo Roma-Chicago, con successivo volo interno per San Diego, in California, dove l’ex paracadutista laziale, ora ai domiciliari a Cerveteri (Roma), vive e lavora da oltre 10 anni e dove è stato sposato con una cittadina americana. Panella dopo un anno di servizio di leva nella Folgore, aveva lasciato l’esercito, conseguendo poi una laurea in economia negli Stati Uniti. Lavora in California come interprete per una società privata. Tra gli altri due indagati, a piede libero, per la morte di Emanuele Scieri c’è un militare dell’esercito in servizio. L’accusa ipotizzata dalla procura per tutti è di concorso in omicidio volontario. I due indagati sono originari di Roma e di Rimini.

La morte di Emanuele Scieri nella caserma Gamerra di Pisa, causata da un’aggressione avvenuta in un ambiente dominato dal nonnismo, è stata spacciata per suicidio e le vere responsabilità sono state coperte per anni dalla catena di comando della brigata Folgore. Questa la conclusione cui era giunta la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso nella passata legislatura. A quelle audizioni, nell’autunno del 2016, prese parte anche Mario Ciancarella, ufficiale democratico radiato dall’aeronautica militare per il suo attivismo nella controinchiesta su Ustica. Dopo la scoperta del cadavere di Scieri, Ciancarella aveva cercato di contattare i militari della Folgore per trovare testimonianze. Una telefonata anonima gli aveva descritto fedelmente la scena e la dinamica del delitto. «Cercai di farmi interrogare», ricorda con Left. Ma gli sarebbe riuscito solo nel febbraio del 2000 e a luglio dello stesso anno fu perfino arrestato. Otto giorni nel carcere di Pisa cpn l’accusa infamante di sciacallaggio nei confronti della famiglia. Sarebbe stato prosciolto da quell’accusa in ben cinque processi e finalmente ascoltato dalla commissione parlamentare.

«Forse sono stati indagati i responsabili materiali – dice – ma qualcun altro potrebbe aver ordinato quel trattamento a Scieri. Vorrei ricordare che nello Zibaldone c’erano precise minacce ai “cani morti” che si opponevano agli istruttori».

L’omicidio di Scieri fece emergere anche lo spessore inquietante del generale Celentano, autore dello Zibaldone. Il 18 dicembre del ’98 il generale Celentano aveva fatto stampare, su carta intestata del “Comando Brigata Folgore”, un manuale delle torture (bicicletta: alcol spruzzato sui piedi e incendiato; sbrandamento: il militare che dorme viene scaraventato a terra; e così via) e numerosi spunti di riflessione (l’Italia finisce in “Padania”, il resto è “continente nero”, i terroni devono morire; i ministri sono incapaci, i neocomunisti distruggono la gerarchia con l’obiezione di coscienza; e così via).

Lo “Zibaldone” viene spedito da Celentano a tutti i comandi paracadutisti della Toscana, con tanto di numero di protocollo. Non si tratta dunque di un centinaio di fogli clandestini, ma di un documento ufficiale dell’Esercito italiano. In uno Stato democratico, quelle parole dovrebbero bastare e avanzare per la rimozione da ogni carica pubblica dell’autore, indipendentemente dal caso Scieri.

«È da loro (gli istruttori, ndr) che sembra dipendere tutta la vita quotidiana degli allievi paracadutisti. Dagli istruttori dipendono i turni per lo svolgimento dei servizi (cucina, servizi igienici, guardie, piantoni vari ecc.) e le eventuali licenze. Chi si ribella agli istruttori viene tartassato di servizi, rischia di non andare più in “libera uscita” e, soprattutto, rischia di venire isolato. Chi non si affida agli istruttori è considerato un “nulla”, un “mostro”, un “cane morto”, e rischia di rimanere solo. È in questa fase, in questa terra di nessuno in cui unico riferimento sembra essere l’istruttore, che possono emergere rituali nuovi, talvolta molto violenti. La misteriosa uccisione dell’allievo paracadutista Emanuele Scieri – avvenuta nell’estate del 1999 – si è verificata in questa fase dell’addestramento. Si è trattato di un evento che si può ipotizzare sia avvenuto durante un rituale violento e pericoloso imposto da qualche figura autoritaria emergente del gruppo primario. La fase di transizione è una fase che possiamo chiamare di vero e proprio darwinismo militare: solo coloro che più si affidano al controllo e alla protezione degli istruttori riescono ad attraversare incolumi questa fase», si legge su “Costruire guerrieri”, un prezioso saggio di due sociologi, Saitta e Barnao, sulla costruzione di “personalità autoritarie e fascistoidi” nei corpi speciali.

Charlie Barnao è un palermitano finito nella Lamarmora di Siena, sede del 186.mo Reggimento paracadutisti Folgore. Ha raccolto in un diario la cronaca sua naja: l’obiettivo degli ufficiali è creare paracadutisti “massicci e incazzati”, ed a questo scopo lasciano le finestre aperte di notte anche in febbraio, picchiano e aggrediscono le reclute, e predispongono esercitazioni al limite del sadismo, a partire dalla “pompa”, le flessioni con le spalle appesantite dall’attrezzatura da lancio.

Il caso Scieri era solo l’ultimo ed il più grave di una lunga, infinita, serie. Due episodi erano costati il posto al comandante Nardi nell’aprile dell’anno precedente e avevano riproposto l’emergenza Folgore. Nel ’97 il diario di un maresciallo dei granatieri aveva denunciato il coinvolgimento di uomini della Folgore nelle torture di civili somali nel corso della missione “umanitaria” Restore Hope. Le fotografie dei somali incaprettati furono pubblicate durante “Restore Hope” dal settimanale “Epoca”. Una lunga manifestazione aveva percorso le strade di Pisa chiedendo lo scioglimento del reparto da sempre al top nell’immaginario della fascisteria nostrana. Finché il giovane siracusano è precipitato da una torre–asciugatoio della caserma “Gamerra” di Pisa. «Emanuele Scieri viene trovato morto tre giorni dopo la sua scomparsa – disse all’epoca Falco Accame, fondatore dell’”Associazione assistenza vittime arruolate nelle Forze Armate” – o le ronde non sono state fatte o non sono state capaci di individuare il giovane. Il corpo di guardia poi non è stato in grado di dire se Emanuele era uscito oppure no.

Infine dopo il contrappello delle prima sera – posto che sia stato fatto – è stata attivata un’immediata azione notturna di ricerca?». Per capire quello che è successo potrebbe essere utile un altro passo del diario di Barnao: «Giù dalle brande cani morti !”: dal diario di Barnao). Seguono le pulizie personali, la colazione, l’adunata e l’alzabandiera alle otto: “inno nazionale cantato obbligatoriamente a squarciagola, discorso del comandante Celentano inneggiante ai ‘tempi che furono’. E’ il rituale fascista di ogni giorno”. Poi comincia l’addestramento, che dura fino alle quattro del pomeriggio, interrotto da una pausa a metà mattina e da un’altra interruzione per il pranzo. Dalle cinque i soldati sono in libera uscita, con l’obbligo di rientrare entro le 23. Chi vuole può fermarsi in caserma, attrezzata anche per il tempo libero con cinema, palestra, pizzeria. E’ questa la giornata-tipo alla Folgore. “Dalle cinque del pomeriggio fino alle otto della mattina seguente in tutte le caserme della Repubblica è difficile trovare un numero sufficiente di ufficiali e sottufficiali” osserva ancora Accame. «È chiaro, allora, che i nonni esercitano in qualche modo un ruolo di controllo».

«Gli elementi da noi riscontrati dopo aver acquisito quasi seimila pagine di documenti e svolto 45 audizioni – le parole della presidente della Commissione, Sofia Amoddio (Pd) – consentono di escludere categoricamente la tesi del suicidio o di una prova di forza alla quale si voleva sottoporre Emanuele scalando la torretta, tesi che nel ’99 la catena di comando della Folgore suggerì alla magistratura. La consulenza cinematica di tecnici specializzati ha accertato che la presenza di una delle sue scarpe ritrovata troppo distante dal cadavere, la ferita sul dorso del piede sinistro e sul polpaccio sinistro sono del tutto incompatibili con una caduta dalla scala e mostrano chiaramente che Scieri è stato aggredito prima di salire sulla scaletta». La commissione ha fatto dunque emergere «le falle e le distorsioni di un sistema disciplinare fuori controllo ed ha rintracciato elementi di responsabilità». Elementi che sono stati consegnati lo scorso anno alla procura di Pisa, che ha riaperto le indagini fino agli sviluppi di oggi.

«L’indagine ha consentito di perfezionare la conoscenza relativa al nonnismo: questo dato emerge anche con modalità tali da ritenere che contro Scieri ci sia stata un’aggressione da parte dei ‘nonni’ anche mentre era a terra. Si tratta di ipotesi indiziarie che sono suffragate anche dalle consulenze tecniche allegate alle conclusioni della commissione parlamentare d’indagine», ha detto il procuratore di Pisa.

«La vicenda ha avuto un’accelerazione nella giornata di mercoledì perché una delle tre persone da tempo indagate stava per lasciare il territorio nazionale e sarebbe stato complicato riportarcelo», ha spiegato il procuratore di Pisa Alessandro Crini. «Se non ci fosse stato questo ‘pericolo di fugà – ha aggiunto Crini – forse ci saremmo orientati diversamente trattandosi di un fatto molto vecchio». Il procuratore Crini ha spiegato poi che ci sarebbe stato «il tempo per soccorrere Emanuele e per questo contestiamo l’omicidio volontario. Il giovane è stato lasciato agonizzante a terra – ha sottolineato Crini – Questa dinamica non è una nostra congettura ma ricavata dai vecchi accertamenti messi in relazione con i risultati delle perizie effettuate dalla commissione parlamentare».

Chiediamo le dimissioni di Salvini

Sparano contro bambine rom, contro lavoratori immigrati come fosse tiro al piccione; li inseguono per strada, li ammazzano di botte, al grido di «sporco negro». In Italia è caccia al nero, al rom, al povero. Ma Salvini e Di Maio negano tutto, anche l’evidenza più conclamata e terribile, ovvero che questi crimini abbiano una matrice razzista. Per il ministro dell’Interno si tratterebbe di un reato e basta, come se l’aggravante di odio razziale non esistesse. Anzi, secondo Salvini il problema sarebbe un altro: i reati commessi da immigrati. Ma le cifre fotografano una realtà ben diversa da quella che lui racconta.

Dal nuovo rapporto di Antigone si apprende, per esempio, che «sono 58.759 i detenuti nelle carceri italiane, 672 in più negli ultimi cinque mesi» e che, «dal 2008 ad oggi, a fronte del raddoppio della presenza di stranieri in Italia, da 3 a 6 milioni tra regolari e irregolari, quelli detenuti sono calati da 21.562 a 19.868». Dati che evidenziano dunque che «non c’è un’emergenza stranieri e non c’è un’emergenza sicurezza connessa agli stranieri». Semmai assistiamo all’esatto contrario: ad una agghiacciante e inaccettabile escalation di atti e parole violente contro i migranti. Sui giornali vengono riportati solo i casi avvenuti negli ultimi giorni. Ma lo stillicidio è continuo. Va avanti da mesi, e trova legittimazione nelle affermazioni xenofobe di esponenti di primo piano del governo giallonero. Impossibile dimenticare l’assassinio del sindacalista di origini maliane Sacko Soumaila in Calabria, che ancora aspetta giustizia.

La mente corre anche al tentativo di compiere una strage da parte di Luca Traini, con simpatie neonazi e candidato della Lega al consiglio comunale di Corridonia, che a Macerata sparò su innocenti e inermi cittadini dalla pelle nera. Pochi giorni fa la campionessa azzurra di origine nigeriana Daisy Osakue ha rischiato di perdere un occhio per un’aggressione a sfondo razzista. E Grillo sbeffeggia: «Tanta indignazione per un uovo in faccia»! Accanto a questi atti di violenza, che puntano a ledere fisicamente, a menomare, non sono da trascurare le aggressioni verbali e gli insulti che colpiscono quotidianamente gli immigrati in Italia.

L’alterazione della realtà veicolata dalle parole di chi dovrebbe occuparsi di sicurezza e incolumità di tutti i cittadini funziona da viatico. Salvini parla a sproposito di «pacchia» riferendosi ai lavoratori immigrati sfruttati nei campi, parla di «crociera» per chi scappa da guerre e lager come i centri di reclusione per migranti in Libia. Con fatuità, Di Maio parla di «taxi del mare». E i razzisti si sentono le spalle coperte dalle istituzioni. Al punto che un dipendente di una Asl è arrivato a dire a una persona italo-senegalese che doveva ritirare un libretto sanitario: «Qui non c’è il veterinario». Ma il ministro dell’Interno e vice primo ministro Salvini, con il ministro Toninelli che dà man forte alle politiche di ostracismo e di chiusura dei porti, ripetono come un mantra che va tutto bene, che non c’è nessun allarme razzismo.

Il ministro del Lavoro e vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio accusa la sinistra di strumentalizzazione, grida al complotto, mentre con Grillo e Davide Casaleggio dichiara di voler cancellare la democrazia rappresentativa e il Parlamento, per sostituirli con la e-democracy, con la piattaforma Rousseau. Siamo davanti a una pericolosa eclissi della democrazia in Italia, oscurata dalla propaganda grillina e fascioleghista.

Così, mentre Salvini twitta frasi del duce con tanto di smile, mentre l’Asso 28 soccorre in mare 108 migranti riportandoli in Libia («sembra una delle più gravi violazioni in materia di asilo mai avvenute» ha commentato l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione), il segretario del Pd, Maurizio Martina, lancia una manifestazione di protesta a settembre. Come dire, prima il mare e le vacanze, poi si vede.
Dobbiamo reagire per fermare la violenza, chiedendo le dimissioni del governo a trazione leghista che usa il crocefisso come una clava e si accanisce con i più vulnerabili. Chiedere le dimissioni del ministro dell’Interno è prioritario. Qui e ora.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Uno vale zero

Leader of the Five Stars Moviment, Beppe Grillo performs on the stage during the kermesse "Italia 5 Stelle" (Italy 5 Stars) in Rimini, Italy, 23 September 2017. Five stars Moviment meeting runs from 22 to 24 September 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Il Movimento 5 stelle, il non-partito che doveva azzerare la distanza tra politici e cittadini, viaggia a gonfie vele nel voto degli italiani, ma presenta indicatori disastrosi nei suoi canali di partecipazione. Il capannone a forma di mouse che gira per l’Italia ad illustrare le potenziali meraviglie della piattaforma Rousseau, l’infrastruttura telematica di Davide Casaleggio, dovrebbe appunto servire a garantire quella partecipazione e a veicolare la “democrazia diretta” dentro al M5s. Addirittura, stando a quello che dice Casaleggio, da esperimenti del genere dovrebbe venire fuori la forma democratica del futuro prossimo, quella che consentirà di superare il Parlamento e la rappresentanza politica tradizionale.
Di certo, Rousseau è in ottima forma dal punto di vista economico: dall’inizio di questa legislatura 330 parlamentari grillini sono costretti dal regolamento a versare alla piattaforma un obolo di trecento euro al mese. A questo trasferimento non indifferente (stiamo parlando di poco meno di centomila euro al mese per la durata dell’intera legislatura) non corrisponde alcuna centralità politica e organizzativa del “sistema operativo” del M5s. Al contrario, un partito che ha raccolto alle ultime elezioni quasi undici milioni di voti dovrebbe affidarsi ad un portale che conta, stando alle ultime cifre ufficiali, circa 140 mila iscritti. Per di più, solo una minoranza di questi utilizza davvero lo strumento telematico. Nei momenti di massima intensità, come quando si è trattato di scegliere il capo politico e candidato premier Luigi Di Maio, nel settembre dello scorso anno, hanno partecipato meno di 40 mila persone.
Casaleggio tira dritto, ha preso…

L’inchiesta di Giuliano Santoro prosegue su Left in edicola


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Caso Buscemi: non passa la mozione di sfiducia per l’assessore accusato di stalking

Rimane in carica l’assessore alla Cultura di Pisa, Andrea Buscemi, ritenuto responsabile con sentenza del 30 maggio 2017 dalla Corte di Appello di Firenze, di condotta lesiva nei confronti della ex compagna (reato riconosciuto e documentato ma prescritto). La mozione di sfiducia, presentata dal consigliere Ciccio Auletta di “Diritti in Comune” (Una Città in Comune, Rifondazione Comunista, Possibile) è stata bocciata dalla maggioranza di centro destra con 19 voti contro 8. In un Consiglio comunale blindato al pubblico per volere del sindaco leghista, Michele Conti, che ha ammesso in aula solo 16 visitatori, compresi i giornalisti, si è consumata una delle pagine più buie della storia repubblicana della città di Galileo. La decisione è stata presa mentre in strada, decine e decine di donne ed uomini, presidiavano il palazzo del Comune vestiti di rosso e con le spalle rivolte ad un “Comune sordo alle nostre richieste”. Voci inascoltate. In aula, il dibattito sulla mozione di sfiducia è stato aperto dall’intervento, durissimo, di Auletta. «Appellando sulla stampa come nazisti la Casa della Donna di Pisa, che da decenni si batte contro la violenza sulle donne “che è un tema mondiale ed una questione di cultura”, Buscemi ha dimostrato “inadeguatezza culturale” ma anche “pericolosità politica”» ha detto il consigliere di Diritti in Comune. «Quando i comportamenti violenti vengono legittimati, si dà la stura al peggio. Il piano è inclinato ed è molto pericoloso. E non si può continuare a sottovalutarlo» ha concluso Auletta. In primo grado Buscemi fu assolto «per i fatti anteriori al 25 febbraio 2009 perché il fatto non è previsto dalla legge come reato». Era stato denunciato per stalking dalla ex compagna Patrizia Pagliarone e dalla Casa delle donne di Pisa nel dicembre 2009 ma la legge è entrata in vigore, appunto, il 25 febbraio dello stesso anno. Nella stessa sentenza la Corte di Pisa ha inoltre stabilito di «non doversi procedere contro il Buscemi per estinzione del reato per prescrizione per i fatti successivi» e lo ha condannato «al risarcimento dei danni a favore della parte civile da liquidarsi in separata sede». In Appello è stata riconosciuta e documentata la sua condotta lesiva, e nonostante la prescrizione Buscemi è stato condannato a risarcire le spese processuali di Pagliarone.

Nel corso del dibattito in Comune i consiglieri di maggioranza hanno dimostrato di non conoscere i contenuti e lo scopo della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Una legge di civiltà che è stata ratificata dall’Italia nel 2013 ed è entrata in vigore quattro anni fa, l’1 agosto 2014. «Votiamo no alla mozione perché per noi Andrea Buscemi è non colpevole» ha spiegato l’avvocato Gino Mannocci. Mentre lo stesso Buscemi nell’arringa finale ha annunciato di avere fatto «ricorso in Cassazione per affermare pienamente la mia innocenza». Giova ricordare che la Corte di Appello di Firenze ha emesso la sentenza sulla base di fatti costitutivi del reato provati e documentati, e la Cassazione non potrà mai intervenire dicendo che quei fatti non sussistono. «Se Buscemi avesse voluto affermare la sua innocenza avrebbe dovuto rinunciare alla prescrizione, ma non l’ha voluto fare» dicono alla Casa della Donna di Pisa.

Bologna, 2 agosto 1980. Per la verità e per la giustizia

Discorso di Renato Zangheri, sindaco di Bologna, ai funerali delle vittime – 6 agosto 1980, Piazza Maggiore

Fonte: Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980 

*

Signor Presidente della Repubblica, torniamo su questa piazza dove di fronte ad altri morti avevamo detto che la strage dell’Italicus non avrebbe mai dovuto ripetersi.
Se si è ripetuta, nonostante la lotta e la volontà democratica del nostro popolo, e in misura più grande e se possibile più atroce, questo è motivo per noi di amarezza e dolore più cocente.
Piangiamo le vittime di un delitto la cui infamia non sarà mai più cancellata dalla coscienza del nostro popolo e dalla storia.
Inviamo ai feriti il nostro augurio, ma sappiamo il tormento e l’angoscioso futuro di numerosi fra loro.
Alle famiglie esprimiamo la nostra solidarietà, sebbene un dolore come questo, di chi ha visto la morte dei propri congiunti più cari e di chi attende ancora l’esito di ricerche strazianti, come non ha ragione nell’ordine delle cose umane cosi non trova consolazione.
Duro è parlare oggi e riunirci in questa terribile circostanza, e si può essere colti da una rabbia desolata, perché non si vede per quale via possa farsi giustizia, una giustizia piena e finalmente rapida; e dunque può sopravvenire la sensazione dell’impotenza, la perdita della speranza.
Ma non è questo l’obiettivo degli istigatori e degli esecutori del crimine?
Eccoci di nuovo a interrogarci sulla barbarie, se abbia una logica, un filo conduttore, uno scopo percepibile.
Che cosa si è voluto? Seminare il panico, indebolire le difese della Repubblica, fino a soffocarla? Spostare l’asse politico su posizioni di cieca conservazione? O suscitare una reazione violenta, per poi, dopo averla provocata, preparare le condizioni della repressione? In queste ore di lutto non possiamo evitare le domande, lo sforzo di capire, se non vogliamo che l’angoscia si muti in disperazione.
E’ necessario capire la logica del delitto per combatterlo.
Non si dica che la reazione popolare essendo stata forte e ordinata, ha subito dissolto il disegno della provocazione, e che questo doveva essere previsto dagli assassini.
Costoro non conoscono e non prevedono la forza e la maturità del popolo.
L’hanno dimostrato a Milano, a Brescia, e per due volte a Bologna.
Non si dica che gli attentati sono allora opera solitaria di un gruppo di folli.
Lo stesso copione che ha portato alla strage del 2 agosto è stato provato sull’Italicus.
La stessa città, lo stesso nodo ferroviario, gli stessi giorni delle vacanze, quando i treni e le stazioni sono affollati dalla gente che parte, forse lo stesso proposito di recitare il crimine anche sul corpo di viaggiatori stranieri, e quindi di dimostrare ad altri popoli e governi la debolezza della nostra democrazia e forse, mi inoltro nella logica aberrante di questi nostri nemici, di giustificare futuri colpi liberticidi.
Il terrorismo nero, bloccato dalle grandi manifestazioni popolari del ’74, è sembrato rintanarsi e cedere il passo.
E’ un caso che nel momento in cui si indeboliscono altre trame eversive, quella nera torni alla ribalta prima con avvisaglie purtroppo trascurate poi con tutta la sua carica omicida? Sono domande inquietanti, inevitabili.
Gli autori della strage non hanno colpito questa o quella parte, ma l’umanità intera e il diritto elementare e sacro alla vita.
Ma perché con questa insistenza a Bologna? Questo luogo di esperienze e di battaglie democratiche e di progresso è un ostacolo tale sulla loro via, da doverlo ad ogni costo travolgere?
Sarà travolto.
Gli impegni delle persone umane possono vacillare di fronte al convergere di eventi sempre prevedibili.
Ma noi bolognesi un impegno di fronte al Paese, alle memorie della Resistenza, fronte all’avvenire, ai giovani, a coloro che in tutta Italia attendono ancora una volta la nostra risposta, e che da tanti paesi stranieri ci hanno inviato parole di pietà, di amicizia e di incitamento, un impegno severo e fermo vogliamo prenderlo. Sulla linea che divide la democrazia dall’eversione non arretreremo, al contrario combatteremo con maggior vigore e più chiara (?) della posta in gioco.
E’ una posta altissima.
Sono attaccate le conquiste della Costituzione, il diritto dei lavoratori a costruire una società giusta, le attese delle giovani generazioni, l’esigenza umana e politica del cambiamento.
Ci batteremo duramente perché questa prospettiva non sia negata.
Abbiamo forze e convinzioni che non si esauriranno nel giro dei giorni e degli anni.
Altre domande incalzano. Quali complicità hanno accompagnato questa azione nefanda? Le scopriremo? I ritardi non saranno nuovamente esiziali? Signor Presidente, il dolore non può farci tacere.
Corpi straziati chiedono giustizia, senza la quale sarebbe difficile salvare la Repubblica; chiedono pronta identificazione e condanna dei colpevoli di tutti i delitti che hanno macchiato l’Italia in questi anni; chiedono la sconfitta della sovversione, e le condizioni di una vita e di una democratica ordinata.
Incertezze e colpevoli deviazioni hanno subito le indagini da Piazza Fontana ad oggi.
Troppe interferenze e coperture sono state consentite.
Ora la sincerità del dolore e della condanna si misurano sui fatti ed esclusivamente su di essi, sulla volontà e sulla capacità politica e giudiziaria di far luce sulle trame eversive e sui delitti che si susseguono in un crescendo inaudito.
Non spetta a noi indicare le linee della politica nazionale, ma è certo che è necessaria una prospettiva politica di fermezza e di chiarezza, che raccolga il consenso del popolo.
E’ certo che coloro i quali hanno ricevuto le responsabilità di governo e parlamentari dal popolo, tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche, dal popolo verranno giudicati per quello che faranno, con una vigilanza e sensibilità moltiplicate dall’angoscia di questi giorni e dalla gravità estrema del crimine che è stato commesso.
Ognuno dovrà compiere il proprio dovere, come l’hanno compiuto le donne e gli uomini accorsi alla stazione di Bologna nelle ore della strage, per soccorrere e salvare: semplici cittadini, personale sanitario, magistrati, dipendenti degli enti locali, ferrovieri, vigili del fuoco, militari, forze dell’ordine, e la moltitudine che è su questa piazza a raccogliere la sfida del terrorismo.
Grazie di essere venuti. Assieme non potremo essere sconfitti.
Il saluto alle vittime è in questo momento, signor Presidente della Repubblica, una promessa morale e politica di fedeltà alle ragioni del progresso umano ed è fiducia in una giustizia che non può fallire perché poggia sull’animo di grandi masse di donne e di uomini.
Così noi affermiamo oggi la nostra difficile speranza e chiediamo a tutti di combattere perché la vita prevalga sulla morte, il progresso sulla reazione, la libertà sulla tirannia.

Renato Zangheri e Sandro Pertini

La strage: Link (Fonte 2 Agosto 1980)

Il macabro ballo intorno all’articolo 18

Sì, è vero, il Movimento 5 Stelle aveva promesso in campagna elettorale di reintrodurre l’articolo 18 e non ha mantenuto la promessa (come probabilmente accadrà per il TAP). È vero anche che il reddito di cittadinanza al momento appare piuttosto lontano e che difficilmente le persone che li hanno votati si accontenteranno di risparmiare le briciole con l’aereo di Renzi (che non era di Renzi) o con l’espulsione del deputato velista e assenteista (che continua a essere parlamentare nel Gruppo Misto per assurdo guadagnando di più). Ma non è di questo ora che mi interessa parlare. No.

Perché intorno all’articolo 18 ieri si è consumato un macabro balletto che ha confermato, nel caso ce ne fosse bisogno, che con questa opposizione, con questo PD, il cammino sarà torrido e lunghissimo. Ricapitolando: LEU propone un emendamento al Decreto Dignità chiedendo la reintroduzione dell’articolo 18, il famigerato articolo 18 e M5S e Lega bocciano l’emendamento. Si leva improvvisamente la protesta dei Democratici, tutti impegnati a raccontare che “Di Maio non mantiene le promesse” e rilanciando il fatto dappertutto. Badate bene: loro sono quelli che l’articolo 18 l’hanno tolto (con sontuosa soddisfazione di Renzi, Confindustria e compagnia cantante) e sono gli stessi che non devono avere letto che il loro Jobs Act piace a meno del 10% degli italiani secondo un recente sondaggio (che poi basterebbe il risultato delle elezioni, senza ulteriori sondaggi). Anzi, fanno di più: ne approfittano per rivendicare il loro Jobs Act. Così, in scioltezza. Geni.

Ma il bello deve ancora venire: uno pensa che se sono così convinti di avere fatto bene al governo avranno votato contro l’emendamento per la reintroduzione dell’articolo 18, no? E invece no. Si sono astenuti. E dentro quell’astensione c’è tutto il sotto vuoto spinto di un partito che ha presente chi siano i propri nemici ma appare piuttosto confuso sul da farsi e drammaticamente smemorato su ciò che ha fatto. Diventa difficile immaginare che siano credibili, Minniti mentre parla degli sbarchi in Libia o i padri del Jobs Act sul lavoro. La loro strategia (suicida) è che nei prossimi mesi gli elettori tornino a loro a mani giunte dicendo “avevate ragione, avevate fatto tutto giusto, bravi così”? Sì, ciao. Proprio ieri, intanto, Gori e Calenda si sono accorti che negli ultimi anni c’è stato un fenomeno di accumulazione delle ricchezze che ha impoverito quelli più in basso. Ma va?

L’articolo 18, intanto, viene usato ancora un volta come il fuoco intorno a cui inscenare il balletto, confidando che nessuno si accorga che nell’opposizione al Decreto Dignità il PD continua a sposare le posizioni di Confindustria. Forte questa opposizione: se domani tornasse il figliuol prodigo pentito (no, non Matteo, ma quello della parabola) lo lascerebbero fuori chiedendogli di ripassare dopo il congresso. Me li vedo, mentre litigano nascosti dietro allo spioncino.

Buon giovedì.

La vera dignità è dei lavoratori

La pubblicazione di Frida Nacinovich per la casa editrice della Cgil Con parole loro. L’amore per il lavoro nella tempesta del postfordismo, Ediesse è un atto d’amore e di profonda fiducia nei confronti della classe operaia, in tutte le sue molteplici manifestazioni, dal ricercatore all’operaio, dal produttore di birra all’operatore del call center.
È il contributo di una giornalista che ha lavorato con Sandro Curzi impegnandosi nella lunga lotta di resistenza che i lavoratori e le loro organizzazioni sociali stanno conducendo contro l’attacco al lavoro, in particolare dal 2013 ad oggi, ovvero gli anni della gestione politica della crisi del 2008 da parte del capitale e delle sue espressioni politiche, in Italia rappresentate dall’asse Monti-Renzi e più complessivamente dal Pd paladino delle politiche dell’austerità e dell’attacco al sindacato e ai lavoratori e alle lavoratrici.
Gli anni recenti di quella lunga lotta di classe che i padroni stanno vincendo, come ricordava Luciano Gallino.
I lunghi anni della svalorizzazione del lavoro e della sua marginalizzazione nelle sfere della discussione politica, dove la pubblica opinione viene irretita dalle parole d’ordine della destra politica, sociale ed economica con le più trite parole d’ordine del neoliberismo.
Una lotta, tuttavia, che i più di cento membri Rsu ed Rsa intervistati in queste pagine non mostrano affatto di temere, permettendo all’autrice un ardito paragone rispetto alla disparità dei mezzi nella odierna lotta tra capitale e lavoro che rimanda alla battaglia tra spartani e persiani, dove gli arcieri di questi ultimi erano così numerosi che il lancio delle loro frecce poteva oscurare il cielo. Così ci appare oggi il dislivello delle forze in campo. Un po’ della sfrontatezza dello spartano Dienece, per nulla spaventato, potrebbe rincuorarci e spingerci al contrattacco, superando l’elaborazione del lutto e facendo cadere tutte le auto assolutorie giustificazioni per restare nella passività e nell’indolenza.
A fronte del cielo coperto dalle frecce nemiche, così rispose: «Bene. Almeno così combatteremo all’ombra».
Perché tornare a combattere bisogna, sul piano dei valori, della cultura, degli interessi, dei bisogni, delle aspettative e dell’idea di società dove non perduri lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’assenza di relazioni pienamente umane: dove l’egoismo e la smodatezza del capitale trovi una radicale critica ed alternativa.
Sfrontati non sono i racconti dei lavoratori e delle lavoratrici che animano le pagine, ma pacati, consapevoli, forti nelle difficoltà e portatori di una conoscenza e di un amore del lavoro come possibile strumento di emancipazione e di costruzione di una identità individuale e collettiva che pensavamo ormai smarrita nel nostro Paese.
Dei veri ed effettivi partigiani della Costituzione e del lavoro come suo imprescindibile fondamento.
Il loro essere espressione diretta dei lavoratori in produzione, in produzione essi stessi, – ed è questo il tratto giornalisticamente e politicamente caratterizzante di questa inchiesta operaia -, li permette e costringe ad affrontare la lotta sindacale con precisa conoscenza del posizionamento dell’azienda nei mercati, l’effettiva redditività, le politiche di decentramento produttivo e segmentazione della catena del valore, le materialissime articolazioni degli orari e dei carichi di lavoro, le catene degli appalti e subappalti, il peso della dimensione finanziaria e fronte di quella direttamente produttiva, il peso delle scelte politiche, nazionali ed europee, nei destini di ogni singolo lavoratore.
Un patrimonio che non va disperso, e che temiamo abbia subito una profonda erosione col voto del 4 marzo, che ha visto gli iscritti della Cgil  votare al 35% Partito democratico, 33% Movimento5Stelle, ben 10% se non di più Lega e solo l’11% Liberi ed uguali e al 4% per Potere al popolo, dove il voto per Leu è concentrato nei gruppi dirigenti e quello a Pap nei lavoratori politicizzati.
E come emerge dalle interviste non è più eludibile il tema della mancanza di rappresentanza politica del lavoro: i delegati intervistati si sono formati in un’altra stagione sociale e politica, dove essa esisteva in varie significative forme e dove non mancava una visione d’insieme dei processi e fenomeni.
Non è più così, da tempo.
Il lavoro senza dimensione politica subisce i processi di atomizzazione neoliberale e di sussunzione postfordista nel totalitarismo aziendalistico.
E’ assolutamente necessario ridare rappresentanza politica al Lavoro, e forse occorrerebbe fare come nell’Inghilterra dell’Ottocento, dove le Trade Unions fondarono il Labour party (e proprio dal laburista di sinistra Corbin utilmente trarre spunto nel rapporto fecondo e imprescindibile tra classe, sindacato e partito).
Magari valorizzando proprio quella straordinaria rete di delegati di posti di lavoro che ancora caratterizza un Sindacato Confederale come la Cgil, che potrebbe decidere – nel Congresso che si accinge a svolgere – di lanciare il cuore oltre l’ostacolo.

Non si combatte la camorra facendo finta che non esista

Confesso che ho peccato. Gomorra (il libro) non mi ha mai convinto fino in fondo. L’ho sempre trovato approssimativo, in qualche passaggio addirittura banale. Un giudizio non esaltante che ha condizionato il mio atteggiamento perfino nei confronti dell’omonima serie televisiva, dalla quale mi sono poi tenuto a debita distanza. Fatta questa premessa, che Roberto Saviano abbia però contributo ad attivare una significativa attenzione nazionale sui drammi e sulla devastazione determinata dalla presenza camorristica, credo che nessun sano di mente possa onestamente negarlo. Non si tratta di prendere partito in difesa del giornalista, soprattutto perché l’interessato non ne ha alcun bisogno. È molto combattivo, fin troppo attento, assai presente e si difende di suo. Non di meno, credo che sia necessario chiarire un punto di fondo che la recente polemica del Vincenzo De Luca, presidente della Giunta regionale della Campania, torna a sollevare con lo stile che gli è ormai universalmente riconosciuto. In breve, pur non nominando esplicitamente Saviano, secondo il vertice dell’amministrazione campana «ci sono quelli che vivono di camorra, prendono i diritti sugli sceneggiati tv e si fanno i milioni rovinando giovani generazioni che per emulazione si comportano come quegli imbecilli della fiction» (30 luglio 2018). A parte la virulenta convergenza di toni tra De Luca e Matteo Salvini, colpisce molto che questa avvenga attraverso un classico capovolgimento dialettico, secondo il quale le responsabilità sarebbero di coloro denunciano, perché alzano polveroni disvelando magagne e gettando fango su territori, categorie, apparati. È lo stesso artifizio utilizzato per attenuare le responsabilità dello stupratore, provocato dai costumi eccessivamente liberi di una donna. La vittima diventa allora il carnefice, la minigonna un incitamento alla violenza, chi denuncia atti razzisti un sobillatore di odio, uno sceneggiato l’ufficio di reclutamento criminale, mentre un giornalista viene eretto a produttore e facilitatore di eventi mafiosi.

Sarebbe bene informare De Luca (ma molto ci sarebbe da dire anche all’attuale reggente del Viminale) che la camorra esisteva ben prima del racconto di Saviano, difficile che basti censurare una serie tv per sconfiggerla e bonificare le coscienze. Sarebbero invece necessarie misure concrete, attenzione e sensibilità sociale, buona politica e buona amministrazione. Ecco, lavorerei su questo, piuttosto che sulla ricerca del capro espiatorio. Magari dando una mano a quelle amministrazioni – penso a Casal di Principe, solo per fare un esempio concreto – che combattono in prima linea per provare a rompere con un certo passato, reclamando misure tutt’altro che rivoluzionarie: realizzare scuole, servizi e infrastrutture idriche, magari anche già finanziate, ma impantanate nei meandri di burocrazie e disattenzioni davvero intollerabili. Domandare per credere al sindaco della cittadina, poi ne potremmo anche ridiscutere.

Lo stesso ragionamento vale per il ciclo dei rifiuti e le opposizioni dei comitati locali, altro tema sollevato da De Luca. È indubbio che sia necessario un salto di qualità, anche nella definizione dell’impiantistica. Ma se intere comunità sono recalcitranti e sollevano dubbi è necessario farsi carico del malessere, evitando d’indirizzare loro trancianti e ingenerose considerazioni. Sembra quasi che il decisionista campano si senta scavalcato dalla determinazione di qualche esponente della maggioranza giallo-verde nazionale e voglia dimostrare maggior energia, recuperando quel primato che gli veniva riconosciuto all’epoca della sua sindacatura salernitana. Tuttavia, la sfiducia delle comunità locali nasce dalla cattiva gestione, dai disastri ai quali ha assistito, dagli affari che sono stati condotti sulla pelle di uomini e donne. Ascoltare, coinvolgere, convincere, includere, decidere insieme diventa in questo clima non solo un dovere, ma l’unica strada per realizzare un cambiamento. Possibilmente con qualche cautela in più e l’umiltà che viene dalla consapevolezza di dover svolgere un servizio, con dignità e onore come recita la Costituzione. Un atteggiamento impossibile da assumere senza fare mostra di quotidiano equilibrio e rispetto per gli altri, soprattutto per quelli che la pensano diversamente da te.

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Giovanni Cerchia è coordinatore regionale di Articolo Uno-Mdp della Campania e professore associato di Storia contemporanea all’Università del Molise

Cari esasperati, qualche consiglio per esasperarsi davvero

Sta bene su tutto, come il cacio sui maccheroni, come il “non sono razzista ma” o come il “e allora il Pd?”: gli esasperati sono una nuova forma autoctona organizzata che si arroga il diritto di compiere reati di diversa gravità (che siano verbali, fisici e comunque sempre intrisi d’odio) parandosi dietro a una voglia rivoluzionaria di giustizia e di libertà. Giustificati dalle ingiustizie. Dicono così.

Sono esasperati gli italiani che non perdono occasione per prendersela con i neri: hanno il diritto di essere spaventosi (dicono loro) perché sono terribilmente spaventati. Non è colpa loro se non ce la fanno più (dicono loro) e quindi hanno il diritto di trasformarsi da presunte vittime a sicuri carnefici. “Non credi che se gli italiani improvvisamente sono diventati razzisti la colpa è di questi stranieri che delinquono?” mi chiedeva ieri un astuto commentatore con la bandierina italiana accanto al nome e un filotto di simboli fascisti. No. Non credo.

Però questa mattina potrei sforzarmi di seguirvi nel vostro ragionamento contorto. Anzi, posso fare di più e porvi qualche domanda. Cari esasperati, quanta esasperazione vi deve esasperare per accogliere a uova in faccia i malavitosi di qualche clan di una a caso delle mafie italiane che vengono a chiedervi il pizzo? Cari esasperati, non vi esasperano abbastanza i vostri connazionali primi al mondo per turismo sessuale sui minori, quei pedofili estivi che poi vi raccontano al ritorno le loro avventure sessuali con bambine dell’età di vostra figlia? Cari esasperati, quando pensate di esasperarvi quel che basta per organizzare le ronde contro i corruttori e i corrotti che tirano i fili accomodati su poltrone da classe dirigente delle vostre università, dei vostri ospedali, dei vostri lavori pubblici, dei servizi che non funzionano per sfamare i corrotti, dei ponti che crollano o delle gallerie che non si tengono in piedi per il lucro sui materiali?

Cari esasperati, ci fate un fischio quando vi esasperate contro il vostro amico che evade le tasse ma offre sempre almeno un giro di aperitivi? Cari esasperati, quanto fastidio vi procurerebbe sapere che qualcuno ci deve restituire 49 milioni di euro e invece si gode la bella vita con i vostri soldi (per i difensori ad oltranza di Salvini: Umberto Bossi, senatore candidato dal segretario Salvini e eletto e pagato con i vostri soldi)? Cari esasperati, davvero vi esaspera di più il piccolo spacciatore nero sotto casa vostra della lobby capitalista? Cari esasperati, davvero il nigeriano vi ha impoveriti andando a lavorare da schiavo per il vostro ex datore di lavoro disposto a tutto pur di risparmiare due soldi alla faccia dei diritti? Perché non riuscite a prendervela con lui? Cari esasperati dai 35 euro e dai venditori di braccialetti in spiaggia lo sapete quanti immigrati servirebbero per fare un miliardo di euro? Sono i soldi che Apple ha evaso in Italia (ha patteggiato per 318 milioni, per dire). E ce ne sarebbero altri mille di esempi così.

Sapete perché vi esasperate solo con i disperati? Perché è vigliaccamente facile, solo per questo. E vi illudete di fare la rivoluzione ma state solo facendo il solletico al tallone del potere.

Buon mercoledì.

Selly Kane, Cgil: La deriva razzista è colpa della politica che costruisce capri espiatori non essendo capace di creare lavoro

C’è un filo, un filo nero, tra l’ondata di razzismo e le condizioni di lavoro. Prendiamo la reintroduzione dei voucher in agricoltura. Se cerchi la responsabile Cgil per le politiche sull’immigrazione la trovi in piazza con i braccianti della Flai, la federazione dei lavoratori dell’agricoltura, uno dei comparti con la più alta densità di lavoro migrante, il 36% che diventa il 57% nelle regioni a trazione leghista. La Cgil si sta attrezzando per «costruire appuntamenti importanti, ad assumere iniziative di difesa e tutela dei nostri nuovi cittadini».
Selly Kane, senegalese, iscritta da 22 anni alla confederazione sindacale, fa la spola tra Ancona, dove vive, e Roma dove è anche vicepresidente del direttivo nazionale di Corso Italia. Spiega a Left che «i buoni lavoro sono un passo indietro rispetto a quello che avevamo conquistato con la legge contro il caporalato». Vuol dire dare alle aziende la possibilità di nascondersi dietro a un voucher per negare il diritto a un lavoro contrattualizzato. «Significa riprecarizzare soprattutto i migranti – continua – senza diritti e coperture come disoccupazione, maternità, malattia. È il ritorno del lavoro nero, una concorrenza sleale con le aziende virtuose, uno stop alle lotte per il collocamento pubblico, per i trasporti e il diritto all’accoglienza». Il 90% del lavoro in agricoltura è stagionale ed è indegno pagarlo con i voucher. Nei campi, uno su tre non raggiunge le 51 giornate annue e non percepisce quindi prestazioni assistenziali.
Se c’è quel filo nero, «il razzismo non inizia da ora, la deriva, l’imbarbarimento culturale sono iniziati da anni anche se ora presentano dei connotati preoccupanti e riguarda la democrazia di questo Paese – continua Kane -. La responsabilità precisa è della politica che, per non rispondere ai bisogni, parla alla pancia e questo, dopo dieci anni di crisi fa presa. Si cerca di sviare l’attenzione su un capro espiatorio. Prima è toccato agli albanesi, poi agli islamici, ora sono soprattutto gli africani». Non sfuggono alla responsabile Immigrazione del più grande sindacato d’Europa, le occasioni perdute: «l’autolesionismo della sinistra» dei decreti Minniti Orlando, degli accordi con la Libia firmati dal precedente governo, della rinuncia a una legge sullo ius soli, «con l’addio alla cittadinanza per un milione di ragazze e ragazzi nati e cresciuti qui».
«Bisogna capire le motivazioni dei flussi migratori, il ruolo delle multinazionali nella depredazione dell’Africa, nel sostegno a governi funzionali al neoliberismo. È in atto uno sfruttamento senza precedenti legato allo sviluppo tecnologico dell’Occidente». Kane ricorda la correlazione tra il genocidio nella regione dei Grandi Laghi, la guerra in Congo e i conflitti centrafricani con il controllo dell’estrazione del coltan. Dal coltan si estrae il tantalio, metallo raro usato massicciamente nella tecnologia di punta per cellulari, computer, industria aereospaziale e quella degli armamenti. L’80% proviene proprio dalla Repubblica democratica del Congo. «Anche il land grabbing, l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali in aree come quella subsahariane per monoculture legate all’esportazione – aggiunge la sindacalista – stravolge la vita di aree in cui il 70% sono giovani e vivono in zone rurali da cui sono costretti a migrare». Dare una giusta lettura della crisi è il primo compito del sindacato, specie quando è l’unica organizzazione di massa a dichiarare, all’articolo 1 del proprio statuto, la propria plurietnicità: «In Cgil i migranti possono votare per eleggere i loro delegati dai tempi di Bruno Trentin, mentre non hanno ancora diritto di voto amministrativo – ricorda Kane – la nostra scelta di campo è l’universalità dei diritti. Noi restiamo umani di fronte all’insopportabile negazionismo di questo governo sugli omicidi, gli attentati, i pestaggi e gli oltraggi nei confronti degli immigrati. Dobbiamo raccontare la verità, che questa crisi è stata determinata dalle stesse politiche neoliberiste che impongono austerità e aggiustamenti strutturali in tutto il mondo. E anche che il lavoro migrante contribuisce all’8% del Pil e, parola di Boeri, con i contributi degli immigrati vengono pagate 663mila pensioni italiane».
La Cgil rilancia:«L’unica via d’uscita è la libertà di circolazione. Il diritto di migrare è antico, oggi i flussi sono bloccati ma vuol dire che le persone sono imprigionate in Libia. Quei soldi che si spendono grazie agli accordi con la Turchia o la Libia per l’esternalizzazione delle frontiere potrebbero essere utilizzati per politiche di inclusione o per una vera cooperazione allo sviluppo. Noi chiediamo di stracciare quegli accordi e di favorire i corridoi umanitari. L’Europa Fortezza non funziona. L’immigrazione è il banco di prova per una civiltà democratica – ricorda – oltre ad essere fondamentale per il ricambio generazionale. Invece a essere criminalizzate sono la povertà e la solidarietà».