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Verità e giustizia per Carlo, su Piazza Alimonda non è ancora stato detto tutto

Ridisegnato alla Garbatella il murale dedicato a Carlo Giuliani, il manifestante ucciso durante gli scontri al G8 di Genova nel luglio del 2001, e cancellato alcuni giorni fa dalla scalinata di via Cialdi. A realizzarlo ex novo, nella manifestazione "DeCore: i nostri muri parlano", gli attivisti di Casetta Rossa, del centro sociale La Strada e della comunità locale di Garbatella, Roma. 16 ottobre 2016

20 luglio 2001. Non si attenuano l’indignazione, la rabbia, la voglia di verità. È giusto indignarsi. Perché quando chi occupa un ruolo importante in una istituzione dello Stato si comporta e decide in maniera contraria alle regole e spesso anche alla decenza, quel comportamento non soltanto lede chi è oggetto di quelle decisioni ma offende e mina la credibilità della stessa istituzione. E contribuisce così al disfacimento della società.
È giusto arrabbiarsi. Perché sempre più spesso non solo quei comportamenti vengono giubilati, imitati, mai redarguiti, ma addirittura sono all’origine di nuove e in molti casi incomprensibili promozioni. È giusto pretendere verità. Perché solo attraverso di essa può ricostruirsi un vivere sociale rispettoso delle diversità. La triste e tragica vicenda del G8 di Genova 2001 e l’omicidio di Carlo sono pietre miliari e il principale sostegno di queste argomentazioni.

Il comportamento violento e in qualche caso persino criminale di reparti dei carabinieri (il duro giudizio è sorretto da quanto ha scritto la Corte di Cassazione genovese: «Cariche violente, indiscriminate e ingiustificate») è all’origine dei drammatici eventi di venerdì 20 luglio, che saranno la premessa di un comportamento altrettanto irresponsabile e criminoso di reparti della polizia, culminati con la “macelleria messicana” alla Diaz e le torture nella caserma di Bolzaneto. Ma se appartenenti alla polizia, dei gradi più alti, sono stati processati e condannati (anche se poi, alcuni, promossi!), nei confronti dei carabinieri non è stato aperto nessun procedimento: la quarta forza armata dello Stato, anche quando è impegnata (cioè sempre ormai) in azioni di ordine pubblico (cioè quasi sempre di repressione) è intoccabile a prescindere. Ed è questa condizione che rende difficile quel piano di riconciliazione invocato dal capo della polizia Gabrielli e che pure avrebbe una sua ragione.

A Carlo non viene concesso neppure un processo. Magistrati inadeguati archiviano in fretta il procedimento, basandosi sull’imbroglio di quattro periti che inventano, a dispetto delle evidenze filmiche e fotografiche, lo sparo per aria e la sfortunata deviazione verso il basso del proiettile da parte di un calcinaccio che vola verso la jeep. Lo sparo per aria accresce la validità della legittima difesa, mentre nessuno ha voluto tener conto che la pistola è già armata e puntata e che Carlo, a oltre quattro metri dalla jeep, raccoglie quell’estintore (lanciato pochi attimi prima da un altro manifestante) soltanto tre secondi prima della sparo! È il 2003, l’obiettivo è togliere di mezzo il fatto più grave di quelle giornate, per poter continuare a parlare per anni di «manifestanti violenti» e di «perquisizione legittima» (dopo le indecenti sentenze di primo grado nei processi Diaz e a venticinque manifestanti, la Cassazione ristabilirà un po’ di verità nel 2012). L’oscena amministrazione della giustizia nei confronti di Carlo non finisce qui.

Abbiamo tentato, per avere almeno la dignità di un processo, di affrontare una causa civile. E una delle questioni che abbiamo sollevato è l’atrocità del gesto compiuto da un carabiniere che spacca la fronte di Carlo con una sassata mentre è agonizzante, allo scopo di poter mettere in atto quello squallido tentativo di depistaggio (il vice questore Lauro che accusa un manifestante di aver ucciso Carlo con un sasso!). Fotografie e filmati non propongono equivoci sulla efferatezza del gesto, ma una indecorosa giudice civile ha dedicato al fatto due sole parole: pura congettura. Il 20 luglio non smetteremo di chiedere verità, e lo faremo come sempre in piazza Alimonda, pardon, in piazza Carlo Giuliani, come canta Alessio Lega!

L’appello di Giuliano Giuliani è stato pubblicato su Left del 20 luglio 2018


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Io non lo so se sono anormale o se mi si è bollito il cuore

Io non lo so se sono anormale o se mi si è bollito il cuore e non me ne sono accorto ma mi commuovo in modo indegno ogni volta che al supermercato incontro le coppie di anziani. Non tutti: mi fanno volare via quelli che si avvicinano al banco dell’ortofrutta e quasi vergognandosi, di soppiatto, rigirano la verdura sporgendo appena il naso per riconoscere qualche profumo di qualche altro tempo. Poi succede che se ne meraviglino, se scovano un goccio distillato della loro nostalgia, e se la scambiano con gli occhi felici di averci ritrovato dentro un momento che li fa arrossire.

Poi li incontri nella corsia della carne ed è tutto un bisbigliarsi del prezzo, delle porzioni troppo grosse e del colore che non gli sembra per niente naturale. Discutono, a volte, di qualcosa che è “di troppo”, con lei che ripete che no, non le serve niente, e lui che sceglie una guarnizione nuova per la moka come se fosse il quotidiano anello del loro quotidiano fidanzamento.

Oppure mi commuove la loro intelligenza collettiva alla cassa, con quel meccanismo oliato per anni mentre si muovono nel passaggio carrello-cassa-sacchetto con l’armonia di uno stormo pur essendo solo in due. La loro moltitudine è la quotidianità che è diventata un metronomo da cui non riescono ad andare fuori tempo.

Oggi mi è capitato di vederli anche all’auto. Un’auto piccola, dei tempi andati ma con una vivacità e perfezioni che scommetteresti l’abbiano restaurata prima di uscire. Lui come prima cosa la accende per farla trovare fresca alla moglie appena se ne torna dall’operazione di recupero della moneta del carrello. E poi partono. E chissà che si dicono. Chissà che vanno a fare.

Gli anziani innamorati li incontri per caso e sono sempre il primo capitolo di un romanzo che immagini bellissimo. E ho pensato, ieri, che forse in mezzo alla melma e alla disumanizzazione di questi giorni dovremo ripeterci tutti i giorni che c’è in giro tanta bellezza: bellezza fragile, che non ha niente a che vedere con gli urli e con l’odio, e che forse varrebbe la pena ripartire da qui, da quello che riusciamo a essere (e che continuiamo ad essere) al di fuori del digrignar di denti che qualcuno vorrebbe imporci. C’è una gentilezza rivoluzionaria in giro, se hai occhi per vederla. E forse abbiamo il compito di raccontarla, preservarla, respirarla.

Buon venerdì.

Gli antiglobalisti a targhe alterne

Luigi Di Maio, vice presidente del Consiglio e ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, durante l'assemblea annuale della Coldiretti, Palazzo Rospigliosi, Roma, 13 luglio 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Il Movimento 5 stelle contrasterà quei trattati che l’Unione europea sta negoziando nel mondo (come il Ttip e il Ceta) e che mettono a rischio sovranità nazionale, diritti dei lavoratori, la preservazione dell’ambiente, della biodiversità e delle risorse territoriali». Non si tratta di un brandello di orazione pronunciata da un candidato pentastellato qualsiasi, bensì dell’incipit del programma Esteri del partito fondato da Grillo.

Un impegno forte, un “no” secco agli accordi di libero scambio elaborati in via riservata da tecnici dei Paesi coinvolti, che scavalcano le prerogative degli Stati abbassando l’asticella dei diritti dei cittadini. Ora, mentre i negoziati per il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che avrebbe dovuto agevolare il commercio tra Ue e Usa) sono praticamente falliti un paio di anni fa – grazie ad una sollevazione di associazioni e cittadini -, l’Accordo economico e commerciale globale tra Europa e Canada detto Ceta, è entrato in vigore in via provvisoria a settembre 2017, in attesa della ratifica dei Parlamenti nazionali. E Luigi Di Maio ha già annunciato provvedimenti nei confronti di chi non si allinea.

«Se anche uno solo dei funzionari italiani che rappresentano l’Italia all’estero continuerà a difendere trattati scellerati come il Ceta sarà rimosso», tuonava il 13 luglio il titolare dei dicasteri del Lavoro e Sviluppo economico davanti all’assemblea Coldiretti fortemente contraria al trattato. Un impegno coerente, verrebbe da dire. Se non fosse che, solamente una settimana prima, l’esecutivo di cui Di Maio è anche vicepremier aveva dato il nulla osta a un altro accordo di libero scambio. Un sosia del Ttip e del Ceta. Firmato il 17 luglio a Tokyo. Negoziato esattamente con lo stesso iter. E dotato di simili controindicazioni.

Si chiama Jefta, e ad annunciare il semaforo verde della compagine giallo-nera è stata Tiziana Beghin, eurodeputata a 5 stelle, con un video sul blog del Movimento. «Il governo …

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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Dai social forum ai social media

Genova ha cambiato la vita di molti anche se a Carlo Giuliani l’ha tolta. «La repressione ha colpito al cuore la protesta, anche i gruppi più notoriamente pacifisti». Bisognava costruire uno “choc di cittadinanza”, con la violenza, i divieti e la narrazione mediatica per traumatizzare una cittadinanza trasversale alle generazioni e alle appartenenze», osserva Maria Luisa Menegatto, psicologa sociale e autrice con Adriano Zamperini di Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico (Liguori).
Un altro mondo è possibile, si usava dire. L’Italia fu uno degli epicentri di quella stagione, ben oltre le giornate del luglio 2001 quando nei «luoghi dell’incomprensione, del dialogo impossibile tra gente e sfollagente, canti e mercanti, visi e divise» centinaia di migliaia di attivisti contestavano i vertici della globalizzazione liberista (Stefano Tassinari, I segni sulla pelle, Tropea 2003).
«Nei sondaggi tra il 2000 e il 2005 si chiedeva: pensate che il movimento abbia buone ragioni? Bene, il 60-70% era d’accordo», ricorda a Left, Donatella Della Porta, studiosa dei movimenti sociali, docente alla Scuola normale superiore di Firenze. Durò fino alla crisi, globale anche quella.
«A quel tempo frequentavo anche i Ds – dice Raffaella Bolini, già responsabile internazionale dell’Arci – e davvero credevano che la globalizzazione ci avrebbe reso molto ricchi, che avremmo venduto macchine alla Cina. La precarietà la chiamavano flessibilità».
A seguire le piste segnate da quel soggetto multiforme si può scoprire che…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola


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Internazionalismo o barbarie

Salvini e Trump “no global”, titolano alcuni giornali parlando dell’imposizione di dazi e frontiere che caratterizza la politica neo nazionalista Usa e la continua minaccia del ministro dell’Interno italiano di chiudere i porti, anche se questo implica più di morti nel Mediterraneo. Ma come è possibile definire “no global” politiche così disumane e criminali? Siamo davanti a una palese falsificazione degli slogan e dei contenuti del World social forum che, invece, era internazionalista, antirazzista, progressista, anti liberista, e proponeva un modo diverso di stare insieme facendo rete, basato sullo scambio culturale e non sulla arida logica del profitto.

Intervistata dal Corsera, Naomi Klein è arrivata a dire che chi si definisce no global per il suo libro No logo, non l’ha proprio capito, visto che lei non ha mai sostenuto una chiusura nazionalista, ma l’apertura verso una comunità politica mondiale. A bene vedere, se anni fa il cosiddetto movimento “no global” parlava di dazi lo faceva per proteggere le produzioni locali in Paesi in via di sviluppo. Non come fa oggi Trump, lanciandosi in difesa del profitto made in Usa, al grido «America first!». (Proponendo peraltro una ricetta anti storica e destinata al fallimento, come scrive il Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz nella nuova edizione Einaudi del suo libro uscito nel 2002, La globalizzazione e i suoi oppositori). Più trumpista di Trump, Salvini si presenta addirittura nelle vesti di (improbabile) capo popolo contro le multinazionali, pur avendo la Lega firmato tutti i provvedimenti neoliberisti dei governi di centrodestra. Sovranista come Farage, Le Pen, Orban e i leader ultra conservatori del gruppo di Visegrád, il ministro leghista si lancia nella difesa del sacro suolo.

«Porti aperti» e «No borders» sono, invece, i messaggi della manifestazione che ha pacificamente invaso Ventimiglia la settimana scorsa. Nella scia di tante altre manifestazioni “no global” e di sinistra che si sono passate il testimone della lotta anticapitalista negli ultimi vent’anni. Fin dai suoi esordi nel 1999 a Seattle il movimento altermondialista (come si diceva allora) ha promosso un progetto di cambiamento che guarda al futuro, che parla di un altro mondo possibile in cui non sia l’un per cento ricchissimo della popolazione a dominare e schiacciare il resto del mondo. Quel messaggio nella bottiglia partito da Seattle approdò a Genova e Porto Alegre nel 2001 e a Firenze nel 2002. Contagiando poi la Spagna dove scoppiò la rivolta dei giovani Indignados e perfino New York con il movimento Occupy Wall street. Dopo la repressione violenta subita in Italia, qui da noi quella lotta si è rifugiata in singoli territori oltraggiati da progetti di multinazionali che impattano fortemente sull’ambiente e sulla salute degli abitanti; pensiamo per esempio ai No Tav in Val di Susa e ai No Tap e No Tubo nel Sud d’Italia e sugli Appennini. Non c’è più la partecipazione oceanica di allora, ma quei semi di pensiero e di rivolta hanno continuato a germogliare in Italia e ancor più altrove. (Anche nella fugace stagione delle primavere arabe). Ma soprattutto molti contenuti dei social forum oggi appaiono più attuali che mai.

A cominciare dalla lotta alla discriminazione, contro le disuguaglianze, contro le guerre, per una società più giusta e aperta, contro gli effetti della finanziarizzazione dell’economia e i sistemi fiscali che la favoriscono, contro il predominio dell’ideologia neoliberista in politica, contro lo strapotere di colossi economici occidentali e orientali che depredano l’Africa costringendo la popolazione locale ad emigrare. Il sovranismo ha le armi spuntate contro tutto questo. La globalizzazione, nel bene e nel male è andata molto avanti. Anche perché, a bene vedere, è nata addirittura due secoli fa. Impossibile tornare indietro. Impossibile non vedere la forte interrelazione che c’è fra tutti Paesi. La soluzione non si trova rifugiandosi anacronisticamente e regressivamente in piccole patrie chiuse come monadi. Bisogna far sì che tutti possano avere accesso ai vantaggi della globalizzazione, occorre fare in modo che il cosmopolitismo non sia il privilegio di pochi. E soprattutto bisogna riuscire a governare i processi di globalizzazione in modo che non siano i Paesi più poveri a farne le spese in termini di sfruttamento di persone e di risorse. Ma per combattere le disuguaglianze serve una sinistra che sappia fare proprie le istanze dei movimenti. Che recuperi il voto di sinistra finito nell’astensione e nella fallace protesta, riempiendo il vuoto lasciato dal centrosinistra che ha rinunciato alla lotta per l’eguaglianza e alla difesa del welfare, che ha abbandonato un impegno forte per la giustizia sociale, difendendo solo i privilegi delle élite.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Avevamo ragione noi

** RETRANSMITTING TO CORRECT TO SIXTH YEAR OF WORLD SOCIAL FORUM NOT FOURTH ** Venezuelan social activists Maikol Echenique, 20, right, and Jorge Gaitano, 31, paint a mural for the upcoming World Social Forum in Caracas, Venezuela, Thursday, Jan. 19, 2006. Caracas is one of several cities hosting the sixth World Social Forum, from Jan. 24-29, which was first held in Brazil in 2001 and coincides each year with the market-friendly World Economic Forum of national leaders in Davos, Switzerland. (AP Photo/Leslie Mazoch)

Ero sulla trentina, quando esplose a Seattle il movimento chiamato “no global”, e avevo passato il decennio precedente a cercare, attorno a me, i segni di una stagione di impegno e di passione politica diffusa che in fondo, nella mia provincia estrema, non avevo mai visto. Quando arrivarono le notizie da Seattle, fu come una risorgenza: stavolta era nel nostro Nord del mondo la scintilla della rivolta, in cui si tornava finalmente ad affermare che “Un altro mondo è possibile”. E allora, l’anno seguente, nel 2001, via a Praga, per il vertice del Fondo monetario internazionale, e poi la settimana di Genova, per seguire dibattiti, incontrare persone, prendersi le strade.

In questi diciassette anni non sono mai mancato, il 20 luglio, da Genova, da piazza Alimonda, a tener traccia della centralità di quell’evento per le nostre vite, per ricordare, certo, ma soprattutto con la speranza di tener vivo quel fuoco per trasmetterlo e aprire un futuro. Ma che cosa è restato di quel movimento, nel corpo sussultante di questa società?

Poco e niente, verrebbe da dire al mio sguardo atrabiliare, appesantito dalle forche caudine della dittatura finanziaria da una parte, e della risposta reazionaria sovranista dall’altra. Ma la talpa scava, lo sappiamo, anche nei momenti più bui la talpa scava, e occorre vederne la direzione, attendendo che torni alla luce. Perché comunque, quella presa di coscienza epocale di cui Genova segnò il momento più intenso (ne fu Evento, direbbe Badiou), ha segnato un discrimine: tanto che nemmeno le parole d’ordine del sovranismo sarebbero pensabili, senza che certe idee “no global” fossero diventati luoghi comuni (tra i ragazzi a scuola, per esempio, sono luoghi comuni lo strapotere delle multinazionali, o delle banche).

Quelle idee sono state pervertite e disseccate al sole nero della reazione fascista, esattamente come il fascismo nacque dalla perversione del marxismo. Non stiamo vivendo lo stesso passaggio di quando il nazionalismo dei Corradini, progenitore del fascismo, si appropriò delle categorie di “borghesi” e “proletari”, applicandole alle nazioni, invece che alle classi? Ecco, oggi, al posto dei Corradini, ci sono nani del pensiero come Fusaro che compiono la stessa operazione. Dimenticandosi che strappare la lezione marxiana all’internazionalismo è come dirsi cristiani senza credere in Dio (cosa che, comunque, ha ben più senso).

Il movimento di Genova, invece, era meravigliosamente internazionalista. Ed è questo ciò di cui oggi sento maggiormente la mancanza. La capacità di considerare le questioni nella prospettiva più ampia, con il coraggio della complessità, cosa che sfugge ai semplificatori (del resto tra i vizi che Gobetti attribuiva endemicamente al nostro Paese, alla sua autobiografia sfociata nel fascismo, c’era proprio quella di ricercare scorciatoie). E questo internazionalismo si accompagnava a una messa in discussione radicale delle forme della rappresentazione politica, prima ancora che della rappresentanza. Il movimento proponeva un percorso dove anime diverse condividevano pratiche diverse, che indicavano una via d’uscita – purtroppo non colta da nessuno – fuori dalle categorie e dalle logiche novecentesche.

Era, di fatto, un movimento intimamente libertario, nella sua reticolarità e orizzontalità, nelle pratiche consensuali, nell’accoglimento delle differenze come ragion d’essere stessa di una pratica comune. Fu anzi l’oscuramento di quella natura eterogenea, polimorfa e irriducibile, e il riformarsi di logiche egemoniche interne, gruppi e gruppetti, uno dei motivi principali del declino di quell’esperienza e della morte per soffocamento del Social forum. Gli Indignados, Occupy e via dicendo sono stati movimenti che nascono recuperando le istanze di quel movimento, una democrazia radicale che, come ricorda David Graeber, è una pratica meticcia e egualitaria, che nasce nelle frontiere. E del resto, quando il movimento di Occupy contrapponeva il 99% all’1%, non faceva che riprendere uno slogan del movimento di Genova, focalizzando lo strettissimo nodo – di classe – tra potere del capitale, nell’epoca dell’egemonia del capitale – finanziario, e potere politico.

Del resto, quanti negli anni Novanta avevano coscienza di quella grande trasformazione che oggi, sulla scia di Luciano Gallino, abbiamo imparato a nominare “finanzcapitalismo”? Io no di certo, e fu merito di quel movimento se cominciai a rendermi conto di quel passaggio storico. E, allo stesso modo, quando chiedevamo giustizia sociale mondiale, abolizione del debito estero, non stavamo parlando di noi, del nostro futuro, dell’esodo di persone costrette a lasciare le proprie terre? È chiaro come il sole, avevamo ragione noi. Si tratta di rivendicare quel movimento.

Se vogliamo costruire una nuova forma politica che possa fare qualche opposizione sensata al sovranismo, è da lì che dobbiamo ripartire. O Genova, o barbarie.

 

L’articolo di Marco Rovelli è tratto da Left del 20 luglio 2018


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Sfratto di via Scorticabove, lettera aperta della comunità sudanese alla sindaca Raggi

Il 5 luglio la nostra comunità sudanese di via Scorticabove, ha subito un improvviso e violento sfratto. Dall’oggi al domani, dopo ben tredici anni, un’intera comunità è stata messa in mezzo a una strada, in una condizione di estrema precarietà e pericoli da cui era, da anni, finalmente uscita. In questo modo si intende interrompere un importante processo di autonomia, auto-organizzazione e autogestione iniziato nel 2005 presso l’Hotel Africa, costringendo la comunità a disgregarsi. Negli anni infatti, la nostra comunità sudanese, da un momento iniziale in cui ha ricevuto assistenza, è passata quasi subito ad una fase di semi autonomia, raggiungendo, ormai da molti anni, un sistema esemplare di autonomia e autorganizzazione. La comunità ha gestito a sua volta e in molte occasioni, l’accoglienza di altre persone richiedenti asilo e protezione umanitaria, collaborando attivamente con le Istituzioni, facendosi carico di molte situazioni dove il Comune stesso non arrivava a rispondere, attivando un circuito di mutuo aiuto e di solidarietà nei confronti delle persone appena arrivate che necessitavano di sostegno, accoglienza e assistenza nel superamento dei traumi per il vissuto da cui provenivano, accompagnandoli nella ricerca del lavoro e nell’iter burocratico per il riconoscimento dello status di rifugiato, sopperendo ad un vuoto istituzionale.

La comunità rappresenta una realtà fondamentale, da prendere come esempio e valorizzare: il processo di integrazione, il passaggio dall’accoglienza all’ autorganizzazione, sono elementi fondamentali di un percorso volto all’integrazione e all’autonomia, come ribadito dalle istituzioni. All’interno di questa contraddizione troviamo una Giunta che non considera nessuna soluzione che preservi la nostra comunità e l’autonomia acquisita, negando la nostra esistenza, i nostri valori, il percorso intrapreso e tutti i risultati ottenuti. Nessuna delle proposte alternative, valide e adeguate che mirano a preservare e a mantenere l’importante esempio che la nostra comunità rappresenta, viene minimamente considerata. Nonostante ci sia un ampio ventaglio di soluzioni, come ad esempio la requisizione temporanea del bene (Articolo 42 della Costituzione italiana), l’assegnazione di un bene confiscato alle mafie, l’assegnazione di strutture non utilizzate e vuote presenti in tutta la capitale, l’avvio di esperienze di co-housing, il Comune preferisce disgregare la nostra vita comunitaria consolidata in oltre 13 anni. Ogni proposta valida e percorribile che abbiamo individuato e portato al Tavolo con il Comune di Roma, frutto di un confronto e una ricerca seria ed approfondita, non è stata presa in considerazione. Le proposte che abbiamo fatto, confrontandoci con le rete di solidarietà che si è attivata con noi sin dal 5 luglio, si pone in un’ottica di collaborazione con le Istituzioni, con la consapevolezza dell’importanza del mantenimento della nostra comunità- famiglia che invece le istituzioni negano e a cui non danno evidentemente nessun valore e nessuna importanza.

Le conseguenze dello sfratto, senza alcun preavviso e senza che sia stata trovata prima una soluzione alternativa, nonostante ci fosse stato tempo, ci ha messo in mezzo a una strada dove tutt’ora stiamo ancora vivendo. L’unica alternativa che il Comune continua a proporci è il posto letto presso varie strutture nel circuito emergenziale, dal quale siamo usciti da oltre dieci anni: individuare e scegliere unicamente questa possibilità, negando le altre fattibili che mantengono viva e attiva la nostra comunità, rappresenta il mancato riconoscimento dell’ enorme e significativo percorso fatto finora, e ci ributterebbe nell’emergenza. E’ questo un enorme passo indietro per tutti noi e per l’intera società civile. Le conseguenze della mancanza di un’ alternativa valida ci vede, ancora oggi, a vivere in strada ed ha creato altre situazioni di emergenza abitativa laddove non c’erano, con il rischio di perdere il nostro posto di lavoro, oltre ad averci causato un danno economico, danni ai nostri effetti personali e, non ultimo, un considerevole stress e il rischio di incorrere in pericoli che ci eravamo illusi fossero scongiurati. La solidarietà e la partecipazione attiva delle persone che si sono avvicinate al Presidio, ci fa ancora sperare per il futuro dell’Umanità. In tanti sono rimasti al nostro fianco e continueranno a lottare con noi per i nostri diritti: la rete di solidarietà che sta affrontando questo momento difficile insieme a noi si sente, ora, parte della stessa comunità stessa. Siamo felici di questo e crediamo che sia un altro grande risultato che sottolinea la sensibilità, la forte capacità di interazione ed inclusione di cui la nostra comunità sudanese è portatrice e che è in grado di trasmettere, uscendone rafforzata in termini anche di relazione con chi crede nei valori profondi dell’Umanità.

Una ricchezza e un bagaglio di rapporti umani che non dovrebbe disperdersi: l’incontro e la condivisione che abbiamo con le altre realtà è un valore per tutti i cittadini e le cittadine con le quali ci sosteniamo reciprocamente, tenendo alto il senso della condivisione, dell’inclusione e della solidarietà. Considerato: 1. Che la comunità ha raggiunto un modello esemplare di mutualismo e auto-organizzazione nella gestione della vita quotidiana, attivando anche consulenze e servizi; 2. Che questa comunità ha offerto, negli anni, servizi sociali basilari ai migranti sudanesi, anche riducendo il carico per i servizi sociali comunali e nazionali; 3. Che le migrazioni sono un fenomeno strutturale, a cui non si può dare risposta emergenziale; 4. Che questa esperienza è un modello virtuoso da replicare e non distruggere; 5. Che tutte le soluzioni proposte riportano persone che stavano superando gravi sofferenze e traumi,attraverso un percorso di integrazione sociale, ad una situazione emergenziale e precaria che stavano invece superando; La comunità vuole: 1. Mantenersi tale e rimanere unita; 2. Continuare a svolgere importanti funzioni sociali per sé e per la cittadinanza: 3. Ottenere uno stabile da autogestire, come è stato per 13 anni. La comunità auspica sensibilità morale e politica nel garantire i diritti di rifugiati che hanno fatto un lungo percorso per sfuggire alla dittatura e alle torture, che hanno avviato un percorso di integrazione unico e virtuoso.

Chiediamo che la nostra comunità e la nostra esperienza non si disperdano.

Di Maio, la segretaria e l’odore dei moralisti smemorati

Il ministro del Lavoro, dello Sviluppo economico e vicepremier, Luigi Di Maio, durante la trasmissione televisiva di La7 "Bersaglio mobile" condotta da Enrico Mentana, Roma, 16 luglio 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Posso dirlo? Fa schifo che i conti in tasca a Di Maio, che sarebbe colpevole di avere scelto come stretta collaboratrice al ministero una donna laureata di cui si fida, li faccia il Giornale. Fa schifo che l’opposizione (giusta, doverosa e su alcuni temi direi addirittura umanitaria) a questo governo sia portata avanti da chi, come nel caso del quotidiano berlusconiano, per anni ha portato l’acqua alla frotta di incapaci scherani del berlusconismo, scelti per meriti servili se non addirittura sul limbo della prostituzione, che hanno guadagnato per il solo fatto di essere a disposizione. Che il quotidiano che scrisse di Ruby Rubacuori nipote di Mubarak oggi si erga a difensore del buonsenso è qualcosa che provoca conati di vomito.

Mi rifiuto di credere che i portaborse di vent’anni di berlusconismo, gli uomini senza qualità che hanno avuto come unica virtù quella di difendere l’indifendibile, possano essere l’opposizione a questo governo. Io me li ricordo bene Dell’Utri, Bondi ministro, Sgarbi rivenduto come intellettuale, Scajola e tutti gli altri. Questi erano quelli che non assumevano gli amici: li proclamavano classe dirigente.

Allo stesso modo mi pare che qualcuno nel Partito democratico non abbia ancora capito come gli sgherri di Renzi siano il viatico verso l’autodistruzione. Che quelli del giglio magico (eletti per provenienza geografica e frequentazioni adolescenziali) ci impartiscano oggi la morale della meritocrazia applicata è una barzelletta che non fa ridere nessuno. Sono, del resto, gli stessi sostenitori di Minniti che oggi riescono a reinventarsi oppositori di Salvini senza nemmeno rinnegare le proprie scelte. Se c’è un modo perché questa Lega duri trent’anni ha la loro faccia.

A Di Maio invece vorrei chiedere una cosa, una soltanto, semplice semplice: se per anni ci avete detto che è immorale che i parlamentari guadagnino più di duemila e cinquecento euro al mese (a proposito, quando il decreto per il taglio di legge lasciando perdere la scenetta delle restituzioni?) quanto può essere morale che la segretaria di un ministro guadagni tre volte tanto lo stipendio morale?

Buon giovedì.

Assessore leghista accusato di stalking, la casa della Donna di Pisa incalza il sindaco e annuncia nuove iniziative

Braccio di ferro senza precedenti tra la Casa della Donna di Pisa e la nuova giunta comunale a guida Lega. Per martedì 17 luglio, data di insediamento del primo consiglio comunale, la Casa della Donna aveva lanciato un appello a tutte le cittadine ed i cittadini di Pisa per partecipare ad un presidio davanti al Comune per chiedere le dimissioni da assessore alla Cultura di Andrea Buscemi, un uomo “dichiarato colpevole da una sentenza” della Corte di Appello di Pisa e in quanto tale condannato a risarcire la parte civile nonostante la prescrizione dei fatti contestati e nonostante il reato di stalking non esistesse ancora all’epoca dei fatti contestati.

“Mai avremmo creduto di vedere un giorno un uomo colpevole di aver perseguitato la ex compagna sedere a Palazzo Gambacorti e per giunta come assessore alla Cultura – si legge nell’appello – . La sua colpevolezza non è un’opinione né una questione privata ma un fatto che riguarda ogni donna e ogni uomo che si oppone alla cultura della violenza, che crede nei diritti e nella libertà delle donne. Quell’uomo non può in alcun modo rappresentare le cittadine e i cittadini pisani e tanto meno la cultura della nostra città”. Sempre per il 17 luglio, la coalizione “Diritti in Comune” (Una Città in comune, Rifondazione Comunista, Possibile) aveva depositato una mozione di sfiducia a Buscemi da inserire all’o.d.g. del primo Consiglio comunale. A poche ore da quella data è partito il contrattacco. Da parte di Buscemi che ha annunciato sulla stampa querele contro la presidente della Casa della Donna, Carla Pochini, e contro Elisabetta Vanni, volontaria della Casa e promotrice su Change.org della petizione che richiede al neosindaco leghista Michele Conti le dimissioni del neo assessore alla Cultura perché “riconosciuto colpevole secondo la sentenza della Corte d’appello di Firenze emessa in data 30 maggio 2017”. Ma anche da parte dello stesso sindaco che, sua sponte, violando tutte le regole della democrazia istituzionale e lo stesso Regolamento del Consiglio comunale, ha deciso di non inserire la mozione di sfiducia all’o.d.g. “Sono stati violati i diritti dei consiglieri comunali – ha denunciato Ciccio Auletta di “Diritti in Comune” – per di più se si considera il fatto che la mozione riguarda un membro della sua giunta e un tema come quello della violenza sulle donne”. “Se il primo cittadino ammette un uomo maltrattante ad un ruolo istituzionale, legittima con questo gesto la violenza stessa a livello istituzionale – ha dichiarato Elisabetta Vanni che in queste ore si è fatta promotrice anche di un social bombing indirizzato al profilo Facebook del sindaco Conti.

Martedì 17 luglio. La giornata si apre con un attacco di Buscemi sulla pagina locale de Il Tirreno dove annuncia di voler denunciare, lui, per stalking sia Carla Pochini che Elisabetta Vanni e dove paragona la campagna per le sue dimissioni alle azioni dei nazisti contro gli ebrei. Frasi ad effetto, tipiche del personaggio Buscemi, attore. Ma il vero effetto l’hanno fatto loro. Le decine e decine di donne e uomini che si sono presentati puntuali, alle 14, davanti al Comune di Pisa a sostegno delle donne della Casa della Donna che Buscemi ha denigrato in un suo recente libro come “esagitate”, “anziane femministe fuori tempo massimo”, “schiumanti di rabbia”. Nonostante il sole cocente, si sono presentate in massa, come un corpo solo, determinate, con i cartelli, i microfoni e i due scatoloni con le oltre 35.000 firme a sostegno della petizione online da consegnare al sindaco. Tante, donne di tutte le età, insieme a molti uomini solidali, tutte e tutti con indosso la maglietta di Anarkikka con la scritta “Colpevole di stalking, ora nella giunta di Pisa Assessore alla Cultura. Della violenza maschile” che campeggia anche sulla pagina facebook della Casa della Donna. “La notizia della querela può farci solo sorridere – spiega alla stampa Carla Pochini – perché dimostra, ancora una volta, chi sia Andrea Buscemi: un uomo che condannato a risarcire la sua ex compagna decide di ricorrere in Cassazione al solo scopo di ritardare il processo in sede civile ed evitare il pagamento del risarcimento. Questo comportamento è per noi un’ulteriore ammissione di colpa”. Ma Buscemi, ci racconta Patrizia Pagliarone, la sua ex compagna vittima di stalking, è andato oltre ogni immaginabile. Ha scritto di nuovo al presidente della Repubblica e, tempo addietro, persino al Papa per chiedere giustizia contro la Casa della Donna. “Ha rovinato me e la mia famiglia ed ora ci accusa di rovinare lui e la sua famiglia – commenta Patrizia che ha trovato nella Casa della Donna di Pisa una vera fortezza di solidarietà fin dall’inizio della sua tormentata vicenda umana e giudiziaria. Una solidarietà che si sta allargando a macchia d’olio a livello nazionale con richieste di dimissioni di Buscemi da parte di 38.000 persone tra cui D.i.Re (Donne in rete contro la violenza, associazione che riunisce 81 organizzazioni che gestiscono centri antiviolenza in 18 regioni italiane) che il 13 luglio, insieme a Rebel Network (Rete attiviste per i diritti) e Cgil, hanno scritto al sindaco Conti per chiedere le dimissioni di Buscemi da assessore alla Cultura.

Ma durante il primo Consiglio comunale le donne presenti della Casa della Donna, che ad apertura della seduta consiliare avevano consegnato al sindaco i due scatoloni rosa con le 35.000 firme, hanno capito che la mozione di sfiducia a Buscemi non sarebbe mai stata discussa. Nonostante che il consigliere di opposizione Auletta fosse riuscito a ripresentarla in aula, come urgente, con le otto firme necessarie con il sostegno dei 7 consiglieri del PD. Così è stato. Alle 16.30 il sindaco Conti ha giurato la propria fedeltà alla Costituzione e dall’aula una donna ha gridato: “Sindaco sì, ma di tutte e di tutti nel rispetto dell’articolo 3 della Costituzione!”. Ed ha continuato presentando i suoi assessori, ultimo Andrea Buscemi, assessore alla Cultura. Dimostrando così la sua volontà a non far approvare quella mozione di sfiducia che lo impegnava a “ritirare immediatamente la delega di assessore ad Andrea Buscemi” ed a “non nominarlo o proporlo per nessuna delle cariche pubbliche” e che invitava lo stesso Buscemi a “dimettersi immediatamente da consigliere comunale” perché “gli atti di cui si è reso responsabile sono attribuibili ad un tipo di cultura maschilista e violenta” e perché, in primis, “la violenza sulle donne non può essere terreno di negoziazione e non può essere in alcun modo negata, minimizzata o giustificata, meno che mai da chi ricopre cariche pubbliche”. Per la seconda volta nel giro di poche ore, per evitare di discutere della mozione di sfiducia a Buscemi, la maggioranza ha di nuovo abbandonato l’aula facendo mancare il numero legale. Ma questa volta si sono trovati di fronte ad un’invasione pacifica e festante di un centinaio di donne che erano riuscite ad entrare in Comune e battevano le mani al grido ritmato di “Dimissioni, dimissioni” e di “No alla cultura della violenza”. Approfittando del momento di smarrimento, due, tre donne della Casa della Donna, tra cui Elisabetta Vanni, si sono avvicinate al sindaco per chiedergli perché non dichiarava le dimissioni di Buscemi da assessore. La risposta è stata a dir poco sconcertante. Il sindaco Conti, prima, ha sostenuto di non poter togliere la delega ad un assessore che ha la fedina penale pulita, poi, ha ammesso con un candore non istituzionale che non conosceva, per non averli letti, né i documenti né la sentenza finale su Buscemi. Hanno provveduto immediatamente a fornirglieli brevi manu per poi farglieli avere via ufficio di protocollo. Il primo Consiglio comunale si è sciolto così, alla carlona, senza discutere di niente. La città di Pisa è in balia di se stessa, senza Consiglio comunale perché non c’è un presidente del Consiglio. Se ne riparlerà a fine luglio, il 27 o il 30.

Per quella data la Casa della Donna ha allertato tutte e tutti ad essere presenti in forze al nuovo presidio davanti al Comune. “Abbiamo bisogno di tutte e di tutti voi. La situazione è grave. Oggi è stato solo l’inizio di una lunga battaglia che vogliamo vincere – ha detto Carla Pochini, presidente, e Giovanna Zitiello, responsabile del Centro antiviolenza, della Casa della Donna – . Questa mobilitazione deve continuare a crescere. Per ora non c’è stata consegnata nessuna querela da parte di Buscemi ma valuteremo con le avvocate di D.i.Re se fare, noi, una querela a Buscemi perché ci ha offeso e vilipeso nel suo libro “Rivoglio Pisa”. Siamo un bene comune di Pisa da 28 anni, siamo il luogo simbolico della libertà delle donne. La Casa della Donna di Pisa è un simbolo della democrazia in questa città. Ricordiamo che il sindaco Conti, prima delle elezioni, ci scrisse una lettera dove si impegnava in prima persona riconoscendo la stringente necessità di potenziare iniziative e interventi dell’amministrazione comunale sul tema della prevenzione della violenza sulle donne e, soprattutto, sull’aiuto concreto per le donne vittima di violenza. Ora, questa giunta vuole essere contro le donne? Non glielo permetteremo!”.

Il caso Buscemi. Attore e regista teatrale, ex direttore artistico del Teatro di Cascina su nomina della sindaca leghista Susanna Ceccardi, Andrea Buscemi inizia nel 2007 una relazione sentimentale con Patrizia Pagliarone che assume fin da subito, come si legge nella sentenza della Corte d’appello di Firenze, le caratteristiche tipiche del cosiddetto “ciclo della violenza” caratterizzato da “episodi di violenza fisica o vessazione psicologica spesso seguiti da scuse e dichiarazioni di pentimento quasi mai mantenute”. Minacce, offese, umiliazioni, violenze fisiche, anche in pubblico, “spesso con intervento delle forze di polizie e ricorso da parte della vittima alle cure mediche” sono all’ordine del giorno. Fin da subito. E quando lei interrompeva la relazione in seguito alle violenze subite “si scatenava l’inferno”. Nel dicembre 2008 Patrizia si rivolge al centro antiviolenza della Casa della Donna di Pisa ma la querela è del 12 dicembre 2009. L’apertura del processo penale, ed il passaggio del Buscemi da indagato ad imputato, è del 7 maggio 2013. Il processo, lungo e snervante per Patrizia, si conclude l’8 gennaio 2016 con la sentenza del Tribunale di Pisa. Una sentenza di assoluzione di Andrea Buscemi dall’imputazione a lui ascritta (stalking, n.d.r.) “perché il fatto non costituisce reato”. Infatti, benché gli atti persecutori denunciati si fossero verificati fin dall’anno 2007, si legge nella sentenza del 2017, questi sono stati definiti “reato” ed introdotti nell’ordinamento penale (art. 612-bis c.p.) soltanto con il decreto legge n.11 del 2009, entrato in vigore il 25 febbraio 2009. Quella sentenza assolutoria non convinse il Pubblico Ministero, Aldo Mantovani, della Procura di Pisa, che ricorse subito alla Corte di Appello di Firenze per “erronea valutazione delle risultanze processuali e conseguente omessa condanna dell’imputato Andrea Buscemi dei reati a lui ascritti”. Per Mantovani, si legge nella sentenza del 2017, il giudizio del primo giudice era stato “fuorviato” perché non aveva “analiticamente valutato” tutto un quadro probatorio “costituito non dalle sole dichiarazioni della persona offesa, ma da plurimi testi oltre che dagli sms” (circa 3.000, n.d.r.) a cui aveva “soltanto genericamente accennato”.

I capi di imputazione. Buscemi è stato sottoposto a procedimento penale dalla Corte di Appello di Firenze, Seconda Sezione Penale, in base all’art. 612 bis del Codice penale, per avere inviato a Patrizia Pagliarone “numerosi messaggi telefonici (SMS), contenenti espressioni offensive (apostrofandola quale puttana, troia, troietta, imbecille, cretina, vomito di cane, merda inutile etc.)”, per averle fatto “esplicite minacce (dicendole che le avrebbe fatto il culo, anche ai suoi familiari, distruggendo la loro vita etc.)” e “numerose telefonate (anche 11 in un’ora)”, per averla pedinata “in varie occasioni” e per essersi appostato “sotto la sua abitazione”. Atti persecutori attraverso i quali, si legge nella sentenza della Corte d’Appello di Firenze, “molestava e minacciava la predetta in modo da cagionarle un grave e perdurante stato di ansia e paura e fondato timore per la propria incolumità e quella dei familiari, costringendola a cambiare le proprie abitudini di vita. Con l’aggravante del fatto commesso da persona legata alla persona offesa da relazione sentimentale. In Pisa dall’anno 2007 al mese di dicembre 2009”. Tutti i capi di imputazione sono stati confermati e comprovati da testimoni e prove documentarie durante il dibattimento processuale.

Nessuna condanna penale. Benché il Procuratore generale avesse chiesto la condanna di Buscemi ad un anno di reclusione, alla fine la condanna per stalking è saltata. Per due motivi. Perché parte dei fatti denunciati sono antecedenti all’entrata in vigore della legge che definisce lo stalking come reato perseguibile penalmente e perché gli atti persecutori, successivi all’entrata in vigore dell’art. 612 bis del Codice penale (Atti persecutori), sono caduti in prescrizione con “estinzione del reato” dopo 7 anni e sei mesi. Comunque sia nel maggio del 2017, la Corte di Appello di Firenze che ha condannato Buscemi al “risarcimento dei danni a favore della parte civile” ed a rifondere alla parte civile la spese legali, di difesa del primo processo e di quello d’appello.

Prescrizione non significa assoluzione. Buscemi in sintesi sostiene che non essendo stato condannato è stato assolto. “Quale senso avrebbe in caso di una “assoluzione” condannare l’imputato alle spese legali di controparte? Tutto ciò sarebbe privo di ragionevolezza e senso” rispondono le legali della Casa della Donna.  Le donne presenti al presidio davanti al Comune di Pisa, il 17 luglio, hanno alzato tra gli altri un cartello con scritto “Buscemi rinuncia alla prescrizione”. Richiesta legittima perché prevista dalla legge. In quali casi? Nel caso in cui la prescrizione del reato sia stata già dichiarata con sentenza, proprio come nel caso Buscemi. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nel 2012 per dare all’imputato la possibilità di rinunciarvi per ottenere “una sentenza nel merito”. “Se Buscemi è sicuro di essere innocente, perché non pretende una nuova sentenza rinunciando alla prescrizione del reato?” si chiedono le donne della Casa della Donna.

Freedom Flotilla è salpata verso Gaza. In viaggio dall’Italia per rompere pacificamente il blocco imposto da Israele

Dopo una calorosa accoglienza ed ospitalità di quattro giorni ricchi di iniziative molto partecipate. come un concerto al Maschio Angioino ed una cena sociale, la seconda nave della Freedom Flotilla, Al Awda (Il ritorno), è partita dal Varco Pisacane molo 21 del porto di Napoli salutata da oltre 100 persone, “seguendo”, a distanza di 48 ore, la nave a vela Freedom. A bordo dei due natantici sono rispettivamente 13 e 14 membri dell’equipaggio, di diversa provenienza, compresi alcuni cittadini israeliani, a cui si sono aggiunti altri attivisti, fra questi due provenienti dal Texas e la giornalista partenopea Alessia Cammarota.

Entrambe le navi dopo essere passate per Palermo tenteranno di raggiungere Gaza con l’obiettivo di rompere pacificamente il blocco imposto da 11 anni dallo Stato israeliano al quale si è aggiunto dal 2013 quello egiziano, e portare così alla popolazione oramai stremata gli aiuti umanitari raccolti. Il tentativo molto probabilmente anche quest’anno non riuscirà perché Israele ha sempre bloccato le precedenti spedizioni della Freedom Flotilla in acque internazionali e sequestrato le sue imbarcazioni in netta violazione delle norme di diritto internazionale (causando tra l’altro nel 2010 la morte di 9 attivisti a bordo di una delle navi, la Mavi Marmara, che quell’anno formavano la Freedom Flotilla). Per giunta l’11 luglio la Corte Distrettuale israeliana di Gerusalemme ha stabilito che due delle imbarcazioni che quest’anno compongono la Freedom Flotilla, la Karstein e la Freedom, dovrebbero essere usate come risarcimento per “il terrorismo” di Hamas. Israele, sapendo di essere nel torto, ricorre anche a questi mezzi per cercare di fermare la Freedom Flotilla e soprattutto quello che essa rappresenta: una delle principali iniziative internazionali, insieme a quella del boicottaggio dei prodotti israeliani, a sostegno del popolo palestinese che da 70 anni lotta contro l’occupazione israeliana. Per questo la decisione della Corte distrettuale di Gerusalemme non farà desistere l’equipaggio della Freedom Flotilla dal suo obiettivo, tentare di rompere l’assedio di Gaza e denunciare ancora una volta il comportamento dello stato d’Israele e se Israele ricorre a questi mezzi vuol dire che si trova in difficoltà di fronte a queste iniziative di carattere internazionale.

Nella sentenza della Corte distrettuale di Gerusalemme nulla, come al solito, è stato detto sul terrorismo di Stato israeliano o quanto sull’uso spropositato della forza della potenza occupante contro la popolazione civile.

Il corteo d’accoglienza per la Freedom Flotilla a Napoli (Foto: Nena News)

Di fronte alla quotidiana conta di vittime palestinesi, di fronte alle quotidiane distruzioni e rapine, agli arresti indiscriminati e alle detenzioni arbitrarie, viene da chiedersi cosa si dovrebbe usare per risarcire la popolazione palestinese da 70 anni sotto occupazione e da 70 anni vittima delle sistematiche violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani da parte di Israele? Infatti, aveva appena 15 anni l’ultima vittima del terrorismo di Stato israeliano colpita nel corso dell’ultimo venerdì di Marcia del Ritorno, l’ultimo bersaglio umano dei tiratori scelti dell’esercito israeliano che ricorre ad ogni mezzo, perfino a cecchini appunto, per fermare le proteste che pacificamente dal 30 marzo si registrano ogni venerdì non solo lungo la linea di confine tra Gaza ed Israele ma quotidianamente anche negli altri territori palestinesi occupati. Più di 100 giorni di proteste per rivendicare il diritto di ritorno e richiedere a gran voce la fine dell’occupazione. Il 12 luglio si è protestato anche contro la decisione israeliana di chiudere il valico di Karem Shalom, l’unico punto di transito verso la Striscia di Gaza di generi alimentari. Decisione che quindi avrà conseguenze catastrofiche per la popolazione della Striscia con il 40% degli abitanti, soprattutto bambini, che già soffre di malnutrizione ed anemia. Giova ricordare che nei giorni scorsi la Striscia è stata oggetto di pesanti bombardamenti, i più massicci dal 2014, che hanno causato la morte di 2 adolescenti e oltre 200 feriti e la reazione della resistenza palestinese che ha lanciato razzi ed anche la reazione dei palestinesi è stata giudicata la più dura degli ultimi 4 anni. Questo a dimostrazione che il popolo palestinese nonostante la cruenta occupazione e repressione israeliana non piega la testa. Nella notte è stato annunciato il raggiungimento di un cessate il fuoco con la mediazione dell’Egitto ma questa tregua come le altre verrà presto interrotta non appena Israele deciderà, come ha sempre fatto, di ricorrere ai bombardamenti aerei per fermare il lancio di aquiloni dei ragazzi palestinesi o reprimere nelle sangue con l’uso di cecchini le prossime marce del ritorno lungo il confine della Striscia.

Pertanto, iniziative come quelle della Feedom Flotilla vanno non solo sostenute ma anche incoraggiate. Il popolo palestinese in questi ultimi mesi ha dato prova di non volere rinunciare ai suoi diritti di libertà nonostante l’occupazione e la repressione israeliana che non esita a sparare a sangue freddo su donne, giornalisti, personale sanitario e bambini ma sua lotta ha bisogno di essere alimentata dalla solidarietà internazionale. Ed è questo l’impegno che si è assunto il Coordinamento Napoli Palestina con l’organizzazione dell’accoglienza alla Freedom Flotillae nello specifico nel corso dell’Assemblea Nazionale a sostegno della Resistenza Palestinese tenutosi sabato 14 luglio.

L’Assemblea è stata molto partecipata con attivisti locali, nazionali ed internazionali perché l’intero equipaggio della Freedom Flotilla vi ha preso parte dando notevole contributo alla discussione portando non solo il loro saluto e ringraziamento per come Napoli, il Comitato di accoglienza ed il Coordinamento Napoli Palestina li ha accolti ma anche portando le loro esperienze nei rispettivi paesi di origine e creando così un clima di intensa partecipazione e collaborazione.

Nel corso dell’Assemblea che si protratta per l’intera giornata è stato deciso di sostenere l’attuale e tutte le future iniziative della Freedom Flotilla ed in previsione di un sequestro delle sue imbarcazioni si è deciso di fare massicce campagne di informazione attraverso i mass media ed i social media e di organizzare proteste e manifestazioni a livello locale e nazionale. Si è deciso anche di organizzare e coordinare in tutte le realtà in cui sono presenti attivisti pro Palestina azioni di boicottaggio individuando di volta in volta il prodotto o i prodotti israeliani da boicottare ed individuando anche giornate simboliche in modo tale creare maggiore risonanza. Si è deciso altresì di stimolare, aderire e partecipare a tutte le eventuali iniziative di solidarietà promosse da altri soggetti, istituzionali e non ( come azioni di gemellaggio tra un comune italiano ed un palestinese, tra una università/scuola italiana e una università/scuola palestinese … ). Infine, si deciso di individuare una giornata (indipendentemente dalle emergenze) che cada in data simbolica per la causa palestinese come appuntamento nazionale per fare il punto le iniziate realizzate e da realizzare e per una manifestazione in maniera tale da tenere sempre viva l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione palestinese.

È questo l’impegno per una solidarietà concreta degli attivisti pro Palestina e del Coordinamento Napoli Palestina.