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Marchionne: che c’entra la morte con i diritti?

epa06443633 CEO of Fiat Chrysler Automobiles Sergio Marchionne responds to questions from reporters during the introduction of the 2019 Jeep Cherokee SUV at the 2018 North American International Auto Show in Detroit, Michigan, USA, 16 January 2018. The automobile show opens to the public 20 January and runs through 28 January 2018 where visitors can get up-close to technologies and vehicles of the future. EPA/TANNEN MAURY

Sergio Marchionne è quanto di più lontano possa esistere rispetto alla mia concezione dei diritti del lavoro e dei valori morali. Ho ancora negli occhi il pessimo marketing dell'”Operazione Italia” lanciata in pompa magna per finire in un niente di fatto, ho negli occhi gli scheletri spolpati di ciò che fu Mirafiori e di come è stata ridotta, ho conosciuto e discusso con i residui degli operai della Maserati che sono diventati il sacchetto dell’umido di un’industria italiana che fu gloriosa ed è diventata una misera stelletta da sventolare, ricordo bene la frase di Marchionne ospite da Fabio Fazio (eh, sì) quando disse «la Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». I grandi imprenditori e industriali italiani sono quelli che hanno contribuito alla crescita del Paese oltre a quella della propria azienda, e Marchionne no, non è tra questi.

Ma non è di questo che voglio parlare. No. Mi interessa piuttosto scorrere (e lo so che ci tocca, purtroppo) i commenti di chi in queste ore sta esultando per le condizioni di Marchionne, ricoverato in terapia intensiva in coma irreversibile, come se il suo dolore personale possa essere davvero un valore aggiunto alla battaglia per i diritti, come se (ancora una volta) i posti di lavoro persi (erano 120mila nel 2000, rispetto ai 29mila di oggi) trovino lenimento nella sua scomparsa. Gioire della morte di Marchionne è una cazzata pazzesca, non ha niente a che vedere con la sinistra dei diritti e dei lavoratori e di colpo rilascia lo stesso tanfo di chi gioisce per i morti del Mediterraneo. Chi gioisce per la morte di un negro è disumano come chi gioisce per la morte di un ricco. È una posizione impopolare? Beh, pazienza.

Il gioco sporco di dare un nome, un cognome e una faccia a una (giusta) battaglia per i diritti è una bassezza che non ha niente a che vedere con la difesa dei deboli. Cedere alla vendetta e al cattivismo è (per dirla alla Totò) una livella peggiore della morte. La compassione che dipende dai beneficiari è fasulla. Un uomo che muore è un uomo che muore: le sue pratiche e le sue politiche non hanno niente a che vedere con la sua malattia. No. E insozzare il clima non porta benefici. Per niente.

Buon lunedì.

Il vero volto dell’America raccontato da Gillo Dorfles

Mark Rothko, «questa figura solitaria, nota sino ad alcuni anni or sono solo a pochissimi al di qua dell’Atlantico, appare qui come l’unico esempio di un indirizzo diverso da tutti gli altri…». Così Gillo Dorfles presentava il lavoro dell’artista americano alla Biennale di Venezia del 1958 in un articolo pubblicato su Aut Aut. «La pittura di Rothko costituisce a un tempo un limite…ma anche un inizio: l’inizio di un nuovo tonalismo», il cui compito non è quello di imitare, specchiare o copiare, l’atmosfera alla maniera degli impressionisti, «ma di inventarla, di crearla ex novo».

In poche righe Dorfles andava al cuore della ricerca di Rothko raccontando la sua pittura fatta di solo colore, come creazione di immagine e, diremmo oggi, come ricreazione della nascita. Ritroviamo questa piccola perla nella raccolta di scritti, in italiano e in inglese, La mia America, che Skira ha pubblicato a pochi mesi dalla scomparsa del decano della critica d’arte avvenuta il 2 marzo scorso. Nella sua lunghissima vita Gillo Dorfles ha avuto modo di conoscere molti artisti del secolo scorso, non di rado, intuendone per primo il talento, con quello spirito di ricerca e di attenzione al nuovo e alle avanguardie che da sempre lo ha contraddistinto. Così in questo volume curato da Luigi Sansone, accanto a riflessioni sull’estetica, e sul senso della bellezza, sul rapporto fra arte e pubblico, accanto a proposte di metodo e di ricerca, troviamo affascinanti approfondimenti critici sull’opera di artisti che – nei più diversi ambiti – hanno aperto strade nuove. In questa chiave si possono leggere “Il divenire di Wright” dedicato all’architetto della casa sulla cascata e “Le immagini scritte” dedicato a Cy Twombly.

Particolarmente interessanti sono le pagine su “architettura e psicologia” in cui Dorfles cerca di cogliere la dimensione profonda coinvolta nella progettazione ma anche nella fruizione degli spazi. «Il senso di profondità, il movimento, la dimensione spaziale entrano in gioco nei nostri (spesso inconsci) apprezzamenti di un ambiente». Caratteristica straordinaria di Gillo Dorfles è che la sua attenzione non rimaneva mai rinchiusa in ambito specialistico e accademico, il suo sguardo spaziava a tutto raggio sull’arte e sulla società. Arrivato in America Dorfles si immerse nella vita newyorkese e non solo, cercando di cogliere l’invisibile di quel grande e contraddittorio Paese. Nacquero in questo modo lettere, articoli, saggi in cui lo studioso triestino raccontava con spirito critico aspetti che riguardano le radici profonde della cultura americana, a cominciare da quelle religiose, che Dorfles stigmatizzava come pervasive. «Penso che il popolo americano si possa considerare come il più religioso e credente di qualsiasi popolo europeo – scriveva – certo più degli italiani». Parlando delle «diverse sette cristiane» diffuse negli Usa ne descriveva il rigore, l’intolleranza, l’ordine. Un cristianesimo, notava Dorfles sulla scorta di Piovene, «che mira alla redenzione e trascura la passione», annullando l’umano.

Oltre la lingua madre, il mondo

A migrant prays aboard the Open Arms aid boat, of Proactiva Open Arms Spanish NGO, after being rescued from a rubber dinghy off the Libyan coast, on Saturday, June 30, 2018. Spain's government says Barcelona will be the docking port for an aid boat traveling with 60 migrants rescued on Saturday in waters near Libya and rejected by both Italy and Malta. (AP Photo/Olmo Calvo)

In un testo di recente pubblicazione, Di un poetico altrove, la scrittrice italofrancese Mia Lecomte traccia una panoramica dettagliata di quello che è stato dagli anni Sessanta a oggi la letteratura transnazionale italofona o, come vent’anni fa l’ha definita il critico Armando Gnisci, la «letteratura della migrazione». In questo testo, in cui si percorre una zona grigia della letteratura abitata da autori in esilio, migranti, spatriati, scrittori bilingue che fanno parte di culture diverse e che all’improvviso si trovano senza nessuna appartenenza o che vivono in un perenne oltre confine, Mia Lecomte disegna la mappa sempre più allargata del nuovo universo letterario costituito da vari autori difficilmente classificabili, appunto, perché scrivono oltre confine, sia nazionale che linguistico. Ed è per questo che c’è una sorta d’impossibilità a racchiudere questi autori in una categoria unitaria o a ingabbiarli in una griglia determinata. Considerando questo scenario complesso, spesso fatto di sofferenze personali, straniamenti e abbandoni della propria terra, possiamo chiederci, che cosa accade in un autore quando decide di abbandonare la sua lingua per scrivere in una diversa dalla propria? Che cosa si perde in questo passaggio e che cosa si acquista? E poi, perché si lascia una lingua per adottarne un’altra?
In un libro autobiografico, Parla, ricordo, Nabokov racconta che durante il suo esilio a Cambridge (dopo aver lasciato prima San Pietroburgo nel 1917 e poi la Crimea nel 1919) si era dedicato alla lettura di soli autori russi: «Il timore di perdere o di inquinare con influssi stranieri l’unica cosa che ero riuscito a mettere in salvo dalla Russia – la lingua – divenne decisamente morboso e assai più assillante del timore, sperimentato due decenni dopo, di non essere affatto in grado di portare la mia prosa in inglese a un livello paragonabile a quello del mio russo». Nella lontananza la lingua madre, quella che Dante nel Convivio chiamava «cagione del mio essere», si trasforma nell’unico rifugio in cui lo straniero può sentirsi accolto. Insomma, diventa lo spazio dove…

L’articolo di Adrian Bravi prosegue su Left in edicola


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Quello che l’uomo non vede

RenÈ Magritte, DÈcalcomanie, 1966, © PhotothËque R. Magritte / Banque d'Images, Adagp, Paris, 2016

«In questo caso, resta il manicomio, Sì, signor ministro, il manicomio, E allora vada per il manicomio. Del resto, sotto tutti i punti di vista, è quello che presenta migliori condizioni, perché non solo è circondato da un muro per tutto il suo perimetro ma ha anche il vantaggio di essere costituito da due ali una da destinare ai ciechi propriamente detti, e un’altra ai sospetti (…)».

Nel racconto del premio Nobel Josè Saramago un’improvvisa cecità, detta “mal bianco”, aveva colpito parte della popolazione. La sola soluzione che sembra possibile per il governo, per arginare il dilagare di questa epidemia, è rinchiudere i contagiati all’interno di strutture i cui confini sono sorvegliati dall’esercito. Recentemente il ministro dell’Interno Salvini, dopo essersi occupato dei migranti e dei vaccini, ha ritenuto opportuno affrontare anche l’argomento della salute mentale. Prima al raduno del 1 luglio scorso a Pontida e successivamente ospite alla trasmissione In onda di La 7, ha parlato di un’«esplosione di aggressioni per colpa di malati psichiatrici. È stato abbandonato il tema della psichiatria e lasciato sulle spalle delle famiglia italiane chiudendo tutte le strutture di cura che c’erano».

Tali esternazioni non risultano essere fini a se stesse o un semplice slogan elettorale, ma sembrano essere l’innesco per la presentazione di un disegno di legge che ha come prima sottoscrittrice la senatrice della Lega Raffaella F. Marin. Non è un caso che il 3 luglio si sia tenuta in Senato una conferenza stampa da titolo “Oltre l’utopia basagliana, il bisogno di un luogo di cura”. L’idea contenuta nel disegno di legge, che dovrebbe modificare le attuali norme legislative, è quella di…

L’articolo dello psichiatra e psicoterapeuta Francesco Fargnoli prosegue su Left in edicola


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C’è un tesoro da salvare dentro le biblioteche

La domanda principale che bisognerebbe porsi è: ma quale è il progetto riorganizzativo pensato per il sistema delle biblioteche pubbliche statali? La risposta ci costringe ad entrare in un meandro di norme e normette confuse e contraddittorie, dove l’unico filo logico del ragionamento porta a pensare ad un obiettivo di profondo ridimensionamento del sistema bibliotecario, e dove gli elementi di novità fanno pensare che il destino delle biblioteche statali sia definito solo dagli ambiti generici della valorizzazione in salsa franceschiniana, mentre i processi di riorganizzazione del settore restano vaghi e ambigui.

Ad esempio l’idea dei poli bibliotecari, peraltro rimasta sulla carta, ben poco ha a che vedere con una idea di coordinamento delle politiche di fruizione e di integrazione dei servizi offerti dal sistema bibliotecario nel suo complesso, e invece molto rivela sulla solita operazione al risparmio, dove il tutto si dovrebbe risolvere nell’accentramento, in capo alle grandi biblioteche di Roma e Firenze, delle funzioni di gestione amministrativa-gestionale del circuito delle biblioteche presente nelle due città. Un’operazione che, se realizzata, rappresenterebbe l’ennesimo tributo che il sistema delle biblioteche statali dovrebbe rendere al mega progetto incentrato sul sistema museale. Ennesimo in quanto già le biblioteche hanno pagato costi pesanti alle riforme dell’ex ministro, cedendo gran parte delle proprie dirigenze al sistema museale e, addirittura, cedendo pezzi importanti e significativi a gestioni estranee al contesto delle attività tipiche dei servizi che devono poter svolgere.

Il caso delle biblioteche annesse dal sistema museale è esemplare al riguardo: si opera una fagocitazione organizzativa di importantissime biblioteche storiche da parte di musei autonomi e poli museali, solo sulla base della loro collocazione logistica, come se questo bastasse a renderle appetibili al mercato della valorizzazione. Con una operazione…

L’inchiesta di Claudia Meloni prosegue su Left in edicola


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Più diritti per le donne tunisine dopo anni di lotte e resistenza

A Tunisian woman waves her national flag as international activists gather for the World Social Forum (WSF) in Tunis on March 25, 2015. The WSF is an annual meeting of civil society organisations which gives social movements the opportunity for open debate and promotes international solidarity. AFP PHOTO / FADEL SENNA (Photo credit should read FADEL SENNA/AFP/Getty Images)

Mariam è una giovane tunisina di 21 anni. Esce da una discoteca di Tunisi insieme a Yousef, passeggiano lungo il mare. Poco dopo un gruppo di poliziotti la prende, la sbatte in una macchina e la violenta. Yousef l’accompagna in ospedale e poi in una stazione di polizia dove inizia un lungo e terribile calvario dentro una burocrazia patriarcale, il sessismo della società, il ribaltamento dei piani tra vittima e colpevole. Mariam è la protagonista di un film, diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, Beauty and the dogs.

Una storia vera, una violenza compiuta nel 2012 per cui (con non poche difficoltà vista l’uniforme degli stupratori) i responsabili sono stati condannati a 14 anni di carcere. Quello che rende speciale sia le pene inflitte che la pellicola, racconto di un abuso che potrebbe essere stato commesso ovunque (come ovunque potrebbe svolgersi la difficile battaglia per la giustizia), è il tempo: fino a qualche anno fa difficilmente sarebbe stato girato. È uno dei tributi al periodo post-rivoluzionario, alla primavera tunisina esplosa alla fine del 2010 e modello per i popoli mediorientali e nordafricani. Inimmaginabile parlare di un tema simile dieci anni fa. E se Beauty and the dogs mostra le contraddizioni interne, i parziali risultati della democratizzazione, il percorso che deve essere ancora compiuto sul piano sociale e istituzionale, il fatto che oggi si possa raccontare l’abuso del potere, la misoginia di Stato e quella sociale è segno di un cambiamento: «Il popolo è sempre lo stesso – ha spiegato ad al-Monitor Ben Hania – e ci sono ancora violazioni da parte della polizia. Ma la differenza ora è che la società civile è più forte che mai».

A dare la misura delle trasformazioni in corso sono numeri e volti. Un numero: un quinto degli imprenditori tunisini è donna (senza dimenticare, però, che a parità di mansioni le donne ricevono salari più bassi degli uomini di almeno il 15% e rappresentano un terzo della forza lavoro). Un volto: quello di Souad Abderrahim, la prima donna sindaco della capitale. È stata eletta alle…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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I nuovi profughi? Turchi in fuga da Erdogan

Alcuni siedono sui gradini polverosi dei container, altri sui pallet di legno accatastati in disordine in un angolo, quasi tutti – smartphone in mano – provano a mettersi in contatto con familiari e amici, per informarli che sono finalmente in Europa. I volti sono scavati dalla stanchezza, per la notte passata nei campi attorno al fiume Evros. Sono in 35, al di là del reticolato del centro di detenzione di Fylakio, a una manciata di chilometri dal confine con la Turchia. Attendono di essere identificati. Saranno poi trasferiti nel campo container, recintato da reti e filo spinato. Tra loro c’è Selim: «Sono turco. Sono arrivato stanotte attraverso il fiume».

La presenza di cittadini turchi, oppositori di Erdogan, che riparano in Europa, è una novità. Selim è uno di loro, partito col fratello Hakan (i nomi sono di fantasia), e mescolato al gruppo appena arrivato, gente da Pakistan, Afghanistan, Siria e Iraq. Il fenomeno è confermato da più parti, sia in Grecia che in Bulgaria. «Non potevo restare in Turchia. Il regime di Recep Tayyp Erdogan mi sta addosso – dice -, ho subito minacce, così come anche la mia famiglia. A Istanbul facevo l’insegnante. Ma pensano che io sia un simpatizzante di Fetullah Gulen. Non è così: ho solo idee liberali. Così ho deciso di pagare un trafficante che portava altre persone in Grecia, e sono fuggito insieme a mio fratello».

Il fiume Evros, confine naturale tra Turchia e Grecia, è la porta orientale verso l’Europa. Da aprile gli ingressi via terra superano quelli sulle isole dell’Egeo. Qui si tenta il guado a rischio della vita. In alcuni punti la corrente è forte. «È pericoloso – spiega Mohamed Shabbar Hasmi, che in Pakistan ha lasciato moglie e figlia -, l’acqua è torbida e fredda e sul confine turco ci sono le mine antiuomo (residuato della crisi di Cipro del 1974, ndr)». Lo conferma anche Pavlos Pavlidis, medico legale che dal 2000, ad Alexandropoli, dove sfocia il fiume, prova a restituire un’identità a quanti muoiono nell’Evros, corpi sfigurati dall’acqua e dai pesci: «15 cadaveri in 6 mesi. L’anno scorso…

Il reportage di Massimo Lauria dal confine greco-turco prosegue su Left in edicola


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Libri in regalo contro la censura di Stato. In Argentina, anche il mondo della cultura protesta contro i licenziamenti all’agenzia Télam

Oltre 450 personalità del mondo culturale latinoamericano hanno sottoscritto una importante iniziativa in sostegno ai giornalisti dell’agenzia di Stato argentina Télam licenziati dall’amministrazione del presidente Macri alla fine di giugno. Sabato 21 luglio alle 17 ora italiana, Elsa Osorio, Mempo Girdinelli e molti altri scrittori, editori, giornalisti, librai, danno vita a una particolare forma di protesta davanti alla sede in cui lavoravano gli oltre 350 giornalisti che hanno perso il lavoro. Per bucare più che simbolicamente la sordina di Stato imposta a questo importante organo di informazione pluralista e per tutelare la libertà di stampa ed espressione, insieme ad altri manifestanti doneranno i loro libri a chi vorrà prenderli.

Come riporta Maurizio Del Bufalo su articolo21, praticamente l’unico organo di stampa italiano che si è occupato della vicenda, la mannaia di Macri è stata calata sulla Télam poche ore prima della partita dei mondiali di Russia, da dentro o fuori, che avrebbe impegnato l’Argentina contro la Nigeria. Con gli argentini distratti e con il pretesto di modernizzare e professionalizzare l’agenzia statale, poiché essa non risponde al nuovo profilo deciso dal Governo ed è ancora presumibilmente legata al Kirchnerismo, Macri ha mandato a casa da un giorno all’altro 354 persone. Molti dei lavoratori licenziati hanno più di 20 anni di servizio alle spalle, ma non è solo per questo che il colpo è stato durissimo. In pratica, il 40% dei lavoratori del giornalismo pubblico sono stati epurati lasciando fuori dai canali d’informazione intere regioni del grande Paese latinoamericano.

Ricostruire il Paese con forme e colori nuovi

Giulio Turcato

C’è ancora tempo fino al 22 luglio per andare a vedere in Palazzo Strozzi a Firenze una delle mostre più belle di quest’anno. Parliamo de La nascita di una nazione, la retrospettiva sugli anni del dopo guerra e della ricostruzione che Luca Massimo Barbero ha curato distillando alcune delle opere più intense e significative di quel periodo. Pur coprendo un arco di tempo lunghissimo il critico e curatore (come gran parte degli artisti rappresentati qui) procede per «arte del levare», scegliendo di seguire una propria lettura. Di sala in sala, attraverso opere di autori che hanno contribuito a reinventare la cultura il Paese con forme nuove e colori, sviluppa un proprio filo del pensiero, leggendo in profondità la tumultuosa ricerca che portò n Italia alla nascita dell’astrazione con un linguaggio nuovo e timbri originalissimi, dai tagli di Fontana ai sacchi di Burri, ai monocromi che per Manzoni, Castellani e altri furono una coraggiosa scelta di libertà.

Luciano Fabro

Tanto più forte in un contesto come quello nostrano dove persino la sinistra aveva perso ogni rapporto con l’avanguardia essendosi chiusa nel greve orizzonte del realismo socialista imposto da Togliatti che, seguendo Ždanov, aveva scomunicato l’arte astratta. La mostra di Barbero lo racconta scegliendo deliberatamente un incipit retorico come La battaglia di ponte dell’Ammiraglio (1955) di Renato Guttuso, quadro oggi inguardabile, per la sua roboante esaltazione dell’eroismo con un realismo così ottuso da ridurre a feticcio anche un momento di storia garibaldina. Il contrasto è evidentissimo con il luminoso comizio dipinto da Turcato, che Barbero ha crudelmente ha scelto di esporre a poca distanza dalla patacca di Guttuso.
Per quanto abbia ancora qualcosa di schematico (strascichi della fascinazione per l’astrattismo geometrico di Mondrian?), quest’opera di Turcato evita ogni retorica scegliendo una figurazione bidimensione, quasi del tutto astratta, senza ingabbiarla in una algida costruzione prospettica, facendo in modo che siano i rossi, i bianchi e la scala dei gialli e di marroni a dare al quadro il ritmo vivo e vitale della manifestazione di piazza. Per molti artisti di quella generazione fare arte era intrecciato all’impegno politico che li aveva guidati durante la Resistenza. E va riconosciuto a Turcato il coraggio della propria indipendenza di pensiero, di non essersi fatto irretire dagli anatemi e dalle censure e di aver continuato a fare ricerca con spirito partigiano anchecome animatore del Fronte Nuovo delle Arti (contro il quale Togliatti scrisse un rovente corsivo su Rinascita), contribuendo poi all’elaborazione teorica di Forma 1, che rivendicava l’ autonomia dell’arte dall’ideologia, la libertà di abolire il soggetto del quadro di sperimentare forme nuove fuori dalla mimesis e di essere al contempo marxisti.
Ma è soprattutto con Fontana e Burri che la ricerca sull’arte astratta tocca livelli altissimi in Italia. sfidando l’incomprensione e le censure. Il Grande sacco del 1952 fu anche oggetto di una interrogazione parlamentare di Umberto Terracini quando Palma Bucarelli lo espose alla Galleria nazionale di arte moderna a Roma, come si ricorda uno dei saggi contenuti nel catalogo Marsilio.

La mostra fiorentina ripercorre quell’avventura con sale esaltanti che raccolgono capolavori di entrambi gli artisti, rievocando il senso di svolta che assunse il loro lavoro, fin dal 1947, quando Fontana era appena tornato dall’Argentina e Burri era stato liberato dalla detenzione in America. Opere come Sacco nero e bianco o Sacco nero e oro 1953, ora in Palazzo Strozzi, sono emblematiche di quel lavoro di tessitura di una storia nuova del Paese a cui l’artista umbro contribuì creando un immaginario fatto sì di buchi neri e tele lacere, ma anche di rosso sangue e vitale nonostante le ferite, di nero caravaggesco e ribollente come la pece che sutura e cura creando forme nuove dalle macerie. Lontano anni luce dal dal neorealismo retorico e propagandistico, Emilio Vedova qui rappresentato a un lampeggiante e dinamico Scontro di situazioni (1959) cercò il segno dell’impegno in una pittura astratta fortemente gestuale in dialettica aperta con Lucio Fontana. Su un filone di riscoperta e reinvenzione di tradizioni “primitive” si muoveva Mirko Basardella con il suo immaginario etnografico e un tentativo di ricreazione fabulistica delle radici culturali. Ma la ricerca di una nuova identità artistica capace di guardare alle scoperte della scienza creando nuove forme e linguaggi trovò soprattutto in Fontana il suo campione. Qui si ricorda il suo viaggio a New York e la sua capacità di immaginare la metropoli come nuova Venezia trasfigurata nel rosso corallo del concetto spaziale del 1962 dove i grattacieli sono linee verticali tremolanti nella luce. L’artista che aveva dato vita ai primi concetti spaziali nel 1947 per poi passare ai tagli nel 1958 usò il rame per rappresentare «grattacieli di vetro che paiono delle grandi cascate di acqua». Il confronto con la modernità è uno degli elementi di forza della sua pittura, Fontana non accettava paraocchi ideologici. La sua figura resta quella di un fulgido extraterrestre in una generazione di artisti stretti nella morsa fra ideologia comunista e le sirene di una società consumistica e di massa, che andava verso il boom. Accardi, Attardi, Consagra, Guerrini, Perilli erano alla ricerca di una strada per uscire dal post cubismo. Mimmo Rotella fra tra i pochi a fare suo il linguaggio della comunicazione di massa ma i suoi collage fatti di manifesti strappati di Mussolini denunciano la ferocia fascista. Rotella non si fece sedurre dalla logica del consumo come poi farà la Pop art.

Si arriva così fino al 68 e dintorni, passando per l’arte povera di Pistoletto, Kounellis, Paolini e altri artisti che risposero all’euforia del boom, con la ricerca di una qualità semplice, di una dimensione umanistica e poetica che si esprimeva utilizzando con fantasia materiali poveri. È proprio del 1968 l’Italia a testa in giù di Luciano Fabro che insieme alle mappe mondiali tessute da Alighiero Boetti chiude il percorso de La nascita di una nazione, aprendo la ricerca di una ricerca fuori da ogni vecchio nazionalismo in un orizzonte globale.

Un mondo perfetto

Il compito della sinistra è prima di tutto comprendere. Capire perché una parte della popolazione italiana sta con Salvini e con il M5s. Comprendere qual è il pensiero per cui alcuni milioni di persone sono d’accordo con quello che fa Salvini e quello che fa Di Maio. Cosa pensano e cosa vedono queste persone. Qual è la situazione che vivono. Perché ritengono che lo Stato li debba aiutare con un reddito minimo garantito che prescinda da quello che fanno effettivamente. Perché quelle persone ritengono che sia giusto tenere in ostaggio navi con centinaia di persone a bordo, in evidente stato di necessità e in condizioni precarie, per usarle come merce di contrattazione con l’Europa. Che poi è chiaro e lo è diventato ancora di più nelle utlime settimane, che la contrattazione con l’Europa non porta ad alcun risultato se non quello di peggiorare i rapporti con gli altri Paesi. È ormai chiaro che Salvini fa propaganda politica. Potremmo dire che sta mantenendo la promessa elettorale a prescindere che questo serva effettivamente a qualcosa di concreto. “Faccio quello che ho promesso. Se non ottengo risultati non è colpa mia”. Si alimenta il consenso additando il nemico, la forza, l’autorità, meglio se invisibile e non chiaramente identificabile, che non permette di essere liberi e a cui bisogna ribellarsi. L’Europa, l’euro, i migranti, Soros, i poteri finanziari globali… Dall’insediamento del governo, quindi in poco più di 100 giorni, è stato calcolato che in conseguenza dell’allontanamento delle navi Ong dalle acque libiche ci sono stati perlomeno 600 morti annegati tra cui donne e bambini. Centinaia di bambini. La sinistra dovrebbe interrogarsi e chiedersi perché anche chi ha votato per loro fino a pochi anni fa ora è schierata con i Cinque stelle e non trova niente di strano o di immorale in quello che fa questo governo. La sinistra (politica ma anche sindacale) non dovrebbe mai fare compromessi con un governo come questo. Si devono avere idee chiare! 600 persone morte in mare è una strage. Un governo, tutto il governo che si rende responsabile di questo orrore, deve essere rifiutato in blocco. Senza compromessi di nessun tipo. Va tenuto a distanza per non farsi confondere il pensiero. Ciò che è visto come lontano non si percepisce come tragedia. 14 ragazzi sono stati salvati in Tailandia dopo aver lasciato con il fiato sospeso il mondo intero. 600 persone sono morte in mezzo al Mediterraneo nella totale indifferenza del mondo. La sinistra dovrebbe comprendere che quello che non capisce della destra (attuale e anche passata) è la gestione dell’annullamento, quella tendenza degli esseri umani a girarsi dall’altra parte, a non voler vedere quando c’è qualcosa che non si capisce e che crea angoscia. Quello che deriva dalla pulsione di annullamento scoperta da Massimo Fagioli e teorizzata in Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro ed.). L’altro, il diverso, il nuovo, l’incomprensibile, la fonte dell’angoscia. I migranti, annullati nella loro realtà, non sono più esseri umani e quindi possono non esistere. La loro morte perde di importanza. Come se non fossero realmente morti perché non esistono. Si elimina il rapporto con loro per evitare l’angoscia di non aver fatto e di non fare nulla per salvarli. La sinistra dovrebbe comprendere che ciò che la rende differente è il sentire, rispetto ad un non sentire propagandato dalla destra come verità umana. La destra ha bisogno di classificare gli esseri umani, di farne categorie. Non tollera la diversità perché non comprende l’uguaglianza. Di conseguenza devono creare un’uguaglianza artificiale tra gruppi classificati in base al luogo di nascita (gli italiani, i francesi, i croati, gli africani ma anche i padani, i terroni, etc.) o peggio di discendenza. I simili, gli uguali, i pari, lo sono di fatto per concessione divina. Per la destra non esiste un’uguaglianza universale. Per la sinistra dovrebbe esistere. Purtroppo anche a sinistra si pensa che l’uguaglianza non sia naturale ma sia qualcosa di acquisito. Di imposto. In questo non c’è alcuna differenza con la destra. È inutile complicarsi la vita. Se la si pensa così si è di destra. Il pensiero di sinistra si deve interrogare su quanto abbia chiaro questo concetto. L’uguaglianza tra gli esseri umani è universale. I bambini spontaneamente lo sanno. Poi la cultura cerca di farglielo dimenticare. Dire che l’uguaglianza esiste perché esiste la legge è lo stesso di dire che l’uguaglianza è per concessione divina e che quindi gli esseri umani sono naturalmente cattivi. Perché è automatica la deduzione logica che se non ci fosse la legge (o dio o l’appartenenza al gruppo o qualunque altra “legge”) gli esseri umani si ucciderebbero tra di loro.
La sinistra deve comprendere che la cattiveria umana non è innata. Non si nasce cattivi! Lo si diventa in conseguenza di violenze subite a cui si risponde con violenza. Non sempre è così ma spesso è così. La peggiore violenza che si può subire è essere annullati nella propria realtà di esseri umani. Di fronte al nuovo e allo sconosciuto la reazione più facile è annullare, chiudere gli occhi, non pensare. Ma è la più violenta in assoluto. La sinistra deve comprendere che la sua diversità deve essere il ribellarsi al chiudere gli occhi, al non voler vedere della pulsione di annullamento. La diversità della sinistra deve essere saper tenere gli occhi aperti, saper sostenere il conflitto e la crisi che da questo possono derivare, saper resistere agli attacchi stupidi e violenti, conservare il sentire e l’amore per gli altri, quello bello senza motivo. Proteggere quel sentire e sapere che quella è la verità umana. Non Salvini, non la destra, non la violenza che è nel non vedere.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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