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Quelli che se ne vanno, i migranti che non ti aspetti

Lisbon, Portugal - September 27, 2015: Three elderly gentlemen having a chat in the sunset by the River Tejo - Tagus River - in Cacilhas across the river from Lisbon, Portugal

«Quando sono arrivato, nel 2011, di italiani eravamo tre. Da allora ne saranno passati trecento solo nella mia azienda». Dalla provincia abruzzese, Ivan è arrivato fino a Losanna per lavorare da operatore in un call center dove ora si occupa di formazione e controllo qualità. A Losanna ha vissuto a lungo anche Hugo Pratt proprio sul lago che pesca nelle acque del Rodano e dalla Francia conduce ogni giorno migliaia di frontalieri, in battello, nella città svizzera. L’emigrazione è un fiume di storie molto diverse fra loro e storicamente produce onde di piena. Come adesso. «Nel 2008 a Berlino c’erano 20mila italiani ora non si sa, perché i dati dell’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) sono sottostimati, probabilmente siamo 100-120mila», tratteggia Nicola di Berlin migrant striker (Bms), collettivo di italiani, greci, spagnoli di nuova emigrazione. Iscriversi all’Aire (lo hanno fatto solo 6 su 70 italiani del suo collettivo) vuol dire perdere la copertura sanitaria italiana e non conviene quando si ha a che fare con un mercato del lavoro piramidale come quello tedesco dove in cima ci sono gli autoctoni e in fondo i richiedenti asilo che possono lavorare in deroga ai contratti per un euro l’ora. In mezzo ci sono i migranti europei e poi gli extracomunitari e i rifugiati, «ciascuno status corrisponde a specifiche nicchie del mercato del lavoro – spiega ancora Nicola – e vi si accede dai jobs center, strutture pubblico-private che sfornano working poor, lavoratori poveri».
«Italiani a Berlino vuol dire lavoratori della…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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E la chiamano fuga di cervelli

LONDON - MARCH 24: A Job Centre Plus office on March 24, 2005 in London, England. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Sono a un passo dal traguardo. Ho corso tra Europa e Regno Unito, tra cessi e burger-shit. Ho servito da mangiare a 7.643 ragazzini upper class nelle mense scolastiche, ho sostituito 843 rotoli di carta igienica, ho svuotato 36.542 vassoi sporchi e pulito 54.322 tavolini. Ho stasato 27 cessi otturati. Ho svuotato 476 bin di pannolini usati. Ho fatto due traslochi e imbiancato 27 stanze. Ho infornato 3.987 pizze e almeno la metà erano con l’ananas. Sono i miei record britannici.
Sono un europeo del Sud, un fottuto perdente. Ho corso la mia maratona al ritmo del minimum wage, del salario minimo legale. E con quello non vinci, anche se hai gambe buone e sei un cervello in fuga.
Eppure i quattrinai vogliono farci correre. Dobbiamo muovere le gambe. Andare, camminare, lavorare. Competere. Avanti, banda di pigri, muovete il sedere, fatevi il fiato. Alzate quelle gambe.
Dovete essere vincenti. Dovete essere ambiziosi. Dovete farvi il culo a vicenda. Quelli dell’agenzia interinale ci hanno messi ai blocchi di partenza. Dobbiamo correre, competere, vincere. Dobbiamo accettare la sfida. Ma sotto i cervelli ci sono i polmoni e i piedi. Con l’alloro della laurea sopra la testa qui puoi farci il brodo. Qui quel che conta è…

Alberto Prunetti è uno scrittore. Ha scritto 108 metri. The new working class hero, Laterza, 2018

Il racconto di Alberto Prunetti prosegue su Left in edicola


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La natura della bellezza

Tutti conoscono La grande onda di Kanagawa, lo tsunami che emerge da una xilografia di Hokusai del 1830.
Meno noto è ciò che realizzò con grande coraggio e capacità di riaprire il gioco della ricerca nell’ultimo spicchio della sua vita quando viveva con la figlia Eijo in case in affitto che, anche per ragioni economiche, cambiava di continuo. Anche Eijo, tornata a vivere con il padre dopo il divorzio, era una pittrice di talento e sicuramente contribuì alle opere dell’anziano Hokusai (1760-1849) ma non si è riusciti ancora con certezza a distinguere l’opera dell’uno e dell’altra. Questa è una delle tante ricerche aperte proposte da Timothy Clark nell’affascinante volume, Oltre la grande onda, edito da Einaudi, in cui il curatore del Department of Asia del British museum propone una lettura degli ultimi decenni della vita di Hokusai, esplorando «decadi ricche di innovazione e ispirazione». In novant’anni anni di vita l’artista giapponese delle Trentasei vedute del monte Fuji (che la tradizione indicava come fonte di acqua e di vita) seppe rinnovarsi costantemente, dedicandosi alle xilografie, alla pittura, all’illustrazione (circa 200 volumi) e alla letteratura popolare dai contenuti romantici e fantastici. La ricchezza di stili che emerge dalla sua produzione è impressionante: si passa dalle stampe a soggetto teatrale (con una forte influenza delle maschere del Teatro No, ma anche del più “espressionista” Teatro Kabuki), a raffinati fogli augurali, xilografie con l’ombreggiatura, grandi serie paesaggistiche. Cromia spregiudicata e forme essenziali caratterizzano in modo particolare i paesaggi, tanto che alcune mature creazioni arrivano a sembrare quasi astratte.

Da questa articolata monografia curata da Timothy Clark, che invita a vistare la collezione del British (e – aggiungiamo noi – la mostra dedicata a Hokusai e Hiroshige che approda dal 12 ottobre al Museo archeologico di Bologna) emerge un ritratto poliedrico di Hokusai, artista letterato che collaborava attivamente con altri artisti. La xilografia lo richiedeva espressamente: chi disegnava aveva bisogno di un incisore, di uno stampatore e di un editore. Ma non era solo questa contingenza a spingerlo a lavorare con gli altri; l’esigenza di rapporto nasceva dall’idea che l’arte non fosse una pratica elitaria, ma «un modo per essere in sintonia con il mondo».

Tutt’altro che solitario e bizzarro (come invece ce l’hanno raccontato molti libri), nonostante alterne vicende, Hokusai cercò sempre di sviluppare la propria poetica. Colpito da un fulmine e poi da una malattia, ebbe la forza ogni volta di rialzarsi. Avanti negli anni, tentò di recuperare dopo un ictus misurandosi con il disegno, come “esercizio”. «Ogni volta trovò strade nuove usando intelligenza, immaginazione, ingegnosità», racconta Clark. Una grossa svolta fu a 61 anni quando, cambiando nuovamente nome d’arte, si chiamò Iitisu (“diventare uno”), cercando di diventare tutt’uno con la propria creazione.

Comprendere il mondo attraverso la pittura era sempre stata la sua aspirazione, cercando di varcare il confine fra visibile invisibile. Da questo punto di vista l’ultimo quindicennio si dimostrò particolarmente fertile. Dopo un incendio in cui perse molte sue opere decise di concentrasi sulla pittura, lo fece per un decennio, sviluppando il proprio pensiero e il percorso creativo. Del resto era sempre stato convinto che la sua arte sarebbe maturata con gli anni.

«Avvicinandosi al buddismo Nichiren prese ad esplorare il mondo della natura, intesa come rapporto fra macrocosmo e microcosmo», spiega Timothy Clark. Ma il rapporto con il reale non fu mai piatta mimesis: dalle sue raffigurazioni di animali traspaiono potenti autoritratti, mentre le rappresentazioni di animali immaginari reinventano antiche tradizioni, come quella del leone portafortuna di origine cinese, simbolo di forza e maestà, come del resto la tigre, che tre mesi prima di morire rappresentò mentre avanza con leggerezza nella neve con sguardo sognante non da cacciatrice. Come molti giapponesi del periodo Edo, Hokusai leggeva correttamente sia il giapponese che il cinese. Dall’incontro fra queste due culture nascono opere che raccontano eroi della tradizione poetica cinese (amava particolarmente i poeti del periodo Tang 618-907) e scene dal giapponese Racconto di genji, come la zuffa del gatto cinese, che porta in primo piano una misteriosa principessa che appare dietro un paravento con un elegante kimono. Con figure mitologiche come il drago nelle nuvole della pioggia approda a una tecnica raffinatissima, dipingendo tonalità cromatiche via via sempre più scure su un foglio color avorio. Ma anche il sorprendente domatore di demoni, dipinto in rosso e ritratto di tre quarti, vive di complesse ombreggiature. Grande audacia pittorica caratterizza anche il biennio finale 1847-1849 quando aveva tra gli ottantotto e i novant’anni.

Accanto ai mondi reali e a quelli immaginati che arrivano fino ai racconti di fantasmi, non mancano nell’universo di Hokusai topoi dell’ukiyo-e (“immagini del mondo fluttuante”) come scene di vita quotidiana, schizzi d’immagini “fulminee”, in presa diretta, e ritratti di belle donne (bijinga). Sono immagini femminili che esprimono grazia e sensualità, rappresentate sole o in gruppo, con linee sinuose che, senza soluzione di continuità, danno una forma originale all’insieme. Ogni giovane (anche il ragazzo ritratto mentre pensa con accanto il calamaio) appare immerso in sensazioni e visioni interiori. Dall’estetica ukiyo-e che si era diffusa a partire dal Seicento a Edo (l’attuale Tokyo) sulla spinta delle classi medie, Hokusai trasse lo spunto per immagini molto delicate: le figure esprimono uno stato languido, quasi melanconico. Con grande maestria riesce a rappresentare istanti sospesi come quello in cui una fanciulla sembra fermarsi un attimo lasciandosi inebriare dal profumo dei fiori al primo cadere della pioggia. Una scena che ben esemplifica il concetto di bellezza “kire” della tradizione giapponese, di cui Ryōsuke Ōhashi ripercorre la storia nel volume Kire: il bello il Giappone (Mimesis) curato da Alberto Giacomelli. Bellezza che nella tradizione nipponica ha a che vedere con la gratuità, come gesto fine a se stesso, senza secondi fini. La bellezza come kire precisa lo studioso, non è solo “fanciullesca” o astrattamente ideale ma può risplendere nel volto di un vecchio nei segni lasciati dal «travaglio del diventare»; la bellezza intesa come kire-tsuzuki, esprime l’esperienza della «dis/continuità» rappresentata dal flusso interrotto della gestualità kabuki, oppure dalla caducità di un fiore di ciliegio, riecheggiando la nostra stessa fragilità. L’arte e la bellezza nascono da un dialogo incessante con la natura «impastata della stessa materia di cui siamo fatti noi», da qui nasce la concezione filosofica nipponica che si riflette nell’architettura, nella ricerca di paesaggi o piante o rocce insolite e singolari.

Questo tipo di estetica si diffuse anche in Europa alla fine del periodo di isolamento del Giappone, durato dal 1641 al 1853. Lo stesso in cui fiorì, anche per contestazione, il gusto per l’erotico, per il grottesco, per il nonsense. I libri di Bakin con illustrazioni di Hokusai rispondevano a questa esigenza. Interventi di curiosa, bizzarra, ironia si scorgono in molte opere di Hokusai, affidati a rane o altri piccoli animali. Si ritrovano anche nei più pacati e poetici paesaggi di Hiroshige, come si può vedere visitando la mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma che questo fine settimana approda al finissage. Vent’anni dopo la morte di Hokusai si concluse l’isolamento nazionale, il Giappone si apriva all’Occidente. Ma già a dieci anni dalla sua morte (1849), Hokusai era una leggenda in Occidente. La sua presenza si fa sentire, in vario modo, nei lavori di Manet, Degas, Van Gogh, Gauguin, Lautrec o Seurat. Il suo approccio all’arte, appassionato e disincantato, era ammantato da un alone di eccentricità che nell’immaginario ottocentesco caratterizzava l’artista di genio. Le sue stampe arrivate come carta d’imballaggio, diventarono ben presto oggetto da collezione. Lo stesso Van Gogh ne custodiva molte. Lo studio delle linee nette e dei colori piatti stesi in ampie campiture furono di stimolo alla sua ricerca sul valore espressivo del colore, fuori da ogni intento naturalistico. Come racconta la mostra romana, amò particolarmente le stampe di Utagawa Hiroshige (1797-1858) vere e proprie invenzioni di fantasia in cui immagine e scrittura formano composizioni del tutto nuove.

L’articolo di Simona Maggiorelli è stato pubblicato su Left del 27 luglio 2018


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Pedofilia, anche l’ex capo della Chiesa cilena aveva il “vizio” di insabbiare le denunce

Secondo la Fiscalia nazionale, l’ufficio del pubblico ministero cileno, monsignor Ricardo Ezzati avrebbe coperto gli abusi sessuali compiuti da membri del clero o, comunque, legati alle istituzioni ecclesiastici. Ezzati, 75 anni, è stato il capo della Chiesa cattolica del Cile fino al 2016 ed è oggi l’arcivescovo di Santiago e la procura regionale di O’Higgins, nel centro del Paese, lo ha citato 24 ore dopo la pubblicazione di un rapporto segreto su casi di abusi su minori a partire dal 2000.

Secondo la procura della Repubblica, ci sono «cinque casi di occultamento o occultamento delle indagini contro i superiori di congregazioni o vescovi responsabili di una data diocesi». Consultato pochi giorni fa dalla stampa sulle accuse di insabbiamento, Ezzati ha indicato che ciò che lo preoccupava veramente era «il clima di calunnia che fa tanto danno alle persone, al Paese e alla verità». Poi un comunicato di rito: «Ribadisco il mio impegno e quello della Chiesa di Santiago con le vittime, con la ricerca della verità e nel rispetto della giustizia civile. Sono convinto che non ho mai nascosto la giustizia o ostruito, e come cittadino ho il dovere di fornire tutti i retroscena che contribuiscono a chiarire i fatti». Nella lettera si annuncia che la deposizione di Ezzati sarà il prossimo 21 agosto quando il porporato dovrà comparire davanti al procuratore Emiliano Arias, che nel giugno scorso ha ordinato una perquisizione nelle residenze delle archidiocesi di Santiago e Rancagua dopo l’autodenuncia di un altro religioso, Óscar Muñoz, per abusi di carattere sessuale contro bambini.

Le reazioni delle vittime sono state immediate. Juan Carlos Cruz, vittima dell’influente Fernando Karadima (a cui venne vietato di esercitare pubblicamente il ministero a vita, di dirigere spiritualmente, di confessare, di avere contatti con i membri o avere qualsiasi tipo di incarico nella Pía Unión Sacerdotal), probabilmente il caso più celebre di pedofilia ecclesiastica in America latina, ha scritto su Twitter: «Il cardinale Ezzati è chiamato a dichiarare da imputato! Avrà poco tempo come arcivescovo di Santiago, ma ha appena iniziato la sua nuova missione di rispondere sull’insabbiamento, la menzogna e altri crimini davanti alla giustizia. Che si prepari il resto dell’episcopato, Errázuriz e compagnia», ha detto, riferendosi a Francisco Javier Errázuriz, ex capo della Chiesa cilena tra il 1998 e il 2011.

La procura nazionale del Cile, citata dal sito Emol, ha reso noto che tra gennaio e il 5 maggio di quest’anno, 28.481 minori sono stati vittime di un crimine nel Paese, un dato che si traduce in 226 casi al giorno. Secondo le informazioni rese note dalle autorità cilene, la media annua del numero di minori vittime di crimini si è attestata negli ultimi anni intorno alla cifra di 89mila casi: 89.278 quelli registrati nel 2015, 88.610 nel 2016 e 89.064 nel 2017. La procura nazionale cilena ha poi specificato che i reati che riguardano quasi la metà dei minori vittime di crimini sono quelli di lesioni e di tipo sessuale. Tra il 2015 e il maggio di quest’anno, 67.747 sono stati vittime del primo, mentre 56.852 del secondo. L’incaricata della Tutela dei minori del Cile, Patricia Muñoz, ha detto che le aggressioni sessuali sono più frequenti e stabili a causa della «fenomenologia stessa di questo crimine, per l’agire in modo silenzioso e abusivo dell’aggressore che riesce a generare dinamiche che favoriscono la sua impunità». La funzionaria ed ex procuratrice ha sottolineato che il Cile «ha perso» su questo tema, in quanto «non ha uno Stato capace di prevenire con efficacia questi reati e non dà il peso sufficiente a soddisfare le necessità delle vittime nel processo che devono affrontare se il loro caso è oggetto di indagine», come il bisogno di assistenza psicologica di qualità.

Dopo la visita pastorale in Cile che Bergoglio ha effettuato a gennaio, nel maggio scorso la Conferenza episcopale in blocco (17 vescovi e sette ausiliari) ha rassegnato le dimissioni. Da allora la Fiscalia ha perquisito gli uffici della Chiesa locale e ha chiesto (senza successo) alla Santa Sede gli atti dell’inchiesta che gli inviati speciali del papa hanno condotto alcuni mesi fa in Cile, infine ha insediato investigatori speciali in ciascuna regione del Paese. Due settimane fa, grazie ai documenti sequestrati, l’arresto dell’influente Óscar Muñoz che, fino allo scorso gennaio, è stato cancelliere dell’arcivescovado di Santiago e, quindi, parte della gerarchia e braccio destro dei principali leader della Curia, da qui è partita la pista dell’insabbiamento. Nell’esercizio della sua posizione, Muñoz ha dovuto conoscere di prima mano i casi di abusi. Pochi giorni fa, il procuratore Arias, ha dichiarato che, contro Muñoz « potrebbe essere configurato il crimine di occultamento».

Una storia ulteriore: tra i documenti trovati nei registri di Rancagua una lettera del vescovo Alejandro Goic, uno dei cinque di cui fino a oggi il papa ha “accettato” le dimissioni, in cui è messo in discussione il ruolo di Ezzati nell’insabbiamento. Ad oggi, secondo il dossier, sono 37 le cause in piedi a livello nazionale e 68 gli indagati: 36 sacerdoti (tre vescovi, 31 preti e due diaconi), 22 appartengono a ordini o congregazioni religiose, otto sono laici (insegnanti o dirigenti di un gruppo spirituale) e «in due casi non è ancora in grado di determinare il loro legame con l’istituzione», ha detto l’avvocato Luis Torres, direttore dell’Unità specializzata diritti umani, violenza di genere e reati sessuali della Fiscalia Nazionale cilena.

Sono, in totale, 158 le persone legate alla Chiesa cattolica in Cile accusate di abusi sessuali dal 2001: in 74 casi si tratta di vescovi o sacerdoti diocesani, in 65 di appartenenti a ordini o congregazioni religiose; ci sono anche 10 laici e 5 persone indagate per copertura o per aver ostacolato la giustizia. Le vittime di abusi sono 267, tra cui 178 tra bambini e adolescenti e 31 adulti. I dati raccapriccianti sono stati diffusi 48 ore fa dal portavoce della Conferenza episcopale cilena, il diacono Jaime Coiro e dalla componente del Consiglio nazionale per la prevenzione degli abusi ed esperta in diritto canonico, Ana Maria Celis. In 58 casi, relativi a denunce precedenti alla riforma, non è stato possibile precisare l’età della vittima al momento dei fatti. Mentre 104 indagini sono ormai chiuse, ne restano ancora aperte 34. Tra le 104 chiuse, 23 sono terminate con una condanna. In un caso si è registrata un’assoluzione. In 4 casi si è deciso una sospensione condizionale del procedimento. In 43 la causa è stata archiviata.

«Questi dati ci chiamano a una riflessione mettendo in relazione i dati alle vittime. Abbiamo compreso che, al di là dei numeri, ciascuna di queste persone ha dovuto vivere un processo che è dolorosissimo. La tentazione sarebbe quella di restare alle cifre relative agli imputati, però la Chiesa ci chiede oggi di guardare in primo luogo alle vittime. Questa cifra ci scuote ed è quella che più ci preoccupa», ha detto Jaime Coiro annunciando che, dal 30 luglio al 3 agosto, si terrà un’assemblea plenaria straordinaria della Conferenza episcopale cilena, per riflettere sull’attuale situazione della Chiesa cilena, alla luce del recente incontro dei vescovi con papa Francesco.

La lotta di Hatidža e delle madri di Srebrenica e Žepa

epa06881115 People attend the 23rd remembrance of the genocide in Srebrenica in The Hague, The Netherlands, 11 July 2018. Bosnian Serb soldiers massacred 8,372 Bosnian Muslim men after capturing the former Bosnian Muslim enclave in Srebrenica on 11 July 1995 during the war in Bosnia and Herzegovina from 1992 to 1995. EPA/BART MAAT

Hatidža Mehmedović se n’è andata il 22 luglio 2018, ventitré anni dopo. E pochi spiccioli di giorni. Il marito di Hatidža, i suoi due figli maschi – di 18 e 21 anni – e una dozzina di altri parenti hanno trovato la morte anche loro in luglio, a Srebrenica. Lì erano rimasti tutti per oltre tre anni, assediati dalla soldataglia serbo-bosniaca al comando del generale, capo di stato maggiore e criminale di guerra Ratko Mladić – ergastolo in primo grado emesso dal Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia il 22 novembre 2017 – e dalla marmaglia sanguinaria paramilitare serba, greca, russa e dio solo sa proveniente da quanti altri Paesi d’Europa. Tutti a bagnarsi la bocca col sangue dei musulmani bosniaci di Srebrenica. Tutti a saccheggiare il saccheggiabile. Perché la guerra, a ogni livello, non è mai qualcosa che si fa per una ragione “alta”: la si fa per ebrezza di dominio e per arricchimento.

Tanti anni fa Hatidža mi aveva accolto nella sua casa di Srebrenica, dove era tornata a vivere da poco. Era l’inverno del 2004 e davanti alla stufa nel salottino al primo piano parlavamo sorseggiando caffè e lacrime. Il suo sorriso carico di dolore, i suoi occhi arrossati e stanchi, ma mai domi, mi sono rimasti dentro da allora, per sempre. Come i suoi abbracci di sorella maggiore. Ogni volta che ci incontravamo, a Srebrenica come altrove, le sue strette erano cariche di affetto e di sincerità, dense di vita e di speranza. Quella di recuperare i corpi del marito e dei figli ammazzati e fatti scomparire nelle fosse comuni tra il 12 e il 15 luglio 1995 a Srebrenica.

Forse ha ragione chi dice che le donne di Srebrenica sono morte che camminano, il cui unico scopo è quello di ritrovare le ossa dei propri cari – 10.701 persone trucidate barbaramente a pochi passi dai caschi blu olandesi inviati dall’Onu, tutti sordi, ciechi e muti – e ridare loro un nome, prima di calarle nella terra cruda e rossa di Potočari.

«Non c’è inizio né fine alla mia storia» aveva cominciato a raccontare con la voce roca, forte, sollecitata da una domanda qualsiasi, quel giorno freddo nella sua casa a Srebrenica, mentre i ciocchi di legna scoppiettavano nel fuoco. «Ricordo tutto come fosse ieri. La nostra agonia vera e propria, dopo tre anni d’assedio, si può dire che sia cominciata il 6 luglio, quando iniziò l’attacco decisivo dei corpi militari serbo-bosniaci, quattro dei quali provenivano dalla Serbia. L’11 luglio arrivò mio figlio maggiore, Jasmin; era nato nel 1974 e faceva parte della difesa di Srebrenica. Disse a me, a suo fratello minore e a mio marito di nasconderci da qualche parte, perché ormai eravamo vicini alla caduta dell’enclave. Quella mattina erano state fatte circolare molte voci. Noi vivevamo in un paesino in collina e le notizie per tre anni c’erano arrivate sempre attraverso le parole dello stesso giornalista, che tutte le mattine ascoltavamo parlare alla radio. Ma quel giorno la voce che usciva dalla mia radiolina era diversa: sentii parlare un altro giornalista, diceva che a Srebrenica la situazione si stava normalizzando. Era una voce sconosciuta. Durante il pomeriggio intuimmo invece che l’enclave era caduta in mano ai serbi. La conferma l’avemmo solo intorno alle 19.30, quando decisi di uscire per sincerarmi di come stessero realmente le cose. Fu allora che vidi arrivare le colonne di profughi. Anche noi dovemmo partire: abbandonammo le nostre case, tutto quello che avevamo. Ma di questo, devo dire la verità, non mi preoccupavo, perché non sapevo che cosa mi stesse aspettando. Se avessi potuto intuire che cosa sarebbe accaduto, non mi sarei mai separata dai miei figli».

Il fiume in piena delle parole di Hatidža si placava per un attimo: uno spazio infinitesimale. Poi ecco scoperchiarsi la pentola del dolore, il vaso di Pandora che nessuno penserebbe mai di poter portare dentro, come un macigno non scalfibile dal martello del tempo, riuscendo a sopravvivere.

«Mio figlio maggiore disse che l’Unprofor (la Forza di protezione delle Nazioni unite, ndr) a Srebrenica aveva dato l’ordine a chiunque fosse in grado di camminare di andare via per i boschi, di scappare per cercare di salvarsi la vita. Questo valeva per gli uomini. Le donne, i bambini e gli anziani, chiunque non se la sentisse di affrontare un viaggio a piedi, potevano andare alla base degli olandesi, a Potočari. Facemmo così: dovetti salutare i miei cari nella nostra casa vicina al bosco; è stato molto doloroso lasciarli andare. Ma non pensavo che non li avrei mai più rivisti. Se lo avessi saputo sarei andata con loro a guardare in faccia la morte. Mi ricordo di mio figlio minore: aveva 18 anni e non riusciva a staccarsi da me, né io da lui. Cercavamo di separarci ma non ce la facevamo. Lui mi diceva: “Vai mamma, vai, voglio solo dimenticare da quale parte sei andata”. Poi ho cominciato a camminare e ogni volta che mi giravo lo vedevo coprirsi il volto con le mani. Il viaggio fino a Potočari, a piedi, è durato un’eternità, anche se si trattava solo di una decina di chilometri dalla nostra casa. Arrivammo soltanto la sera tardi. La colonna era lunga. Durante il viaggio fummo colpiti dalle granate: sapevano dove stavamo passando e ci sparavano addosso. Giungemmo a Potočari a mezzanotte: era tutto pieno, tutto pieno. Pieno di bambini, di malati, di anziani…».

Questi e tanti altri ricordi di Hatidža sono contenuti nel mio libro più importante, Srebrenica. I giorni della vergogna. Hatidža lo conservava nella sua libreria. Ne aveva la prima edizione ed era stato quello il contenitore più importante delle sue parole, finché anche alcuni documentaristi non si accorsero di lei e la aiutarono, ci aiutarono, a far sentire la sua voce in tutto il mondo.

Hatidža circa un anno fa ha scoperto d’essere malata. Ha lottato come ha potuto a Sarajevo, assistita da una sanità distrutta scientificamente dalla politica per favorire le cliniche private, in un Paese in cui avere cure pubbliche è ormai una chimera. Con la dignità e la riservatezza di sempre ha voluto affrontare da sola quel male lasciando ad altre compagne di viaggio il compito di guidare l’associazione che era la sua vita, quella delle Madri di Srebrenica e Žepa.

Quando ha capito che il male aveva avuto la meglio sui suoi sforzi e sul suo amore per la vita, ha deciso di ritirarsi nella sua Srebrenica per morire con il cielo della sua cittadina negli occhi. Per stare più vicino possibile agli amori della sua vita, quegli amori che avrebbe sognato la rendessero nonna, e che invece sono svaniti nella terra di una fossa comune come migliaia di altri innocenti.

Hatidža ha lottato per ventitré anni in nome della verità e della giustizia. Ha lottato per ventitré anni per sopravvivere alla morte dei suoi figli senza impazzire. Ha combattuto per non dimenticare neanche per un secondo di avere avuto una famiglia. E contro gli sguardi cattivi. Quelli degli stessi assassini dei suoi cari e dei loro fiancheggiatori, tornati a vivere a Srebrenica impunemente, senza che la giustizia si sia mai voluta accorgere di loro.

Oggi è necessario che tutte le persone di buona volontà si facciano carico del bagaglio pesante rappresentato dalla eredità di Hatidža, almeno di un pezzetto, per fare in modo che la sua lotta per la giustizia e la verità non si fermi, non svanisca mai. In pochi si sono accorti della sua esistenza. In pochi egualmente della sua scomparsa. Ma dal 22 luglio – ve lo assicuro e lo metto qui per iscritto – il mondo in cui viviamo è molto più povero e ha molte meno speranza di farcela a superare la tempesta nera e cupa che si addensa sulle nostre teste. Capire chi fosse Hatidža e imparare dal suo coraggio può servire a fortificarci e a dare una speranza. A non smettere mai di lottare per la verità, la giustizia e un mondo finalmente migliore.

Tocca i diritti chi non sa immaginarne di nuovi

Matteo Salvini (S), ministro dell'Interno, con Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia e della Disabilità, durante la discussione e la votazione di fiducia al Governo Conte alla Camera dei Deputati, Roma, 6 giugno 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Pronti per il nuovo giro? Finito il tour promozionale sul crocifisso (finito male, bisogna riconoscere, se è riuscito a fare incazzare Famiglia Cristiana e Avvenire nel giro di qualche ora) ora è il turno del ministro Fontana (uno di quelli che le crociate in confronto sono avanguardia) che esce dalla coltre dell’anonimato e dell’inerzia per dirci che difenderà le famiglie normali composte da una mamma e un papà (esattamente sarebbe da capire da chi: chi mette in pericolo le famiglie con una mamma e un papà?) e annuncia uno stop ai riconoscimenti dei figli delle coppie gay.

Chiariamoci subito: la dichiarazione del ministro Fontana zampilla di ignoranza legislativa da ogni poro. Non è una novità, del resto. Il governo non può annullare gli atti di nascita con due mamme e due papà. Nemmeno questo governo di bulli che credono di essere protagonisti in un gioco di ruolo di sovrani, sudditi, elfi e favole. Il governo non ha nessun potere sugli atti di stato civile: per quelli esiste il tribunale ordinario su richiesta degli interessati o per intervento della Procura (che risponde alle legge, mica alla politica). Già una volta il Consiglio di Stato è intervenuto sul punto chiarendo le funzioni e le responsabilità. Oltre a questo la giurisprudenza (dettata da Corte di Cassazione e Corti d’Appello) ha già chiarito da tempo che al di là di come un bambino nasca è l’interesse del minore a dover essere preservato e quello non dipende certo dall’orientamento sessuale dei genitori.

Intanto una domanda: dov’è tutto questo nel contratto di governo? Però l’ennesima sparata del governo propone un tema su cui riflettere: da sempre chi non è in grado di elaborare nuovi diritti o reali evoluzioni dei diritti in vigore si rifugia nella cancellazione di diritti già assodati per fingere una certa laboriosità. È patetico ma evidentemente funziona: sgomberare un campo rom, dare addosso ai gay (come prima ai terroni o ai negri) rilascia una subitanea sensazione di essersi liberati di un peso che nel tempo si rivelerà falsa. Un governo viene giudicato per i diritti che riesce a immaginare o a declinare in leggi e non per il suo aspetto repressivo. Può funzionare per la propaganda, certo, ma è un entusiasmo che alla lunga non incide nell’innalzamento della qualità delle vite dei cittadini. Potranno continuare a demolire, martellare, sputare ma verrà il giorno che le famiglie normali di una mamma e un papà (oppure i non rom, oppure i bianchi disoccupati, oppure i cattolici in cassa integrazione) andranno a bussare alla porta del governo chiedendo cosa ci sia davvero di nuovo per loro. E lì non serviranno a niente le barche alla deriva in mezzo al Mediterraneo, non basteranno i crocifissi appesi dappertutto, non funzioneranno i bastoni messi tra le ruote alle scelte degli altri. Non ci si sfama così. No.

Buon venerdì.

Bye bye, Italia

Group of people standing in queue at boarding gate. Focus on female hand holding suitcase handle.

Vi ricordate le dichiarazioni dell’ex ministro del Lavoro Giuliano Poletti? «Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». Poletti parlava dei giovani italiani che erano emigrati all’estero. Era il dicembre del 2016. E ora? Il nuovo governo gialloverde che fa? Nulla. Tranne riempirsi la bocca di slogan. E dichiarare la guerra ai migranti che arrivano nel nostro Paese. La solita vecchia tattica: trovare un nemico comune su cui scaricare le responsabilità di un fallimento collettivo, per distogliere l’attenzione. Vediamo però nel dettaglio quella che è una ferita lacerante che ci riguarda tutti, sia chi, come me, dall’Italia se n’è andato, sia chi ha deciso di rimanerci. Secondo l’Istat e la Fondazione Migrantes, nel 2016 sono stati 124mila gli italiani che sono emigrati, la maggior parte under 35. Un dato in aumento rispetto agli anni precedenti: nel 2013 erano 94mila. Ma confrontando le cancellazioni anagrafiche nei Comuni italiani e le registrazioni nei Paesi di destinazione, il centro studi Idos sostiene che i dati dell’Istat dovrebbero essere aumentati di almeno 2,5 volte: nel 2016 sarebbero dunque 285mila i trasferimenti all’estero, dati comparabili a quelli del dopoguerra. Secondo l’Ocse, l’Italia è l’ottavo tra i Paesi di nuova emigrazione e solo un terzo di chi lascia il nostro Paese ci ritorna. Tutto questo mentre i migranti sbarcati in Italia sono stati molti meno: 181mila nel 2016, 119mila nel 2017. Altro che l’invasione di cui parlano Salvini e soci. Se ne va, in sintesi, più gente di quella che arriva via mare: l’Istat prevede che nel 2065 l’Italia avrà solo 54,1 milioni di abitanti. I numeri sono allarmanti. L’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire)…

L’articolo di Steven Forti prosegue su Left in edicola


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Armi di distrazione di massa

Gli immigrati che arrivano in Italia via mare sono molti meno degli italiani che emigrano. Lo abbiamo documentato e scritto molte volte. Ma il governo legastellato, con i ministri Salvini e Toninelli in pole position continua a gridare all’invasione. Che non c’è. Chiamando in causa l’insicurezza percepita dagli italiani, dacché le statistiche che riguardano la criminalità parlano di omicidi in calo (e non solo). La propaganda nazionalista e xenofoba se ne infischia della realtà, come si legge sui giornali, sui social e come vediamo in tv. Lo spauracchio di una inesistente invasione continua ad essere usato dal governo italiano come arma di distrazione di massa. Per cui crediamo di vedere ciò che non c’è (sbarchi in massa di immigrati) e non vediamo cosa invece c’è: lo stillicidio quotidiano di giovani italiani costretti ad andare all’estero in cerca di lavoro e di opportunità che nel Bel Paese non trovano. Nelle pagine che seguono potrete farvi direttamente un’idea dell’entità del fenomeno trovando mappe e leggendo approfondimenti di studiosi, a partire dal J’accuse del ricercatore e giornalista Steven Forti, emigrato a Barcellona. Dopo aver stigmatizzato l’inerzia mortale del governo Gentiloni e le improvvide uscite dell’allora ministro Poletti, ora denuncia l’immobilismo di quello che si è auto proclamato governo del cambiamento.

Lascio a Steven Forti e a Shady Hamadi, italiano che un anno fa si è trasferito a Londra, ma anche a Matteo Guidi che vive e lavora a Bruxelles il racconto di quel che sta accadendo. Così come vi invito a leggere la lettera aperta di Vittorio Emiliani al presidente della Repubblica che traccia un quadro dettagliatissimo, cifre alla mano, delle fake news propalate da uomini di governo sugli sbarchi e sulla sicurezza. Qui mi preme rimarcare quanto il cosiddetto popolo invocato da Salvini (e che in realtà è composto solo da chi ha votato Lega e M5s) abbia la memoria corta riguardo alla storia italiana contrassegnata da molteplici e massicce ondate di emigrazione. In primis da sud a nord nel dopoguerra per andare a lavorare nelle fabbriche in cui i meridionali, venuti dalla campagna, erano tacciati di essere pigri e lavativi. Pregiudizi simili e umiliazioni se possibile anche peggiori aspettavano i migranti italiani che approdavano Oltreoceano, ad Ellis island, “l’isola delle lacrime”, dove dopo un viaggio devastante i nostri connazionali venivano sottoposti a umilianti accertamenti e, spesso, respinti. A chi riusciva a sbarcare non andava troppo meglio considerando le violente e odiose discriminazioni che avrebbero dovuto affrontare negli Usa dove la libertà era solo una immobile statua.

In tempi in cui il ministro dell’Interno (che vorrebbe imporre crocifissi in ogni palazzo pubblico) sposa tesi negazioniste sui lager per migranti in Libia, giova ricordare che proprio in Libia i fascisti si resero responsabili di un genocidio, e che in Etiopia ed Eritrea il colonialismo italiano, iniziato ancor prima del regime, è reo di crimini atroci. In questo numero, mentre Stefano Galieni torna a fare il quadro delle agghiaccianti violenze a cui sono sottoposti in Libia i migranti respinti dall’Italia, la storica Valeria Deplano riaccende l’attenzione sulle pagine più buie della nostra storia, quelle appunto del colonialismo italiano in Africa. Parlando di italiani migranti, bisogna ricordare anche che allora moltissimi emigrarono in Etiopia. Durante il regime, l’Africa era considerata un paradiso per migranti, specie per quelli alla disperata ricerca di un posto al sole. Siamo stati noi ad invadere l’Africa, in modo violento. È la storia dei petits blancs. Fra loro anche operai italiani illusi di poter lavorare nelle infrastrutture e che ben presto il regime sostituì con mano d’opera locale sfruttata a livello di schiavismo.

Tutto il periodo coloniale fu contrassegnato dall’emigrazione forzata delle donne. Benito Mussolini, ossessionato dalla purezza della razza, già nel discorso del 1927 alla Camera disse che per il bene dei funzionari e della patria le mogli dovevano raggiungere i mariti, perché la donna italiana doveva essere prima di tutto madre (l’illusione era anche fermare la rivolta degli indigeni che si erano ribellati alle violenze e agli stupri dei coloni). Sono pagine terribili che dovremmo ricordare. Sono pagine del passato che ci parlano di fascismo e di emigrazione. Solo assonanze beninteso col presente, ma sulle quali val la pena di riflettere.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Più spazio ai cattolici nei consultori e sepoltura per i feti abortiti, Verona vuole tornare al medioevo

Uno sfregio alla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza nel quarantesimo anniversario della sua entrata in vigore. Il Consiglio comunale di Verona, città in cui fino a qualche settimana fa era vicesindaco l’attuale ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, discute il 26 luglio due mozioni entrambe proposte dalla Lega Nord contro la libertà di scelta e l’autodeterminazione delle donne. La mozione n. 434 intende dare ampio spazio e finanziamenti alle associazioni cattoliche che hanno come obiettivo quello di contrastare l’aborto libero e gratuito. Vuole poi proclamare ufficialmente Verona “città a favore della vita”. La mozione n. 441 vuole sistematizzare la “sepoltura dei bambini mai nati”, anche senza il consenso della donna coinvolta. Per questo motivo l’associazione Non una dimeno su proposta del circolo di Verona ha deciso di intervenire a livello nazionale con due campagne di sostegno alla autodeterminazione della donna perché «sull’aborto la prima e ultima parola è delle donne». La prima, sui social con l’hashtag #194nonunpassoindietro è rappresentata da un tweetbombing tra le 16 e le 18 durante l’orario di discussione delle due mozioni in consiglio comunale. La seconda, in ogni momento con un mailbombing a cui chiunque può partecipare inviando sia personalmente che come movimenti e collettivi al sindaco e al consiglio comunale il testo qui di seguito:

Oggetto della mail: La 194 non si tocca!

Al Sindaco di Verona, Federico Sboarina
al Presidente del Consiglio comunale Ciro Maschio
e a tutte/i le/i consigliere/i

In quanto cittadina/o preoccupata/o per la deriva integralista che si sta imponendo in modo sempre più evidente a Verona, chiedo che il consiglio comunale non approvi le mozioni 434 e 441 che intendono ostacolare l’applicazione della legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza e l’autodeterminazione delle donne. La prima e l’ultima parola spetta alle donne, nessun passo indietro sulla 194!

#194nonunpassoindietro

Firma del collettivo o della persona

Indirizzi a cui inviare la mail:
[email protected][email protected][email protected]

Nelle cause del rancore c’è la soluzione, più che nella sconfitta dei rancorosi

Militanti al raduno della Lega a Pontida, 1 luglio 2018. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera ha scritto un interessante articolo sull’onda del rancore che starebbe attraversando il Paese e soffiando sulle vele delle forze populiste. Scrive De Rita«Il rancore è il lutto di quel che non è stato: nella vita individuale, nasce nelle tante persone che hanno perseguito e non ottenuto un proprio obiettivo di avanzamento e vivono quindi una frustrazione aperta, quasi contigua, al rancore; nella vita collettiva, nasce nei tanti gruppi sociali e centri d’opinione che vedono fermo l’ascensore sociale e bloccati tutti i meccanismi volti a più alti livelli di agiatezza e di prestigio sociale». E aggiunge che probabilmente dopo il rancore potrebbe sopraggiungere l’appiattimento come malattia.

L’interpretazione del momento attuale è indubbiamente alta e interessante e si aggiunge ai molti allarmi che di questi tempi stanno partorendo appelli in ogni dove. In molti ogni giorno cerchiamo di raccontare l’oscenità di un «ministro dell’Inferno» che ha deciso di incarnare (o simulare, meglio, altrimenti rischiamo di dargli perfino troppo credito) tutto ciò che il rancore ha seminato in questi anni: Lega e Movimento 5 stelle sono i locomotori di uno sdegno incattivito che troppo spesso trova nella demolizione dell’altro materia di primo conforto.

Confesso però di serbare un timore: il problema dell’Italia non è il Salvini di turno e nemmeno questo governo. Il problema dell’Italia è che anche chi sta dall’altra parte della barricata sembra più interessato ad abbattere il nemico piuttosto che a costruire una chiave collettiva di ricostruzione. Come già successe per Berlusconi, l’individuazione di un nemico riconoscibile, quasi iconico, evita la fatica (e la capacità) di voler capire cosa ci ha portato fino a qui. La perdita di fiducia nelle istituzioni, l’impoverimento generale, la sensazione di essere sudditi di pessimi regnanti, la presa di coscienza di un valore che viene assegnato alle persone in base alla loro produttività, l’abitudine di avere rappresentanti politici che curano gli interessi dei pochi piuttosto che dei molti e la finanziarizzazione delle persone sono temi che richiedono una soluzione che vada ben al di là dell’abbattimento del Salvini di turno. Se il rancore nasce dal mancato raggiungimento del livello minimo di dignità delle persone, non è solo cattivismo, populismo razzismo ma forse è anche la reazione a un malessere che andrebbe ascoltato e interpretato.

Se l’obiettivo è solo quello di eliminare i rancorosi sarà difficile ricostruire il tessuto sociale che qualche ministro sta giocando a strappare. Additare senza proporre una soluzione è troppo semplice e piuttosto elitario. Serve, per dirlo con una parola sola, un’opposizione che sia anche un’alternativa. Politica e culturale. E difficilmente mi viene da credere che sia la stessa classe dirigente, che ha guidato il Paese mentre covava tutto questo, a poter risolvere la questione. E su questo mi pare che siamo piuttosto indietro.

Buon giovedì.