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Il jazz italiano torna nelle terre del sisma. Con 400 musicisti e 100 concerti

Palo Fresu (s) e la sua band durante l'evento "Il jazz italiano per L'Aquila", kermesse di 12 ore, da mezzogiorno a mezzanotte, nel centro storico con 500 artisti e 20 location organizzata per ridare luce alla città vecchia distrutta dal terremoto del 6 aprile 2009, L'Aquila, 6 settembre 2015. ANSA/PROFILO TWITTER SIAE +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Anche quest’anno il jazz torna a sostenere la rinascita e la ricostruzione dei luoghi colpiti dal sisma nel cuore del nostro Paese. L’evento “Il Jazz Italiano per le terre del sisma”  si svolgerà in quattro giornate: il 30 e 31 agosto rispettivamente a Camerino (MC) e Scheggino (PG), il primo settembre ad Amatrice (RI) e domenica 2 all’Aquila. Quattro giorni in cui il movimento e la trasformazione saranno i caratteri salienti dei percorsi geografici, della musica che si esprime attraverso l’improvvisazione, delle idee e dei progetti. Dopo quattro anni in cui, gratuitamente, «i musicisti si sono ritrovati per fare musica, con lo scopo principale di sostenere e aiutare le comunità afflitte dai terremoti», ricorda Simone Graziano, presidente Midj (Musicisti italiani di jazz), quella di quest’anno sarà l’ultima edizione. Ma, come afferma, durante la presentazione il 27 luglio al Mibact, Paolo Fresu, direttore artistico dell’iniziativa e presidente della Federazione Nazionale Il Jazz Italiano, «nel 2019 il jazz italiano non lascerà i territori colpiti ma cambierà pelle. Dopo avere ospitato circa 2500 musicisti con oltre 400 concerti lasceremo questa creatura nelle mani del Comune dell’Aquila e della Regione Abruzzo oltre che in quelle degli altri comuni coinvolti. La Federazione IJI fornirà il supporto e la consulenza per fare diventare la prima domenica di settembre un appuntamento stabile del jazz italiano».

Molte cose sono cambiate dalla prima edizione del 2015 all’Aquila, quando un fiume di persone si riversò nella città martoriata dal sisma del 2009 ad ascoltare 600 jazzisti che donavano emozioni attraverso la loro musica. Tantissimi gli spazi e le strade inaccessibili allora, scenari di rovina e miriadi di gru immobili all’orizzonte. «Quest’anno – continua Fresu – oltre 400 musicisti suoneranno in più di 100 concerti, molti dei quali si terranno in luoghi magnificamente restaurati del centro storico della città abruzzese. Centro che, grazie anche al jazz che ha contribuito all’opera di sensibilizzazione indirizzata ad accelerare i tempi della ricostruzione, rivive e rinasce nello sviluppo del pensiero creativo che permea l’arte dei nostri borghi e delle nostre città».

Nel 2016 l’improvviso sisma di Amatrice e dei comuni limitrofi costrinse al cambiamento. Ancora una volta il jazz italiano si trovò a dimostrare grandi capacità organizzative e di adattamento spostandosi, in soli dieci giorni, in 25 città italiane e garantendo lo spirito solidale anche agli altri centri colpiti la notte del 24 agosto. Purtroppo, lo sciame sismico non si arrestò e coinvolse, nei mesi successivi, numerose altre località nelle Marche e nell’Umbria, e nel 2017 nacque “Il jazz italiano per le terre del sisma”. Il coordinamento generale è realizzato dalla Federazione IJI, da I-Jazz che rappresenta i maggiori festival in Italia, da Midj e dalla Casa del Jazz di Roma. L’intero progetto è promosso e fortemente voluto dal Mibac e dai Comuni coinvolti.

«Trovo che jazz e ricostruzione sia un felice connubio – dichiara Gianluca Vacca, sottosegretario con delega alla ricostruzione e al restauro dei beni culturali – credo fortemente che l’arte e la cultura siano un mezzo di rilancio e di rinascita di una comunità, e che il jazz sia un suggestivo tramite perché affonda le sue radici nella tradizione, ma è sempre proiettato al futuro grazie alla sperimentazione e all’improvvisazione». È dunque un evento che rappresenta una novità assoluta per il panorama culturale nazionale, come ci spiega infine Ada Montellanico, responsabile Midj nella Federazione IJI, perché «è un modello di sinergia tra tutte le componenti del jazz unite per una grande causa di solidarietà. Un messaggio forte di vicinanza, arrivato al cuore della popolazione che, attraverso la vitalità della nostra musica, ha vissuto con noi e il numeroso pubblico, giornate che rimarranno nella storia del nostro Paese».

Su Left n. 35, in edicola da venerdì 31 agosto, interviste ai musicisti Ferruccio Spinetti, Petra Magoni e a Joe Barbieri, a cura di Alessandra Grimaldi.

A me non interessa che Daisy Osakue sia italiana

Daisy Osakue, la giovane atleta di origine nigeriana ferita ad un occhio lanciato da un'auto in corsa a Moncalieri, Torino, 30 luglio 2018. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Non aumenta il mio dispiacere per ciò che è successo a Daisy Osakue il fatto che sia italiana e che sia protagonista della nostra nazionale di atletica. A ben vedere non mi interesserebbe nemmeno che sia nera se il particolare non fosse utile per svelare il filo (nero, appunto) che collega gli ultimi fatti di cronaca (nera, appunto) e che testimonia un razzismo (e un fascismo, scriviamolo pure: fascismo) che non ha niente a che vedere con il popolo italiano tirato in ballo da Salvini e dai suoi alleati ma racconta piuttosto lo sdoganamento e il senso di impunità di pochi utili idioti.

Provo dolore, solidarietà e sgomento per Daisy come per gli immigrati del Mali colpiti a Caserta da ragazzi che inneggiavano a Salvini, come per Bouyagui, il cuoco malese colpito a Napoli da un fucile ad aria compressa, come per i due nigeriani colpiti in due giorni diversi a Forlì da colpi ad aria compressa, come per il gruppo di nigeriani colpiti a Latina mentre aspettavano il bus da una pistola ad aria compressa uscita dal finestrino di un’auto, come per la bambina rom colpita da un pallino e che rischia di non poter tornare a camminare, come per il richiedente asilo colpito a San Cipriano D’Aversa, l’operaio capoverdiano colpito in provincia di Vicenza, come il marocchino morto dopo il pestaggio di qualche giorno fa a Aprilia, come il barista pestato a Partinico. Solo per citare i casi avvenuti negli ultimi cinquanta giorni. E come gli italiani all’estero quando loro erano i negri di qualcuno.

Non sopporto che gli oppressi vengano rivenduti come oppressori per un pugno di voti da qualche ciarlatano e ne paghino le conseguenze. Non sopporto ogni volta che una persona viene giudicata per il colore della pelle, per la presunzione di appartenenza a un’etnia, per il proprio osceno disagio, per le sue fragilità. Di quale Stato sia non ha nessun interesse, nessuno. Se Daisy è stata colpita perché scambiata per una delle prostitute della zona mi domando quante di loro abbiano dovuto subire ciò che ha subito Daisy senza poterlo denunciare. Sarò strano io.

E non sopporto certa solidarietà urlata più forte perché rivolta a una connazionale. Mi sembra che si richieda di fare lo stesso gioco, in fondo: “questa ragazza fa parte della nostra nazionale sportiva, è una nostra rappresentante, non vedo perché la si debba aggredire…”. ha detto ieri  la senatrice leghista Marzia Casolati. Appunto. Capite? Se il fatto che Daisy sia italiana ci può servire per raccontare l’idiozia dei razzisti (ma servono altre prove?) mi permetto di consigliare a certa stampa nostrana di avere il polso di scrivere che questi odiano i poveri e i negri. Tutti. L’italianità è uno slogan di cui non tengono conto quando versano bile contro i poveri e i negri. E mi dolgo quando sento, come mi è capitato ieri in una trasmissione televisiva, un conduttore televisivo che si complimenta con Daisy perché parla perfettamente l’italiano come se un suprematista bianco americano si stupisse per l’eloquio di Obama.

Se ci interessano le persone torniamo alle persone. In fretta. Grazie.

Buon martedì.

Ci vorrebbe un vaccino per le proposte di legge contro le vaccinazioni

20090826 - ROMA - HTH - INFLUENZA A: PEDIATRI, VACCINARE ANCHE BIMBI SOTTO 2 ANNI. Un bambino viene vaccinato, in una immagine di archivio. Vaccinare prioritariamente contro la nuova influenza anche i bambini sotto i due anni di eta'. La richiesta arriva dalla Federazione dei medici pediatri (Fimp): proprio i bambini piu' piccoli, affermano gli esperti, sono infatti maggiormente esposti al contagio. La sollecitazione parte dalla constatazione che la campagna vaccinale antipandemica predisposta dal ministero del Welfare, e che partira' dalla meta' di novembre, prevede la vaccinazione prioritaria di alcune fasce di popolazione (come soggetti a rischio e personale sanitario) e solo in una seconda fase a partire da gennaio dispone che il vaccino venga offerto alla popolazione dai 2 ai 27 anni. ANSA/VALDRIN XHEMAJ/DRN

La proposta di legge quadro regionale in tema di vaccinazione, presentata dall’M5s al consiglio regionale del Lazio, con primi firmatari Davide Barillari e Roberta Lombardi, vieta (senza nessuna base scientifica a sostegno, ndr) qualsiasi vaccinazione nel primo anno di vita, mentre attualmente ne sono previste per obbligo dieci (art. 3); fa appello ai benefici di una generica buona nutrizione come alternativa preventiva alla vaccinazione, riguardo alla quale i genitori devono essere correttamente informati (art.7); infine, nell’art. 11, il più discusso, al comma 2 viene previsto un periodo di quarantena da quattro a sei settimane per i bambini vaccinati con un virus attenuato, mentre al comma 3 viene ribadito che cura della scuola è garantire che non vi siano discriminazioni, nel formare le classi, tra vaccinati e non vaccinati. Inoltre, sempre in questo articolo, si stabilisce che, per sottoporsi ad una vaccinazione, è necessario un percorso personalizzato, da realizzare obbligatoriamente con i medici delle Asl, in cui tener conto della più rigorosa anamnesi del vaccinando e di quella di tutti (?) i suoi parenti più stretti. Tutti, in ogni caso, per vaccinarsi avranno bisogno di un nulla osta rilasciato dalla Asl, entro le 48 ore precedenti la vaccinazione Non è difficile immaginare le Asl intasate da questo. La vaccinazione poi, e ci mancherebbe altro, viene vista come un fatto che deve essere affrontato con la più scrupolosa informazione, soppesando col bilancino tutti i pro e tutti i contro, che verranno valutati nel corso dell’iter personalizzato, che, anche qualora intrapreso, deve poter essere abbandonato facilmente al minimo segno di volontà in tal senso da parte dell’interessato.
Sembra, quindi, tutto un voler penalizzare per via burocratica chi intende ricorrere alle cure tradizionali, alla faccia della libertà di scelta.

Ma per quello che riguarda la quarantena per i vaccinati con virus attenuato, c’è anche una pretesa di scientificità. La vaccinazione con virus attenuato è quella della varicella, una malattia che si contrae per virus aereo (VZV, Virus Zoster Varicellae), che colpisce soprattutto i bambini tra i 5 e i 10 anni, ma che può restare latente per decenni e colpire più pericolosamente da adulti, con l’Herpes Zoster, detto anche Fuoco di Sant’Antonio. Il tasso di mortalità va dallo 0,5 su 100.000 casi in epoca pre-vaccinale, a un tasso 5-7 volte maggiore in adolescenza, 10-15 volte maggiore in età adulta, fino ad un tasso 100 volte maggiore, se contratto da anziani. La malattia, particolarmente pericolosa in generale se contratta da adulti, lo è ancora di più se contratta in gravidanza, per la donna e per il rischio che possa trasmettersi al feto.

Ora, chi viene vaccinato con un virus attenuato può sviluppare rash cutaneo, con delle pustole da cui può fuoriuscire un liquido, che può portare al contagio. Ebbene, l’OMS ha riscontrato nel mondo, in trent’anni, non più di nove casi di persone che hanno contratto il virus della varicella da persone vaccinate, e non si trattava di giovani vaccinati- il rash cutaneo è più probabile in soggetti anziani, immunodepressi, etc.-. Inoltre, solo tre dei nove casi citati hanno sviluppato un Herpes Zoster.

Nove casi riscontrati in trent’anni di impiego del vaccino, su soggetti non giovani, non sembrerebbero francamente giustificare una quarantena su soggetti in età scolare o pre-scolare. O perlomeno, le indicazioni a favore di una possibile quarantena dei vaccinati contro la varicella, così come quelle a favore di una possibile scelta di non vaccinarsi affatto, sembrerebbero di gran lunga inferiori a quelle sull’opportunità di vaccinarsi comunque.

A questo proposito va ricordato che l’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di non avviare campagne di vaccinazione di massa in bambini sotto i due anni di età, se non si è sicuri di raggiungere una copertura di gregge dell’85-90%, perché, in tal caso, la circolazione del virus tra la percentuale di persone rimaste scoperte in età adulta rischierebbe di essere più perniciosa.

Il che, ovviamente, è da leggersi più come un incentivo a vaccinarsi contro la varicella, che non come il contrario. I Paesi che non possono assicurare una copertura dell’85% ad una campagna di vaccinazione di massa, sono quelli con un sistema sanitario gravemente carente.

Per quanto concerne poi, in linea più generale, le vaccinazioni entro il primo anno di età, queste sono consigliate proprio per via del fatto che il sistema immunitario non è ancora formato ed ha dunque bisogno di essere sostenuto. L’unica controindicazione, anche qui, riguarda il vaccino con virus attenuato, la cui efficacia potrebbe essere ridotta, nei primi dodici mesi, dalla presenza di alcuni anticorpi materni. Ma è già previsto dalla normativa vigente che il vaccino quadrivalente MPRV (morbillo, parotite, rosolia e varicella) non sia effettuato prima dei dodici mesi di età. Sono queste le linee guida in materia dell’OMS e del nostro Istituto Superiore di Sanità.

A proposito: lo scorso anno nel Lazio, nonostante tutto, la copertura delle vaccinazioni obbligatorie è stata pari al 97%. Controindicazioni? Nessuna. Motivo in più per non intervenire con una legge, a dir poco, piena di contraddizioni.

«La legge sulla tortura è pessima ma va difesa perché le destre vogliono abolire il reato»

A moment of the event in favor of the introduction of the crime of torture, organized by Amnesty International Italy, on the steps of Santa Maria in Aracoeli Basilica in Rome, Italy, 17 April 2015. ANSA/FABIO CAMPANA

Per quasi trenta anni, l’Italia ha atteso una legge che punisse la tortura. A nulla servì (allora e per lungo tempo) l’approvazione della Convenzione Onu contro la tortura, che ne prescriveva l’introduzione nel codice penale italiano. Adesso, oltre al fatto che la norma è stata lungamente rimpallata fra Camera e Senato e l’accelerazione verso la sua approvazione è stata impressa dall’esito di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito ai fatti di Genova, la legge approvata in via definitiva alla Camera il 5 luglio 2017 è piena di compromessi.

Il testo prodotto (peggiore di quello dei primi approcci) è lungamente criticabile e la valutazione è, da più parti, negativa. Non convince già a partire dalla definizione di tortura utilizzata: debole e interpretabile secondo una tendenza minimalista, restrittiva, quasi si trattasse di una pratica estrema e perciò negandone l’evoluzione verso forme più sofisticate e subdole.

Così impostata, oltretutto, è una soluzione che presenta serie difficoltà di applicazione: per esempio, ampliando la punibilità a chiunque commetta il reato, il testo rende scivolosa l’individuazione della “tortura di Stato”; poi, prevedendo la tortura come un reato che per essere punito deve presentare comportamenti reiterati, rende non semplice l’applicazione; e infine, richiedendo (per la punibilità) un verificabile trauma psichico conseguente alla tortura, costringe all’impotenza, sia per l’impossibilità (quasi sempre) di produrre perizie dimostrabili sia per i tempi (lunghissimi) che intercorrono tra il compimento dell’atto violento e la sua “apparizione” in tribunale.

«La legge sulla tortura, approvata circa un anno fa, risente di scelte di politica criminale di forte compromesso, che ne indeboliscono complessivamente l’impianto e aprono a una serie di problemi applicativi, minandone l’efficacia sul piano della repressione e della prevenzione», dice a Left Laura Liberto, la coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva, all’indomani del convegno Il reato di tortura: aspetti giuridici e applicativi, organizzato da Amnesty international e dalla sezione romana del Movimento forense e tenutosi, qualche giorno fa, presso la Corte d’appello civile di Roma.

«Tali scelte sono in buona parte frutto del dibattito fortemente ideologizzato che ha accompagnato il lungo e faticoso iter parlamentare di approvazione e della propaganda sulla introduzione del reato di tortura, presentato come provvedimento “contro la polizia”. Questo approccio è già evidente nell’aver qualificato la tortura come reato comune (cioè un reato che può essere commesso da chiunque, salvo poi prevedere un aggravamento di pena nel caso in cui il fatto sia commesso da pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, nda), laddove, invece, la vera lacuna presente nel nostro ordinamento, che si richiedeva di colmare con l’intervento del legislatore nazionale, era proprio quella relativa alla cosiddetta “tortura di stato”», dichiara Liberto.

«Va comunque riconosciuto che – chiosa la responsabile -, dopo decenni di tentativi andati a vuoto e proposte rimaste nei cassetti, anche in Italia oggi la tortura è punita con uno specifico reato. Nonostante tutte le debolezze della legge, già questo risultato va difeso, soprattutto rispetto ai recenti tentativi di rimetterla in discussione con proposte di abrogazione che riesumano la solita propaganda delle destre, la stessa che ha ostacolato per decenni l’introduzione del reato».

“Sono imparziali solo quelli che confermano le mie idee”

Un foto dal profilo Twitter di Marcello Foa, nominato nuovo direttore della Rai, 27 luglio 2018. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Proviamo per una volta, con calma, a non azzuffarci per partito preso e a non lasciarci rapire dal tifo. Partiamo dalla fine: il can can che si è sviluppato in questi ultimi giorni sulla proposta di nomina di Marcello Foa a presidente della Rai è lo specchio di un momento che dura da molto di più di questo ultimo governo.

Foa innanzitutto: il 6 dicembre dell’anno scorso su Pandora TV dichiarava di avere parlato con dei medici (non si sa bene chi, non si sa bene dove, non si sa bene come) che gli avevano assicurato che i vaccini “creino shock al corpo del bambino molto forte che rischia di danneggiare il suo normale equilibrio”. Prove? zero. Nomi? Zero. In compenso c’è una sentenza della Cassazione che, volendo vedere, scrive proprio di una certa faciloneria che porta consenso a chi rumoreggia sul tema.

Poi, il 26 luglio twitta “Paradossi: Salvini propone di rendere obbligatorio il crocifisso ma lo paragona a Satana. Qualcosa non torna. O sbaglio?”. Sbagli. Perché il mondo, per fortuna, non funziona come una banale do ut des: se strumentalizzo una lisciata al tuo mondo non mi compro l’indulgenza per compiere cazzate.

Poi. Sempre il 26 luglio (che giornata di fuoco per il presidente in pectore della Rai) Foa ritwitta DefenseEurope. Ve li ricordate? Sono quelli della barchetta fascistella che avrebbe dovuto presidiare il Mediterraneo e invece, come tutti i fascisti, ha collezionato una vigliacchetta figura barbina. Uno dice: sarà un caso.

Andiamo avanti. Il 13 agosto dell’anno scorso Foa retwitta un articolo in cui si dice che gli immigrati sono dediti al cannibalismo.

Poi. Sempre il 13 agosto dell’anno scorso Foa retwitta un inconsueto assioma per cui Medici Senza Frontiere sarebbero i veri colpevoli della guerra in Iraq.

Il 15 agosto del 2017 propaga la notizia di un piano di sostituzione etnica voluto dalla Boldrina. Scritto proprio Boldrina.

Poi c’è tutta una letteratura contro le ONG. Poi c’è una elegante critica al giornalista di Repubblica Zucconi accusato di demenza senile. Una fulminante battuta sul primo arrestato per la legge Fiano a Predappio per avere fatto di tutta l’erba un fascio. Poi i rifugiati chiamati risorse. Poi Grasso che per ordini dall’alto apre ai migranti e li mantiene. Poi un denso tweet sul movimento #metoo in cui un utente conferma che lo sapevano tutti che il cinema è un gran bordello. Poi un meraviglioso retweet di quel fascistello di Casapound che definisce Mattarella blasfemo. ignobile, anticostituzionale. Poi una battuta sulle labbra di Lilli Gruber. Poi decine di tweet di incoraggiamento a Salvini. Poi un tweet contro Di Maio quando non voleva accordarsi con Salvini.

E questo è niente: basta spulciare i social di Foa per toccare con mano cosa sia la comunicazione (banale, tronfia e talvolta falsa) di questa nuova misera destra muscolare.

Si alzano giustamente voci di protesta.

Lui ringrazia per la fiducia bipartisan, sbagliando ancora una volta vocabolario. Bipartisan non significa le due metà del potere, caro Foa, tutt’altro: bipartisan significa ben voluto da tutti. E no. Tu no. Ciao.

Andiamo avanti: qualcuno fa notare che la lottizzazione della Rai è roba vecchia, che anche quelli prima hanno fatto lo stesso se non peggio. Vero.

Qualcuno però sottolinea come il cambiamento sia appunto una rivoluzione nelle pratiche. Altrimenti si chiamerebbe semplicemente meno peggio. Ma a questo non rispondono.

Forse la soluzione, semplice semplice, è un’altra: il potere (ma mica solo il potere, anche molti commentatori social, ad esempio) si sono convinti nel tempo che i bravi giornalisti siano quelli che riescono meravigliosamente a confermare le nostre tesi, anche le più disparate, magari addirittura con termini e ragionamenti più evoluti dei nostri. Il dubbio è un disturbo da scansare.

Allora il prossimo presidente della Rai davvero si potrebbe semplicemente sorteggiare tra i vostri amici, quelli che vi conoscono bene, che sanno sempre la parola giusta da dirvi al momento giusto. No?

Buon lunedì.

Perché il ministero dell’Istruzione propone agli studenti universitari prestiti dannosi e incostituzionali?

Salvatore Giuliano, sottosegretario all'Istruzione, Università e Ricerca, e Giuseppe Conte (D), presidente del Consiglio, durante la cerimonia di giuramento dei sottosegretari a Palazzo Chigi, Roma, 13 giugno 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Nelle scorse settimane, il Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca) ha inviato un curioso questionario agli indirizzi e-mail degli studenti universitari di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, al fine di «valutare l’introduzione di uno strumento finanziario che faciliti l’accesso a studi universitari e post-laurea». L’imbarazzante form – elaborato da una nota società di consulenza, ma compilabile da chiunque, e un numero imprecisato di volte – ha come principale obbiettivo quello di «supportare la partecipazione degli studenti a percorsi di istruzione terziaria collegati alle aree individuate nella Strategia nazionale di specializzazione intelligente».

Dopo una prima parte anagrafica, il modulo si addentra in aspetti economici e finanziari, arrivando a formulare il quesito centrale: «Sei attualmente beneficiario di una borsa di studio? Hai mai contratto un prestito per finanziare i tuoi studi? Perché non hai mai chiesto un prestito? Quanto saresti disposto a chiedere?». In una condizione di normalità, soprattutto in un Paese come il nostro – dove la disoccupazione giovanile è ben oltre il 30% e i livelli di povertà educativa e le diseguaglianze sociali sono intollerabili – si penserebbe allo scherzo idiota di un funzionario. E invece no.

Pochi giorni fa, durante il question time alla commissione Cultura e istruzione della Camera, il sottosegretario del Miur Salvatore Giuliano – oggi in quota M5s, ma un tempo sostenitore della Buona scuola – ha rivendicato la paternità del questionario, appellandosi al regolamento europeo che disciplina le risorse comunitarie e spiegando che il ministero sta conducendo un’indagine preliminare sulla fattibilità dell’introduzione del prestito d’onore. In poche parole, gli studenti italiani beneficiari di una borsa di studio, assegnata per basso reddito familiare, potrebbero presto trovarsi nella condizione di dover chiedere un finanziamento personale per accedere all’istruzione universitaria.

In una sola mossa il governo gialloverde sembra riuscire nell’ardua impresa di fare peggio di chi lo ha preceduto, prendendo a schiaffi il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana – «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» – e dimostrando una prevedibile ignoranza sul tema in oggetto. Da almeno un decennio, infatti, la letteratura scientifica ha sconfessato ogni argomento a favore del prestito d’onore, sottolineando i danni sociali ed economici derivanti dall’affidare l’istruzione dei cittadini di uno Stato agli istituti di credito e alle oscillazioni finanziarie di mercati.

Se scopiazzare le pessime e inefficienti pratiche di altri Paesi – peraltro diversissimi dal nostro, basti ricordare il tema delle borse di studio e dei trust in ambito anglosassone – diventa sinonimo di “politica del cambiamento”, sorgono in maniera abbastanza spontanea dei seri dubbi sulla qualità di tutto il ceto dirigente coinvolto. La grave situazione in cui versano molti enti regionali che erogano le borse di studio è un dato di fatto, ma viene da chiedersi chi possa pensare che l’indebitamento delle fasce di reddito più deboli sia una soluzione. Qualora il provvedimento dovesse ottenere il successo che il sottosegretario Giuliano si aspetta, il volto dell’istruzione universitaria italiana cambierà per sempre, e in peggio. D’altra parte, già da qualche tempo, l’idea repubblicana e democratica, secondo cui la formazione è un valore in sé e non un mezzo (o un servizio a pagamento) utile a creare lavoratori frustrati, gode di scarsa fortuna, sia nelle stanze del potere politico e degli apparati burocratici, sia, più in generale, nella società della competizione.

Ad oggi, solo Unione degli universitari (Udu), che ha lanciato la petizione “No ai prestiti d’onore!” su Change.org, Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi), e Link coordinamento universitario hanno fatto sentire la loro voce. Il funerale che questo governo prepara per il ruolo del settore pubblico nel campo dell’istruzione non può lasciare indifferenti, in gioco c’è il futuro di tutti, nonché la qualità della nostra democrazia.

La riflessione di Lorenzo Ferrari è tratta da Left in edicola


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Liberata Ahed Tamimi, la giovane attivista palestinese diventata il simbolo della resistenza

Ahed Tamimi con il padre

La resistenza continuerà finché l’occupazione non finirà” dice l’attivista 17enne palestinese Ahed Tamimi  tornata libera dopo otto mesi di detenzione per aver schiaffeggiato due soldati israeliani. La ragazza è diventata il simbolo della lotta palestinese. E proprio mentre realizzava un murale su di lei sulla Barriera di difesa nella zona di Betlemme era stato arrestato dalle autorità israeliane lo street artist Jorit Agoch, di origini olandesi residente a Napoli. E’ stato poi in serata rilasciato insieme con gli altri due fermati e messo in libertà. La Farnesina ha confermato il rilascio da parte delle autorità israeliane dello street artist Jorit  e dell’altro italiano che era stato arrestato con lui a Betlemme.

La storia di Ahed Tamim

Ha 17 anni, è palestinese ed è stata portata via dai soldati israeliani, all’alba del 19 dicembre. La stessa sorte è toccata alla cugina Nour mentre il giorno prima era stata arrestata la madre, Nariman. Tutte e tre sono state portate nel carcere di Ofer, nel villaggio di Betunia. Lunedì 25 dicembre il tribunale militare di Ofer decide sulla loro sorte.

Lo scenario è il villaggio di Nabi Saleh, vicino a Ramallah, nella Cisgiordania. Le tre donne, come racconta Luisa Morgantini, presidente dell’associazione AssoPacePalestina, che si trova a Ramallah, sono simbolo della resistenza palestinese. Una storia lunga, pur essendo lei giovanissima.  Ahed infatti aveva addirittura 9 anni quando ha iniziato ad essere conosciuta in tutto il mondo come una attivista e pasionaria della resistenza palestinese. Semplicemente perché andava insieme al fratellino davanti ai “muri” dei soldati israeliani a chieder loro di andarsene dalla loro terra. Oppure per difendere una fonte d’acqua. Una ragazza forte, coraggiosa, per la cui liberazione nei giorni scorsi si è mobilitata una grande rete mediatica, con la raccolta di firme su varie piattaforme online.

Nel numero di Left in uscita sabato 30 dicembre il racconto di Luisa Morgantini su Ahed e la situazione in Cisgiordania.

L’opera di Jorit

Ahed Tamimi, 17 anni, attivista palestinese contro l’occupazione israeliana, nel tribunale militare della prigione di Ofer, nel villaggio di Betunia, in Cisgiordania, 20 dicembre 2017. L’esercito israeliano ha arrestato Tamimi il 19 dicembre 2017 (Photo credit AHMAD GHARABLI/AFP/Getty Images)

Il fratello di Ahed Tamimi durante la protesta per chiedere alla FIFA di sospendere Israele dal calcio mondiale, Ramallah, Cisgiordania, maggio 2015. (Photo by Shadi Hatem/Anadolu Agency/Getty Images)

Ahed Tamimi in un momento della protesta per chiedere alla FIFA di sospendere Israele dal calcio mondiale, Ramallah, Cisgiordania, maggio 2015. (Photo by Shadi Hatem/Anadolu Agency/Getty Images)

Ahed Tamimi durante la protesta per chiedere alla FIFA di sospendere Israele dal calcio mondiale, Ramallah, Cisgiordania, maggio 2015. (Photo by Shadi Hatem/Anadolu Agency/Getty Images)

Il fratello di Ahed Tamimi durante la protesta per chiedere alla FIFA di sospendere Israele dal calcio mondiale, Ramallah, Cisgiordania, maggio 2015. (Photo credit should read ABBAS MOMANI/AFP/Getty Images)

Ahed al-Tamimi durante una protesta contro il muro della discriminazione e gli insediamenti ebraici a Ramallah, in Cisgiordania, agosto 2015 . (Photo by Issam Rimawi/Anadolu Agency/Getty Images)

Tamimi durante una protesta contro il muro della discriminazione e gli insediamenti ebraici a Ramallah, in Cisgiordania. Settembre 2015 (Photo by Issam Rimawi/Anadolu Agency/Getty Images)

Ahed Tamimi e la sua famiglia nella loro casa a Nabi Saleh, un villaggio vicino alla città di Ramallah, in Cisgiordania. Il fratello Muhammad, 12 anni, con il braccio rotto è stato attaccato da un soldato israeliano il giorno prima durante le proteste settimanali contro l’espropriazione della terra d’Israele. 29 agosto 2015. (Photo by Issam Rimawi/Anadolu Agency/Getty Images)

Tamimi tenta di liberare un ragazzo palestinese (in basso) da un soldato israeliano, durante gli scontri tra le forze di sicurezza israeliane e i manifestanti palestinesi in seguito a una marcia contro la confisca dei palestinesi per espandere il vicino insediamento ebraico Hallamish. 28 agosto 2015 (Photo credit ABBAS MOMANI/AFP/Getty Images)

Tamimi durante la sua visita in Turchia a Sanliurfa a dicembre 2012. (Photo by Rauf Maltas/Anadolu Agency/Getty Images)

Ahed Tamimi nel 2012 sfida i soldati israeliani durante una protesta a Ramallah, in Cisgiordania (Photo by QAIS ABUSAMRA/Anadolu Agency/Getty Images)

Ahed Tamim nel novembre del 2012 contrasta un soldato israeliano durante una protesta contro l’espansione del vicino insediamento ebraico di Halamish, nel villaggio di Nabi Saleh vicino a Ramallah. (AP Photo/Majdi Mohammed)

 

Il razzismo è cecità sulla realtà umana

Il filosofo ed epistemologo del Cnr Gilberto Corbellini ha scritto un articolo su wired.it, in cui propone di combattere il razzismo con la somministrazione di ossitocina, il cosiddetto ormone dell’amore e dell’altruismo.
La tesi è la seguente: siamo tutti razzisti, perché la xenofobia è un tratto genetico presente in ognuno, e con proprie strutture nervose. Quindi non c’è nessuna possibilità di liberarsene, ma soltanto di controllarla con l’educazione e potenziando gli antagonisti circuiti neurologici dell’altruismo con l’utilizzo di una sostanza, l’ossitocina, che ne sarebbe coinvolta. Il razzismo inoltre non sarebbe neppure qualcosa di totalmente negativo in quanto, se da un lato stimola l’odio per gli altri, dall’altro aumenterebbe l’amore verso amici, parenti e i membri del proprio gruppo. Un primo effetto di questo articolo è stato quello di fornire un assist alla propaganda del ministro dell’Interno, che ha prontamente twittato per denunciare l’idea, di «qualche “scienziato”», di drogare gli italiani «per accogliere meglio gli immigrati clandestini e fare donazioni».
Mi sembra necessario fare un po’ di chiarezza.
1) l’ossitocina non è l’ormone dell’amore, ma un ormone prodotto dall’ipotalamo, le cui azioni note sono principalmente di indurre la contrazione della muscolatura dell’utero (per favorire il travaglio e il parto) e delle ghiandole mammarie (e quindi la fuoriuscita del latte in risposta allo stimolo della suzione). In medicina l’ossitocina sintetica viene somministrata infatti per…

L’articolo dello psichiatra e psicoterapeuta Luca Giorgini prosegue su Left in edicola


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I veri invasori siamo noi

Omar al Muktar, eroe della resistenza libica contro il colonialismo italiano, arrestato nel 1931. Gheddafi esibisce questa foto sul petto al suo arrivo a Roma, il 10 giugno 2009. ANSA / WIKIPEDIA / PAL

Nel giugno del 2009 Muhammar Gheddafi andò a Roma per la sua prima visita di Stato in Italia. Oltre che dal portato politico dell’evento, che chiudeva quarant’anni di contrasti e suggellava l’amicizia con l’allora premier Silvio Berlusconi, l’appeal mediatico della visita fu alimentato anche dall’apparato scenico predisposto per l’occasione. A partire dalla tenda piantata a villa Pamphili, per finire con la vistosa fotografia che il leader libico aveva appuntato sulla divisa, durante l’incontro col capo del governo italiano. L’anziano uomo vestito di bianco, in catene, che appariva sul suo petto era Omar al-Mukhtar, capo della resistenza libica contro l’occupazione italiana; la foto lo immortalava poco dopo la cattura, quando era in procinto di essere impiccato di fronte alla sua gente, in seguito a un processo-farsa. Gheddafi aveva scelto il palcoscenico della visita di Stato per mostrare al mondo un simbolo della fierezza libica e, al tempo stesso, della crudeltà italiana.

Seppure con un risalto mediatico decisamente inferiore, la stessa crudeltà è stata evocata lo scorso aprile a Milano, quando, sulla statua eretta in memoria di Indro Montanelli, le militanti di un gruppo femminista hanno scritto: “Stupratore di bambine”. Il riferimento era alla “moglie” dodicenne, acquistata dal giornalista quando si trovava nel Corno d’Africa, durante la guerra d’Etiopia. Era «un animalino docile», disse in un’intervista rilasciata a Enzo Biagi lo stesso Montanelli, che in altre occasioni aveva rivendicato le proprie azioni perché, diceva, in Africa una dodicenne è già una donna.

Capita spesso che la stampa, per commentare la cronaca, sia obbligata a tornare indietro nel tempo, sino al periodo in cui l’Italia possedeva delle colonie. È capitato durante la visita di Mattarella ad Addis Abeba del 2016, che si svolse nel giorno in cui l’Etiopia ricorda gli eccidi compiuti dagli occupanti italiani; ed è capitato più volte, a partire dal 2012, quando si è acceso il dibattito attorno…

L’articolo di Valeria Deplano prosegue su Left del 27 luglio 2018


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Libia, se questo è un porto sicuro

Libyan security forces detain illegal migrants, who reportedly wanted to cross the Mediterranean to Europe, during a raid in Tripoli early on April 17, 2016. / AFP / Mahmud TURKIA (Photo credit should read MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images)

Lo ha raccontato il sussurro di Josefa, fuggita dal Camerun e sopravvissuta 48 ore in balia del Mediterraneo. L’hanno raccolta gli operatori di Open arms, una delle Ong che gli sciacalli di casa nostra hanno chiamato «taxi del mare». E quel sussurro è un urlo assordante, da non dimenticare. Ripeteva «Pas Libye, pas Libye» (basta Libia). Non ce l’hanno fatta una mamma e suo figlio piccolo, i cui corpi sono stati raccolti in mare, a 80 miglia dalle coste libiche. La “buona Italia” disponibile ad accogliere Josefa non voleva cadaveri ad invadere il sacro suolo quindi l’Ong ha scelto di far rotta verso la Spagna, col suo carico triste chiuso in un container frigorifero.
Non bastavano video e testimonianze, Matteo Salvini continuava a parlare di “menzogne” ripeteva che «la Libia è un porto sicuro e che chi fugge va riportato lì». La storia di Josefa farà il giro del mondo, grazie anche al fatto che sulla nave viaggiava una star della Nba (il cestista spagnolo Marc Gasol, ndr) che dopo aver visto ha urlato la propria impotenza. A breve il silenzio donato a chi “va lasciato governare” farà sparire anche questi volti, fino alla prossima strage o alla prossima persona strappata alla morte.
E la bufala dei porti sicuri va smontata con argomentazioni concrete. Secondo la Convenzione di Amburgo (1979), chi viene soccorso in mare va condotto in un place of safety: non un porto sicuro ma un luogo in cui a ogni naufrago sia garantito il rispetto dei propri diritti. Il ministro dell’Interno Salvini non lo sa o finge di ignorarlo.
Adesso, con le strumentazioni fornite da Ue e Italia (grazie agli accordi firmati con l’ex ministro Minniti), la sedicente Guardia costiera libica potrà garantire professionalità nelle operazioni di salvataggio, si dice. E lo ha fatto riprendendosi 158 persone sopravvissute al naufragio citato all’inizio. Ma è sufficiente? Secondo Nancy Porsia, giornalista che ha vissuto per anni in Libia…

L’inchiesta di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola


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